Dopo il balletto di Silvio Berlusconi, anche Umberto Bossi vuole dire la sua sulla manovra. E anche lui, salvo successive smentite, assicura che sui tagli si può ragionare. Del resto non è un segreto che la secca opposizione dei neo-governatori del Carroccio (Zaia in testa) alla stretta sulle Regioni stia mettendo a dura prova l’asse Lega-Tremonti.
Per trovare la quadra, tanto per usare un termine caro al Senatur, Bossi ha deciso di scendere in campo in prima persona. «Vedrò di convincere il ministro», dice. Perché, continua riferendosi ad eventuali modifiche alla manovra, «lo spazio c’è».
Qualche spiraglio è arrivato ieri dalla commissione Bilancio, al lavoro in seduta notturna sul pacchetto di emendamenti del relatore Antonio Azzollini. Tra le proposte di modifica c’è ne infatti una relativa al Patto di stabilità interno. Per avere tutti i dettagli bisognerà aspettare le relazioni tecniche che arriveranno solo oggi. Il testo comunque prevede che, mantenendo invariata l’entità dei tagli, sia lasciata la possibilità agli enti locali di modularli a piacere. In particolare, le sforbiciate saranno ripartite «secondo criteri e modalità stabiliti in sede di conferenza Stato-Regioni e di conferenza Stato-Città» entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge. Non è proprio quello che chiedono le amministrazioni locali, ma è probabilmente il massimo che per ora è disposto a concedere Giulio Tremonti.
In tutto Azzollini ha presentato 11 emendamenti, ma si riserva di integrare il pacchetto oggi con altre due o tre proposte. Tra i temi caldi che saranno oggetto di modifiche ci sono l’innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile delle donne nel pubblico impiego dal 2012 e la soglia d’invalidità per beneficiare dell’assegno, che sarà portata all’85%, ma solo per le patologie meno gravi. Del pacchetto faranno parte anche novità per rendere meno pesante l’impatto della manovra sul comparto sicurezza. Sulla scuola, ha spiegato Azzollini, «siamo al lavoro», ma il meccanismo per alleviare i docenti dal blocco degli stipendi dovrebbe consistere in una compensazione attraverso la destinazione ai docenti del 30% dei risparmi che in base alla manovra triennale del 2008 erano destinati al comparto scuola.
Nessuna modifica riguarda lo scaglionamento delle liquidazioni nel pubblico impiego e il blocco degli stipendi. Non sono per ora arrivate indicazioni neanche sui certificati verdi, ma quasi certamente ci saranno ampie modifiche all’articolo 45 della manovra e non, come da più parti auspicato, la soppressione della norma che abolisce l’obbligo per il Gse di riacquistare i certificati in eccesso sul mercato. Una misura che, se non modificata, scardinerebbe il meccanismo degli incentivi alle fonti rinnovabili.
Si allontana invece per le imprese l’ipotesi di una proroga di sei mesi della Tremonti-ter, in scadenza oggi. La detassazione degli utili reinvestiti per l’acquisto di nuovi macchinari non dovrebbe far parte del pacchetto del relatore. Per quanto riguarda l’Abruzzo, c’è la proroga al 20 dicembre 2010 della sospensione degli adempimenti tributari (imprenditori o autonomi) con volume d’affari non superiore a 200mila euro. La disposizione non si applica a banche e assicurazioni. La misura sarà finanziata con una serie di rincari sui tabacchi. Qualche limatura, infine, alle norme fiscali. Gli accertamenti, che la manovra stabiliva fossero di immediata eseguibilità, diventeranno esecutivi in due mesi.
Intanto ieri il Senato ha dato il via libera alla conversione in legge del decreto di riforma delle Fondazioni lirico-sinfoniche voluto da Sandro Bondi.
© Libero
Al principio fu creato l'universo. Questo fatto ha sconcertato non poche persone ed è stato considerato dai più come una cattiva mossa. (Douglas Adams)
mercoledì 30 giugno 2010
Bossi con Berlusconi: manovra meno dura
Le Borse inguaiate dagli aiuti della Bce
Un anno fa le banche si avventarono sulla preda come belve fameliche. L’occasione era ghiotta: 442 miliardi di euro con un tasso d’interesse dell’1%, da restituire in dodici mesi. Soldi facili. Forse troppo. Al punto che qualcuno definì la mossa della Bce per drenare liquidità ai mercati come un vero e proprio regalo agli speculatori. Adesso, a poche dalla scadenza di domani, i 1.121 istituti di credito che si spartirono la torta non sanno come pagare il debito. Risultato: listini europei a picco e 145 miliardi andati in fumo.
Se al panico per la tenuta del sistema bancario dell’Unione aggiungiamo le difficoltà dei mercati asiatici e il crollo della fiducia dei consumatori americani che ha mandato in tilt le contrattazioni di Wall Street, il quadro dell’ennesimo terremoto borsistico mondiale è completo.
I listini del Vecchio Continente hanno aperto subito in calo, sulla scia di Tokyo (-1,27%) e Shangahai (-4,27%). Poi lo scivolone delle materie prime (con il petrolio sceso sotto quota 76 dollari) e la disfatta delle banche hanno fatto il resto. A poco sono servite le parole di Christian Noyer, membro del consiglio della Bce e governatore della Banca di Francia, il quale ha assicurato che l’istituto di Francoforte farà in modo che le banche rispettino la scadenza e restituiscano i prestiti senza difficoltà. In effetti, il sistema del credito dovrebbe poter contare complessivamente su un surplus di liquidità depositato presso l’Eurotower di circa 300 miliardi. E per chi non ce la facesse c’è sempre la possibilità di rifinanziarsi a breve termine (3 mesi) alla Banca centrale oggi e domani.
D’altra parte, stando alle stime di Barclays Capital, le banche di Spagna, Irlanda, Grecia, Portogallo e Italia avrebbero accumulato prestiti Bce in scadenza questa settimana per circa 151 miliardi, che si andrebbero ad aggiungere ai 442. Gli investitori hanno quindi ritenuto più credibile delle rassicurazioni ufficiali l’indiscrezione serpeggiata tra gli analisti che gli istituti, soprattutto quelli spagnole, starebbero facendo pressioni sul board guidato da Jean-Claude Trichet per ottenere un rinnovo del maxi-finanziamento a 12 mesi.
Non è un caso che il listino Madrid abbia accusato il colpo maggiore, lasciando sul terreno il 5,45% con il Bbva che ha perso il 7,24% malgrado un balzo degli utili nei primi quattro mesi dell’anno. Ma a picco sono andate una dietro l’altra anche le borse di Francoforte (-3,3%), Londra (-3,10%) e Parigi (-4,01%), dove il Credit Agricole ha chiuso la seduta a -7,94%.
Le cose non sono andate meglio a Piazza Affari, con l’Ftse Mib crollato del 4,44%. Pesantissime le perdite del settore bancario. La maglia nera spetta ad Intesa Sanpaolo, che ha ceduto il 7,76% penalizzata anche dal downgrade del Credit Suisse da outperform a neutral, seguita da Bpm (-6,27%), Unicredit (-5,64%), Mps (-5,58%), Ubi (-5,31%) e Mediobanca (-4,58%). La bufera ha travolto anche altri comparti. Fiat sulla scia del calo del settore auto in Europa ha chiuso a -5,92%. Mentre le oscillazioni sulle materie prima hanno trascinato in basso Eni (-3,63%) ed Enel (-3,38%). male anche Pirelli (-4,31) ed Exor (-4,30%).
La tensione non ha risparmiato Wall Street, che a metà seduta è stata zavorrata dal pessimo dato sulla fiducia dei consumatori a giugno. Gli analisti si aspettavano un ribasso, ma non di queste dimensioni. L’indice redatto dal Conference Board è infatti calato a 52,9 punti dai 62,7 punti di maggio, al minimo da marzo. Così, dopo più di due ore dall’apertura delle contrattazioni il Dow Jones cedeva il 2,39% a 9.896,68 punti, il Nasdaq il 3,16% a 2.150,52, e l’S&P 500 il 2,70% a 1.045,56 punti. Inevitabile il contagio sui rendimenti dei più sicuri titoli di Stato, in fortissimo ribasso: i decennali sono scesi al di sotto del 3% per la prima volta in 14 mesi, mentre quelli dei bond con scadenza a due anni sono ai minimi storici.
L’atmosfera non è migliore sul fronte valutario, dove il declino dell’euro, sotto il peso dei conti in rosso di Grecia, Spagna e Portogallo, prosegue inesorabile. La moneta unica ieri è sprofondata a un nuovo minimo storico contro la valuta elvetica a 1,3206 franchi svizzeri. Ha toccato il livello più basso da otto anni e mezzo sulla valuta del Sol Levante, calando a 107,50 yen, e ha aggiornato i minimi sulla sterlina da 19 mesi a questa parte, scendendo a 0,8091 pence. Nei confronti del biglietto verde l’euro è invece scivolato sotto quota 1,22 dollari a 1,2170 dagli 1,2277 di lunedì sera in chiusura a New York. Solo nell’ultimo trimestre la moneta europa ha perso il 9,6% nei confronti della divisa statunitense.
Come se non bastasse, le paure di un probabile default della Grecia hanno poi fatto schizzare i Credit default swap sul debito del Paese ellenico di 13 punti a 1.101 punti, riavvicinandosi al record di 1.125 toccato il 4 giugno. Anche i contratti sulla Spagna sono saliti di 9 punti al record di 275 punti.
© Libero
Se al panico per la tenuta del sistema bancario dell’Unione aggiungiamo le difficoltà dei mercati asiatici e il crollo della fiducia dei consumatori americani che ha mandato in tilt le contrattazioni di Wall Street, il quadro dell’ennesimo terremoto borsistico mondiale è completo.
I listini del Vecchio Continente hanno aperto subito in calo, sulla scia di Tokyo (-1,27%) e Shangahai (-4,27%). Poi lo scivolone delle materie prime (con il petrolio sceso sotto quota 76 dollari) e la disfatta delle banche hanno fatto il resto. A poco sono servite le parole di Christian Noyer, membro del consiglio della Bce e governatore della Banca di Francia, il quale ha assicurato che l’istituto di Francoforte farà in modo che le banche rispettino la scadenza e restituiscano i prestiti senza difficoltà. In effetti, il sistema del credito dovrebbe poter contare complessivamente su un surplus di liquidità depositato presso l’Eurotower di circa 300 miliardi. E per chi non ce la facesse c’è sempre la possibilità di rifinanziarsi a breve termine (3 mesi) alla Banca centrale oggi e domani.
D’altra parte, stando alle stime di Barclays Capital, le banche di Spagna, Irlanda, Grecia, Portogallo e Italia avrebbero accumulato prestiti Bce in scadenza questa settimana per circa 151 miliardi, che si andrebbero ad aggiungere ai 442. Gli investitori hanno quindi ritenuto più credibile delle rassicurazioni ufficiali l’indiscrezione serpeggiata tra gli analisti che gli istituti, soprattutto quelli spagnole, starebbero facendo pressioni sul board guidato da Jean-Claude Trichet per ottenere un rinnovo del maxi-finanziamento a 12 mesi.
Non è un caso che il listino Madrid abbia accusato il colpo maggiore, lasciando sul terreno il 5,45% con il Bbva che ha perso il 7,24% malgrado un balzo degli utili nei primi quattro mesi dell’anno. Ma a picco sono andate una dietro l’altra anche le borse di Francoforte (-3,3%), Londra (-3,10%) e Parigi (-4,01%), dove il Credit Agricole ha chiuso la seduta a -7,94%.
Le cose non sono andate meglio a Piazza Affari, con l’Ftse Mib crollato del 4,44%. Pesantissime le perdite del settore bancario. La maglia nera spetta ad Intesa Sanpaolo, che ha ceduto il 7,76% penalizzata anche dal downgrade del Credit Suisse da outperform a neutral, seguita da Bpm (-6,27%), Unicredit (-5,64%), Mps (-5,58%), Ubi (-5,31%) e Mediobanca (-4,58%). La bufera ha travolto anche altri comparti. Fiat sulla scia del calo del settore auto in Europa ha chiuso a -5,92%. Mentre le oscillazioni sulle materie prima hanno trascinato in basso Eni (-3,63%) ed Enel (-3,38%). male anche Pirelli (-4,31) ed Exor (-4,30%).
La tensione non ha risparmiato Wall Street, che a metà seduta è stata zavorrata dal pessimo dato sulla fiducia dei consumatori a giugno. Gli analisti si aspettavano un ribasso, ma non di queste dimensioni. L’indice redatto dal Conference Board è infatti calato a 52,9 punti dai 62,7 punti di maggio, al minimo da marzo. Così, dopo più di due ore dall’apertura delle contrattazioni il Dow Jones cedeva il 2,39% a 9.896,68 punti, il Nasdaq il 3,16% a 2.150,52, e l’S&P 500 il 2,70% a 1.045,56 punti. Inevitabile il contagio sui rendimenti dei più sicuri titoli di Stato, in fortissimo ribasso: i decennali sono scesi al di sotto del 3% per la prima volta in 14 mesi, mentre quelli dei bond con scadenza a due anni sono ai minimi storici.
L’atmosfera non è migliore sul fronte valutario, dove il declino dell’euro, sotto il peso dei conti in rosso di Grecia, Spagna e Portogallo, prosegue inesorabile. La moneta unica ieri è sprofondata a un nuovo minimo storico contro la valuta elvetica a 1,3206 franchi svizzeri. Ha toccato il livello più basso da otto anni e mezzo sulla valuta del Sol Levante, calando a 107,50 yen, e ha aggiornato i minimi sulla sterlina da 19 mesi a questa parte, scendendo a 0,8091 pence. Nei confronti del biglietto verde l’euro è invece scivolato sotto quota 1,22 dollari a 1,2170 dagli 1,2277 di lunedì sera in chiusura a New York. Solo nell’ultimo trimestre la moneta europa ha perso il 9,6% nei confronti della divisa statunitense.
Come se non bastasse, le paure di un probabile default della Grecia hanno poi fatto schizzare i Credit default swap sul debito del Paese ellenico di 13 punti a 1.101 punti, riavvicinandosi al record di 1.125 toccato il 4 giugno. Anche i contratti sulla Spagna sono saliti di 9 punti al record di 275 punti.
© Libero
martedì 29 giugno 2010
Il pressing delle Regioni fa tentennare il premier
Roberto Formigoni si dice sicuro che Silvio Berlusconi incontrerà i governatori. E il Cavaliere, dal Brasile, avrebbe fatto sapere che la manovra non è intoccabile: «La rivedremo». Certo, poco dopo è arrivata la smentita del sottosegretario Paolo Bonaiuti, forse caldeggiata da Giulio Tremonti, ma in fondo una possibilità di accordo tra le Regioni e il presidente del Consiglio sulla rimodulazione dei tagli previsti dalla Finanziaria non sembra così lontana. E forse neanche le distanze col ministro dell’Economia sono così siderali. Ieri Tremonti si è rifiutato di commentare la lettera-appello delle cinque regioni di centrodestra del Sud, che hanno criticato l’idea di favorire solo le amministrazioni virtuose. Ma il governatore del Lazio, Renata Polverini, ha detto che il ministro le avrebbe «assicurato» che «sui tagli si può fare qualcosa, pur mantenendo i saldi». Anche il responsabile degli Affari regionali, Raffaele Fitto, intervistato dall’Opinione, ha spiegato che «ci sono regioni, come il Lazio e la Campania, che hanno ereditato situazioni gravose a causa di irresponsabili amministrazioni passate» e che «per casi analoghi è forse possibile trovare qualche accorgimento alla manovra»
Quanto alla rottura del fronte unico, l’ex sindacalista ha spiegato che dietro la lettera non c’è alcuna spaccatura. «Tutti abbiamo sottoscritto un documento unitario contro la manovra», ha detto la Polverini.
Non crede ad una strategia separatista neanche Formigoni. «È inutile che qualcuno faccia il furbo e cerchi di vedere distanze che non ci sono», ha detto il governatore della Lombardia. In effetti, anche il presidente del Molise nonché vicepresidente della Conferenza delle Regioni, Michele Iorio, che è uno dei cinque firmatari, ha ribadito che non c’è «alcuna forma di rottura del fronte unico contro la manovra».
Detto questo, è difficile non vedere almeno qualche distinguo nelle parole di Luca Zaia, il quale ieri ha ribadito che «tagliare indiscriminatamente significa penalizzare chi ha bene amministrato e lasciare chi ha sprecato libero di continuare a farlo». L’obiettivo del riequilibrio sarebbe comunque condiviso da tutti. Questo il giudizio del presidente della Conferenza delle regioni che ieri ha ribadito la richiesta di un incontro urgente con il premier e l’adesione alla «proposta di istituire una commissione straordinaria governo-regioni che verifichi la qualità della spesa della Pa sia al centro sia alla periferia».
Intanto il relatore della manovra Antonio Azzollini sta effettuando gli ultimi ritocchi all’emendamento omnibus che dovrebbe essere presentato oggi in commissione Bilancio al Senato.
© Libero
Quanto alla rottura del fronte unico, l’ex sindacalista ha spiegato che dietro la lettera non c’è alcuna spaccatura. «Tutti abbiamo sottoscritto un documento unitario contro la manovra», ha detto la Polverini.
Non crede ad una strategia separatista neanche Formigoni. «È inutile che qualcuno faccia il furbo e cerchi di vedere distanze che non ci sono», ha detto il governatore della Lombardia. In effetti, anche il presidente del Molise nonché vicepresidente della Conferenza delle Regioni, Michele Iorio, che è uno dei cinque firmatari, ha ribadito che non c’è «alcuna forma di rottura del fronte unico contro la manovra».
Detto questo, è difficile non vedere almeno qualche distinguo nelle parole di Luca Zaia, il quale ieri ha ribadito che «tagliare indiscriminatamente significa penalizzare chi ha bene amministrato e lasciare chi ha sprecato libero di continuare a farlo». L’obiettivo del riequilibrio sarebbe comunque condiviso da tutti. Questo il giudizio del presidente della Conferenza delle regioni che ieri ha ribadito la richiesta di un incontro urgente con il premier e l’adesione alla «proposta di istituire una commissione straordinaria governo-regioni che verifichi la qualità della spesa della Pa sia al centro sia alla periferia».
Intanto il relatore della manovra Antonio Azzollini sta effettuando gli ultimi ritocchi all’emendamento omnibus che dovrebbe essere presentato oggi in commissione Bilancio al Senato.
© Libero
lunedì 28 giugno 2010
Anche Zaia se la prende con i tagli di Tremonti
Ci sarà la fiducia, anzi no. Forse. A gettare un po’ di confusione sulla manovra ieri ci ha pensato Maurizio Saia. «Tutto dovrà trovare sintesi in un maxiemendamento su cui inevitabilmente sarà posta la fiducia in aula». Così avrebbe detto il senatore della commissione Bilancio rispondendo ad alcuni cronisti sull’iter della Finanziaria. Poco dopo la smentita. «Non ho mai parlato di fiducia», precisa Saia in una nota. Ma poi aggiunge: «È chiaro che se i tempi subiranno una dilatazione, come sta già avvenendo, spetterà alla Camera decidere il da farsi». Per quanto riguarda l’ipotesi della presentazione di un maxiemendamento, Saia spiega che «la possibilità potrebbe verificarsi in commissione sulla base della convergenza che tra maggioranza ed opposizione si sta registrando su vari punti».
Di sicuro, per ora, c’è che l’approdo nell’aula di Palazzo Madama non sarà più il primo luglio. L’appuntamento è slittato al 6 luglio, mentre il termine per la presentazione degli emendamenti è stato fissato per per il 5 alle 14.
Nessuna accelerazione, del resto, è arrivata dall’incontro tra il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e i senatori del PdL per sciogliere i nodi della manovra. Il titolare di via XX settembre ha ricevuto al ministero il presidente della commissione Bilancio, Antonio Azzollini, il presidente e il vice del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello e il capogruppo in commissione Saia. Nel corso dell’incontro non si è andato oltre un primo screening. Solo la settimana prossima, tra martedì e mercoledì, ci sarà un’analisi più approfondita.
Anche ieri ha tenuto banco la durissima protesta delle regioni. Mercoledì prossimo, nel pomeriggio, ci sarà un incontro tra regioni, comuni, province e comunità montane proprio per mettere a punto una piattaforma comune sulla manovra. I governatori sembrano comunque intenzionati ad andare fino in fondo. Intanto pure il leghista Luca Zaia, inizialmente più attento a non incrinare i rapporti tra il Carroccio e Tremonti, è tornato all’attacco. «Le Regioni saranno costrette a restituire tutta una serie di competenze se la manovrà confermerà i tagli nei loro confronti», ha tuonato il governatore del Veneto a margine dell’assemblea degli industriali di Treviso. La Regione guidata da Zaia su un bilancio di 1.671 milioni di euro ha un taglio di oltre 350 milioni. Il che significa, ha spiegato il presidente, «che dobbiamo dire ai veneti che dal 2011 noi non abbiamo più risorse per far fronte a quella che è ritenuta la spesa discrezionale. Spese non superflue ma funzionali al rilancio dell’economia».
In tempo reale la replica di Maurizio Sacconi, anche lui presente a Treviso. «Il governo», ha detto il ministro del Welfare, «ha dimostrato disponibilità al dialogo e noto qualche volta un atteggiamento un po’ politicizzato nella polemica. Da parte delle regioni non ho ancora visto piani industriali di razionalizzazione». «Le regioni fanno già la loro parte», ha ribattutto Zaia.
Anche Roberto Formigoni contesta la lettura ideologica. «La nostra», ha detto dai microfoni di Repubblica tv, «non è una contrapposizione preconcetta, ma nasce dalla volontà di scrivere insieme una manovra, che è indispensabile, ma carica tutto sulle Regioni». Il governatore della Lombardia ha rilanciato la proposta di una commissione mista col governo per verificare i costi e individuare gli sprechi.
Nell’attesa Vasco Errani ha scritto al ministro Raffaele Fitto chiedendo la convocazione di una riunione straordinaria della Conferenza Stato-Regioni. Scontato l’ordine del giorno: la restituzione delle deleghe previste dalla Bassanini annunciata giovedì dai governatori.
© Libero
Di sicuro, per ora, c’è che l’approdo nell’aula di Palazzo Madama non sarà più il primo luglio. L’appuntamento è slittato al 6 luglio, mentre il termine per la presentazione degli emendamenti è stato fissato per per il 5 alle 14.
Nessuna accelerazione, del resto, è arrivata dall’incontro tra il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e i senatori del PdL per sciogliere i nodi della manovra. Il titolare di via XX settembre ha ricevuto al ministero il presidente della commissione Bilancio, Antonio Azzollini, il presidente e il vice del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello e il capogruppo in commissione Saia. Nel corso dell’incontro non si è andato oltre un primo screening. Solo la settimana prossima, tra martedì e mercoledì, ci sarà un’analisi più approfondita.
