lunedì 29 giugno 2009

Ogni azienda paga mille euro al mese per la burocrazia

Sedici miliardi e seicento milioni l’anno. Dodicimila euro per ogni impresa. Mille euro al mese. È questa la stratosferica cifra che ciascuna azienda italiana che abbia almeno un dipendente deve versare ogni trenta giorni allo Stato. Non si tratta di imposte, di multe o di mazzette. È l’obolo che chi vuole fare impresa deve pagare alla burocrazia. Roba da far accapponare la pelle. E su cui la sinistra farebbe bene a pungolare il governo (che peraltro con il ministro Brunetta sta già premendo sull’acceleratore) piuttosto che perdere tempo a criticare l’ennesima tornata di misure anti-crisi varata dall’esecutivo per dare un po’ di ossigeno alle imprese e alle famiglie. Mentre i soloni del Pd fanno le pulci alla manovra estiva, infatti, il sistema produttivo brucia 16,6 miliardi solo in certificati e carte bollate.
Qualche giorno fa la Corte dei Conti ci ha rivelato che la corruzione della Pa costa ai cittadini qualcosa come 60 miliardi l’anno. Ora scopriamo che oltre alla “tassa occulta” c’è quella palese, costi che l’azienda deve sobbarcarsi non per infrangere o aggirare la legge, ma per rispettarla. Oneri amministrativi che si vanno ad aggiungere a quelli normalmente previsti, spese extra che l’imprenditore è costretto a sostenere per colpa dell’architettura kafkiana della pubblica amministrazione.
A rivelare le cifre del grottesco fenomeno è uno studio di Unioncamere, che ha dovuto purtroppo constatare una crescita del peso della burocrazia sulle imprese negli anni che vanno dal 2006 al 2008. Nel dettaglio, si tratta di 12.334 euro in media per ognuna dei circa 1,3 milioni di aziende che hanno almeno un dipendente e sono quindi più soggette agli adempimenti di carattere amministrativo. Due anni prima la cifra era di 11.818 euro. Complessivamente si tratta di circa 1,7 miliardi in più che il sistema produttivo ha dovuto sborsare allo Stato, con un incremento medio del 4,4%. La crescita è inferiore a quella dell’inflazione nello stesso periodo. Ma il totale (16,6 miliardi pari all’1,1% del Pil) resta comunque elevatissimo e dimostra che malgrado gli sforzi di semplificare la macchina pubblica, la musica non cambia. Anzi, peggiora.
I ministri della Pa, Renato Brunetta, e della Semplificazione, Roberto Calderoli, hanno già avviato una decisa opera di modernizzazione e di snellimento degli apparti burocratici. Ora, accanto alle misure di sostegno varate dal governo, bisognerà affrettare il cambiamento, per evitare che l’effetto combinato della recessione e della burocrazia tagli definitivamente le gambe alle imprese proprio nel momento in cui ci sarà da combattere per risalire dal baratro della crisi. Tanto più che gli extra costi amministrativi vanno chiaramente a colpire di più quella piccola e media impresa da cui ci si aspetta il colpo di reni per tornare a correre.
Il tema sarà al centro dell’intervento del neopresidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello, durante l’assemblea generale che si terrà mercoledì prossimo. Una via d’uscita, secondo Dardanello, può essere rappresentata dalla diffusione della telematica, «che oggi interessa il triplo delle imprese rispetto al 2006» e sta facendo registrare, per chi utilizza Internet per dialogare con la Pa, notevoli riduzioni dei costi. Ma sarà anche indispensabile procedere con decisione sulla strada della semplificazione rendendo pienamente operative riforme come quella della comunicazione unica o dell’impresa in un giorno.Il percorso è ancora lungo. L’indagine di Unioncamere ha rilevato che solo l’8,5% sistema produttivo ha registrato una diminuzione dei costi, mentre per il 63,6% sono rimasti sostanzialmente invariati. Il 27,8% ha invece riscontrato una crescita degli oneri amministrativi. A pagare di più in media sono le imprese dei servizi, circa 12.700 euro rispetto agli 11.700 del settore manifatturiero.