Anche ieri ha tenuto banco la durissima protesta delle regioni. Mercoledì prossimo, nel pomeriggio, ci sarà un incontro tra regioni, comuni, province e comunità montane proprio per mettere a punto una piattaforma comune sulla manovra. I governatori sembrano comunque intenzionati ad andare fino in fondo. Intanto pure il leghista Luca Zaia, inizialmente più attento a non incrinare i rapporti tra il Carroccio e Tremonti, è tornato all’attacco. «Le Regioni saranno costrette a restituire tutta una serie di competenze se la manovrà confermerà i tagli nei loro confronti», ha tuonato il governatore del Veneto a margine dell’assemblea degli industriali di Treviso. La Regione guidata da Zaia su un bilancio di 1.671 milioni di euro ha un taglio di oltre 350 milioni. Il che significa, ha spiegato il presidente, «che dobbiamo dire ai veneti che dal 2011 noi non abbiamo più risorse per far fronte a quella che è ritenuta la spesa discrezionale. Spese non superflue ma funzionali al rilancio dell’economia».
In tempo reale la replica di Maurizio Sacconi, anche lui presente a Treviso. «Il governo», ha detto il ministro del Welfare, «ha dimostrato disponibilità al dialogo e noto qualche volta un atteggiamento un po’ politicizzato nella polemica. Da parte delle regioni non ho ancora visto piani industriali di razionalizzazione». «Le regioni fanno già la loro parte», ha ribattutto Zaia.
Anche Roberto Formigoni contesta la lettura ideologica. «La nostra», ha detto dai microfoni di Repubblica tv, «non è una contrapposizione preconcetta, ma nasce dalla volontà di scrivere insieme una manovra, che è indispensabile, ma carica tutto sulle Regioni». Il governatore della Lombardia ha rilanciato la proposta di una commissione mista col governo per verificare i costi e individuare gli sprechi.
Nell’attesa Vasco Errani ha scritto al ministro Raffaele Fitto chiedendo la convocazione di una riunione straordinaria della Conferenza Stato-Regioni. Scontato l’ordine del giorno: la restituzione delle deleghe previste dalla Bassanini annunciata giovedì dai governatori.
© Libero
venerdì 25 giugno 2010
Le Regioni minacciano: non governiamo più
Dopo i magistrati e i sindacati ora anche le Regioni vogliono scioperare. L’idea, più propriamente, è quella di una “serrata”. Basta trasporto pubblico locale e viabilità, basta agricoltura, protezione civile, energia, incentivi a imprese. Insomma, i governatori non vogliono più occuparsi delle competenze trasferite dal centro alla periferia dalla legge Bassanini del 1997. La singolare protesta messa in scena contro i tagli previsti dalla Finanziaria è stata annunciata ieri dal presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Vasco Errani. Sulla carta il ragionamento non fa una grinza. Si tratta di competenze, ha spiegato, «che costano 3,1 miliardi di euro mentre il taglio previsto nel solo 2001 è di 4 miliardi». Niente soldi, niente responsabilità. Una provocazione, chiaramente, su cui i governatori intendono però andare fino in fondo. L’intenzione è quella di chiedere una Conferenza Stato-Regioni straordinaria per riconsegnare le deleghe della Bassanini.
E sulla serrata i governatori ritrovano anche quella compattezza che nei giorni scorsi era stata messa in crisi dalla proposta dei tagli selettivi, da calibrare in base alla virtuosità delle amministrazioni.
Ieri il fronte si è presentato senza spaccature. L’ordine del giorno approvato dalla conferenza in cui le Regioni chiedono udienza a Berlusconi e ai presidenti di Camera e Senato, dicendosi pronte a «dare una doverosa informazione al presidente della Repubblica», è stato approvato all’unanimità. «Compresi i colleghi Cota e Zaia della Lega», ci ha tenuto a sottolineare il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni. Il premier, però, prima di partire per il Canada si è schierato con Giulio Tremonti assecondando la linea dura del ministro dell’Economia. «Ci sono pochi spazi per intervenire», ha confidato Berlusconi in relazioni alle rivedicazioni dei governatori.
Fatto sta che le Regioni intendono mostrare «le gravi ripercussioni che la manovra comporterà per l’intero Paese» e denunciare, si legge nel documento, «le mancate risposte del governo alle loro richieste e proposte» e i «tentativi di creare divisioni tra le Regioni ad autonomia ordinaria e speciale». Di qui anche la richiesta di istituire una commissione straordinaria, Governo-Regioni, con il compito di verificare i costi di gestione delle pubbliche amministrazioni per trovare altri risparmi da investire in chiave anti crisi. Sul piede di guerra, oltre a Formigoni ci sono anche fedelissimi di Berlusconi come Ugo Capellacci o governatori neoletti con il Pdl come Giuseppe Scopelliti. Per il presidente della Sardegna, «la politica di rigore non può risolversi nel taglio indiscriminato di trasferimenti indispensabili», mentre per il governatore della Calabria «la posizione ferma di Tremonti non aiuta di certo il dialogo». Il presidente Errani ha poi chiesto ad Anci e Upi, rispettivamente le associazioni di Comuni e province, di costruire una piattaforma comune per gestire la situazione. Appello immmediatamente raccolto dal presidente Anci, Sergio Chiamparino.
Intanto a Palazzo Madama i lavori procedono a rilento. Ieri è arrivato il via libera solo per una manciata di emendamenti. Il grosso è atteso per la prossima settimana. «Presenterò i miei martedì», ha annunciato il relatore Antonio Azzollini (PdL). Ancora non è stabilito se il governo presenterà un maxiemendamento o se le modifiche di governo e maggioranza confluiranno tutte nelle proposte di Azzollini.
© Libero
E sulla serrata i governatori ritrovano anche quella compattezza che nei giorni scorsi era stata messa in crisi dalla proposta dei tagli selettivi, da calibrare in base alla virtuosità delle amministrazioni.
Ieri il fronte si è presentato senza spaccature. L’ordine del giorno approvato dalla conferenza in cui le Regioni chiedono udienza a Berlusconi e ai presidenti di Camera e Senato, dicendosi pronte a «dare una doverosa informazione al presidente della Repubblica», è stato approvato all’unanimità. «Compresi i colleghi Cota e Zaia della Lega», ci ha tenuto a sottolineare il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni. Il premier, però, prima di partire per il Canada si è schierato con Giulio Tremonti assecondando la linea dura del ministro dell’Economia. «Ci sono pochi spazi per intervenire», ha confidato Berlusconi in relazioni alle rivedicazioni dei governatori.
Fatto sta che le Regioni intendono mostrare «le gravi ripercussioni che la manovra comporterà per l’intero Paese» e denunciare, si legge nel documento, «le mancate risposte del governo alle loro richieste e proposte» e i «tentativi di creare divisioni tra le Regioni ad autonomia ordinaria e speciale». Di qui anche la richiesta di istituire una commissione straordinaria, Governo-Regioni, con il compito di verificare i costi di gestione delle pubbliche amministrazioni per trovare altri risparmi da investire in chiave anti crisi. Sul piede di guerra, oltre a Formigoni ci sono anche fedelissimi di Berlusconi come Ugo Capellacci o governatori neoletti con il Pdl come Giuseppe Scopelliti. Per il presidente della Sardegna, «la politica di rigore non può risolversi nel taglio indiscriminato di trasferimenti indispensabili», mentre per il governatore della Calabria «la posizione ferma di Tremonti non aiuta di certo il dialogo». Il presidente Errani ha poi chiesto ad Anci e Upi, rispettivamente le associazioni di Comuni e province, di costruire una piattaforma comune per gestire la situazione. Appello immmediatamente raccolto dal presidente Anci, Sergio Chiamparino.
Intanto a Palazzo Madama i lavori procedono a rilento. Ieri è arrivato il via libera solo per una manciata di emendamenti. Il grosso è atteso per la prossima settimana. «Presenterò i miei martedì», ha annunciato il relatore Antonio Azzollini (PdL). Ancora non è stabilito se il governo presenterà un maxiemendamento o se le modifiche di governo e maggioranza confluiranno tutte nelle proposte di Azzollini.
© Libero
Catricalà prepara l’addio all’Antitrust. Destinazione Consob
Sottosegretario, ministro, presidente della Consob. Si fossero concretizzate tutte le indiscrezioni circolate negli ultimi due anni sul suo conto, a quest’ora il curriculum di Antonio Catricalà sarebbe più lungo di diverse pagine. Nella primavera del 2008 il presidente dell’Antitrust veniva accreditato con insistenza come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nel ruolo dove invece resta inossidabile Gianni Letta. Qualche giorno fa i due si sono scambiate pubbliche effusioni ricordando il periodo in cui Catricalà era segretario generale di Palazzo Chigi. «Ho avuto il privilegio di lavorare con lui e se qualcosa riesco a fare molto lo debbo ad Antonio», ha rivelato il sottosegretario. «E’ una di quelle persone che gli impegni li rispetta», ha replicato il numero uno dell’authority. E chissà se tra quegli impegni c’è anche uno dei due incarichi di prestigio su cui il pettegolezzo politico si è di nuovo concentrato nelle ultime settimane. Alcuni assicurano che sarà lui il prossimo ministro dello Sviluppo, altri danno invece già per acquisita la poltrona più alta della Consob. Su quest’ultima ipotesi finora Catricalà ha sempre messo le mani avanti: «Il presidente della Consob viene scelto dal Consiglio dei ministri e nessun ministro ha fatto il mio nome». Ieri, però, sembrava che qualche ministro si fosse deciso a fare il passo. La scelta, secondo un’anticipazione di Radiocor, sarebbe finita addirittura sul tavolo del Cdm di ieri. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa, lasciando Palazzo Chigi al termine della riunione, ha però precisato che l’argomento non è stato affrontato. Di sicuro, una decisione dovrà essere presa entro breve. Tra una settimana, infatti, scade la lunghissima permanenza di Lamberto Cardia alla Consob (dal 1997 come commissario, dal 2003 come presidente grazie ad una proroga di 2 anni nel 2008 che ha portato il suo mandato da 5 a 7 anni) e l’ipotesi di un’ulteriore proroga sembra ormai sfumata. Secondo fonti vicine al Tesoro, a Giulio Tremonti non sarebbe dispiaciuto il pm di Milano, Francesco Greco, ma in corsa c’è anche il sottosegretario all’Economia, Giuseppe Vegas e Vincenzo Carbone, primo presidente della Corte di Cassazione. Non è escluso che a frenare la nomina sia proprio la necessità di trovare un’intesa complessiva che riguardi anche la casella dello Sviluppo. Nel frattempo, c’è la Lega che ha presentato una proposta di legge per trasferire sia la Consob sia l’Antitrust da Roma a Milano. Catricalà, in ogni caso, dovrebbe fare le valigie.
© Libero
© Libero
Etichette:
Antutrust,
Cardia,
Catricalà,
Consob,
Palazzo Chigi,
Parlamento
giovedì 24 giugno 2010
Un operaio su tre contro Torino. Sacconi: l’azienda deve restare
«Con Marchionne non ho ancora parlato, ci parlerò. So che è tranquillo e che ha apprezzato il largo consenso che ha avuto». Il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, è ottimista e fiducioso: «Sono convinto che l’impegno preso verrà mantenuto». Nel day after di Pomigliano c’è qualcosa che non quadra. Doveva essere il giorno dei festeggiamenti, della svolta storica, della fuga in avanti.
Invece, all’indomani del referendum che con il 62,2% dei sì ha chiaramente decretato la sconfitta della Fiom e il via libera dei lavoratori alla proposta della Fiat, i dubbi sembrano prevalere sulle certezze. Tutti, dai sindacati favorevoli all’accordo agli esponenti di governo fino a Confindustria, si affannano a sottolineare l’esito inequivocabile del voto, cercando di dare maggiore forza a un risultato che ci si aspettava più netto. Soprattutto dalle parti della Lingotto. Di qui i timori di una clamorosa retromarcia. «Non voglio nemmeno ipotizzare che Fiat cambi idea», spiega il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. «Ora tocca alla Fiat, rispetti i patti», gli fa eco il ministro per le Politiche europee, Andrea Ronchi. «Non possiamo immaginare né possono esserci passi indietro», aggiunge il viceministro dello Sviluppo economico, Adolfo Urso. «L’intesa non si cambia», dice anche Emma Marcegaglia.
Un pressing serrato che resta, però, senza risposta. Da Torino arriva una nota stringata che è qualcosa di diverso da un contributo di chiarezza sul futuro dello stabilimento di Pomigliano. «L’azienda lavorerà con le parti sindacali che si sono assunte la responsabilità dell’accordo al fine di individuare ed attuare insieme le condizioni di governabilità necessarie per la realizzazione di progetti futuri», si legge in un comunicato ufficiale della Fiat in cui si sottolinea anche che il gruppo «ha preso atto della impossibilità di trovare condivisione da parte di chi sta ostacolando, con argomentazioni dal nostro punto di vista pretestuose, il piano per il rilancio di Pomigliano».
Difficile dire esattamente quale sia il senso delle parole accuratamente scelte dagli spin doctor del Lingotto. L’ad Sergio Marchionne non sembra per ora intenzionato ad offrire maggiori spunti di riflessione. Dopo avere valutato con i suoi collaboratori l’esito del voto di Pomigliano il manager è volato negli Stati Uniti, dove dovrebbe rimanere alcuni giorni per occuparsi delle questioni Chrysler.
Così, il campo viene occupato dai passaparola e dalle indiscrezioni. In ambienti sindacali si fa notare che nella nota della Fiat non si parla specificamente del progetto per la Futura Panda, ma più genericamente della «realizzazione di progetti futuri». Non sarebbe dunque escluso che il Lingotto stia valutando la possibilità di produrre a Pomigliano altri modelli, che richiederebbero una diversa organizzazione del lavoro e, forse, anche un diverso peso dei livelli di occupazione.
Se invece sarà confermata la Panda, continuano a circolare voci sull’ipotesi della Newco, che riassumerebbe con un nuovo contratto i singoli lavoratori disponibili ad accettare le condizioni poste dall’accordo. Un modo, quest’ultimo, per blindare ulteriormente un progetto che per la Fiat vale 700 milioni di investimenti. Il risultato non schiacciante del referendum, del resto, ridà corpo alle preoccupazioni della vigilia sulla difficoltà di ottenere da parte di tutti il rispetto degli impegni presi. La Fiom aveva promesso battaglia qualunque fosse l’esito della consultazione. Ieri il segretario generale Maurizio Landini, si è limitato a chiedere la riapertura del tavolo con la Fiat, assicurando che non si sarà alcun boicottaggio. Ma è facile immaginare che con quel 30% di no incassato dal voto i duri della Cgil non perderanno occasione per mostrare i muscoli.
© Libero
Invece, all’indomani del referendum che con il 62,2% dei sì ha chiaramente decretato la sconfitta della Fiom e il via libera dei lavoratori alla proposta della Fiat, i dubbi sembrano prevalere sulle certezze. Tutti, dai sindacati favorevoli all’accordo agli esponenti di governo fino a Confindustria, si affannano a sottolineare l’esito inequivocabile del voto, cercando di dare maggiore forza a un risultato che ci si aspettava più netto. Soprattutto dalle parti della Lingotto. Di qui i timori di una clamorosa retromarcia. «Non voglio nemmeno ipotizzare che Fiat cambi idea», spiega il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. «Ora tocca alla Fiat, rispetti i patti», gli fa eco il ministro per le Politiche europee, Andrea Ronchi. «Non possiamo immaginare né possono esserci passi indietro», aggiunge il viceministro dello Sviluppo economico, Adolfo Urso. «L’intesa non si cambia», dice anche Emma Marcegaglia.
Un pressing serrato che resta, però, senza risposta. Da Torino arriva una nota stringata che è qualcosa di diverso da un contributo di chiarezza sul futuro dello stabilimento di Pomigliano. «L’azienda lavorerà con le parti sindacali che si sono assunte la responsabilità dell’accordo al fine di individuare ed attuare insieme le condizioni di governabilità necessarie per la realizzazione di progetti futuri», si legge in un comunicato ufficiale della Fiat in cui si sottolinea anche che il gruppo «ha preso atto della impossibilità di trovare condivisione da parte di chi sta ostacolando, con argomentazioni dal nostro punto di vista pretestuose, il piano per il rilancio di Pomigliano».
Difficile dire esattamente quale sia il senso delle parole accuratamente scelte dagli spin doctor del Lingotto. L’ad Sergio Marchionne non sembra per ora intenzionato ad offrire maggiori spunti di riflessione. Dopo avere valutato con i suoi collaboratori l’esito del voto di Pomigliano il manager è volato negli Stati Uniti, dove dovrebbe rimanere alcuni giorni per occuparsi delle questioni Chrysler.
Così, il campo viene occupato dai passaparola e dalle indiscrezioni. In ambienti sindacali si fa notare che nella nota della Fiat non si parla specificamente del progetto per la Futura Panda, ma più genericamente della «realizzazione di progetti futuri». Non sarebbe dunque escluso che il Lingotto stia valutando la possibilità di produrre a Pomigliano altri modelli, che richiederebbero una diversa organizzazione del lavoro e, forse, anche un diverso peso dei livelli di occupazione.
Se invece sarà confermata la Panda, continuano a circolare voci sull’ipotesi della Newco, che riassumerebbe con un nuovo contratto i singoli lavoratori disponibili ad accettare le condizioni poste dall’accordo. Un modo, quest’ultimo, per blindare ulteriormente un progetto che per la Fiat vale 700 milioni di investimenti. Il risultato non schiacciante del referendum, del resto, ridà corpo alle preoccupazioni della vigilia sulla difficoltà di ottenere da parte di tutti il rispetto degli impegni presi. La Fiom aveva promesso battaglia qualunque fosse l’esito della consultazione. Ieri il segretario generale Maurizio Landini, si è limitato a chiedere la riapertura del tavolo con la Fiat, assicurando che non si sarà alcun boicottaggio. Ma è facile immaginare che con quel 30% di no incassato dal voto i duri della Cgil non perderanno occasione per mostrare i muscoli.
© Libero
mercoledì 23 giugno 2010
L’assalto alla Manovra ora tocca ai Comuni
Mentre Umberto Bossi polemizza com Gianfranco Fini gli sherpa leghisti sono al lavoro per risolvere la grana manovra. La rivolta degli amministratori del Carroccio contro il ministro dell’Economia caro al Senatur sta crando infatti non pochi imbarazzi. La parola d’ordine è ricucire con Giulio Tremonti senza scontentare i governatori e i sindaci del Nord. Il terreno su cui si sta conducendo la trattativa è quello del salvataggio degli enti virtuosi.
La proposta allo studio di Via XX Settembre, che la Lega ha anche tradotto in un emendamento, prevede che le Regioni e le Province che abbiano rispettato il patto di stabilità interno e della Salute nel triennio 2007-2009 e che abbiano uscite pari o inferiori alla media nazionale siano immuni dai tagli previsti dalla manovra. La questione sarà sul tavolo dell’ennesimo vertice che si terrà oggi pomeriggio tra i rappresentanti delle Regioni e i ministri Tremonti, Raffaele Fitto e Roberto Calderoli. La ricetta nordista sembra aver già conquistato il ministro per gli Affari regionali, solitamente paladino delle istanze del Sud. «Le Regioni del Mezzogiorno», ha detto Fitto parlando con i giornalisti, «devono assumersi la responsabilità di scelte di profondo cambiamento. Il principio della virtuosità è un criterio assoluto che non può essere visto male dalle Regioni del Sud».
L’idea non piace per niente al governatore dell’Abruzzo, Gianni Chiodi. «L’importante», spiega l’esponente del Pdl, «è che siano premiati i comportamenti virtuosi e non gli enti virtuosi». Per Chiodi «ci sono Regioni che si definiscono virtuose ma in questi anni hanno aumentato il proprio indebitamento, mentre l’Abruzzo, che nel 2007 era la più indebitata, ha ridotto lo stock del debito del 12,5% in un anno e mezzo e non può non essere considerata virtuosa». Diverso il ragionamento di Roberto Formigoni, che tenta di tenere compatto il fronte delle Regioni insistendo sulla contrapposizione centro-periferia. «Esaminando i bilanci dei diversi livelli di governo, quello delle Regioni risulta essere il più virtuoso», spiega il presidente della Lombardia, «avendo diminuito in questi anni l’indebitamento del 6,21% mentre le amministrazioni centrali lo hanno aumentato del 10,87%». Quello che serve è dunque un ribilanciamento dei sacrifici, non uno “scudo” per i virtuosi.
Oggi ai governatori si aggiungono i sindaci, che scenderanno in piazza davanti al Senato, anche loro contro la manovra.
Nella serata di ieri non si è invece riunito, come previsto, il Comitato del PdL incaricato di scremare i 1.100 emendamenti presentati dalla maggioranza. Formalmente erano assenti giustificati capogruppo e vice. La realtà è che si sta prendendo tempo in attesa che il governo definisca i contorni del maxiemendamento.
© Libero
La proposta allo studio di Via XX Settembre, che la Lega ha anche tradotto in un emendamento, prevede che le Regioni e le Province che abbiano rispettato il patto di stabilità interno e della Salute nel triennio 2007-2009 e che abbiano uscite pari o inferiori alla media nazionale siano immuni dai tagli previsti dalla manovra. La questione sarà sul tavolo dell’ennesimo vertice che si terrà oggi pomeriggio tra i rappresentanti delle Regioni e i ministri Tremonti, Raffaele Fitto e Roberto Calderoli. La ricetta nordista sembra aver già conquistato il ministro per gli Affari regionali, solitamente paladino delle istanze del Sud. «Le Regioni del Mezzogiorno», ha detto Fitto parlando con i giornalisti, «devono assumersi la responsabilità di scelte di profondo cambiamento. Il principio della virtuosità è un criterio assoluto che non può essere visto male dalle Regioni del Sud».
L’idea non piace per niente al governatore dell’Abruzzo, Gianni Chiodi. «L’importante», spiega l’esponente del Pdl, «è che siano premiati i comportamenti virtuosi e non gli enti virtuosi». Per Chiodi «ci sono Regioni che si definiscono virtuose ma in questi anni hanno aumentato il proprio indebitamento, mentre l’Abruzzo, che nel 2007 era la più indebitata, ha ridotto lo stock del debito del 12,5% in un anno e mezzo e non può non essere considerata virtuosa». Diverso il ragionamento di Roberto Formigoni, che tenta di tenere compatto il fronte delle Regioni insistendo sulla contrapposizione centro-periferia. «Esaminando i bilanci dei diversi livelli di governo, quello delle Regioni risulta essere il più virtuoso», spiega il presidente della Lombardia, «avendo diminuito in questi anni l’indebitamento del 6,21% mentre le amministrazioni centrali lo hanno aumentato del 10,87%». Quello che serve è dunque un ribilanciamento dei sacrifici, non uno “scudo” per i virtuosi.
Oggi ai governatori si aggiungono i sindaci, che scenderanno in piazza davanti al Senato, anche loro contro la manovra.
Nella serata di ieri non si è invece riunito, come previsto, il Comitato del PdL incaricato di scremare i 1.100 emendamenti presentati dalla maggioranza. Formalmente erano assenti giustificati capogruppo e vice. La realtà è che si sta prendendo tempo in attesa che il governo definisca i contorni del maxiemendamento.
© Libero
Gli operai votano a dispetto della Fiom
Una giornata di attesa. Con la speranza che al Giambattista Vico di Pomigliano possa riprendere presto il lavoro. Alla chiusura delle urne, alle 21, aveva votato oltre il 95% dei lavoratori. Complessivamente 4.642 sui 4.881 aventi diritto. A tarda notte le schede scrutinate lasciavano intravedere una vittoria dei sì decisamente netta (circa il 76%). Numeri che di certo non tranquillizzano la Fiom. I metalmeccanici della Cgil nei giorni scorsi avevano invitato i lavoratori ad andare comunque a votare per evitare ritorsioni dell’azienda. Ma fino all’ultimo momento hanno denunciato a gran voce l’illegittimità del referendum. L’adesione così massiccia e i risultati parziali dello spoglio non lasciano prevedere nulla di buono per i sostenitori ad oltranza del no all’accordo proposto dalla Fiat e firmato da tutte le sigle tranne quella che fa capo alla Cgil.
La Uilm è soddisfatta della percentuale altissima e dell’andamento del voto. «Un robusto viatico per il futuro della fabbrica», aggiunge la Fim Cisl. Ma l’atmosfera ieri è stata comunque tesa. In ballo c’è la sopravvivenza della produzione e, soprattutto, delle buste paga per 5mila operai e 15 lavoratori dell’indotto. Normale, dunque che nessuno avesse voglia di sorridere. Volti scuri, sia all’entrata sia all’uscita dei turni. Tute blu silenziose, molte a testa bassa. In un giorno in cui anche la cassa integrazione è stata annullata, proprio per consentire la partecipazione alle votazioni, la preoccupazione era tanta.
Dietro il mantenimento dei posti di lavoro c’è l’accordo tanto contestato dalla Fiom. La produzione della Panda verrà effettuata tenendo aperta la fabbrica 24 ore al giorno, 6 giorni su 7, per 18 turni totali. Ma l’orario individuale resta invariato a 40 ore contrattuali. Il diciottesimo turno potrà essere coperto con un mix tra permessi annui retribuiti, festività di domenica e 4 novembre, permessi dei turnisti di notte. Quello lavorato, per esigenze produttive, sarà effettuato con il ricorso allo straordinario, per un massimo di 15 volte l’anno. Ma i punti più discussi sono quelli che riguardano l’assenteismo “anomalo”. In caso di picchi di assenze per malattia collegati a scioperi, manifestazioni esterne, «messa in libertà» per cause di forza maggiore o mancanza di fornitura, l’azienda si riserva di non retribuire i primi tre giorni. Viene infine introdotta una clausola di responsabilità per il rispetto degli impegni assunti nell’accordo, prevedendo sanzioni alle organizzazioni sindacali (su riscossione delle deleghe e utilizzo dei permessi). Per i singoli lavoratori valgono le norme disciplinari del contratto. L’eventuale sciopero che violi punti dell’accordo è sanzionabile economicamente.
Ad attendere il risultato del referendum ieri, oltre ai lavoratori, all’azienda e al governo, c’erano anche i vertici del Pd. L’accordo tra Fiat e sindacati a Pomigliano potrebbe non rimanere un caso isolato ed anzi portare a ridisegnare le relazioni industriali: questo il timore emerso ieri in numerosi interventi alla Direzione del Pd, dalla presidente del partito Rosy Bindi fino al segretario Pier Luigi Bersani. Proprio la Bindi, aprendo i lavori, ha dato il là al dibattito: «Non possiamo tranquillizzarci ripetendo che Pomigliano rimarrà un caso isolato. Il Pd deve incalzare sia il sindacato che gli imprenditori», perché «non si metta in contrasto il diritto del lavoro con i diritti dei lavoratori». Quindi, fermo restando che «non va perso l’investimento Fiat a Pomigliano», ha concluso, «dobbiamo interrogarci su come stanno cambiando le relazioni industriali, azienda per azienda». «Siamo di fronte a un passaggio delicato», ha detto Bersani, «noi diciamo che bisogna preservare gli investimenti e che non se ne faccia un modello».
© Libero
La Uilm è soddisfatta della percentuale altissima e dell’andamento del voto. «Un robusto viatico per il futuro della fabbrica», aggiunge la Fim Cisl. Ma l’atmosfera ieri è stata comunque tesa. In ballo c’è la sopravvivenza della produzione e, soprattutto, delle buste paga per 5mila operai e 15 lavoratori dell’indotto. Normale, dunque che nessuno avesse voglia di sorridere. Volti scuri, sia all’entrata sia all’uscita dei turni. Tute blu silenziose, molte a testa bassa. In un giorno in cui anche la cassa integrazione è stata annullata, proprio per consentire la partecipazione alle votazioni, la preoccupazione era tanta.
Dietro il mantenimento dei posti di lavoro c’è l’accordo tanto contestato dalla Fiom. La produzione della Panda verrà effettuata tenendo aperta la fabbrica 24 ore al giorno, 6 giorni su 7, per 18 turni totali. Ma l’orario individuale resta invariato a 40 ore contrattuali. Il diciottesimo turno potrà essere coperto con un mix tra permessi annui retribuiti, festività di domenica e 4 novembre, permessi dei turnisti di notte. Quello lavorato, per esigenze produttive, sarà effettuato con il ricorso allo straordinario, per un massimo di 15 volte l’anno. Ma i punti più discussi sono quelli che riguardano l’assenteismo “anomalo”. In caso di picchi di assenze per malattia collegati a scioperi, manifestazioni esterne, «messa in libertà» per cause di forza maggiore o mancanza di fornitura, l’azienda si riserva di non retribuire i primi tre giorni. Viene infine introdotta una clausola di responsabilità per il rispetto degli impegni assunti nell’accordo, prevedendo sanzioni alle organizzazioni sindacali (su riscossione delle deleghe e utilizzo dei permessi). Per i singoli lavoratori valgono le norme disciplinari del contratto. L’eventuale sciopero che violi punti dell’accordo è sanzionabile economicamente.
Ad attendere il risultato del referendum ieri, oltre ai lavoratori, all’azienda e al governo, c’erano anche i vertici del Pd. L’accordo tra Fiat e sindacati a Pomigliano potrebbe non rimanere un caso isolato ed anzi portare a ridisegnare le relazioni industriali: questo il timore emerso ieri in numerosi interventi alla Direzione del Pd, dalla presidente del partito Rosy Bindi fino al segretario Pier Luigi Bersani. Proprio la Bindi, aprendo i lavori, ha dato il là al dibattito: «Non possiamo tranquillizzarci ripetendo che Pomigliano rimarrà un caso isolato. Il Pd deve incalzare sia il sindacato che gli imprenditori», perché «non si metta in contrasto il diritto del lavoro con i diritti dei lavoratori». Quindi, fermo restando che «non va perso l’investimento Fiat a Pomigliano», ha concluso, «dobbiamo interrogarci su come stanno cambiando le relazioni industriali, azienda per azienda». «Siamo di fronte a un passaggio delicato», ha detto Bersani, «noi diciamo che bisogna preservare gli investimenti e che non se ne faccia un modello».
© Libero
martedì 22 giugno 2010
Tremonti mette una pezza al pasticcio PdL sul condono
Per casa e fisco niente condoni. Lo ha chiarito Paolo Bonaiuti, lo ha ribadito il sottosegretario all’Economia Luigi casero e lo ha confermato in serata Giulio Tremonti.
Un errore, una furbata, una svista? Difficile dirlo. Sta di fatto che nelle centinaia di pagine dei faldoni piombati ieri in commissione Bilancio c’erano anche gli emendamenti galeotti. Le firme sono sempre le stesse. Si tratta dei senatori del Pdl Paolo tancredi, Cosimo Latronico e Gilberto Pichetto Fratin. Il primo prevede la riapertura dei termini del condono edilizio del 2003 per gli abusi, anche compiuti nelle aree sottoposte a vincoli paesaggistici, realizzati fino al 31 marzo 2010. Il secondo è invece relativo alla riapertura dei termini per il condono fiscale del 2002, per le violazioni commesse fino al 31 dicembre 2008.
Le ipotesi sono durate lo spazio di pochi minuti. «L’emendamento non sarà sostenuto certo dal capogruppo Gasparri né dal governo», ha tuonato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Bonaiuti. Immediatamente seguito dal sottosegretario Casero, che ha ribadito la contrarietà ufficiale del Tesoro a qualsiasi ipotesi di condono. In serata è intervenuto anche il ministro. «Mi riconosco», ha detto Tremonti, «nelle parole dell’onorevole Casero».
Nel frattempo, a dimostrazione del pasticciaccio, sono arrivate anche le scuse del primo firmatario, che ha preso le distanze dall’emendamento dando la colpa al caos e alla fretta che ogni volta caratterizzano la presentazione delle proposte emendamenti. «Ne abbiamo firmati a centinaia», dice Tancredi, assicurando che i testi saranno ritirati.
L’opposizione, ovviamente, si è lanciata all’assalto. «Immorale», «dannoso», «da barbari», sono solo alcune delle accuse partite a raffica da Pd, Idv e Udc.
Ma ad infierire sul passo falso del Pdl ci sono anche i finiani «Non solo questi emendamenti vanno bocciati», ha criticato il deputato Fabio Granata, «ma i loro firmatari dovrebbero essere ufficialmente richiamati dai vertici del PdL». È gravissimo, ha proseguito, che in Parlamento esistano ancora sostenitori di nuove ipotesi di condono edilizio e che puntualmente ad ogni finanziaria riemergano tentativi di colpi di mano attraverso emendamenti al testo». Gli ha fatto eco Gianmario Mariniello, direttore dell’associazione voluta da Gianfranco Fini, Generazione Italia. «Il condono è una malattia tutta italiana», ha scritto sul sito, «una scorciatoia per sanare, con un piccolo comma, illegalità gigantesche. È un premio ai furbi, è diseducativo, è moralmente raccapricciante, è socialmente devastante».
© Libero
Un errore, una furbata, una svista? Difficile dirlo. Sta di fatto che nelle centinaia di pagine dei faldoni piombati ieri in commissione Bilancio c’erano anche gli emendamenti galeotti. Le firme sono sempre le stesse. Si tratta dei senatori del Pdl Paolo tancredi, Cosimo Latronico e Gilberto Pichetto Fratin. Il primo prevede la riapertura dei termini del condono edilizio del 2003 per gli abusi, anche compiuti nelle aree sottoposte a vincoli paesaggistici, realizzati fino al 31 marzo 2010. Il secondo è invece relativo alla riapertura dei termini per il condono fiscale del 2002, per le violazioni commesse fino al 31 dicembre 2008.
Le ipotesi sono durate lo spazio di pochi minuti. «L’emendamento non sarà sostenuto certo dal capogruppo Gasparri né dal governo», ha tuonato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Bonaiuti. Immediatamente seguito dal sottosegretario Casero, che ha ribadito la contrarietà ufficiale del Tesoro a qualsiasi ipotesi di condono. In serata è intervenuto anche il ministro. «Mi riconosco», ha detto Tremonti, «nelle parole dell’onorevole Casero».
Nel frattempo, a dimostrazione del pasticciaccio, sono arrivate anche le scuse del primo firmatario, che ha preso le distanze dall’emendamento dando la colpa al caos e alla fretta che ogni volta caratterizzano la presentazione delle proposte emendamenti. «Ne abbiamo firmati a centinaia», dice Tancredi, assicurando che i testi saranno ritirati.
L’opposizione, ovviamente, si è lanciata all’assalto. «Immorale», «dannoso», «da barbari», sono solo alcune delle accuse partite a raffica da Pd, Idv e Udc.
Ma ad infierire sul passo falso del Pdl ci sono anche i finiani «Non solo questi emendamenti vanno bocciati», ha criticato il deputato Fabio Granata, «ma i loro firmatari dovrebbero essere ufficialmente richiamati dai vertici del PdL». È gravissimo, ha proseguito, che in Parlamento esistano ancora sostenitori di nuove ipotesi di condono edilizio e che puntualmente ad ogni finanziaria riemergano tentativi di colpi di mano attraverso emendamenti al testo». Gli ha fatto eco Gianmario Mariniello, direttore dell’associazione voluta da Gianfranco Fini, Generazione Italia. «Il condono è una malattia tutta italiana», ha scritto sul sito, «una scorciatoia per sanare, con un piccolo comma, illegalità gigantesche. È un premio ai furbi, è diseducativo, è moralmente raccapricciante, è socialmente devastante».
© Libero
Scudo per i falsi invalidi e immobili abusivi. Continua la corsa per modificare la Finanziaria
Tredici volumi, 3.900 pagine, 2.550 emendamenti. Più un altro tomo che contiene gli ordini del giorno. La commissione Bilancio del Senato, da oggi alle 15 e fino a venerdi, sarà impegnata ad esaminare le proposte di modifica presentate da maggioranza e opposizione. Un incontro tra governo, Popolo della Libertà e Lega, che si terrà prima dell’avvio dei lavori, dovrebbe portare ad una scrematura degli emendamenti. Nell’attesa tra le carte c’è la qualunque. Spiccano, tra le altre, le proposte della Lega, che chiede una sanatoria per i falsi invalidi civili e per i medici accondiscendenti che hanno rilasciato certificati falsi. Gli stessi senatori del Carroccio, Massimo Garavaglia e Gianvittore Vaccari, firmano un emendamento per obbligare cittadini e società extracomunitari che vogliono aprire la partita Iva a depositare prima una fidejussione bancaria di almeno 3mila euro. Sempre loro propongono l’introduzione di un contributo di solidarietà pari al 3% da applicare ai pensionati i cui assegni superino i 60mila euro l’anno.
Carlo Sarro e Gennaro Coronella, del PdL, chiedon la sospensione delle demolizioni degli immobili abusivi in Campania. Sempre dal PdL arriva l’emendamento sul raddoppio della tassa prevista nella manovra per i bonus e le stock option dei manager. L’imposizione del 2% sul patrimonio delle fondazioni di ordine bancaria, per il triennio 2011-2013, è invece la proposta di Giuseppe Menardi (PdL).
Sempre lui propone anche un’imposta da applicare sui redditi delle fondazioni, sempre del 2%, aggiuntiva rispetto a Ires e Irap.
Torna anche, a firma Maurizio Saia (PdL), la cedolare secca (al 20%) per i contratti di affitto a canone calmierato. E sempre Saia chiede di poter destinare il 5 per mille anche alle Università e Facoltà Pontificie.
Tra le altre proposte anche una valanga di emendamenti provenienti da tutti i gruppi per cancellare la norma che prevede il blocco del riacquisto da parte del Gse dei certificati verdi in eccesso per le energie rinnovabili. Richieste bipartisan anche per la proroga della detassazione degli utili reinvestiti in nuovi macchinari, la cosiddetta Tremonti-ter.
© Libero
Carlo Sarro e Gennaro Coronella, del PdL, chiedon la sospensione delle demolizioni degli immobili abusivi in Campania. Sempre dal PdL arriva l’emendamento sul raddoppio della tassa prevista nella manovra per i bonus e le stock option dei manager. L’imposizione del 2% sul patrimonio delle fondazioni di ordine bancaria, per il triennio 2011-2013, è invece la proposta di Giuseppe Menardi (PdL).
Sempre lui propone anche un’imposta da applicare sui redditi delle fondazioni, sempre del 2%, aggiuntiva rispetto a Ires e Irap.
Torna anche, a firma Maurizio Saia (PdL), la cedolare secca (al 20%) per i contratti di affitto a canone calmierato. E sempre Saia chiede di poter destinare il 5 per mille anche alle Università e Facoltà Pontificie.
Tra le altre proposte anche una valanga di emendamenti provenienti da tutti i gruppi per cancellare la norma che prevede il blocco del riacquisto da parte del Gse dei certificati verdi in eccesso per le energie rinnovabili. Richieste bipartisan anche per la proroga della detassazione degli utili reinvestiti in nuovi macchinari, la cosiddetta Tremonti-ter.
© Libero
La Fiom vuole inguaiare Marchionne
Da una parte la Fiom, che mette le mani avanti e denuncia l’illegittimità del referendum, qualunque sarà l’esito, dall’altra Repubblica, che getta benzina sul fuoco e annuncia l’esistenza di un fantomatico piano C per mettere il sindacato con le spalle al muro. L’atmosfera alla vigilia del voto che deciderà il futuro di Pomigliano non è certo delle più serene. La giornata si è aperta con uno sciopero di un’ora a Termini Imerese contro le parole dell’ad Fiat, Sergio Marchionne, che aveva maliziosamente associato l’astensione dal lavoro alle partite della nazionale di calcio. Ed è proseguita con proteste a singhiozzo alla Itca, azienda di stampaggio di Grugliasco, e alle Meccaniche di Mirafiori.
Ad alimentare un altro po’ la tensione ci ha pensato anche il quotidiano Repubblica, secondo il quale oltre al trasferimento della produzione della Panda in Polonia i vertici della Fiat avrebbero pronto anche un piano C. Ovvero la creazione di una Newco a cui verrebbero conferite tutte le attività di Pomigliano. I lavoratori sarebbero così licenziati e poi riassunti con il nuovo contratto, un po’ come è avvenuto per Alitalia. L’ipotesi ha ovviamente infiammato gli animi e permesso alla Fiom di rilanciare le accuse. «Se l’indiscrezione fosse vera», ha subito detto il segretario Giorgio Cremaschi, «saremmo di fronte a un fatto mostruoso, ma rivelatore delle reali volontà aziendali». Il sindacalista ha addirittura paragonato le intenzioni della Fiat alle fabbriche maquilladora, che le multinazionali Usa aprono subito al di là dei confini del Messico per aggirare leggi e contratti.
Il problema che si stanno ponendo al Lingotto in queste ore è, in realtà, l’opposto. Non come aggirare le regole, ma come fare in modo che quelle regole, una volta accettate e sottoscritte dai lavoratori, vengano rispettate da tutti. Le previsioni sono per una netta vittoria dei favorevoli all’accordo, ma l’azienda resta comunque guardinga e vuole valutare bene il risultato della consultazione prima di prendere decisioni. Marchionne, non a caso, non ha mai indicato quale sia la soglia necessaria al via libera. La Fiat teme eventuali turbolenze nell’applicazione concreta dell’intesa e sta quindi studiando tutte le diverse ipotesi che possano evitarle, in particolare sui punti controversi dell’assenteismo e degli scioperi improvvisi. Non è detto, insomma, che il referendum sia sufficiente a chiudere la lunga partita. Tanto più che la Fiom ha ribadito anche ieri di aver consigliato ai lavoratori di andare a votare per evitare ritorsioni, ma ha anche continuato a ripetere che il referendum «è illegittimo e quindi non vincolante». Se i metalmeccanici della Cgil non dovessero uscire nettamente sconfitti dalla consultazione, nulla gli impedirebbe, ad accordo concluso e a produzione già avviata, di far saltare di nuovo il tavolo. E a quel punto sarebbero davvero dolori.
Anche alla percentuale dei sì sono dunque appese le sorti di oltre 20mila lavoratori, considerati i 5mila operai degli stabilimenti e i 15 dell’indetto. Solo ai primi spetterà, però, esprimere il proprio giudizio. Le votazioni si terranno dalle 8 alle 21. Nove le urne di cui 8 nello stabilimento G. Battista Vico di Pomigliano e una nella sede decentrata di Nola. La posta in gioco, ormai, si conosce. I lavoratori dovranno decidere se ratificare o meno l’accordo firmato da tutte le sigle (Fim, Uilm, Fismic e Ugl) tranne la Fiom-Cgil. L’intesa prevede la riorganizzazione del lavoro con un aumento dei turni, norme più severe sull’assenteismo e sui giorni di malattia e, soprattutto, il trasferimento della produzione della nuova Panda a Pomigliano con un mega investimento di 700 milioni.
Ma sul piatto c’è anche il futuro della sinistra sindacale e politica, che di fronte al bivio posto da Marchionne è andata letteralmente in frantumi. Con il Pd e la stessa Cgil convinti che l’accordo si possa e si debba firmare per garantire l’occupazione e la Fiom e la sinistra radicale fianco al fianco nel denunciare un ignobile ricatto a cui sarebbe addirittura preferibile la perdita del posto di lavoro.
© Libero
Ad alimentare un altro po’ la tensione ci ha pensato anche il quotidiano Repubblica, secondo il quale oltre al trasferimento della produzione della Panda in Polonia i vertici della Fiat avrebbero pronto anche un piano C. Ovvero la creazione di una Newco a cui verrebbero conferite tutte le attività di Pomigliano. I lavoratori sarebbero così licenziati e poi riassunti con il nuovo contratto, un po’ come è avvenuto per Alitalia. L’ipotesi ha ovviamente infiammato gli animi e permesso alla Fiom di rilanciare le accuse. «Se l’indiscrezione fosse vera», ha subito detto il segretario Giorgio Cremaschi, «saremmo di fronte a un fatto mostruoso, ma rivelatore delle reali volontà aziendali». Il sindacalista ha addirittura paragonato le intenzioni della Fiat alle fabbriche maquilladora, che le multinazionali Usa aprono subito al di là dei confini del Messico per aggirare leggi e contratti.
Il problema che si stanno ponendo al Lingotto in queste ore è, in realtà, l’opposto. Non come aggirare le regole, ma come fare in modo che quelle regole, una volta accettate e sottoscritte dai lavoratori, vengano rispettate da tutti. Le previsioni sono per una netta vittoria dei favorevoli all’accordo, ma l’azienda resta comunque guardinga e vuole valutare bene il risultato della consultazione prima di prendere decisioni. Marchionne, non a caso, non ha mai indicato quale sia la soglia necessaria al via libera. La Fiat teme eventuali turbolenze nell’applicazione concreta dell’intesa e sta quindi studiando tutte le diverse ipotesi che possano evitarle, in particolare sui punti controversi dell’assenteismo e degli scioperi improvvisi. Non è detto, insomma, che il referendum sia sufficiente a chiudere la lunga partita. Tanto più che la Fiom ha ribadito anche ieri di aver consigliato ai lavoratori di andare a votare per evitare ritorsioni, ma ha anche continuato a ripetere che il referendum «è illegittimo e quindi non vincolante». Se i metalmeccanici della Cgil non dovessero uscire nettamente sconfitti dalla consultazione, nulla gli impedirebbe, ad accordo concluso e a produzione già avviata, di far saltare di nuovo il tavolo. E a quel punto sarebbero davvero dolori.