libero-news.it

Ultimatum dell'Europa sulle pensioni

Per Renato Brunetta e Mara Carfagna è un’opportunità per le donne, per Giulio Tremonti lo è per i conti pubblici. Per Silvio Berlusconi, più semplicemente, non lo è affatto. Una cosa è certa: l’innalzamento dell’età pensionabile per le statali s’ha da fare. Ieri la Ue ha aperto ufficialmente la procedura d’infrazione contro l’Italia e fare finta di niente sarebbe, oltre che inutile, anche oneroso. Dopo il prossimo, e ultimo, avvertimento scatterebbero infatti le sanzioni: circa 500 milioni più una penalità per ogni giorno di ritardo. Sui tempi e i modi della riforma, però, tutto è ancora da definire.La questione è stata discussa anche al preconsiglio di ieri sera nel tentativo di ricomporre le divergenze in tempo per il Consiglio dei ministri di oggi. Da una parte c’è chi, come i ministri della Funzione pubblica e delle Pari opportunità, Brunetta e Carfagna, vorrebbe procedere in fretta all’equiparazione dell’età pensionabile a 65 anni per uomini e donne, destinando le risorse risparmiate al welfare femminile. Dall’altra c’è chi, come Tremonti, non smania per la riforma, ma chiede comunque che i risparmi vengano utilizzati per dare ossigeno ai conti pubblici. Le stime parlano di circa 2,5 miliardi nell’arco di 7-10 anni. Soldi che andrebbero a limare quella che l’Ocse ha indicato come la spesa previdenziale più alta (il 14% del pil) dei Paesi industrializzati. Per Brunetta l’obiettivo è a portata di mano. Il ministro dice di avere già in tasca la soluzione, aumento graduale dell’età pensionabile di un anno ogni 24 mesi, da inserire nel decreto anti-crisi oggi all’esame di Palazzo Chigi. Diversa l’opinione del premier, che si è detto disposto a discuterne, aggiungendo, però, che «in un momento di crisi sembra fuori tempo intervenire in questa direzione». Posizione che potrebbe far incanalare la riforma verso un più innocuo ddl, da far viaggiare poi con molta calma alle Camere. A premere, invece, per un intervento immediato, oltre alla Confindustria, è anche la Corte dei Conti, che ieri ha parlato di «occasione propizia» per mettere finalmente mano alle pensioni. Anche in Parlamento c’è chi scalpita. Come la senatrice del Pdl, Cinzia Bonfrisco, che qualche mese fa si era battuta per il recepimento della norma Ue. Alla Camera la battaglia è portata avanti da Giuliano Cazzola e Benedetto Della Vedova, che hanno già presentato un emendamento sblocca-pensioni alla comunitaria 2009. Anche i due parlamentari del Pdl ritengono necessario utilizzare le risorse risparmiate per finanziare misure a sostegno delle lavoratrici.