Anche alla percentuale dei sì sono dunque appese le sorti di oltre 20mila lavoratori, considerati i 5mila operai degli stabilimenti e i 15 dell’indetto. Solo ai primi spetterà, però, esprimere il proprio giudizio. Le votazioni si terranno dalle 8 alle 21. Nove le urne di cui 8 nello stabilimento G. Battista Vico di Pomigliano e una nella sede decentrata di Nola. La posta in gioco, ormai, si conosce. I lavoratori dovranno decidere se ratificare o meno l’accordo firmato da tutte le sigle (Fim, Uilm, Fismic e Ugl) tranne la Fiom-Cgil. L’intesa prevede la riorganizzazione del lavoro con un aumento dei turni, norme più severe sull’assenteismo e sui giorni di malattia e, soprattutto, il trasferimento della produzione della nuova Panda a Pomigliano con un mega investimento di 700 milioni.
Ma sul piatto c’è anche il futuro della sinistra sindacale e politica, che di fronte al bivio posto da Marchionne è andata letteralmente in frantumi. Con il Pd e la stessa Cgil convinti che l’accordo si possa e si debba firmare per garantire l’occupazione e la Fiom e la sinistra radicale fianco al fianco nel denunciare un ignobile ricatto a cui sarebbe addirittura preferibile la perdita del posto di lavoro.
© Libero
lunedì 21 giugno 2010
Roma fa la manovra Il biglietto del tram aumenterà del 50%
La colpa non è tutta di Gianni Alemanno. Quando l’ex ministro è salito al Campidoglio i conti già non tornavano da tempo. Ma è difficile pensare che per i romani possa essere di una qualche consolazione. Per risanare il debito della Capitale (9,5 miliardi) e riparare i guasti di decenni di gestioni finanziarie dissennate la giunta ha messo a punto una manovra che al confronto quella di Giulio Tremonti è all’acqua di rose. Trasporti, asili, mense scolastiche, rifiuti, bar, ristoranti, aerei: tutto sarà più caro. La cura da cavallo è stata concordata dal sindaco con il ministro dell’Economia per far uscire il Campidoglio dal pantano. L’impegno di Alemanno a cambiare marcia ha convinto Tremonti a ridurre la sforbiciata sui fondi per Roma Capitale e a rendere strutturale il sostegno del Tesoro al piano di rientro del Comune. Ma il prezzo da pagare sarà altissimo.
Intanto, i finanziamenti concessi dal governo sono comunque inferiori di 200 milioni rispetto ai 500 stanziati fino allo scorso anno. Per recuperare la somma mancante Tremonti ha inserito in finanziaria la possibilità per il Campidoglio di incrementare l’addizionale Irpef comunale di un ulteriore 0,4% (Roma è già al tetto massimo dello 0,5%) - che tra l’altro si andrà a sommare all’aumento dall’1,4% all’1,7% di quella regionale - e di istituire un balzello di un euro sui diritti d’imbarco per tutti i passeggeri che transitano negli aeroporti di Roma.
Ma la vera stangata è quella che servirà a ripianare il bilancio ordinario, anche quello, manco a dirlo, in rosso. Per il 2010, tolte le partite straordinarie, mancano la bellezza di 160 milioni. Ed ecco la soluzione. Il canone per l’occupazione del suolo pubblico salirà dal 12% al 125% in base alle zone. L’aumento delle entrate per il Comune è di 8,5 milioni nel 2010 e di 17 l’anno prossimo. I primi a strapparsi i capelli saranno i commercianti, ma è chiaro che il costo dei tavolini all’aperto di bar e ristoranti saranno facilmente e rapidamente scaricati sui clienti.
La tassa sui rifiuti per le utenze non domestiche salirà del 12,5%. Qui nelle casse del Campidoglio non entrerà nulla, si tratta di un balzello per mantenere operativo il servizio.
La vera mazzata è quella che riguarda la scuola e i trasporti. Per gli asili nido la tariffe aumentano da un minimo del 15,6% ad un massimo del 48%. Per avere un’idea del colpo inferto alle famiglie basti pensare che l’incremento della rata può raggiungere i 150 euro. Il gettito aggiuntivo per Alemanno sarà di 2,2 nel 2010 e di 6,2 milioni nel 2011. L’altra scherzetto è per le mense scolastiche, dove il Comune incasserà 3,6 milioni in più nel 2011 grazie ad aumenti schoc delle tariffe che arrivano fino al 93,6%.
E si arriva così al piatto forte: i mezzi pubblici. In una città già soffocata dal traffico privato la giunta ha pensato bene (anche se la decisione è ancora oggetto di discussione) di aumentare i biglietti del bus del 50% in un colpo solo. L’aumento sarà limitato (del 4,7%) per chi sottoscrive un abbonamento annuale. Ma per chi vuole acquistare il normale biglietto a tempo il prezzo passerà da 1 euro a 1 euro e mezzo. Roma diventerà così la città con i bus più costosi d’Italia. A questo si aggiungerà, infine, la maggiorazione, fino al 3 per mille, dell’Ici su seconde e terze case.
Il tutto dovrebbe consentire di ottenere 52 milioni di maggiori entrate. Il resto, grazie al cielo, sarà recuperato con tagli alle spese (57,9 milioni) ed entrate straordinarie (43 milioni)
© Libero
Intanto, i finanziamenti concessi dal governo sono comunque inferiori di 200 milioni rispetto ai 500 stanziati fino allo scorso anno. Per recuperare la somma mancante Tremonti ha inserito in finanziaria la possibilità per il Campidoglio di incrementare l’addizionale Irpef comunale di un ulteriore 0,4% (Roma è già al tetto massimo dello 0,5%) - che tra l’altro si andrà a sommare all’aumento dall’1,4% all’1,7% di quella regionale - e di istituire un balzello di un euro sui diritti d’imbarco per tutti i passeggeri che transitano negli aeroporti di Roma.
Ma la vera stangata è quella che servirà a ripianare il bilancio ordinario, anche quello, manco a dirlo, in rosso. Per il 2010, tolte le partite straordinarie, mancano la bellezza di 160 milioni. Ed ecco la soluzione. Il canone per l’occupazione del suolo pubblico salirà dal 12% al 125% in base alle zone. L’aumento delle entrate per il Comune è di 8,5 milioni nel 2010 e di 17 l’anno prossimo. I primi a strapparsi i capelli saranno i commercianti, ma è chiaro che il costo dei tavolini all’aperto di bar e ristoranti saranno facilmente e rapidamente scaricati sui clienti.
La tassa sui rifiuti per le utenze non domestiche salirà del 12,5%. Qui nelle casse del Campidoglio non entrerà nulla, si tratta di un balzello per mantenere operativo il servizio.
La vera mazzata è quella che riguarda la scuola e i trasporti. Per gli asili nido la tariffe aumentano da un minimo del 15,6% ad un massimo del 48%. Per avere un’idea del colpo inferto alle famiglie basti pensare che l’incremento della rata può raggiungere i 150 euro. Il gettito aggiuntivo per Alemanno sarà di 2,2 nel 2010 e di 6,2 milioni nel 2011. L’altra scherzetto è per le mense scolastiche, dove il Comune incasserà 3,6 milioni in più nel 2011 grazie ad aumenti schoc delle tariffe che arrivano fino al 93,6%.
E si arriva così al piatto forte: i mezzi pubblici. In una città già soffocata dal traffico privato la giunta ha pensato bene (anche se la decisione è ancora oggetto di discussione) di aumentare i biglietti del bus del 50% in un colpo solo. L’aumento sarà limitato (del 4,7%) per chi sottoscrive un abbonamento annuale. Ma per chi vuole acquistare il normale biglietto a tempo il prezzo passerà da 1 euro a 1 euro e mezzo. Roma diventerà così la città con i bus più costosi d’Italia. A questo si aggiungerà, infine, la maggiorazione, fino al 3 per mille, dell’Ici su seconde e terze case.
Il tutto dovrebbe consentire di ottenere 52 milioni di maggiori entrate. Il resto, grazie al cielo, sarà recuperato con tagli alle spese (57,9 milioni) ed entrate straordinarie (43 milioni)
© Libero
sabato 19 giugno 2010
Emma e Giulio insieme: niente tasse sulle banche
Bene la trasparenza, ma sulle tasse andiamoci piano. All’indomani dell’accordo di massima tra i 27 leader europei sull’idea di presentare alle banche, sotto forma di balzelli, il conto della crisi, Giulio Tremonti torna a premere il freno. «Nostro interesse è che ci siano maggiori dettagli e un certo grado di flessibilità», ha spiegato durante una conferenza stampa a Via XX Settembre con il commissario Ue al Mercato interno Michel Barnier, «non tutte le realtà sono uguali. Confidiamo in una discussione flessibile, Paese per Paese».
Qualche dettaglio in più, in effetti, non farebbe male. Il progetto della Commissione europea, ha spiegato ieri Barnier, «è di un fondo di previdenza pagato dalle banche per le banche e diversa è la ratio di chi parla di un prelevamento» da trasferire ai bilanci pubblici. Quella, ha assicurato il commissario, «non è la mia proposta». Anche il presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso, ieri ha tentato di chiarire il senso della stangata agli istituti di credito. «Nel caso in cui ci siano nuove crisi», ha detto, «non saranno i Paesi a dover pagare ma saranno le banche stesse a creare una specie di fondo». Si tratterebbe, insomma, di un sorta di autotassazione volta a prevenire ed evitare i salvataggi pubblici.
Secondo Barroso «ognuno deve dare il proprio contributo» e agli Stati membri che dicono di non poter mettere «la bank levy perché nei loro Paesi non hanno avuto questi problemi» il presidente risponde che «non è un buon argomento, perché non è escluso che ne abbiano in futuro». Detto questo, Barroso ha ammesso che far passare l’idea in sede di G20 sarà molto «difficile», perché «alcuni Stati hanno già detto che non sono d’accordo». Una sponda arriva però da Oltreoceano. A Toronto, ha detto il presidente Usa, Barack Obama, nella lettera inviata ai leader del G20, «dobbiamo ribadire il nostro impegno» anche sul principio «che il settore finanziario contribuisca in modo giusto e sostanziale pagando per i fardelli creati».
Qualunque sia la formula, la parola “tasse” in Italia non raccoglie molti consensi. L’ipotesi di una nuova imposta sulle banche «è profondamente sbagliata e anche un po’ sleale», ha spiegato l’ad di Unicredit, Alessandro Profumo, «considerato che abbiamo il carico fiscale più alto di tutte le industrie» e che «non abbiamo ricevuto aiuti pubblici». Dell’ipotesi di «un prelievo per finanziare un fondo che intervenga in momenti pre-insolvenza» si può invece parlare, purché il fondo operi «sotto la guida di un supervisore o di un’entità terza che lavora sotto l’egida dell’European Banking Authority». Scontato il dissenso dell’Abi, che si dice nettamente «contraria all’introduzione di nuove imposte indipendentemente dalla loro finalità».
Ma a difendere gli istituti di credito scendono in campo gli industriali, preoccupati di eventuali ricadute sulle imprese. «Non siamo molto d’accordo», ha spiegato Emma Marcegaglia, «perché è come dire ci sarà un’altra crisi e prepariamo già i soldi per poterla pagare». E poi, ha continuato la presidente di Confindustria, «è molto facile che si trasformi in maggiori costi per le imprese e per i risparmiatori». Piuttosto, «preferiamo la logica di nuove regole, di regolatori attivi».
A paventare il rischio di una stretta sul credito non ci pensa due volte l’associazione bancaria. «Il nuovo prelievo», si legge in una nota dell’Abi, «potrebbe avere effetti sulla capacità di finanziamento dell’economia reale». Concetto condiviso, però, anche dall’economista Giacomo Vaciago, secondo il quale le «banche europee non sono vacche da mungere» e «sono decisive per una speranza di ripresa dell’economia».
Grande condivisione c’è invece sulla proposta di pubblicare le prove di resistenza (stress test) delle banche. Idea che piace molto a Mario Draghi. «Sono lieto di vedere», ha detto nel corso di un convegno, «che in Europa c’è consenso sulla pubblicazione degli stress test. Sicuramente lo faremo anche in Italia. I Paesi con delle buone banche hanno tutto da perdere a non rivelare qual è la situazione, mentre hanno tutto da guadagnare da questa maggiore trasparenza». Concetto sottoscritto pienamente anche da Profumo: «Una buona cosa per Paesi con banche forti come l’Italia». Barroso ha ribadito che a luglio saranno presentati «i risultati dei test su 25 istituti transnazionali. Poi l’obiettivo è andare avanti» con una serie più generale di esami. Le modalità di pubblicazione degli stress test saranno decise la prossima settimana in una riunione tra Commissione Ue, Bce, Cebs (Comitato europeo di vigilanza bancaria) e Stati membri.
© Libero
Qualche dettaglio in più, in effetti, non farebbe male. Il progetto della Commissione europea, ha spiegato ieri Barnier, «è di un fondo di previdenza pagato dalle banche per le banche e diversa è la ratio di chi parla di un prelevamento» da trasferire ai bilanci pubblici. Quella, ha assicurato il commissario, «non è la mia proposta». Anche il presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso, ieri ha tentato di chiarire il senso della stangata agli istituti di credito. «Nel caso in cui ci siano nuove crisi», ha detto, «non saranno i Paesi a dover pagare ma saranno le banche stesse a creare una specie di fondo». Si tratterebbe, insomma, di un sorta di autotassazione volta a prevenire ed evitare i salvataggi pubblici.
Secondo Barroso «ognuno deve dare il proprio contributo» e agli Stati membri che dicono di non poter mettere «la bank levy perché nei loro Paesi non hanno avuto questi problemi» il presidente risponde che «non è un buon argomento, perché non è escluso che ne abbiano in futuro». Detto questo, Barroso ha ammesso che far passare l’idea in sede di G20 sarà molto «difficile», perché «alcuni Stati hanno già detto che non sono d’accordo». Una sponda arriva però da Oltreoceano. A Toronto, ha detto il presidente Usa, Barack Obama, nella lettera inviata ai leader del G20, «dobbiamo ribadire il nostro impegno» anche sul principio «che il settore finanziario contribuisca in modo giusto e sostanziale pagando per i fardelli creati».
Qualunque sia la formula, la parola “tasse” in Italia non raccoglie molti consensi. L’ipotesi di una nuova imposta sulle banche «è profondamente sbagliata e anche un po’ sleale», ha spiegato l’ad di Unicredit, Alessandro Profumo, «considerato che abbiamo il carico fiscale più alto di tutte le industrie» e che «non abbiamo ricevuto aiuti pubblici». Dell’ipotesi di «un prelievo per finanziare un fondo che intervenga in momenti pre-insolvenza» si può invece parlare, purché il fondo operi «sotto la guida di un supervisore o di un’entità terza che lavora sotto l’egida dell’European Banking Authority». Scontato il dissenso dell’Abi, che si dice nettamente «contraria all’introduzione di nuove imposte indipendentemente dalla loro finalità».
Ma a difendere gli istituti di credito scendono in campo gli industriali, preoccupati di eventuali ricadute sulle imprese. «Non siamo molto d’accordo», ha spiegato Emma Marcegaglia, «perché è come dire ci sarà un’altra crisi e prepariamo già i soldi per poterla pagare». E poi, ha continuato la presidente di Confindustria, «è molto facile che si trasformi in maggiori costi per le imprese e per i risparmiatori». Piuttosto, «preferiamo la logica di nuove regole, di regolatori attivi».
A paventare il rischio di una stretta sul credito non ci pensa due volte l’associazione bancaria. «Il nuovo prelievo», si legge in una nota dell’Abi, «potrebbe avere effetti sulla capacità di finanziamento dell’economia reale». Concetto condiviso, però, anche dall’economista Giacomo Vaciago, secondo il quale le «banche europee non sono vacche da mungere» e «sono decisive per una speranza di ripresa dell’economia».
Grande condivisione c’è invece sulla proposta di pubblicare le prove di resistenza (stress test) delle banche. Idea che piace molto a Mario Draghi. «Sono lieto di vedere», ha detto nel corso di un convegno, «che in Europa c’è consenso sulla pubblicazione degli stress test. Sicuramente lo faremo anche in Italia. I Paesi con delle buone banche hanno tutto da perdere a non rivelare qual è la situazione, mentre hanno tutto da guadagnare da questa maggiore trasparenza». Concetto sottoscritto pienamente anche da Profumo: «Una buona cosa per Paesi con banche forti come l’Italia». Barroso ha ribadito che a luglio saranno presentati «i risultati dei test su 25 istituti transnazionali. Poi l’obiettivo è andare avanti» con una serie più generale di esami. Le modalità di pubblicazione degli stress test saranno decise la prossima settimana in una riunione tra Commissione Ue, Bce, Cebs (Comitato europeo di vigilanza bancaria) e Stati membri.
© Libero
venerdì 18 giugno 2010
L’Europa fa pagare la crisi alle banche
Sulle banche vince l’asse Merkel-Sarkozy, ma Silvio Berlusconi incassa una vittoria sulle nuove regole del Patto di stabilità, con il debito privato che entra per la prima volta tra i parametri di valutazione sullo stato di salute dell’economia dei Paesi europei.
Ad occupare la scena ieri al Consiglio europeo di Bruxelles è stata comunque l’offensiva contro le istituzioni finanziarie. Una sorta di resa dei conti, considerato il ruolo delle banche nella prima fase della crisi economica e, soprattutto, le centinaia di miliardi di euro sborsati dai governo per evitare il collasso del sistema del credito. Non è un caso che l’Italia sia il Paese che ha accolto la proposta con più freddezza. Di quattrini, in effetti, a parte lo strumento dei prestiti offerti con i Tremonti bond per garantire la solidità patrimoniale degli istituti, Palazzo Chigi non ne ha tirati fuori.
Diverso è il caso della Germania, che ha messo sul piatto qualcosa come 500 miliardi. «Bisogna tassare chi ha messo a rischio il mercato», ha tuonato arrivando al Consiglio Ue la cancelliera tedesca, Angela Merkel. Sulla stessa linea la Francia, che ha speso un po’ meno (360 miliardi) ma sembra ugualmente intenzionata a riavere indietro il maltolto.
Sull’introduzione di una tassa a carico delle istituzioni finanziarie per contribuire ai costi della crisi i 27 avrebbero raggiunto solo un accordo di massima. Si tratta di un’intesa sul principio generale che dovrebbe essere accolto dagli stati membri nel modo in cui ognuno riterrà opportuno. La questione verrà portata sul tavolo al G20 di Toronto della prossima settimana. Cauta l’Italia, che valuterà l’ipotesi solo nell’ambito di un ampio accordo internazionale. E divisioni restano anche sull’opportunità di introdurre un sistema di tassazione sulle transazioni finanziarie. Alcuni Paesi si sono detti «per nulla entusiasti» dell’idea, temendo la «delocalizzazione» dell’operazioni finanziarie su altri mercati. Ad insistere sul punto sono state, anche qui, Francia e Germania, che intendono rilanciare autonomamente la proposta a Toronto per verificarne la fattibilità.
Piena sintonia c’è invece sulla necessità di procedere speditamente e con determinazione sul fronte del risanamento delle finanze pubbliche per arginare l’impennata del debito. Senza però «soffocare la crescita», come ha ribadito il presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso. I 27 si sono anche detti pronti, se sarà necessario, «a prendere misure aggiuntive per accelerare il consolidamento». Su questo terreno si è concretizzato il successo italiano. «Il concetto di sostenibilità complessiva comprende molti parametri, anche quello del debito privato», ha spiegato il presidente della Ue, Herman Van Rompuy, sottolineando come nelle conclusioni del vertice sia stata accolta la richiesta di Giulio Tremonti di tener conto del concetto di «debito aggregato», vale a dire quello pubblico più quello di imprese e famiglie.
I leader, infine, chiedono di accelerare sulla riforma del sistema finanziario europeo, mettendo in campo «misure adeguate» contro la speculazione. Invito che ha suscitato la reazione del neopremier britannico, David Cameron, al suo primo Consiglio Ue: «Non rinunceremo a difendere i nostri interessi nazionali».
© Libero
Ad occupare la scena ieri al Consiglio europeo di Bruxelles è stata comunque l’offensiva contro le istituzioni finanziarie. Una sorta di resa dei conti, considerato il ruolo delle banche nella prima fase della crisi economica e, soprattutto, le centinaia di miliardi di euro sborsati dai governo per evitare il collasso del sistema del credito. Non è un caso che l’Italia sia il Paese che ha accolto la proposta con più freddezza. Di quattrini, in effetti, a parte lo strumento dei prestiti offerti con i Tremonti bond per garantire la solidità patrimoniale degli istituti, Palazzo Chigi non ne ha tirati fuori.
Diverso è il caso della Germania, che ha messo sul piatto qualcosa come 500 miliardi. «Bisogna tassare chi ha messo a rischio il mercato», ha tuonato arrivando al Consiglio Ue la cancelliera tedesca, Angela Merkel. Sulla stessa linea la Francia, che ha speso un po’ meno (360 miliardi) ma sembra ugualmente intenzionata a riavere indietro il maltolto.
Sull’introduzione di una tassa a carico delle istituzioni finanziarie per contribuire ai costi della crisi i 27 avrebbero raggiunto solo un accordo di massima. Si tratta di un’intesa sul principio generale che dovrebbe essere accolto dagli stati membri nel modo in cui ognuno riterrà opportuno. La questione verrà portata sul tavolo al G20 di Toronto della prossima settimana. Cauta l’Italia, che valuterà l’ipotesi solo nell’ambito di un ampio accordo internazionale. E divisioni restano anche sull’opportunità di introdurre un sistema di tassazione sulle transazioni finanziarie. Alcuni Paesi si sono detti «per nulla entusiasti» dell’idea, temendo la «delocalizzazione» dell’operazioni finanziarie su altri mercati. Ad insistere sul punto sono state, anche qui, Francia e Germania, che intendono rilanciare autonomamente la proposta a Toronto per verificarne la fattibilità.
Piena sintonia c’è invece sulla necessità di procedere speditamente e con determinazione sul fronte del risanamento delle finanze pubbliche per arginare l’impennata del debito. Senza però «soffocare la crescita», come ha ribadito il presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso. I 27 si sono anche detti pronti, se sarà necessario, «a prendere misure aggiuntive per accelerare il consolidamento». Su questo terreno si è concretizzato il successo italiano. «Il concetto di sostenibilità complessiva comprende molti parametri, anche quello del debito privato», ha spiegato il presidente della Ue, Herman Van Rompuy, sottolineando come nelle conclusioni del vertice sia stata accolta la richiesta di Giulio Tremonti di tener conto del concetto di «debito aggregato», vale a dire quello pubblico più quello di imprese e famiglie.
I leader, infine, chiedono di accelerare sulla riforma del sistema finanziario europeo, mettendo in campo «misure adeguate» contro la speculazione. Invito che ha suscitato la reazione del neopremier britannico, David Cameron, al suo primo Consiglio Ue: «Non rinunceremo a difendere i nostri interessi nazionali».
© Libero
giovedì 17 giugno 2010
Parte l’assalto degli emendamenti. Ma l’Europa promuove il testo di Giulio
Fervono i lavori di maggioranza e governo sulle proposte di modifica alla manovra economica da presentare entro venerdi alle 13 in commissione Bilancio al Senato, dove ieri è ufficialmente partito l’iter del provvedimento. Dopo la riunione dei finiani nel pomeriggio alla Camera, un nuovo incontro, questa volta con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, si è tenuto in serata al Senato (presente anche la Lega) per concordare le proposte di modifica che potranno avere il consenso del governo.
Per quanto riguarda il drappello di senatori vicini a Gianfranco Fini, la linea è quella di accettare il diktat del Tesoro sulla necessità di non modificare i saldi della manovra.
Si cercherà quindi di presentare emendamenti che consentano di trovare fondi per incentivare la crescita economica. A partire dalla cancellazione degli enti inutili e dalla soppressione delle province al di sotto di una soglia di abitanti ancora da definire. Sembrano però confermati anche i cavalli di battaglia dell’economista Mario Baldassarri sul taglio dell’Irap e sulla cedolare secca sugli affitti.
Sul fronte degli emendamenti “condivisi” secondo Maurizio Gasparri «c’è già l’ok di Tremonti» per modificare la norma che prevede l’innalzamento della soglia di invalidità, dal 74% all’85%, per ottenere il relativo assegno. Il presidente dei senatori del PdL ha anche spiegato di aver incontrato le forze dell’ordine ed i farmacisti. «Ho qui», ha spiegato, «le richieste di emendamenti da parte della Confindustria e di altre categorie, incontreremo anche i Presidenti delle Regioni. Le richieste di modifica sono tante e discuteremo quali aspetti della manovra modificare, tenendo fermi i saldi».
Ieri, intanto, oltre alla rabbia delle Regioni Tremonti ha incassato il via libera di Bruxelles. La manovra da 24,9 miliardi per il 2011 e 2012 contiene «misure adeguate» per centrare l’obiettivo del rientro del deficit sotto il 3% in due anni. A patto, ha ammonito la Commissione Ue, di «assicurare una stringente attuazione del programmato calo della spesa pubblica e di affrontare la possibile caduta delle entrate fiscali». La valutazione sullo stato dei conti pubblici dell’Italia e sulle misure correttive è contenuta nel rapporto che il commissario Ue agli affari economici e monetari, Olli Rehn, presenterà alla riunione Ecofin di luglio, insieme ai rapporti di altri quattordici Paesi della zona euro che sono al centro di una procedura di infrazione per deficit eccessivo, tra cui Francia, Germania, Spagna e Portogallo.
Quello espresso sull’Italia, ha spiegato Rehn, è ancora un «giudizio preliminare», perchè «la valutazione approfondita delle misure è ancora in corso», vista la loro recente approvazione. Ma tutto sembra andare nella giusta direzione, che è quella di un calo del deficit, ma anche di un calo dell’enorme debito pubblico che ormai viaggia verso il 118%.
Per questo per l’esecutivo europeo diventa importante rispettare alla lettera gli impegni presi sul fronte dei tagli alla spesa corrente e anche prevenire una possibile stretta delle entrate fiscali. Si tratta dei due pilastri della manovra costruita da Tremonti, incentrata sulla lotta sia alle spese improduttive sia all’evasione fiscale. Sono due strade che per la Commissione Ue servono «anche ad assicurare che il debito pubblico si avvii su una strada in discesa entro la fine del periodo di correzione». Sulla proposta del governo di considerare, nell’ambito della riforma del Patto Ue, il debito aggregato dei Paesi (non solo quello pubblico, ma anche quello di famiglie ed imprese), Rehn si è limitato a dire: «La posizione della Ue è in evoluzione. Presto arriveranno proposte concrete».
© Libero
Per quanto riguarda il drappello di senatori vicini a Gianfranco Fini, la linea è quella di accettare il diktat del Tesoro sulla necessità di non modificare i saldi della manovra.
Si cercherà quindi di presentare emendamenti che consentano di trovare fondi per incentivare la crescita economica. A partire dalla cancellazione degli enti inutili e dalla soppressione delle province al di sotto di una soglia di abitanti ancora da definire. Sembrano però confermati anche i cavalli di battaglia dell’economista Mario Baldassarri sul taglio dell’Irap e sulla cedolare secca sugli affitti.
Sul fronte degli emendamenti “condivisi” secondo Maurizio Gasparri «c’è già l’ok di Tremonti» per modificare la norma che prevede l’innalzamento della soglia di invalidità, dal 74% all’85%, per ottenere il relativo assegno. Il presidente dei senatori del PdL ha anche spiegato di aver incontrato le forze dell’ordine ed i farmacisti. «Ho qui», ha spiegato, «le richieste di emendamenti da parte della Confindustria e di altre categorie, incontreremo anche i Presidenti delle Regioni. Le richieste di modifica sono tante e discuteremo quali aspetti della manovra modificare, tenendo fermi i saldi».
Ieri, intanto, oltre alla rabbia delle Regioni Tremonti ha incassato il via libera di Bruxelles. La manovra da 24,9 miliardi per il 2011 e 2012 contiene «misure adeguate» per centrare l’obiettivo del rientro del deficit sotto il 3% in due anni. A patto, ha ammonito la Commissione Ue, di «assicurare una stringente attuazione del programmato calo della spesa pubblica e di affrontare la possibile caduta delle entrate fiscali». La valutazione sullo stato dei conti pubblici dell’Italia e sulle misure correttive è contenuta nel rapporto che il commissario Ue agli affari economici e monetari, Olli Rehn, presenterà alla riunione Ecofin di luglio, insieme ai rapporti di altri quattordici Paesi della zona euro che sono al centro di una procedura di infrazione per deficit eccessivo, tra cui Francia, Germania, Spagna e Portogallo.
Quello espresso sull’Italia, ha spiegato Rehn, è ancora un «giudizio preliminare», perchè «la valutazione approfondita delle misure è ancora in corso», vista la loro recente approvazione. Ma tutto sembra andare nella giusta direzione, che è quella di un calo del deficit, ma anche di un calo dell’enorme debito pubblico che ormai viaggia verso il 118%.
Per questo per l’esecutivo europeo diventa importante rispettare alla lettera gli impegni presi sul fronte dei tagli alla spesa corrente e anche prevenire una possibile stretta delle entrate fiscali. Si tratta dei due pilastri della manovra costruita da Tremonti, incentrata sulla lotta sia alle spese improduttive sia all’evasione fiscale. Sono due strade che per la Commissione Ue servono «anche ad assicurare che il debito pubblico si avvii su una strada in discesa entro la fine del periodo di correzione». Sulla proposta del governo di considerare, nell’ambito della riforma del Patto Ue, il debito aggregato dei Paesi (non solo quello pubblico, ma anche quello di famiglie ed imprese), Rehn si è limitato a dire: «La posizione della Ue è in evoluzione. Presto arriveranno proposte concrete».
© Libero
Etichette:
Baldassarri,
Bruxelles,
Confindustria,
Fini,
manovra,
Tremonti
Al Nord i tagli maggiori: spariti quasi 4 miliardi
I tagli imposti da Giulio Tremonti alle Regioni non piacciono, ovviamente, a nessuno. L’idea di dover stringere la cinghia ha raccolto dissensi unanimi a destra come a sinistra, al Sud come al Nord.
Per qualcuno, però, al danno si aggiungerà la beffa. La sforbiciata del ministro dell’Economia si abbatterà, infatti, in egual misura anche su chi ha finora cercato di tenere in ordine i bilanci. Come ha spiegato chiaramente il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, «la linearità dei tagli, rischia di penalizzare anche quelle realtà amministrative che negli ultimi anni hanno gestito la propria spesa con oculatezza e parsimonia».
A fare due conti sull’impatto della manovra sulle singole regioni è stata la stessa associazione degli artigiani. L’ufficio studi della Cgia ha individuato il totale delle spese regionali sostenute nel 2009 che, complessivamente, ammontano a 171,6 miliardi. Di questo importo è stata considerata quella parte di spesa soggetta al patto di stabilità interno, che ammonta a 62,58 miliardi. In estrema sintesi, si tratta della totalità delle spese regionali al netto di quelle riferite alla sanità che non sono sottoposta ai vincoli del patto. Sull’aggregato di spesa così ricavato, si sono calcolati gli importi su cui agirà la “scure” dei 10 miliardi nel biennio 2011-2012 contenuta nella manovra. Il quadro che emerge è abbastanza chiaro.
Calcolando l’impatto pro-capite le regioni ordinarie maggiormente penalizzate sembrerebbero quelle del Mezzogiorno (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria). A fronte dei 211 euro pro-capite nel biennio, il Centro (Toscana, Marche, Umbria e Lazio) sarebbe penalizzato per 194 euro e il Nord (Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) solo per 129. Il rapporto si ribalta per le regioni a statuto speciale. Qui il valore procapite del Nord (Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia) è 290 euro mentre quello del Sud (Sicilia e Sardegna) soltanto 121. Considerando le regioni nell’insieme il confronto vedrebbe sempre penalizzato il Meridione con 182 euro di “tagli” pro-capite rispetto ai 143 del Nord.
Eliminando però la differenza rappresentata dal numero di abitanti, il cui divario distorce il calcolo dell’impatto sulle singole regioni, appare chiaro che il peso più elevato della manovra dovrà sopportarlo proprio il Nord che, fino a prova contraria, ha i conti più in regola di molte amministrazioni del Mezzogiorno.
Dei 10 miliardi di minori trasferimenti previsti dalla manovra correttivi, 3,91 saranno quelli a carico dell’insieme delle regioni del Nord, 3,79 quelli che impatteranno sui bilanci del Sud e solo 2,29 quelli che peseranno sul Centro. Anche per quello che riguarda l’impatto percentuale sulla spesa, il Mezzogiorno se la cava con un 14,2% rispetto al 15,2% del Nord. «Mi auguro», ha detto Bortolussi, «che la risposta che verrà messa in campo dai governatori non sia quella di aumentare le tasse locali. Un’operazione che, probabilmente, creerebbe, nell’opinione pubblica, un clima generale molto ostile, in grado di compromettere l’avvio della riforma sul federalismo fiscale».
© Libero
Per qualcuno, però, al danno si aggiungerà la beffa. La sforbiciata del ministro dell’Economia si abbatterà, infatti, in egual misura anche su chi ha finora cercato di tenere in ordine i bilanci. Come ha spiegato chiaramente il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, «la linearità dei tagli, rischia di penalizzare anche quelle realtà amministrative che negli ultimi anni hanno gestito la propria spesa con oculatezza e parsimonia».
A fare due conti sull’impatto della manovra sulle singole regioni è stata la stessa associazione degli artigiani. L’ufficio studi della Cgia ha individuato il totale delle spese regionali sostenute nel 2009 che, complessivamente, ammontano a 171,6 miliardi. Di questo importo è stata considerata quella parte di spesa soggetta al patto di stabilità interno, che ammonta a 62,58 miliardi. In estrema sintesi, si tratta della totalità delle spese regionali al netto di quelle riferite alla sanità che non sono sottoposta ai vincoli del patto. Sull’aggregato di spesa così ricavato, si sono calcolati gli importi su cui agirà la “scure” dei 10 miliardi nel biennio 2011-2012 contenuta nella manovra. Il quadro che emerge è abbastanza chiaro.
Calcolando l’impatto pro-capite le regioni ordinarie maggiormente penalizzate sembrerebbero quelle del Mezzogiorno (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria). A fronte dei 211 euro pro-capite nel biennio, il Centro (Toscana, Marche, Umbria e Lazio) sarebbe penalizzato per 194 euro e il Nord (Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) solo per 129. Il rapporto si ribalta per le regioni a statuto speciale. Qui il valore procapite del Nord (Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia) è 290 euro mentre quello del Sud (Sicilia e Sardegna) soltanto 121. Considerando le regioni nell’insieme il confronto vedrebbe sempre penalizzato il Meridione con 182 euro di “tagli” pro-capite rispetto ai 143 del Nord.
Eliminando però la differenza rappresentata dal numero di abitanti, il cui divario distorce il calcolo dell’impatto sulle singole regioni, appare chiaro che il peso più elevato della manovra dovrà sopportarlo proprio il Nord che, fino a prova contraria, ha i conti più in regola di molte amministrazioni del Mezzogiorno.
Dei 10 miliardi di minori trasferimenti previsti dalla manovra correttivi, 3,91 saranno quelli a carico dell’insieme delle regioni del Nord, 3,79 quelli che impatteranno sui bilanci del Sud e solo 2,29 quelli che peseranno sul Centro. Anche per quello che riguarda l’impatto percentuale sulla spesa, il Mezzogiorno se la cava con un 14,2% rispetto al 15,2% del Nord. «Mi auguro», ha detto Bortolussi, «che la risposta che verrà messa in campo dai governatori non sia quella di aumentare le tasse locali. Un’operazione che, probabilmente, creerebbe, nell’opinione pubblica, un clima generale molto ostile, in grado di compromettere l’avvio della riforma sul federalismo fiscale».
© Libero
Pomigliano va al lavoro senza la Fiom
Fim, Uilm, Fismic e Ugl hanno firmato ieri il nuovo documento, integrato, presentato dalla Fiat che garantisce di fatto la sopravvivenza dello stabilimento di Pomigliano e il mantenimento dei circa 5mila posti di lavoro più i 15mila dell’indotto. La Fiom, inutile dirlo, ha confermato il suo no.
Il copione è già visto. L’ala dura della Cgil punta i piedi, spara a zero, rifiuta il compromesso. Tanto ci sono gli altri a sporcarsi le mani. E’ il giochino del cosiddetto “accordo separato”, grazie al quale i lavoratori mantengono il posto, i contratti si rinnovano, le regole si riscrivono, le imprese vanno avanti. Mentre i metalmeccanici del sindacato guidato da Guglielmo Epifani continuano a restare tranquillamente sulle barricate, senza macchia.
Il rischio è che, prima o poi, qualcuno si accorgerà che si può fare a meno di loro. È quello, ad esempio, che potrebbe succedere con il referendum previsto per il 22 con cui i lavoratori di Pomigliano dovranno esprimersi sull’accordo siglato ieri. Referendum non a caso considerato dalla Fiom irricevibile, così come il testo dell’intesa.
Se la proposta della Fiat, ha spiegato Enzo Masini, coordinatore nazionale Fiom-Cgil per il settore auto, «pone problemi seri di contrasto con la Costituzione», neanche il referendum va bene, perché «è basato sulla minaccia dei lavoratori che sono ricattati e a cui si chiede, in sostanza, se si vuole lavorare oppure no».
Ed è per questo che, come ha spiegato in mattinata il segretario nazionale Giorgio Cremaschi, la Fiom confermerà il suo no all’accordo anche se i lavoratori dovessero votare sì al referendum. «Se la consultazione», ha spiegato il sindacalista, «chiede di rinunciare al diritto di sciopero o ad alcune leggi sulla sicurezza, ai limiti di orario previsti dal contratto, diciamo no, quelle rinunce non sono a disposizione di un referendum di una singola fabbrica».
Tutt’altra, ovviamente, la posizione delle altre sigle, che hanno invece festeggiato l’intesa col Lingotto. «Abbiamo assicurato il lavoro a Pomigliano d’Arco e messo in sicurezza il progetto della Fiat per l’aumento della produzione di auto in Italia», ha rivendicato il leader della Fim-Cisl, Giuseppe Farina. Secondo il dirigente sindacale «non si può dire più lavoro e meno diritti perché non c’è nulla di anticostituzionale in questo accordo, ma solo alcune deroghe che esistono anche in altri posti di lavoro». Contento anche il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che definisce quello dell’azienda torinese «il primo grande investimento in Italia in tempo di crisi».
Guarda avanti, al prossimo passo verso il salvataggio di Pomigliano, il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella. «La Fiat ci ha detto che sbloccherà gli investimenti solo quando la stragrande maggioranza dei lavoratori dirà di sì all’accordo. La posta in gioco è alta e tutti devono saperlo», ha avvertito. Sul piatto c’è il trasferimento della produzione della nuova Panda nello stabilimento campano e investimenti per 700 milioni che garantiranno il mantenimento dei livelli occupazionali.
L’accordo è stato accolto con grande soddisfazione anche dal governo. A partire dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che ne ha evidenziato, con poche parole, le conseguenze sul futuro delle relazioni industriali: «È la rivincita dei riformisti su tutti gli altri».
Altrettanto netta la posizione del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. L’intesa «è straordinariamente importante perché la Fiat ha deciso di procedere ugualmente pensando che l’intesa fosse sottoscritta da organizzazioni che rappresentano la grande maggioranza dei lavoratori». Il ministro ha evidenziato quindi che «si va avanti», augurandosi che Fiom e Cgil «non vogliano ostacolare questo percorso che non riguarda solo la Fiat ma tutto il Mezzogiorno».
Ma l’approvazione più significativa, che decreta l’isolamento del sindacato oltranzista anche rispetto alla sinistra, è quella che arriva dal giuslavorista del Pd, Pietro Ichino, secondo il quale le disposizioni proposte dalla Fiat per il rilancio di Pomigliano «non violano la legge». Tutti i ricatti irricevibili di cui parla la Fiom, altro non sono, secondo il professore, che «un patto di tregua sindacale», che «è oggi considerato pacificamente valido e vincolante per il sindacato che lo stipula».
© Libero
Il copione è già visto. L’ala dura della Cgil punta i piedi, spara a zero, rifiuta il compromesso. Tanto ci sono gli altri a sporcarsi le mani. E’ il giochino del cosiddetto “accordo separato”, grazie al quale i lavoratori mantengono il posto, i contratti si rinnovano, le regole si riscrivono, le imprese vanno avanti. Mentre i metalmeccanici del sindacato guidato da Guglielmo Epifani continuano a restare tranquillamente sulle barricate, senza macchia.
Il rischio è che, prima o poi, qualcuno si accorgerà che si può fare a meno di loro. È quello, ad esempio, che potrebbe succedere con il referendum previsto per il 22 con cui i lavoratori di Pomigliano dovranno esprimersi sull’accordo siglato ieri. Referendum non a caso considerato dalla Fiom irricevibile, così come il testo dell’intesa.
Se la proposta della Fiat, ha spiegato Enzo Masini, coordinatore nazionale Fiom-Cgil per il settore auto, «pone problemi seri di contrasto con la Costituzione», neanche il referendum va bene, perché «è basato sulla minaccia dei lavoratori che sono ricattati e a cui si chiede, in sostanza, se si vuole lavorare oppure no».
Ed è per questo che, come ha spiegato in mattinata il segretario nazionale Giorgio Cremaschi, la Fiom confermerà il suo no all’accordo anche se i lavoratori dovessero votare sì al referendum. «Se la consultazione», ha spiegato il sindacalista, «chiede di rinunciare al diritto di sciopero o ad alcune leggi sulla sicurezza, ai limiti di orario previsti dal contratto, diciamo no, quelle rinunce non sono a disposizione di un referendum di una singola fabbrica».
Tutt’altra, ovviamente, la posizione delle altre sigle, che hanno invece festeggiato l’intesa col Lingotto. «Abbiamo assicurato il lavoro a Pomigliano d’Arco e messo in sicurezza il progetto della Fiat per l’aumento della produzione di auto in Italia», ha rivendicato il leader della Fim-Cisl, Giuseppe Farina. Secondo il dirigente sindacale «non si può dire più lavoro e meno diritti perché non c’è nulla di anticostituzionale in questo accordo, ma solo alcune deroghe che esistono anche in altri posti di lavoro». Contento anche il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che definisce quello dell’azienda torinese «il primo grande investimento in Italia in tempo di crisi».
Guarda avanti, al prossimo passo verso il salvataggio di Pomigliano, il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella. «La Fiat ci ha detto che sbloccherà gli investimenti solo quando la stragrande maggioranza dei lavoratori dirà di sì all’accordo. La posta in gioco è alta e tutti devono saperlo», ha avvertito. Sul piatto c’è il trasferimento della produzione della nuova Panda nello stabilimento campano e investimenti per 700 milioni che garantiranno il mantenimento dei livelli occupazionali.
L’accordo è stato accolto con grande soddisfazione anche dal governo. A partire dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che ne ha evidenziato, con poche parole, le conseguenze sul futuro delle relazioni industriali: «È la rivincita dei riformisti su tutti gli altri».
Altrettanto netta la posizione del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. L’intesa «è straordinariamente importante perché la Fiat ha deciso di procedere ugualmente pensando che l’intesa fosse sottoscritta da organizzazioni che rappresentano la grande maggioranza dei lavoratori». Il ministro ha evidenziato quindi che «si va avanti», augurandosi che Fiom e Cgil «non vogliano ostacolare questo percorso che non riguarda solo la Fiat ma tutto il Mezzogiorno».
Ma l’approvazione più significativa, che decreta l’isolamento del sindacato oltranzista anche rispetto alla sinistra, è quella che arriva dal giuslavorista del Pd, Pietro Ichino, secondo il quale le disposizioni proposte dalla Fiat per il rilancio di Pomigliano «non violano la legge». Tutti i ricatti irricevibili di cui parla la Fiom, altro non sono, secondo il professore, che «un patto di tregua sindacale», che «è oggi considerato pacificamente valido e vincolante per il sindacato che lo stipula».
© Libero
martedì 15 giugno 2010
La Fiom contro Pomigliano. Meglio la crisi dell’accordo
Se, come dice il leader della Uil, Luigi Angeletti, «l’accordo di Pomigliano costituisce una vicenda spartiacque nel sistema delle relazioni sindacali», appare chiaro che la Fiom-Cgil ha deciso di restare sul lato opposto. Sul lato della contrapposizione a oltranza, dell’isolamento e dell’antagonismo. La decisione è arrivata nel tardo pomeriggio. «Così com’è l’accordo non lo firmiamo». Questa la posizione votata all’unanimità dal comitato centrale della Fiom che sarà portata oggi al tavolo con la Fiat. La convocazione, secondo quanto risulta da fonti sindacali, è prevista per le ore 14 nella sede romana di Confindustria.
L’incontro dovrebbe servire per fare il punto sul tema della Commissione paritetica contenuto nella «clausola di raffreddamento» prevista nell’accordo separato condiviso venerdì scorso tra il Lingotto e Fim-Cisl, Uilm, Fismic e Ugl.
I margini di trattativa con la Fiom sembrano, allo stato, inesistenti. Secondo il segretario generale, Maurizio Landini, non solo il testo non può essere firmato, ma non puù neanche essere sottoposto a referendum perché «contiene profili di illegittimità» sia rispetto al contratto nazionale sia rispetto alla stessa Costituzione.
In ballo c’è il futuro degli impianti di Pomigliano e delle 5mila persone che ci lavorano. Secondo le intenzioni della Fiat, lo stabilimento napoletano (ex Alfa sud) dovrebbe produrre dal prossimo anno la nuova Panda, che verrebbe trasferita dalla Polonia, con un deciso incremento della capacità produttiva, dell’utilizzo degli impianti e dei livelli occupazionali.