libero-news.it

mercoledì 24 giugno 2009

L'Italia divisa in due da un binario

Altro che alta velocità. Ritardi fra le tre e le cinque ore, corse annullate, migliaia di passeggeri lasciati a piedi e disagi alla circolazione nazionale che, stando ai comunicati ufficiali delle Fs, dureranno fino alla tarda serata di oggi. Un cataclisma? Macché, a mandare in tilt tutto il sistema ferroviario italiano sono bastati pochi chilometri di binari ostruiti. Per l’esattezza quelli tra Prato e Vaiano dove la scorsa notte, alle 5.10, è deragliato un carro merci privato, fortunatamente senza alcun ferito. Il caso ha voluto che il convoglio, che ha anche urtato un intercity, trasportasse una cisterna di acido fluoridrico, il che ha reso più complicate le operazioni di soccorso e sgombero.
A senso unico
Ma questo c’entra poco. Per rendersi veramente conto di quello che è capitato ieri basta prendere una cartina dell’Italia con i collegamenti ferroviari. Si scopre così che mentre il governo e le Fs si pavoneggiano con il nuovo Frecciarossa, che corre come un fulmine e annulla le distanze, il nostro Paese è ancora esattamente spaccato a metà dalla Firenze-Bologna. In altre parole, o si passa di lì o è meglio mettersi l’anima in pace.Il problema nel problema è poi che la cosiddetta Direttissima che scavalca l’Appennino non è molto diversa da quella, allora all’avanguardia, che fu inaugurata nel 1934. Sta di fatto che per diverse ore i treni non sono transitati affatto, poi sono stati fatti marciare a passo di lumaca e infine alla velocità di 30 chilometri orari dopo il ripristino di uno dei due binari disponibili. Mentre su quel tratto si dovrà procedere a senso unico alternato, tutti i treni (compresi quelli ad alta velocità) che dal Nord vanno al Sud e viceversa sono stati dirottati su altre linee. Con circumnavigazioni folli attraverso Ancona, sul versante adriatico, e Genova, su quello tirrenico. Una situazione simile si era verificata il 6 giugno scorso, in seguito ad un incidente nella galleria Val di Sambro, sempre nel Pratese. Dalle Fs si sono affrettati a dire che tutto cambierà. E presto. Dal dicembre 2009 dovrebbe infatti aprire definitivamente i battenti la linea ad alta velocità tra Bologna e Firenze, che oltre a ridurre i tempi di percorrenza raddoppierà anche il numero di binari su quella che è la principale dorsale italiana.
La velocità non basta
Nessuno ha motivo per dubitarne. Lo scorso marzo si è già svolto un viaggio inaugurale e i tecnici stanno ultimando i collaudi. Ma siamo sicuri che basterà correre di più per evitare disastri come quelli di ieri? L’alta velocità è sicuramente un tassello fondamentale per la modernizzazione del Paese e per uno sviluppo infrastrutturale di cui le imprese e l’economia non possono più fare a meno. Spostare merci e uomini più velocemente è inoltre indispensabile per colmare un gap di competitività che ancora ci divide da molti Paesi europei.
Basti pensare che in Francia sono attualmente in esercizio 1.893 km di rete ad alta velocità, in Spagna 1.594 e in Germania 1.285. Da noi sono attualmente 562 a cui si dovrebbero presto aggiungere altri 314 km. Molto ci sarebbe da dire sui costi, a volte triplicati (la Bologna-Firenze, ad esempio, è salita dai 1.053 milioni dell’ottobre 1991 ai 4.189 milioni del luglio 2007) rispetto a quelli iniziali e comunque enormemente più alti in confronto a quelli riscontrati nei principali Paesi della Ue. Ma da noi, si dice, c’è una particolarissima conformazione del territorio che ha imposto interventi più onerosi. E comunque il successo che sta ottenendo l’alta velocità sulla Roma-Milano, che in pochi mesi ha ribaltato i rapporti di forza con l’aereo in termini di quote di mercato, e i discreti risultati di bilancio ottenuti nel 2008 dalle Ferrovie dello Stato, fanno ben sperare sulla possibilità di ammortizzare gli investimenti senza eccessivi traumi.
Monobinario
La realtà è che l’alta velocità è solo una parte del problema, che riguarda principalmente una rete vecchia e obsoleta di cui il governo e la Rfi (la società delle Ferrovie che gestisce i binari) si dovranno necessariamente occupare. Forse non tutti sanno, ad esempio, che degli oltre 16.529 km di rete disseminati sul territorio nazionale ben 9.223 (il 57%) sono a binario unico. In Sardegna e Valle d’Aosta poi si va ancora a diesel. E lo stesso accade su 4.802 km di rotaie, che non sono elettrificati. Vista la situazione, che la sbandata di un vagone riesca a paralizzare l’Italia per un paio di giorni non stupisce più di tanto. Poteva andare peggio.