L’accordo respinto
Per procedere nella ristrutturazione, con un investimento di 700 milioni, l’ad Sergio Marchionne ha chiesto una modifica sostanziale del modello organizzativo, a partire da orari e turnazioni. Organizzato attualmente su due turni giornalieri per cinque giorni settimanali, Pomigliano dovrebbe passare a 18 turni settimanali: tre turni giornalieri per sei giorni compreso il sabato notte.
Secondo la Fiom il tutto sarebbe tranquillamente fattibile applicando il contratto di lavoro, «che permette all’azienda di produrre le 280mila auto all’anno e le 1.045 al giorno che sono gli obiettivi del piano che Marchionne vuole fare». Se l’azienda applicherà semplicemente il contratto nazionale, ha detto Landini, «la Fiom non metterà in campo alcuna opposizione».
Così non è, però, secondo i duri della Cgil, che minacciano di accodarsi, raddoppiando le ore, allo sciopero generale proclamato dalla Confederazione per il 25 giugno. In particolare il sindacato dei metalmeccanici considera inaccettabili le parti dell’accordo relative alle «clausole integrative del contratto individuale di lavoro».
Testo illegittimo
Si tratta di norme con cui il Lingotto ha cercato di stringere le maglie dei rapporti tra lavoratori e azienda per evitare brutte sorprese. Nel testo, ad esempio, si prevede che «la violazione, da parte del singolo lavoratore, di una delle condizioni contenute nell’accordo costituisce infrazione disciplinare da sanzionare, secondo gradualità, in base agli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari e ai licenziamenti per mancanze».
Nel mirino anche la clausola sull’assenteismo anomalo: in caso di picchi di assenze per malattia collegati a scioperi, manifestazioni esterne, «messa in libertà» per cause di forza maggiore o mancanza di fornitura, l’azienda si riserva di non retribuire i primi tre giorni.
Nulla che abbia fatto strappare i capelli agli altri quattro sindacati, che anzi considerano molto scorrette le posizioni dei colleghi dei metalmeccanici della Cgil. «Quanti pensano che l’accordo di Pomigliano sia illegittimo, e rappresenti una sorta di ricatto, offendono il ruolo della contrattazione sindacale centrate sul principio di responsabilità per il lavoro, la crescita, e lo sviluppo», ha sottolineato il segretario confederale della Cisl, Luigi Sbarra.
Resta da capire, ora, quali potrebbero essere i contraccolpi della linea oltranzista adottata dalla Fiom. Nei giorni scorsi si diceva che Marchionne si sarebbe accontentato di quattro firme su cinque. E anche il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ieri mattina parlava di un accordo praticamente «già fatto». In serata, però, dallo stesso responsabile del Welfare così come dai sindacati, dalla Confindustria e persino dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, si sono moltiplicati gli appelli alla Fiom affinché torni sui suoi passi.
Strappo a sinistra
In attesa dell’incontro di oggi con l’azienda la tensione comunque cresce. La decisione ha anche innescato dinamiche di contrapposizioni inedite all’interno della sinistra. Da una parte c’è una frattura sotterranea nella stessa confederazione tra Fiom e Cgil, con la seconda che fa sapere alla prima che «il lavoro e l’occupazione sono il primo punto di responsabilità» per un giudizio sul futuro di Pomigliano. Dall’altra c’è la sinistra radicale che oltre ad attaccare la Fiat e il governo se la prende anche con il Pd, accusando Pierluigi Bersani di eccessiva debolezza. La posizione del partito è in effetti molto simile a quella della Cgil. Come ha spiegato il responsabile economico Stefano Fassina, pur riconoscendo che «nel documento della Fiat ci sono dei punti molto pesanti sui diritti fondamentali», «è evidente che non siamo nelle condizioni di perdere gli investimenti prospettati dalla Fiat a Pomigliano d’Arco».
© Libero
L’incontro dovrebbe servire per fare il punto sul tema della Commissione paritetica contenuto nella «clausola di raffreddamento» prevista nell’accordo separato condiviso venerdì scorso tra il Lingotto e Fim-Cisl, Uilm, Fismic e Ugl.
I margini di trattativa con la Fiom sembrano, allo stato, inesistenti. Secondo il segretario generale, Maurizio Landini, non solo il testo non può essere firmato, ma non puù neanche essere sottoposto a referendum perché «contiene profili di illegittimità» sia rispetto al contratto nazionale sia rispetto alla stessa Costituzione.
In ballo c’è il futuro degli impianti di Pomigliano e delle 5mila persone che ci lavorano. Secondo le intenzioni della Fiat, lo stabilimento napoletano (ex Alfa sud) dovrebbe produrre dal prossimo anno la nuova Panda, che verrebbe trasferita dalla Polonia, con un deciso incremento della capacità produttiva, dell’utilizzo degli impianti e dei livelli occupazionali.
L’accordo respinto
Per procedere nella ristrutturazione, con un investimento di 700 milioni, l’ad Sergio Marchionne ha chiesto una modifica sostanziale del modello organizzativo, a partire da orari e turnazioni. Organizzato attualmente su due turni giornalieri per cinque giorni settimanali, Pomigliano dovrebbe passare a 18 turni settimanali: tre turni giornalieri per sei giorni compreso il sabato notte.
Secondo la Fiom il tutto sarebbe tranquillamente fattibile applicando il contratto di lavoro, «che permette all’azienda di produrre le 280mila auto all’anno e le 1.045 al giorno che sono gli obiettivi del piano che Marchionne vuole fare». Se l’azienda applicherà semplicemente il contratto nazionale, ha detto Landini, «la Fiom non metterà in campo alcuna opposizione».
Così non è, però, secondo i duri della Cgil, che minacciano di accodarsi, raddoppiando le ore, allo sciopero generale proclamato dalla Confederazione per il 25 giugno. In particolare il sindacato dei metalmeccanici considera inaccettabili le parti dell’accordo relative alle «clausole integrative del contratto individuale di lavoro».
Testo illegittimo
Si tratta di norme con cui il Lingotto ha cercato di stringere le maglie dei rapporti tra lavoratori e azienda per evitare brutte sorprese. Nel testo, ad esempio, si prevede che «la violazione, da parte del singolo lavoratore, di una delle condizioni contenute nell’accordo costituisce infrazione disciplinare da sanzionare, secondo gradualità, in base agli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari e ai licenziamenti per mancanze».
Nel mirino anche la clausola sull’assenteismo anomalo: in caso di picchi di assenze per malattia collegati a scioperi, manifestazioni esterne, «messa in libertà» per cause di forza maggiore o mancanza di fornitura, l’azienda si riserva di non retribuire i primi tre giorni.
Nulla che abbia fatto strappare i capelli agli altri quattro sindacati, che anzi considerano molto scorrette le posizioni dei colleghi dei metalmeccanici della Cgil. «Quanti pensano che l’accordo di Pomigliano sia illegittimo, e rappresenti una sorta di ricatto, offendono il ruolo della contrattazione sindacale centrate sul principio di responsabilità per il lavoro, la crescita, e lo sviluppo», ha sottolineato il segretario confederale della Cisl, Luigi Sbarra.
Resta da capire, ora, quali potrebbero essere i contraccolpi della linea oltranzista adottata dalla Fiom. Nei giorni scorsi si diceva che Marchionne si sarebbe accontentato di quattro firme su cinque. E anche il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ieri mattina parlava di un accordo praticamente «già fatto». In serata, però, dallo stesso responsabile del Welfare così come dai sindacati, dalla Confindustria e persino dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, si sono moltiplicati gli appelli alla Fiom affinché torni sui suoi passi.
Strappo a sinistra
In attesa dell’incontro di oggi con l’azienda la tensione comunque cresce. La decisione ha anche innescato dinamiche di contrapposizioni inedite all’interno della sinistra. Da una parte c’è una frattura sotterranea nella stessa confederazione tra Fiom e Cgil, con la seconda che fa sapere alla prima che «il lavoro e l’occupazione sono il primo punto di responsabilità» per un giudizio sul futuro di Pomigliano. Dall’altra c’è la sinistra radicale che oltre ad attaccare la Fiat e il governo se la prende anche con il Pd, accusando Pierluigi Bersani di eccessiva debolezza. La posizione del partito è in effetti molto simile a quella della Cgil. Come ha spiegato il responsabile economico Stefano Fassina, pur riconoscendo che «nel documento della Fiat ci sono dei punti molto pesanti sui diritti fondamentali», «è evidente che non siamo nelle condizioni di perdere gli investimenti prospettati dalla Fiat a Pomigliano d’Arco».
© Libero
Etichette:
Cgil,
crisi,
disoccupazione,
Fiat,
Fiom,
Marchionne,
Sacconi
lunedì 14 giugno 2010
Un pensionato su 4 ha l’età di Fiorello
Altro che scaloni e scalini. Un italiano su quattro va in pensione tra i 40 e i 64 anni. E di questi oltre il 25% lo fa avendo maturato i requisiti di anzianità contributiva o di vecchiaia. A fotografare la realtà del Paese, al di là delle chiacchiere e delle polemiche, ci ha pensato ieri l’Istat, che ha diffuso i dati sui trattamenti pensionistici al 31 dicembre 2008. Il primo numero che balza agli occhi è quello dell’importo complessivo annuo delle prestazioni, che ammonta a 241 miliardi, il 15,38% del Prodotto interno lordo. Una spesa che rispetto al 2007 è aumentata del 3,5%.
All’interno c’è sia la previdenza sia l’assistenza. E c’è anche il capitolo su cui Giulio tremonti ha puntato il dito nella manovra correttiva: le pensioni d’invalidità e di invalidità civile. Complessivamente si tratta dell’11% dell’intera torta, qualcosa come 26,5 milioni di euro. È da queste parti, in particolare sull’invalidità civile, che l’Istat registra gli aumenti maggiori (+6,5%), un incremento dovuto alla crescita delle prestazioni più che alla variazione del loro importo medio.
Il piano straordinario dell’Inps, che ha annunciato 200mila accertamenti, sarà finalizzato proprio a verificare la sussistenza dei requisiti per i titolari dei benefici economici per l’invalidità civile.
Le baby pensioni
Non ci sono truffe, invece, ma solo norme vigenti, dietro l’esercito dei baby pensionati. Dall’analisi dell’Istat sui numeri forniti dall’Inps emerge che addirittura il 26,6% dei pensionati ha un’eta compresa tra i 40 e i 64 anni. L’asticella al di sotto dei 65 anni, spiega l’Istituto di statistiche, «è associata al tipo di norme che regolano l’accesso ai differenti tipi di prestazione». In particolare a quelle erogate a soggetti in età attiva, «come le rendite per infortunio sul lavoro o le pensioni di invalidità». In realtà, guardando i dati disaggregati si scopre che nella fascia tra i 40 e i 64 anni c’è un 25,8% di soggetti che incassa pensioni di vecchiaia e di anzianità. In altre parole, tanto per fare un esempio che tutti conoscono, un italiano su quattro, arrivato più o meno all’età di Fiorello, si piazza sulla poltrona e finisce a carico dei contribuenti.
Detto questo non è che gli italiani navighino nell’oro grazie alle pensioni. Il 71,9% delle pensioni nel 2008 non ha superato i 1.000 euro mensili. Il 45,9% ha importi inferiori a 500 euro e il 26% sta tra i 500 e mille euro. Solo il 27,4% del totale riceve trattamenti previdenziali mensili superiori ai 1.500 euro. Per le pensionate l’assegno è anche più leggero, addirittura del 30,5% inferiore rispetto ai lavoratori maschi a risposo.
«Abbiamo dato il bicchiere d’acqua a tutti, ma non abbiamo tolto la sete a chi ne ha veramente bisogno», ha commentato il segretario della Cgia di Mestre Giuseppe Bortolussi. «Purtroppo i nostri pensionati ricevono assegni molto modesti», ha detto, «ma nel compenso il nostro Paese ha una spesa complessiva per la previdenza che è la più alta d’Europa. Indubbiamente c’è qualcosa che non va».
Riscrivere i patti
La sensazione, se non si arriverà presto ad un accordo per aumentare l’età pensionabile e rendere sostenibile il sistema, è che quelle cifre al di sotto dei mille euro siano destinate ad assottigliarsi ancora di più. «Una buona riforma delle pensioni è fuori dall'agenda politica», ha detto ieri la presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria, Federica Guidi, secondo cui «la nostra spesa per la protezione sociale è tutta accentrata sul sistema previdenziale» disegnando una «iniquità generazionale».
Occorre, quindi, «traguardare la riforma delle pensioni per rimettere al centro del nostro welfare un banale principio di giustizia distributiva fra generazioni. I patti si possono riscrivere».
La decisione sulle donne del pubblico impiego, secondo il ministro della Funzione pubblica, «ha dimostrato che cambiare è possibile ed è relativamente facile». Sembra molto meno aperto alle novità il collega Maurizio Sacconi. «La riforma delle pensioni? L’abbiamo già fatta», ha risposto secco il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali.
© Libero
All’interno c’è sia la previdenza sia l’assistenza. E c’è anche il capitolo su cui Giulio tremonti ha puntato il dito nella manovra correttiva: le pensioni d’invalidità e di invalidità civile. Complessivamente si tratta dell’11% dell’intera torta, qualcosa come 26,5 milioni di euro. È da queste parti, in particolare sull’invalidità civile, che l’Istat registra gli aumenti maggiori (+6,5%), un incremento dovuto alla crescita delle prestazioni più che alla variazione del loro importo medio.
Il piano straordinario dell’Inps, che ha annunciato 200mila accertamenti, sarà finalizzato proprio a verificare la sussistenza dei requisiti per i titolari dei benefici economici per l’invalidità civile.
Le baby pensioni
Non ci sono truffe, invece, ma solo norme vigenti, dietro l’esercito dei baby pensionati. Dall’analisi dell’Istat sui numeri forniti dall’Inps emerge che addirittura il 26,6% dei pensionati ha un’eta compresa tra i 40 e i 64 anni. L’asticella al di sotto dei 65 anni, spiega l’Istituto di statistiche, «è associata al tipo di norme che regolano l’accesso ai differenti tipi di prestazione». In particolare a quelle erogate a soggetti in età attiva, «come le rendite per infortunio sul lavoro o le pensioni di invalidità». In realtà, guardando i dati disaggregati si scopre che nella fascia tra i 40 e i 64 anni c’è un 25,8% di soggetti che incassa pensioni di vecchiaia e di anzianità. In altre parole, tanto per fare un esempio che tutti conoscono, un italiano su quattro, arrivato più o meno all’età di Fiorello, si piazza sulla poltrona e finisce a carico dei contribuenti.
Detto questo non è che gli italiani navighino nell’oro grazie alle pensioni. Il 71,9% delle pensioni nel 2008 non ha superato i 1.000 euro mensili. Il 45,9% ha importi inferiori a 500 euro e il 26% sta tra i 500 e mille euro. Solo il 27,4% del totale riceve trattamenti previdenziali mensili superiori ai 1.500 euro. Per le pensionate l’assegno è anche più leggero, addirittura del 30,5% inferiore rispetto ai lavoratori maschi a risposo.
«Abbiamo dato il bicchiere d’acqua a tutti, ma non abbiamo tolto la sete a chi ne ha veramente bisogno», ha commentato il segretario della Cgia di Mestre Giuseppe Bortolussi. «Purtroppo i nostri pensionati ricevono assegni molto modesti», ha detto, «ma nel compenso il nostro Paese ha una spesa complessiva per la previdenza che è la più alta d’Europa. Indubbiamente c’è qualcosa che non va».
Riscrivere i patti
La sensazione, se non si arriverà presto ad un accordo per aumentare l’età pensionabile e rendere sostenibile il sistema, è che quelle cifre al di sotto dei mille euro siano destinate ad assottigliarsi ancora di più. «Una buona riforma delle pensioni è fuori dall'agenda politica», ha detto ieri la presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria, Federica Guidi, secondo cui «la nostra spesa per la protezione sociale è tutta accentrata sul sistema previdenziale» disegnando una «iniquità generazionale».
Occorre, quindi, «traguardare la riforma delle pensioni per rimettere al centro del nostro welfare un banale principio di giustizia distributiva fra generazioni. I patti si possono riscrivere».
La decisione sulle donne del pubblico impiego, secondo il ministro della Funzione pubblica, «ha dimostrato che cambiare è possibile ed è relativamente facile». Sembra molto meno aperto alle novità il collega Maurizio Sacconi. «La riforma delle pensioni? L’abbiamo già fatta», ha risposto secco il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali.
© Libero
venerdì 11 giugno 2010
Parte l’assalto alla manovra, ma Tremonti tira dritto
Le proteste delle categorie, in confronto, sono poca cosa. Ieri la manovra ha affrontato il primo giro di esami veri, sia tecnici sia politici. E i voti non sono probabilmente quelli che Giulio Tremonti si aspettava. La bocciatura più dura, e anche più carica di insidie, è quella arrivata dalle regioni. Il dissenso uscito dall’incontro tra i governatori e il ministro dell’Economia è netto e bipartisan. Ad offrire la sintesi è il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, che ha parlato di «tagli del tutto sproporzionati, di manovra irricevibile e di distanza grandissima col governo». Ma il giudizio è condiviso da tutti, anche dai fedelissimi di centrodestra. A partire dal governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, secondo il quale «la manovra spazza via il federalismo fiscale» e crea addirittura «una situazione di emergenza nazionale».
L’unico che ha tentato di non togliere il sostegno al governo è stato Luca Zaia. Il presidente del Veneto, pur definendo «la situazione preoccupante e critica», ha detto di non vedere «rischi per il federalismo».
I saldi non si toccano
La Conferenza delle regioni si riunirà nuovamente in una conferenza straordinaria martedì. Nel frattempo si aprirà un tavolo col governo. Gli spazi di manovra appaiono comunque strettissimi. Tremonti promette «un patto», ma sui saldi è irremovibile: «Crediamo che ci sia margine e spazio per riduzioni fattibili e sostenibili della spesa delle regioni». Il ministro si è detto aperto a «proposte e a ipotesi di studi e suggerimenti», visto che le regioni hanno chiesto la possibilità «di formulare tagli alternativi su altri comparti». Ma, ha precisato, «non possono essere modificati saldi e soldi». Anche perché, ha polemizzato il ministro «le Regioni fanno missioni e hanno sedi all’estero, c’è chi si fa i grattacieli, vediamo se riusciamo ad incidere su questo santuario».
Effetto depressivo
A criticare la manovra non ci sono però solo i governatori. Di impatto «depressivo» sulla ripresa ieri hanno parlato anche Bankitalia e Corte dei Conti durante le audizioni in commissione Bilancio del Senato. Secondo Via Nazionale «a parità di tutte le altre condizioni nel biennio 2011-2012 la manovra potrebbe cumulativamente ridurre la crescita del Pil di poco più di mezzo punto percentuale attraverso una compressione dei consumi e degli investimenti». Questo determinerebbe un «maggior disavanzo nel 2012 valutabile in poco meno di 0,3 punti percentuali che porterebbe il saldo di quell’anno a circa il 3% del Pil». Risultato: potrebbero «essere necessari ulteriori interventi qualora si presentasse uno scenario più sfavorevole». Oltretutto »nella seconda metà dell'anno la crescita del prodotto potrebbe indebolirsi». Bankitalia ha poi espresso dubbi sulle stime del gettito derivante dalla lotta all’evasione, che «presentano molti elementi di incertezza». Analisi condivisa anche dall’Agenzia delle Entrate.
L’allarme sulla crescita è stato invece rilanciato dalla magistratura contabile, secondo la quale «l’effetto della manovra 2011-2012 sarà come primo impatto di segno restrittivo».
Via le province
Perplessità sono poi arrivate dai tecnici di Palazzo Madama, che hanno chiesto chiarimenti in particolare contro gli «elementi di aleatorietà» di alcune delle misure sulla lotta all’evasione. Preoccupata sulla crescita è infine anche la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che ritiene «insufficienti» le misure di stimolo alla ripresa economica. Inoltre, ha detto, »colpisce che così poco venga fatto per quanto riguarda i costi della politica e che siano stati, ad esempio, totalmente rinviati le riflessione e gli interventi sulle province». Su quest’ultime sembrano pronti a dare battaglia in Parlamento i finiani. «La cronistoria della non abolizione delle province è ormai conosciuta da tutti e di certo la classe politica italiana, e in particolare il Pdl, non sta facendo una bella figura», ha scritto Italo Bocchino, vice presidente dei deputati Pdl, sul sito della creatura di Fini, Generazione Italia.
© Libero
L’unico che ha tentato di non togliere il sostegno al governo è stato Luca Zaia. Il presidente del Veneto, pur definendo «la situazione preoccupante e critica», ha detto di non vedere «rischi per il federalismo».
I saldi non si toccano
La Conferenza delle regioni si riunirà nuovamente in una conferenza straordinaria martedì. Nel frattempo si aprirà un tavolo col governo. Gli spazi di manovra appaiono comunque strettissimi. Tremonti promette «un patto», ma sui saldi è irremovibile: «Crediamo che ci sia margine e spazio per riduzioni fattibili e sostenibili della spesa delle regioni». Il ministro si è detto aperto a «proposte e a ipotesi di studi e suggerimenti», visto che le regioni hanno chiesto la possibilità «di formulare tagli alternativi su altri comparti». Ma, ha precisato, «non possono essere modificati saldi e soldi». Anche perché, ha polemizzato il ministro «le Regioni fanno missioni e hanno sedi all’estero, c’è chi si fa i grattacieli, vediamo se riusciamo ad incidere su questo santuario».
Effetto depressivo
A criticare la manovra non ci sono però solo i governatori. Di impatto «depressivo» sulla ripresa ieri hanno parlato anche Bankitalia e Corte dei Conti durante le audizioni in commissione Bilancio del Senato. Secondo Via Nazionale «a parità di tutte le altre condizioni nel biennio 2011-2012 la manovra potrebbe cumulativamente ridurre la crescita del Pil di poco più di mezzo punto percentuale attraverso una compressione dei consumi e degli investimenti». Questo determinerebbe un «maggior disavanzo nel 2012 valutabile in poco meno di 0,3 punti percentuali che porterebbe il saldo di quell’anno a circa il 3% del Pil». Risultato: potrebbero «essere necessari ulteriori interventi qualora si presentasse uno scenario più sfavorevole». Oltretutto »nella seconda metà dell'anno la crescita del prodotto potrebbe indebolirsi». Bankitalia ha poi espresso dubbi sulle stime del gettito derivante dalla lotta all’evasione, che «presentano molti elementi di incertezza». Analisi condivisa anche dall’Agenzia delle Entrate.
L’allarme sulla crescita è stato invece rilanciato dalla magistratura contabile, secondo la quale «l’effetto della manovra 2011-2012 sarà come primo impatto di segno restrittivo».