libero-news.it

lunedì 22 giugno 2009

Alle piccole imprese prestiti col contagocce

E pensare che quando le banche continuavano a ripetere che non avevano messo in atto alcuna stretta del credito, nessuno voleva credergli. Invece, era tutto vero. Tecnicamente, gli istituti non hanno diminuito le erogazioni. Hanno semplicemente tagliato fuori dalla lista le piccole e medie imprese. A svelare la dinamica perversa che sta soffocando le Pmi è la Federazione degli Artigiani di Mestre, che si è presa il disturbo di fare due controlli sui comportamenti delle banche italiane. Ebbene, dall’indagine è emerso che il 78% dei prestiti va a finire nelle casse del 10% dei richiedenti. In altre parole alle grandi imprese. Il restante 22% è invece stato diviso scrupolosamente tra famiglie, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori, che rappresentano il 90% della clientela.
Nel dettaglio, la Cgia rivela che al 31 dicembre 2008 i finanziamenti complessivi erogati dalle banche italiane erano 1.304,9 miliardi. Di questi il 77,9% - in valore assoluto pari a 1.015,9 miliardi - è stato concesso ai pochi grandi gruppi presenti nel Paese, vale a dire il 10% degli affidati. Il restante 90% ha ricevuto solo le briciole: 289 miliardi, pari al 22,1% del totale dell’ammontare erogato.
Sarebbe sbagliato, ovviamente, balzare subito alle conclusioni. Ci sarà pure un motivo che spieghi la strategia delle banche. La Stessa Cgia ammette che «tutto lascerebbe pensare che ciò è dovuto al fatto che i pochi clienti privilegiati sono degli ottimi pagatori mentre gli altri non lo sono». Enigma risolto? Manco per il cavolo. La quota di sofferenze in capo al 10% dei maggiori affidati ha raggiunto, sempre al 31 dicembre 2008, una media nazionale del 76,8%. L’altro 90% dei clienti degli istituti di credito, invece, non ha restituito i prestiti nei tempi stabiliti solo nel 23,2% dei casi. La realtà, spiega la Cgia, è che ci troviamo di fronte ad «un’anomalia tutta italiana, che mette in evidenza come il sistema bancario italiano premia i grandi, che hanno un maggiore potere contrattuale, a scapito dei più piccoli». A questi ultimi vengono, infatti, «richiesti rientri in tempi rapidissimi e spesso non giustificati per far fronte alle difficoltà generate dai grandi affidati».
In vetta alla graduatoria degli istituti che prestano denaro solo alle grandi imprese c’è Milano dove l’89,2% dei finanziamenti, pari a 263,8 miliardi, è destinato alle realtà produttive maggiori. Seguono Roma (86,5% con 157,9 miliardi), Bologna (85,2%, 47,7) e Biella (81,5%, 4,1). Fanalino di coda in questa speciale classifica è Taranto con solo il 53,1% dei prestiti concessi al primo 10% di affidati. Per quanto concerne le sofferenze in capo ai grandi affidati, prosegue la Cgia di Mestre, l’importo da addebitare nello stesso periodo considerato è stato di 40,9 miliardi, pari al 76,8% del totale nazionale. Matera, con una percentuale dell'86,1%, guida la graduatoria. Seguono Biella con 85,2%, Pescara con 84,2%, Roma con 84%.