Via le province
Perplessità sono poi arrivate dai tecnici di Palazzo Madama, che hanno chiesto chiarimenti in particolare contro gli «elementi di aleatorietà» di alcune delle misure sulla lotta all’evasione. Preoccupata sulla crescita è infine anche la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che ritiene «insufficienti» le misure di stimolo alla ripresa economica. Inoltre, ha detto, »colpisce che così poco venga fatto per quanto riguarda i costi della politica e che siano stati, ad esempio, totalmente rinviati le riflessione e gli interventi sulle province». Su quest’ultime sembrano pronti a dare battaglia in Parlamento i finiani. «La cronistoria della non abolizione delle province è ormai conosciuta da tutti e di certo la classe politica italiana, e in particolare il Pdl, non sta facendo una bella figura», ha scritto Italo Bocchino, vice presidente dei deputati Pdl, sul sito della creatura di Fini, Generazione Italia.
© Libero
Etichette:
Bankitalia,
federalismo,
Formigoni,
manovra,
Marcegaglia,
regioni,
Tremonti
giovedì 10 giugno 2010
I deputati romani prendono i soldi... per stare a Roma
È una delle voci che dovrebbe finire nel mirino della sforbiciata annunciata da Gianfranco Fini e Renato Schifani. Ma per ora se ne sta lì, in tutta la sua assurda incomprensibilità. Si tratta dei 4.003.11 euro al mese netti che ogni parlamentare percepisce per le spese di soggiorno a Roma. Si tratta della famosa diaria. Una delle tante indennità a prezzo fisso che deputati e senatori percepiscono sempre e comunque, anche se a Roma ci abitano, ci vivono, ci sono nati. Come sicuramente capita a molti dei 200 parlamentari cresciuti nella Capitale. L’unico intoppo riguarda le votazioni. Puoi essere nato a Cuneo, a Roma o a Città del Capo, la diaria ti arriva comunque purché ogni tanto ti presenti in Aula a votare. Non sempre, intendiamoci. Basta partecipare al 30% delle votazioni effettuate nell’arco di una giornata per essere considerato presente. Nel caso contrario, l’indennità verrà decurtata di 206,58 euro (a Montecitorio) o di 258,33 euro (a Palazzo Madama). E così per ogni giorno di assenza.
Un piccolo fastidio, che però, stando ai numeri, non sembra così assillante, né così incisivo per le tasche dei parlamentari. Sfogliando i bilanci della Camera si scopre infatti che sul totale dei 30.290.000 euro stanziati per l’ammontare delle diarie da erogare ai 630 deputati, l’effettiva spesa di Montecitorio nel 2008 è stata di 30.267.514. Stesso discorso per Palazzo Madama dove a fronte dei 15.600.000 euro per i 315 senatori più 7 a vita ne sono stati spesi, sempre nel 2008, 15.472.020.
Mancano all’appello 22.486 euro da una parte e 127.979 dall’altra, presumibilmente il frutto delle decurtazioni operate dei severi questori della Camera sui poveri parlamentari. Se così fosse, però, dovremmo vedere ad ogni votazione l’Aula stracolma di persone intente ad esprimere voto su voto, anche sulle questioni più insignificanti o sulle mozioni più sciocche.
In realtà, come ben sanno tutti coloro che frequentano le sale di Montecitorio, ma anche chi di tanto in tanto si guarda una diretta sulla Rai o quei pochi masochisti che seguono con assiduità i canali dedicati sul satellite, la maggior parte delle volte i banchi sono semivuoti.
Chi si è preso la briga di monitorare la situazione ha verificato che in media, tranne le giornate più calde, tra i banchi mancano almeno un centinaio di deputati e lo stesso numero dei senatori. Certo, bisogna considerare le missioni, le malattie, gli impegni di governo e chissà quali altre diavolerie che giustificano le assenze di alcuni parlamentari.
Ma i conti non tornano comunque. Prendendo a riferimento la Camera, la somma tagliata alle indennità di soggiorno dei deputati si ferma sullo 0,7% della somma complessiva. La percentuale dovrebbe avere una qualche corrispondenza con il tasso di assenteismo, altrimenti significa che voto o non voto, la diaria arriva comunque. La trasparenza del sito della Camera, dove abbondano i numeri e le statistiche, ci aiuta ad infittire un altro po’ il giallo. Si scopre infatti che il totale delle presenze dell’Idv, considerando anche le missioni, non supera il 77%. Arriva al 73% la percentuale del gruppo misto e al 75% quella dell’udc. C’è poi l’84% del Pd, l’86% del Pdl e il record della Lega con il 92,7%. Stando a questi numeri il tasso di presenze più missioni, persino quello del Carroccio, è ben al di sotto di quel 99% che risulta dalle decurtazioni effettuate.
Il meccanismo perverso dovrà prima o poi essere cambiato. La cosa bizzarra è che facendo due calcoli si scopre che la soluzione sarebbe a portata di mano, con soddisfazione di tutti e risparmi notevoli per le amministrazioni. Se moltiplichiamo gli oltre 30 milioni di euro che Montecitorio sborsa ogni anno per la diaria arriviamo a 151 milioni. Nell’arco di 4 legislature, che corrisppondono ai classici 20 anni dei mutui immobiliari, i milioni sarebbero 605mila. Se li dividiamo per i 630 deputati otteniamo poco meno di un milione di euro a testa. Non bisogna essere esperti del mercato delle case per sapere che con quella cifra si può comprare un ottimo appartamento in centro.
Ebbene, romani e non romani, a questo punto la Camera poteva offrire case a tutti, investendo denaro in beni che si rivalutano e portano ricchezza. Certo, il parlamentare non si potrà più pagare le vacanze al mare coi soldi dei contribuenti. Ma siamo sicuri che sopravviverebbero anche a questo.
© Libero
Un piccolo fastidio, che però, stando ai numeri, non sembra così assillante, né così incisivo per le tasche dei parlamentari. Sfogliando i bilanci della Camera si scopre infatti che sul totale dei 30.290.000 euro stanziati per l’ammontare delle diarie da erogare ai 630 deputati, l’effettiva spesa di Montecitorio nel 2008 è stata di 30.267.514. Stesso discorso per Palazzo Madama dove a fronte dei 15.600.000 euro per i 315 senatori più 7 a vita ne sono stati spesi, sempre nel 2008, 15.472.020.
Mancano all’appello 22.486 euro da una parte e 127.979 dall’altra, presumibilmente il frutto delle decurtazioni operate dei severi questori della Camera sui poveri parlamentari. Se così fosse, però, dovremmo vedere ad ogni votazione l’Aula stracolma di persone intente ad esprimere voto su voto, anche sulle questioni più insignificanti o sulle mozioni più sciocche.
In realtà, come ben sanno tutti coloro che frequentano le sale di Montecitorio, ma anche chi di tanto in tanto si guarda una diretta sulla Rai o quei pochi masochisti che seguono con assiduità i canali dedicati sul satellite, la maggior parte delle volte i banchi sono semivuoti.
Chi si è preso la briga di monitorare la situazione ha verificato che in media, tranne le giornate più calde, tra i banchi mancano almeno un centinaio di deputati e lo stesso numero dei senatori. Certo, bisogna considerare le missioni, le malattie, gli impegni di governo e chissà quali altre diavolerie che giustificano le assenze di alcuni parlamentari.
Ma i conti non tornano comunque. Prendendo a riferimento la Camera, la somma tagliata alle indennità di soggiorno dei deputati si ferma sullo 0,7% della somma complessiva. La percentuale dovrebbe avere una qualche corrispondenza con il tasso di assenteismo, altrimenti significa che voto o non voto, la diaria arriva comunque. La trasparenza del sito della Camera, dove abbondano i numeri e le statistiche, ci aiuta ad infittire un altro po’ il giallo. Si scopre infatti che il totale delle presenze dell’Idv, considerando anche le missioni, non supera il 77%. Arriva al 73% la percentuale del gruppo misto e al 75% quella dell’udc. C’è poi l’84% del Pd, l’86% del Pdl e il record della Lega con il 92,7%. Stando a questi numeri il tasso di presenze più missioni, persino quello del Carroccio, è ben al di sotto di quel 99% che risulta dalle decurtazioni effettuate.
Il meccanismo perverso dovrà prima o poi essere cambiato. La cosa bizzarra è che facendo due calcoli si scopre che la soluzione sarebbe a portata di mano, con soddisfazione di tutti e risparmi notevoli per le amministrazioni. Se moltiplichiamo gli oltre 30 milioni di euro che Montecitorio sborsa ogni anno per la diaria arriviamo a 151 milioni. Nell’arco di 4 legislature, che corrisppondono ai classici 20 anni dei mutui immobiliari, i milioni sarebbero 605mila. Se li dividiamo per i 630 deputati otteniamo poco meno di un milione di euro a testa. Non bisogna essere esperti del mercato delle case per sapere che con quella cifra si può comprare un ottimo appartamento in centro.
Ebbene, romani e non romani, a questo punto la Camera poteva offrire case a tutti, investendo denaro in beni che si rivalutano e portano ricchezza. Certo, il parlamentare non si potrà più pagare le vacanze al mare coi soldi dei contribuenti. Ma siamo sicuri che sopravviverebbero anche a questo.
© Libero
Etichette:
Camera,
casta,
costi,
Fini,
Montecitorio,
Parlamento,
Schifani,
sprechi
La manovra rende uguali lavoratori statali e privati
La notizia non andrà giù facilmente agli statali. Soprattutto a quelli che si preparano a scendere in piazza contro le misure messe in campo dal governo per contenere la spesa pubblica. Stando alle stime elaborate dall’Aran, che è l’agenzia che si occupa di stipulare i contratti di tutta la Pa, il blocco degli aumenti contrattuali non provocherà sfaceli, né situazioni di profonda e inaccettabile ingiustizia sociale.
Più semplicemente, riallineerà la dinamica degli stipendi pubblici a quella dei privati. I numeri sono chiari. Esclusi i dirigenti e i magistrati (il che significa che il dato è sottodimensionato) le buste paga degli statali dal 2000 al 2008 sono cresciute del 39,7%, in pratica il doppio del tasso di inflazione effettivo, che si è attestato al 20,9%. La percentuale, per l’esattezza, si riferisce alla dinamica retributiva procapite di fatto. Fotografa, insomma, la corsa reale degli stipendi. Ebbene, nello stesso periodo il settore privato non è andato oltre, in media, al 25,7%.
Che la velocità degli aumenti nel pubblico impiego negli ultimi anni sia stata di gran lunga superiore a quella riscontrata dai colleghi che non lavorano per lo Stato non è una grande novità. Come spiega anche il commissario straordinario dell’Aran, Antonio Naddeo, «i dati sono stati già pubblicati nei precedenti bollettini semestrali dell’agenzia e sono basati sulla contabilità nazionale dell’Istat».
Tutta nuova è però la valutazione degli effetti della manovra. «Il blocco dei contratti», continua Naddeo, «realizzerà, insieme alle altre misure, una sostanziale parità delle curve di crescita retributiva tra pubblico e privato nel 2013».
Insomma, malgrado i sacrifici, la partita per gli statali finirà in pareggio. Non si può dire lo stesso per i conti pubblici. L’Aran ha fatto due calcoli e ha verificato, prendendo come punto di riferimento il parametro di crescita retributiva concordato con le parti sociali, la fetta di spese che non andrà ad incidere sui bilanci dei prossimi anni. Il risparmio per il Tesoro sarà tutt’altro che irrilevante: il congelamento triennale degli incrementi automatici e dei rinnovi porterà nelle casse dello Stato dai 6,5 ai 7 miliardi in più. Già dal primo anno di applicazione le minori spese saranno nell’ordine dei 5,7 miliardi. In altre parole, circa la metà della finanziaria per il 2011.
E risparmi vengono annunciati anche per l’ulteriore stretta agli stipendi dei supermanager di Stato che sarà oggi sul tavolo del Consiglio dei ministri. Nessun taglio che non fosse già previsto dalla finanziaria di Prodi del 2008. Il provvedimento in questione è infatti il regolamento attuativo della norma in base alla quale gli stipendi dei vertici delle società pubblica non possono superare la retribuzione del primo presidente della Corte di Cassazione (circa 274mila euro lordi l’anno). Ma le nuove norme permetteranno di scovare i furbetti. Finora infatti, come si legge nella relazione illustrativa, «sono emersi numerosi profili di criticità legati alla corretta applicazione della normativa». Per questo il regolamento stabilisce l’obbligo per il dipartimento della Funzione pubblica di monitorare gli incarichi di «chiunque percepisca retribuzioni o emolumenti nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo, direttamente o indirettamente a carico delle pubbliche finanze, con le amministrazioni dello stato, le agenzie, gli enti pubblici economici e non economici, gli enti di ricerca, le università, le società non quotate a totale o prevalente partecipazione pubblica e le loro controllate». Si tratta di un controllo che va anche dal di là del perimetro soggetto al tetto da cui il governo si aspetta comunque di portare a casa «evidenti risparmi di spesa», per quanto ancora non quantificabili. Restano fuori dal “contenimento” dello stipendio le authority e tutti gli incarichi speciali ai sensi dell’articolo 2389 del codice civile. Si tratta, tanto per fare qualche esempio, dei contratti dei vertici della Rai o delle Fs.
E a Palazzo Chigi oggi arriverà anche il provvedimento imposto dalla Ue per equiparare l’età pensionabile delle statali a quella degli uomini. Si va verso uno scalone unico, che comporterà risparmi complessivi per 1,45 miliardi. In più, per le 32mila donne che subiranno l’innalzamento secco da 61 a 65 anni, a partire dal 2012, non ci sarà alcuna deroga sulle finestre .
Una sorpresa sul pubblico impiego è infine arrivata dalla Cgia di Mestre. L’associazione ha calcolato che tra il 2001 e il 2008 l’Emilia Romagna, il Friuli, le Marche ed il Veneto sono le Regioni che hanno registrato le variazioni di crescita del personale pubblico a tempo indeterminato più elevate. Per contro, tutte le Regioni del Sud subiscono una netta contrazione dei lavoratori occupati nel pubblico impiego. Nonostante la crescita sia stata più marcata a Nordest, la distribuzione degli statali resta comunque concentrata tra le regioni a statuto speciale, il Lazio e il Sud. In termini assoluti, però, e la cosa non piacera alla Lega, è la Lombardia a registrare il numero più elevato di statali: ben 422.558.
© Libero
Più semplicemente, riallineerà la dinamica degli stipendi pubblici a quella dei privati. I numeri sono chiari. Esclusi i dirigenti e i magistrati (il che significa che il dato è sottodimensionato) le buste paga degli statali dal 2000 al 2008 sono cresciute del 39,7%, in pratica il doppio del tasso di inflazione effettivo, che si è attestato al 20,9%. La percentuale, per l’esattezza, si riferisce alla dinamica retributiva procapite di fatto. Fotografa, insomma, la corsa reale degli stipendi. Ebbene, nello stesso periodo il settore privato non è andato oltre, in media, al 25,7%.
Che la velocità degli aumenti nel pubblico impiego negli ultimi anni sia stata di gran lunga superiore a quella riscontrata dai colleghi che non lavorano per lo Stato non è una grande novità. Come spiega anche il commissario straordinario dell’Aran, Antonio Naddeo, «i dati sono stati già pubblicati nei precedenti bollettini semestrali dell’agenzia e sono basati sulla contabilità nazionale dell’Istat».
Tutta nuova è però la valutazione degli effetti della manovra. «Il blocco dei contratti», continua Naddeo, «realizzerà, insieme alle altre misure, una sostanziale parità delle curve di crescita retributiva tra pubblico e privato nel 2013».
Insomma, malgrado i sacrifici, la partita per gli statali finirà in pareggio. Non si può dire lo stesso per i conti pubblici. L’Aran ha fatto due calcoli e ha verificato, prendendo come punto di riferimento il parametro di crescita retributiva concordato con le parti sociali, la fetta di spese che non andrà ad incidere sui bilanci dei prossimi anni. Il risparmio per il Tesoro sarà tutt’altro che irrilevante: il congelamento triennale degli incrementi automatici e dei rinnovi porterà nelle casse dello Stato dai 6,5 ai 7 miliardi in più. Già dal primo anno di applicazione le minori spese saranno nell’ordine dei 5,7 miliardi. In altre parole, circa la metà della finanziaria per il 2011.
E risparmi vengono annunciati anche per l’ulteriore stretta agli stipendi dei supermanager di Stato che sarà oggi sul tavolo del Consiglio dei ministri. Nessun taglio che non fosse già previsto dalla finanziaria di Prodi del 2008. Il provvedimento in questione è infatti il regolamento attuativo della norma in base alla quale gli stipendi dei vertici delle società pubblica non possono superare la retribuzione del primo presidente della Corte di Cassazione (circa 274mila euro lordi l’anno). Ma le nuove norme permetteranno di scovare i furbetti. Finora infatti, come si legge nella relazione illustrativa, «sono emersi numerosi profili di criticità legati alla corretta applicazione della normativa». Per questo il regolamento stabilisce l’obbligo per il dipartimento della Funzione pubblica di monitorare gli incarichi di «chiunque percepisca retribuzioni o emolumenti nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo, direttamente o indirettamente a carico delle pubbliche finanze, con le amministrazioni dello stato, le agenzie, gli enti pubblici economici e non economici, gli enti di ricerca, le università, le società non quotate a totale o prevalente partecipazione pubblica e le loro controllate». Si tratta di un controllo che va anche dal di là del perimetro soggetto al tetto da cui il governo si aspetta comunque di portare a casa «evidenti risparmi di spesa», per quanto ancora non quantificabili. Restano fuori dal “contenimento” dello stipendio le authority e tutti gli incarichi speciali ai sensi dell’articolo 2389 del codice civile. Si tratta, tanto per fare qualche esempio, dei contratti dei vertici della Rai o delle Fs.
E a Palazzo Chigi oggi arriverà anche il provvedimento imposto dalla Ue per equiparare l’età pensionabile delle statali a quella degli uomini. Si va verso uno scalone unico, che comporterà risparmi complessivi per 1,45 miliardi. In più, per le 32mila donne che subiranno l’innalzamento secco da 61 a 65 anni, a partire dal 2012, non ci sarà alcuna deroga sulle finestre .
Una sorpresa sul pubblico impiego è infine arrivata dalla Cgia di Mestre. L’associazione ha calcolato che tra il 2001 e il 2008 l’Emilia Romagna, il Friuli, le Marche ed il Veneto sono le Regioni che hanno registrato le variazioni di crescita del personale pubblico a tempo indeterminato più elevate. Per contro, tutte le Regioni del Sud subiscono una netta contrazione dei lavoratori occupati nel pubblico impiego. Nonostante la crescita sia stata più marcata a Nordest, la distribuzione degli statali resta comunque concentrata tra le regioni a statuto speciale, il Lazio e il Sud. In termini assoluti, però, e la cosa non piacera alla Lega, è la Lombardia a registrare il numero più elevato di statali: ben 422.558.
© Libero
martedì 8 giugno 2010
Emma sposa Tremonti: «Giudici contro il Paese»
Il gelo con Silvio Berlusconi dell’Auditorium di Roma è solo un ricordo. Sarà stato l’effetto della lunga missione cinese o, più probabilmente, della “rivoluzione liberale” annunciata da Giulio Tremonti per azzerare la burocrazia che azzoppa le imprese. Fatto sta che Emma Marcegaglia di fronte alla scontata rappresaglia della Cgil e a quella, più clamorosa, dei magistrati, non ha dubbi:
«Chi protesta contro questi tagli dice una cosa contro il Paese e il governo deve resistere ai tentativi di ridurne la portata». Certo, c’è bisogno di riforme per lo sviluppo, di misure per favorire la crescita. Questo la presidente di Confindustria lo ha detto mille volte e non si stancherà mai di ripeterlo. Ma «il rigore è necessario ed avere i conti pubblici in equilibrio è essenziale». Per questo, ha continuato, di fronte a chi scende in piazza, anche a chi lo farà con la toga sulle spalle, «chiediamo alla politica di fare scelte molto precise, anche impopolari».
Insomma, per la Marcegaglia anziché ammorbidire le misure contenute della manovra, bisognerebbe inasprirle. Di tagli ne andrebbero fatti di più.
Per difendere la manovra - che ieri sera è stata illustrata da Tremonti all’Eurogruppo e «accolta con favore», secondo quanto dichiarato dal presidente Jean-Claude Juncker - la numero uno di Confindustria ha scelto l’assemblea milanese di Federchimica. Dal palco ha voluto chiarire la posizione degli industriali su molti temi. Compresa la forte contrarietà a tagli unilaterali nelle emissioni inquinanti e l’altrettanto chiaro sostegno al ritorno del nucleare.
Senza dimenticare, ovviamente, le riforme. «Ora bisogna pensare alla crescita: magari non è la manovra il posto giusto dove deciderlo», ha spiegato, «ma bisogna snellire la burocrazia, ridefinire i confini della presenza dello Stato ora troppo ampia e riavviare gli interventi per le infrastrutture».
Grande attenzione alla mossa a sorpresa messa a punto dal premier e dal ministro dell’Economia proprio per lanciare un segnale alle imprese. Una cosa nella giusta direzione, secondo Confindustria «è la proposta di Tremonti, fatta propria dal governo, di rivedere l’articolo 41 della Costituzione per dare più libertà d’impresa: la condividiamo e la sosterremo». Così come il sostegno arriverà sulle politiche necessarie per far ripartire il Paese, purché l’esecutivo non si perda nelle schermaglie interne che rischierebbero di essere fatali. «Sono tempi difficili, di grande discontinuità strategica e in questa situazione Confindustria», ha teso la mano la Marcegaglia, «vuole dimostrare il massimo di responsabilità, collaborando con la politica, ma chiede al governo che non si divida e si concentri su temi essenziali per il Paese quali la crescita e l’occupazione».
Altra priorità è la scelta nucleare, su cui bisogna ingranare la marcia. «Ci auguriamo», ha detto la Marcegaglia, «che il cambio alla guida del ministero dello Sviluppo non porti a incertezze o ritardi nei tempi del progetto. Noi siamo pronti e ora va insediata l’Autorità e individuati i siti». Una stoccata arriva pure sul clima. «Noi facciamo i primi della classe», ha tuonato, «e Copenhagen è stato un fallimento, con l’Europa tenuta fuori dalle decisioni. La logica unilaterale del taglio delle emissioni è profondamente sbagliata e un taglio del 30% senza un accordo internazionale è pura follia: noi siamo del tutto contrari e ci opporremo».
Tra le cose che non funzionano c’è poi l’Europa: «Senza l’integrazione economica e fiscale, il rischio per il continente è una crisi profonda e strutturale». E, infine, Basilea 3, il pacchetto di proposte per introdurre requisiti patrimoniali più stringenti per le banche. «È un problema», ha detto davanti alla platea di Federchimica, «si stima un costo per le banche europee compreso tra 250 e 400 miliardi. C’è il rischio di soffocare ulteriormente il credito alle imprese».
© Libero
«Chi protesta contro questi tagli dice una cosa contro il Paese e il governo deve resistere ai tentativi di ridurne la portata». Certo, c’è bisogno di riforme per lo sviluppo, di misure per favorire la crescita. Questo la presidente di Confindustria lo ha detto mille volte e non si stancherà mai di ripeterlo. Ma «il rigore è necessario ed avere i conti pubblici in equilibrio è essenziale». Per questo, ha continuato, di fronte a chi scende in piazza, anche a chi lo farà con la toga sulle spalle, «chiediamo alla politica di fare scelte molto precise, anche impopolari».