libero-news.it

sabato 20 giugno 2009

Il Senato accelera sui sindacalisti in cda

Ve lo immaginate Guglielmo Epifani nel cda della Fiat? L’ipotesi non è così inverosimile. Sul tema della partecipazione dei lavoratori all’impresa c’è chi in Parlamento e al governo sta lavorando seriamente. La questione è un vecchio pallino del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, che l’ha rilanciata subito dopo l’insediamento del nuovo esecutivo. Il dibattito è poi proseguito più o meno silenziosamente fino al recente congresso della Cisl, dove Sacconi è tornato all’attacco, raccogliendo il consenso di Bonanni e la timida apertura della presidente di Confindustria, Marcegaglia. Ora il dossier ha ricevuto un’improvvisa accelerazione. Il Senato ha ripreso in mano il pacchetto di disegni di legge targati Pdl e Pd. L’obiettivo è sfornare un testo unico prima dell’estate.
All’operazione stanno lavorando congiuntamente le commissioni Lavoro e Finanze. Uno dei relatori, Pietro Ichino, ha già preparato un bozza comune che riassume i principali ddl firmati da Treu, Bonfrisco, Castro, Adragna. Il percorso dovrebbe essere favorito dal sostegno promesso da Sacconi. «Il governo», ha detto, «ha la volontà di accompagnare con la migliore tempestività la riforma». Ma la materia è delicata e i nodi da sciogliere sono tanti. Sul tavolo ci sono diverse opzioni. Da quelle più light, che limitano la partecipazione al piano economico, a quelle più incisive, che ipotizzano un ingresso nelle stanze dei bottoni. Il confine è sottile. Molti ddl prevedono di conferire ai lavoratori “poteri di impulso e di vigilanza in materia di pari opportunità, di salute e di sicurezza”. Ma c’è anche chi pensa alla possibilità di controlli sul bilancio e a una presenza diretta nel consiglio di sorveglianza (che decide gli indirizzi strategici e ha il potere di revocare i manager) nel caso di imprese con governance duale. Alla mente vengono i modelli Chrysler e GM, dove i fondi dei lavoratori controllano quote azionarie tra il 40 e il 50% e siedono nei cda. Una prospettiva che, conoscendo il grado di conflittualità e di rigidità del nostro sindacato, qualche brividuccio lo fa venire. «Nessuno ha in mente il modello Usa», rassicura la senatrice Cinzia Bonfrisco. «L’obiettivo è arrivare ad una evoluzione della bilateralità già prevista dalla legge Biagi per aumentare il grado di trasparenza e diminuire il livello di conflittualità. Per far questo penso principalmente a una partecipazione finanziaria attraverso i fondi pensione e forme di controllo su sicurezza e pari opportunità». Insomma, si tratterebbe di favorire la complicità tra aziende e lavoratori «senza sconfinare nella cogestione».
È cauto Giuliano Cazzola, che alla Camera ha presentato una proposta simile: «Bisogna intendersi sul ruolo dei sindacati, che dovrebbero rimanere fuori per lasciare spazio a rappresentanze aziendali. Per me l’idea da portare avanti è un allargamento delle stock option dai manager a tutti i dipendenti». Più scettico Benedetto della Vedova, che si dice disponibile alla discussione, purché il presupposto sia quello della non obbligatorietà, ma ritiene che «nessuna delle due emergenze attuali, e cioè rilanciare la produttività e alzare il livello dei salari, possa trarre beneficio dall’introduzione di elementi farraginosi di compartecipazione o cogestione».

libero-news.it

Sacconi striglia i bamboccioni

L’occupazione, ci dice l’Istat, cala in Italia per la prima volta dopo 14 anni. Ma non è questo a preoccupare il ministro Maurizio Sacconi, che anzi si aspettava cifre ancora peggiori: «È un dato inferiore rispetto a cio che potevamo temere». Il problema è nel dettaglio di quei numeri, che ci raccontano un Paese dove gli immigrati si rimboccano le maniche mentre gli italiani se ne restano a poltrire. La diminuzione complessiva di 204mila unità nel primo trimestre del 2009 (-0,9%) è infatti dovuta ad un calo di occupazione di 426mila italiani e dell’aumento di 222mila stranieri.
Di qui l’affondo di Sacconi contro quelli che Padoa-Schioppa avrebbe chiamato “bamboccioni”. Quei giovani, lascia intendere il ministro del Welfare, che fanno i difficili e preferiscono restarsene a casa piuttosto che accettare lavori ritenuti troppo umili. «Il dato Istat», ha spiegato Sacconi a margine del convegno dell’associazione dei medici dirigenti Anao, «deve fare riflettere gli italiani sul fatto che continuano ad esserci lavori rifiutati». In «una grande crisi come questa», ha proseguito il ministro, «è necessario che soprattutto per i giovani ci sia una maggiore attitudine ad accettare anche quei lavori per i quali si riscontra disoccupazione italiana e ricorso a immigrati e, a volte, anche a immigrati clandestini».
Il rimbrotto può essere condivisibile, ma non è del tutto meritato. L’aumento dell’occupazione straniera è infatti dovuto principalmente a quello della comunità immigrata, al cui interno si verifica ugualmente, seppur ridotto (-0,5%), un calo dei posti di lavoro. La realtà, come denunciano da tempo le associazioni di categoria e le Pmi, è che la crisi sta colpendo con più violenza il lavoro autonomo e in particolare i piccoli imprenditori (che lasciano sul terreno 163mila unità), mentre il lavoro dipendente continua a crescere (+66mila).
E insieme alla piccola impresa l’altro allarme rosso provocato dalla crisi riguarda la spesa pubblica, in particolare quella sanitaria, che secondo Sacconi si prepara ad «esplodere» con un buco in sole sei regioni del Centro Sud di 3-3,5 miliardi. E qui il ministro è in perfetta sintonia con la Marcegaglia: non c’è tempo da perdere.
«C’è una situazione di pericolosa esplosione incontrollata della spesa sanitaria, che coincide», ha ammonito il ministro, «con situazioni di inefficienza e di carenza di servizi ai cittadini». Quindi l’annuncio che misure risolutive arriveranno al più presto: «Tutto si concentra nelle decisioni che dobbiamo prendere entro il mese di luglio per le regioni Sicilia, Campania, Molise e Calabria, oltre alle verifiche che dobbiamo fare sul piano di rientro dell’Abruzzo e sulla situazione del Lazio». Bisognerà verificare se queste regioni hanno preso le decisioni per azzerare il disavanzo strutturale nel 2009. Altrimenti si procederà al commissariamento». Bisogna farlo, ha spiegato il titolare del Welfare, «sennò non diventa più credibile il rispetto dei criteri di gestione equilibrata che hanno le altre Regioni» ed i «4,5 miliardi in più previsti per il 2010-2011 potrebbero non bastare».