Insomma, per la Marcegaglia anziché ammorbidire le misure contenute della manovra, bisognerebbe inasprirle. Di tagli ne andrebbero fatti di più.
Per difendere la manovra - che ieri sera è stata illustrata da Tremonti all’Eurogruppo e «accolta con favore», secondo quanto dichiarato dal presidente Jean-Claude Juncker - la numero uno di Confindustria ha scelto l’assemblea milanese di Federchimica. Dal palco ha voluto chiarire la posizione degli industriali su molti temi. Compresa la forte contrarietà a tagli unilaterali nelle emissioni inquinanti e l’altrettanto chiaro sostegno al ritorno del nucleare.
Senza dimenticare, ovviamente, le riforme. «Ora bisogna pensare alla crescita: magari non è la manovra il posto giusto dove deciderlo», ha spiegato, «ma bisogna snellire la burocrazia, ridefinire i confini della presenza dello Stato ora troppo ampia e riavviare gli interventi per le infrastrutture».
Grande attenzione alla mossa a sorpresa messa a punto dal premier e dal ministro dell’Economia proprio per lanciare un segnale alle imprese. Una cosa nella giusta direzione, secondo Confindustria «è la proposta di Tremonti, fatta propria dal governo, di rivedere l’articolo 41 della Costituzione per dare più libertà d’impresa: la condividiamo e la sosterremo». Così come il sostegno arriverà sulle politiche necessarie per far ripartire il Paese, purché l’esecutivo non si perda nelle schermaglie interne che rischierebbero di essere fatali. «Sono tempi difficili, di grande discontinuità strategica e in questa situazione Confindustria», ha teso la mano la Marcegaglia, «vuole dimostrare il massimo di responsabilità, collaborando con la politica, ma chiede al governo che non si divida e si concentri su temi essenziali per il Paese quali la crescita e l’occupazione».
Altra priorità è la scelta nucleare, su cui bisogna ingranare la marcia. «Ci auguriamo», ha detto la Marcegaglia, «che il cambio alla guida del ministero dello Sviluppo non porti a incertezze o ritardi nei tempi del progetto. Noi siamo pronti e ora va insediata l’Autorità e individuati i siti». Una stoccata arriva pure sul clima. «Noi facciamo i primi della classe», ha tuonato, «e Copenhagen è stato un fallimento, con l’Europa tenuta fuori dalle decisioni. La logica unilaterale del taglio delle emissioni è profondamente sbagliata e un taglio del 30% senza un accordo internazionale è pura follia: noi siamo del tutto contrari e ci opporremo».
Tra le cose che non funzionano c’è poi l’Europa: «Senza l’integrazione economica e fiscale, il rischio per il continente è una crisi profonda e strutturale». E, infine, Basilea 3, il pacchetto di proposte per introdurre requisiti patrimoniali più stringenti per le banche. «È un problema», ha detto davanti alla platea di Federchimica, «si stima un costo per le banche europee compreso tra 250 e 400 miliardi. C’è il rischio di soffocare ulteriormente il credito alle imprese».
© Libero
Etichette:
Berlusconi,
Confindustria,
crisi,
imprese,
manovra,
Marcegaglia,
riforme,
rivoluzione liberale,
Tremonti
L’atomo franco-tedesco sfida l’Enel in Italia
La decisione era nell’aria da tempo. Il secondo consorzio per il nucleare italiano stava affilando le sue armi fin dallo scorso autunno. Valutazioni preliminari, lettere d’intenti, studi di fattibilità. Ieri la tedesca E.On e la francese Gdf Suez hanno scoperto le loro carte ufficializzando un accordo formale focalizzato sul nostro mercato dell’atomo. I due colossi dell’energia esamineranno tutti i punti chiave relativi ai nuovi investimenti nelle centrali nucleari. A partire dalla tecnologia, fino all’individuazione dei siti e delle partnership industriali. Si impegneranno in tavoli di dialogo con le autorità nazionali e locali per partecipare alla definizione di un quadro regolatorio stabile, chiaro e prevedibile. Le intenzioni sono chiare: «Se le condizioni nel mercato italiano evolveranno nella direzione auspicata», ha spiegato Klaus Schdefer, ad di E.On Italia, «la nostra cooperazione con Gdf Suez potrebbe contribuire nel futuro alla costituzione di un ulteriore consorzio».
Le conseguenze sono, ora, tutte da valutare. Il memorandum of understanding firmato ieri cambia infatti completamente uno scenario che finora, al di là dei tentativi di qualche utility di alzare la voce, vedeva l’alleanza Enel-Edf tranquillamente avviata verso il controllo dell’intera partita sul rilancio dell’atomo in Italia. La discesa in campo dell’asse franco-tedesco apre nuovi fronti soprattutto nel capitolo tecnologie. E non è un caso, probabilmente, che solo qualche settimana fa il sottosegretario allo Sviluppo, Stefano Saglia, ha detto chiaramente che il governo italiano non avrebbe chiuso le porte a tecnologie sui reattori alternative a quella Epr utilizzata dalla francese Areva, che partecipa al consorzio Enel-Edf. Negli stessi giorni anche Ansaldo Nucleare (controllata di Finmeccanica) faceva sapere che l’accordo firmato con la stessa Areva non pregiudicava affatto la collaborazione con l’americana Westinghouse, che i reattori li realizza con la tecnologia Ap1000.
Ora si dà il caso che la società statunitense sia uno dei principali partner di E.On per la costruzione di centrali in moltissimi Paesi. Il che sarebbe la risposta perfetta alla domanda che si è più volte posta l’ad di Ansaldo Nucleare, Giuseppe Zampini. «L’intesa con Westinghouse per il rilancio dell’atomo in Italia c’è già. Mancano solo i committenti».
Ed eccoli ora i committenti, in grado di fornire competenze e risorse. L’unico tassello che manca è quello di una partnership forte che sia in grado di fornire le stesse garanzie che offre l’Enel sul fronte della sicurezza e dell’italianità. Elemento da non sottovalutare vista la natura strategica per l’interesse nazionale del dossier e viste le ritrosie dell’opinione pubblica sull’atomo.
A questo proposito il presidente e ad di Gdf Suez Energy Europe, Stèphane Brimont, ha sottolineato la necessità, «di una forte partnership industriale aperta ad altri partner italiani e europei». L’idea è quella di allargare il più possibile il perimetro delle aziende coinvolte. E di sicuro non farà mancare il suo sostegno l’utility lombarda A2A, che da tempo sta tentando di dare vita ad un consorzio alternativo per il nucleare. «Indubbiamente questo accordo rende più concreta l’idea che A2A auspica anche per limitare i rischi di un monopolio Enel-Edf», sottolineano fonti vicine all’ex municipalizzata. Resta da capire se, considerata la mutata situazione, deciderà di salire sul carro anche l’Eni. Finora il Cane a sei zampe ha sempre smentito qualsiasi interesse per il dossier, ma la discesa in campo di Gdf ed E.On potrebbe fornire all’ad Paolo Scaroni nuovi elementi di giudizio. A quel punto, per l’asse Enel-Edf la strada diventerebbe in salita. Anche se non è escluso che i due consorzi possano spartirsi la torta, visto che a una prima tranche di quattro centrali ne seguirà un’altra con identica posta in gioco. Comunque sia, per il nucleare italiano le cose non potevano mettersi meglio.
© Libero
Le conseguenze sono, ora, tutte da valutare. Il memorandum of understanding firmato ieri cambia infatti completamente uno scenario che finora, al di là dei tentativi di qualche utility di alzare la voce, vedeva l’alleanza Enel-Edf tranquillamente avviata verso il controllo dell’intera partita sul rilancio dell’atomo in Italia. La discesa in campo dell’asse franco-tedesco apre nuovi fronti soprattutto nel capitolo tecnologie. E non è un caso, probabilmente, che solo qualche settimana fa il sottosegretario allo Sviluppo, Stefano Saglia, ha detto chiaramente che il governo italiano non avrebbe chiuso le porte a tecnologie sui reattori alternative a quella Epr utilizzata dalla francese Areva, che partecipa al consorzio Enel-Edf. Negli stessi giorni anche Ansaldo Nucleare (controllata di Finmeccanica) faceva sapere che l’accordo firmato con la stessa Areva non pregiudicava affatto la collaborazione con l’americana Westinghouse, che i reattori li realizza con la tecnologia Ap1000.
Ora si dà il caso che la società statunitense sia uno dei principali partner di E.On per la costruzione di centrali in moltissimi Paesi. Il che sarebbe la risposta perfetta alla domanda che si è più volte posta l’ad di Ansaldo Nucleare, Giuseppe Zampini. «L’intesa con Westinghouse per il rilancio dell’atomo in Italia c’è già. Mancano solo i committenti».
Ed eccoli ora i committenti, in grado di fornire competenze e risorse. L’unico tassello che manca è quello di una partnership forte che sia in grado di fornire le stesse garanzie che offre l’Enel sul fronte della sicurezza e dell’italianità. Elemento da non sottovalutare vista la natura strategica per l’interesse nazionale del dossier e viste le ritrosie dell’opinione pubblica sull’atomo.
A questo proposito il presidente e ad di Gdf Suez Energy Europe, Stèphane Brimont, ha sottolineato la necessità, «di una forte partnership industriale aperta ad altri partner italiani e europei». L’idea è quella di allargare il più possibile il perimetro delle aziende coinvolte. E di sicuro non farà mancare il suo sostegno l’utility lombarda A2A, che da tempo sta tentando di dare vita ad un consorzio alternativo per il nucleare. «Indubbiamente questo accordo rende più concreta l’idea che A2A auspica anche per limitare i rischi di un monopolio Enel-Edf», sottolineano fonti vicine all’ex municipalizzata. Resta da capire se, considerata la mutata situazione, deciderà di salire sul carro anche l’Eni. Finora il Cane a sei zampe ha sempre smentito qualsiasi interesse per il dossier, ma la discesa in campo di Gdf ed E.On potrebbe fornire all’ad Paolo Scaroni nuovi elementi di giudizio. A quel punto, per l’asse Enel-Edf la strada diventerebbe in salita. Anche se non è escluso che i due consorzi possano spartirsi la torta, visto che a una prima tranche di quattro centrali ne seguirà un’altra con identica posta in gioco. Comunque sia, per il nucleare italiano le cose non potevano mettersi meglio.
© Libero
L’Europa non fa sconti: donne in pensione a 65 anni
Certo c’è il costo sociale, ma c’è anche sul piatto una sforbiciata strutturale alla spesa pubblica di diversi miliardi. Cosa che ben si accompagna allo spirito della manovra, tutta tagli e rigore. L’alternativa, comunque, non si pone. L’Italia dovrà alzare da 60 a 65 anni l’età pensionabile delle dipendenti pubbliche al massimo entro il primo gennaio del 2012. Punto e basta. Come ha spiegato il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, «non c’è alcuno spazio per la trattativa».
Dopo numerosi avvertimenti e sentenze, insomma, la Commissione Ue non intende più concedere sconti al nostro Paese. È questo il verdetto arrivato ieri dall’incontro tra Sacconi e la vicepresidente dell’esecutivo europeo, Viviane Reding, che si è svolto a Lussemburgo. «Siamo di fronte a qualcosa che non dipende dalla volontà del governo», ha detto il ministro. Un messaggio rivolto soprattutto ai sindacati, che saranno ascoltati nei prossimi giorni e che vengono invitati a «non scioperare contro la pioggia». Perché di fronte alla «ferma posizione» di Bruxelles, piaccia o non piaccia, nulla può essere fatto. «In una democrazia le sentenze di una Corte si rispettano», ha tagliato corto la commissaria Reding, sottolineando come «sia più che ragionevole aver dato all’Italia tempo fino al primo gennaio del 2012». A questo punto la parola passa al consiglio dei ministri che, ha spiegato Sacconi, dopodomani «dovrà decidere cosa fare».
Appare quasi scontato che le norme con cui il governo italiano si adeguerà alla sentenza della Corte Ue di giustizia del novembre 2008 saranno inserite nella manovra da 24 miliardi. «È questo il veicolo più tempestivo che attualmente abbiamo a disposizione», ha detto il titolare del Welfare. Anche perché secondo i calcolo dei tecnici del ministero non adeguarsi subito alla sentenza della Corte Ue costerebbe all’Italia molto caro: i conti non sono ancora stati fatti, ma in linea di massima il rischio è quello di una sanzione fino a 714mila euro al giorno, dal giorno in cui è stata emessa la sentenza. Se l’Italia dovesse porre fine all'infrazione oggi, si spiega, dovrebbe già pagare oltre 19 milioni di euro. Sacconi ha già informato dell’esito dell'incontro con Viviane Reding il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti (anch’egli a Lussemburgo per partecipare alla riunione dell’Eurogruppo) e quello della Funzione pubblica, Renato Brunetta, spiegando loro l’impraticabilità della soluzione di compromesso elaborata negli ultimi giorni, quella che prevedeva di accorciare il periodo di transizione, portandolo dal 2018 al 2016.
«La gradualità che avevamo proposto», ha spiegato ancora Sacconi, «era per garantire alle donne di programmare in anticipo le proprie scelte di vita. Ma la nostra proposta non è stata considerata sufficiente». Il ministro ha quindi respinto la tesi di chi sostiene che la determinazione della Commissione Ue fa comodo al governo che, innalzando subito l’età pensionabile delle dipendenti pubbliche, può fare cassa, incrementando le entrate della manovra. In effetti il taglio sarà strutturale e farà sentire i suoi effetti solo a regime. L’ipotesi attuale, ad esempio, avrebbe consentito di risparmiare 2,5 miliardi spalmato tra oggi e il 2018. «I conti non li abbiamo ancora fatti», ha spiegato Sacconi, «ma la misura avrebbe sulla manovra economica un’incidenza molto modesta e contenuta nel breve periodo, visto che secondo i dati dell’Inpdap le donne interessate non sarebbero più di 30mila il primo anno».
© Libero
Dopo numerosi avvertimenti e sentenze, insomma, la Commissione Ue non intende più concedere sconti al nostro Paese. È questo il verdetto arrivato ieri dall’incontro tra Sacconi e la vicepresidente dell’esecutivo europeo, Viviane Reding, che si è svolto a Lussemburgo. «Siamo di fronte a qualcosa che non dipende dalla volontà del governo», ha detto il ministro. Un messaggio rivolto soprattutto ai sindacati, che saranno ascoltati nei prossimi giorni e che vengono invitati a «non scioperare contro la pioggia». Perché di fronte alla «ferma posizione» di Bruxelles, piaccia o non piaccia, nulla può essere fatto. «In una democrazia le sentenze di una Corte si rispettano», ha tagliato corto la commissaria Reding, sottolineando come «sia più che ragionevole aver dato all’Italia tempo fino al primo gennaio del 2012». A questo punto la parola passa al consiglio dei ministri che, ha spiegato Sacconi, dopodomani «dovrà decidere cosa fare».
Appare quasi scontato che le norme con cui il governo italiano si adeguerà alla sentenza della Corte Ue di giustizia del novembre 2008 saranno inserite nella manovra da 24 miliardi. «È questo il veicolo più tempestivo che attualmente abbiamo a disposizione», ha detto il titolare del Welfare. Anche perché secondo i calcolo dei tecnici del ministero non adeguarsi subito alla sentenza della Corte Ue costerebbe all’Italia molto caro: i conti non sono ancora stati fatti, ma in linea di massima il rischio è quello di una sanzione fino a 714mila euro al giorno, dal giorno in cui è stata emessa la sentenza. Se l’Italia dovesse porre fine all'infrazione oggi, si spiega, dovrebbe già pagare oltre 19 milioni di euro. Sacconi ha già informato dell’esito dell'incontro con Viviane Reding il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti (anch’egli a Lussemburgo per partecipare alla riunione dell’Eurogruppo) e quello della Funzione pubblica, Renato Brunetta, spiegando loro l’impraticabilità della soluzione di compromesso elaborata negli ultimi giorni, quella che prevedeva di accorciare il periodo di transizione, portandolo dal 2018 al 2016.
«La gradualità che avevamo proposto», ha spiegato ancora Sacconi, «era per garantire alle donne di programmare in anticipo le proprie scelte di vita. Ma la nostra proposta non è stata considerata sufficiente». Il ministro ha quindi respinto la tesi di chi sostiene che la determinazione della Commissione Ue fa comodo al governo che, innalzando subito l’età pensionabile delle dipendenti pubbliche, può fare cassa, incrementando le entrate della manovra. In effetti il taglio sarà strutturale e farà sentire i suoi effetti solo a regime. L’ipotesi attuale, ad esempio, avrebbe consentito di risparmiare 2,5 miliardi spalmato tra oggi e il 2018. «I conti non li abbiamo ancora fatti», ha spiegato Sacconi, «ma la misura avrebbe sulla manovra economica un’incidenza molto modesta e contenuta nel breve periodo, visto che secondo i dati dell’Inpdap le donne interessate non sarebbero più di 30mila il primo anno».
© Libero
Mondello va in pensione: «Ma sono pronto a tornare»
«Da ora sono in pensione», scherza Andrea Mondello, ma per quanto cerchi di convincerci che ama «le buone letture e la musica classica» e che «l’adrenalina del potere» non gli appartiene, dai suoi occhi si capisce che di restarsene su una panchina a leggere il giornale non ci pensa neanche lontanamente. Anzi, a giudicare dall’energia e dall’entusiasmo con cui parla delle sfide di Roma e del Paese, del cambiamento della nostra industria, della necessità della modernizzazione del sistema Italia, si direbbe che l’ormai ex numero uno della Camera di Commercio di Roma, dopo 18 anni di presidenza, è pronto per ripartire, anche subito. Sulla politica mette le mani avanti, malgrado la grande stima nei confronti di Gianni Letta, «sono abituato al mondo dell’impresa, a giudicare una scelta in base alla sua qualità e non al consenso che suscita», spiega Mondello a Libero, aggiungendo che preferisce «il bipartitismo al bipolarismo» e che lui, «liberale da sempre per tradizione familiare», oggi non si vedrebbe bene «né a destra, né a sinistra». Se, però, gli si fa notare che il posto lasciato libero da Claudio Scajola è ancora vuoto ammette che, «beh, sì, se dovessi scegliere un ministero quello dello Sviluppo sarebbe senz’altro il più adatto alla mia esperienza e alle mie competenze». Mai dire mai, insomma, anche se giura e spergiura che adesso «non è il momento».
Questo, sembra di capire, è il momento di stimolare il dibattito, di mettere in campo le conoscenze. E Mondello, di idee ne ha da vendere. A partire dai punti fermi per il rilancio. «Non si va da nessuna parte», spioega, «senza lavorare su due direttrici principali, gli investimenti nella cultura e quelli nelle infrastrutture». Entrambi, prosegue, «servono ad attrarre i capitali, a far crescere le potenzialità del territorio». Sull’importanza della cultura, «fondamentale in una città come Roma», Mondello ha insistito molto durante gli anni della sua presidenza della Camera di Commercio. «E sono contento», dice, «di avere trovato un’ottima sponda nell’attuale assessore del Comune, Umberto Croppi». Ma sulle infrastrutture cambiare il passo non è facile. «Resto convinto», spiega, «che l’unica soluzione sia quella di trasformare le grandi città metropolitane, a partire dalla Capitale, in organismi con la stessa autonomia delle Regioni, come accade in Germania». In caso contrario, resteremo indietro di secoli. Quanto a Roma, Mondello contesta il cliché leghista. Altro che «pigra e ladrona», la «verità è che i governi sia di sinistra sia di destra non hanno mai investito più di tanto sulla Capitale. Quella dei fiumi di denaro che arrivano a Roma «è una grande bufala», Mondello ha tenuto il conto delle risorse pubbliche arrivate nella Capitale nel corso degli anni. Il risultato «è che i trasferimenti pro capite del governo centrale per le infrastrutture, le imprese e la sanità sono inferiori a quelli di altre aree del Paese». In attesa delle città-regioni, la collaborazione tra gli enti locali può fare la differenza. «Si tratta», spiega, di «trovare la giusta sintonia, che non dipende dal colore politico, Veltroni, ad esempio, ha fatto buone cose insieme a Storace».
Sul futuro della Camera di Commercio di Roma Mondello preferisce non parlare. La speranza è che il polverone provocato dalle polemiche sulle assegnazioni dei seggi finisca presto e si torni a parlare di economia e di progetti. Ma l’ex presidente è ottimista sul suo successore: «Tra i 32 attuali membri del collegio ce ne sono almeno un paio che potrebbero fare grandi cose». I nomi? Neanche sotto tortura.
© Libero
Questo, sembra di capire, è il momento di stimolare il dibattito, di mettere in campo le conoscenze. E Mondello, di idee ne ha da vendere. A partire dai punti fermi per il rilancio. «Non si va da nessuna parte», spioega, «senza lavorare su due direttrici principali, gli investimenti nella cultura e quelli nelle infrastrutture». Entrambi, prosegue, «servono ad attrarre i capitali, a far crescere le potenzialità del territorio». Sull’importanza della cultura, «fondamentale in una città come Roma», Mondello ha insistito molto durante gli anni della sua presidenza della Camera di Commercio. «E sono contento», dice, «di avere trovato un’ottima sponda nell’attuale assessore del Comune, Umberto Croppi». Ma sulle infrastrutture cambiare il passo non è facile. «Resto convinto», spiega, «che l’unica soluzione sia quella di trasformare le grandi città metropolitane, a partire dalla Capitale, in organismi con la stessa autonomia delle Regioni, come accade in Germania». In caso contrario, resteremo indietro di secoli. Quanto a Roma, Mondello contesta il cliché leghista. Altro che «pigra e ladrona», la «verità è che i governi sia di sinistra sia di destra non hanno mai investito più di tanto sulla Capitale. Quella dei fiumi di denaro che arrivano a Roma «è una grande bufala», Mondello ha tenuto il conto delle risorse pubbliche arrivate nella Capitale nel corso degli anni. Il risultato «è che i trasferimenti pro capite del governo centrale per le infrastrutture, le imprese e la sanità sono inferiori a quelli di altre aree del Paese». In attesa delle città-regioni, la collaborazione tra gli enti locali può fare la differenza. «Si tratta», spiega, di «trovare la giusta sintonia, che non dipende dal colore politico, Veltroni, ad esempio, ha fatto buone cose insieme a Storace».
Sul futuro della Camera di Commercio di Roma Mondello preferisce non parlare. La speranza è che il polverone provocato dalle polemiche sulle assegnazioni dei seggi finisca presto e si torni a parlare di economia e di progetti. Ma l’ex presidente è ottimista sul suo successore: «Tra i 32 attuali membri del collegio ce ne sono almeno un paio che potrebbero fare grandi cose». I nomi? Neanche sotto tortura.
© Libero
Iscriviti a:
Post (Atom)