libero-news.it

venerdì 19 giugno 2009

Marcegaglia non molla: «Riforme ora o mai più»

Niente riforme, niente ripresa. E’ diventato un tormentone quello di Emma Marcegaglia. Ma finché non arriveranno risposte concrete, la sensazione è che la presidente di Confindustria non smetterà di ripetere il suo allarme. Così come del resto non lo faranno il presidente di Bankitalia, Mario Draghi, e il presidente del Senato, Renato Schifani, l’ultimo in ordine di tempo ad aggiungersi alla truppa dei “pungolatori”. A fornire l’occasione sono i dati del Centro studi di Confindustria presentati ieri nel corso di un seminario sull’economia italiana. Dati che lasciano intravedere un barlume di speranza per il 2010, con un Pil che dovrebbe iniziare a risalire con un +0,7% rispetto al -4,9 dell’anno in corso. Ma è troppo presto per tirare il fiato. «La congiuntura che abbiamo davanti», spiega la presidente, «ci mostra segnali di miglioramento. Ma l’emergenza non è finita. veniamo da anni pesanti e quello 0,7% ci dà sollievo ma continua a lasciarci con un gap di crescita molto pesante e molto forte». L’analisi della Marcegaglia ricorda assai da vicino la posizione espressa qualche giorno fa da Draghi, che ha invitato i governo a rimboccarsi le maniche e a lavorare con serietà sulle exit strategy, perché altrimenti l’economia potrà ripartire, ma dalla crisi non se ne esce. I numeri italiani, del resto, descrivono un Paese zavorrato, che per tornare a correre avrà bisogno di ben altro che uno zero virgola di pil. Basti pensare alla disoccupazione, che secondo il Csc si attesterà all’8,6% (rispetto al 6,7 del 2008) nel 2009 per poi balzare al 9,3 nel 2010. Con la conseguenza di un milione di persone in Cig o senza lavoro. Ma a spaventare è soprattutto il debito pubblico che passerà dal 105,7% del Pil del 22008 al 114,7 fino al 117,5% nel 2010. Così come il rapporto deficit/pil, che resterà ben al di sopra dei parametri di Maastricht anche nel 2010 (4,7%). Per questo, spiegano gli economisti di Viale dell’Astronomia, è «indispensabile migliorare l’ambiente competitivo». E per questo, insiste la Marcegaglia, servono le riforme. Altrimenti, «ci metteremo 5 anni almeno per tornare ai livelli di crescita precedenti al 2007».
L’agenda delle priorità è stranota: sburocratizzazione della Pa, infrastrutture, liberalizzazioni, istruzione. Ma stavolta la Marcegaglia snocciola anche i numeri. La riforma dell’istruzione farebbe guadagnare al Pil nei prossimi vent’anni un 13%. Le liberalizzazione l’11%, mentre la lotta alla burocrazia lo farebbe aumentare del 4% ed il potenziamento delle infrastrutture del 2%. Complessivamente, si tratterebbe di far crescere il Pil del 30%. Tutto sta, dice la Marcegaglia, «nel trovare il coraggio». E bisogna trovarlo subito. Perché quando staremo un po’ meglio, avverte, «torneranno a farsi sentire le solite lobby affinché queste cose non siano fatte».

libero-news.it

martedì 16 giugno 2009

Schifani come Fini: governo troppo lento

Non bastava Gianfranco Fini. Ora a stuzzicare il governo ci si mette pure Renato Schifani. Finora il presidente del Senato aveva evitato di tirare troppo la corda. Ma ieri la seconda carica dello Stato, seppure con garbo e diplomazia, ha deciso di marcare la differenza. Dalla crisi usciremo a testa alta, ha detto, ma senza riforme (a partire dalle pensioni) non si va da nessuna parte. E il governo non sembra ancora avere messo il piede sull’acceleratore.A fornire l’occasione per pungolare Palazzo Chigi è stato il convegno dei giovani di Confindustria a Santa Margherita Ligure. A loro Schifani ha rivelato la piena sintonia con la presidente Emma Marcegaglia, ma anche col governatore di Bankitalia, Mario Draghi, quando chiedono il cambio di rotta per evitare che le conseguenze della crisi si abbattano sui più deboli, sui lavoratori e sulle piccole imprese. «Le dure cifre sulla disoccupazione e la distribuzione delle attività economiche sul territorio ci testimoniano ogni giorno la necessità di porre mano alle grandi riforme», ha incalzato il presidente di Palazzo Madama, aggiungendo che l’Italia «ha una crescita inferiore ai partner europei». Per questo, «le riforme sono divenute necessarie ed urgenti. Per colmare questo divario e per evitare le conseguenze della crisi sui lavoratori». Pensioni, ammortizzatori sociali, liberalizzazione dei servizi, giustizia e università sono le novità che servono. E nessuno è autorizzato a tirarsi indietro. «Tutti siamo chiamati ad affrontare questo obiettivo», ha spiegato. E se è ovvio che «il governo valuterà tempi e modi delle riforme, che sono diversi da quelli dell’imprese», questo non significa che ci si possa fermare a tirare il fiato. Soprattutto sui temi più delicati. L’innalzamento dell’età pensionabile, ad esempio, su cui il governo tentenna con continui stop and go (l’ultimo no categorico è arrivato dal ministro Giulio Tremonti), «appare improcrastrinabile», anche se deve avvenire «con l’accordo di tutte le parti». Così come non può più aspettare il piano per il Sud. «Rinnovo al governo e alle Regioni del Mezzogiorno», ha detto, «l’appello già rivolto di recente a cooperare per la definizione di un concreto e responsabile Piano per il mezzogiorno». Poi il presidente del Senato ha posto l’accento sull’importanza delle Pmi. Soprattutto «quelle giovani, che hanno una funzione che investe il punto di vista sociale e sono quelle che possono e devono grandemente contribuire alla ripresa». Sulla ripresa Schifani si allinea con l’ottimismo di Silvio Berlusconi, sostenendo che «siamo un grande Paese e che usciremo dalla crisi a testa alta», ma non senza ricordare che «l’Italia deve essere modernizzata». Poi, in sintonia con Fini, è tornato a difendere la riforma del Parlamento, che non punta a un «depotenziamento», ma «a rendere i suoi lavori più spediti e razionali». Il che si traduce «in maggiore autorevolezza e potere reale per quello che tutti consideriamo il tempio della democrazia».Infine, l’ultima staffilata. Ai quattro fattori D che frenano lo sviluppo, cioè debito pubblico, divario Nord-Sud, deficit energetico e differenziale fiscale con gli altri Paesi, ne va aggiunto un quinto: il fattore donne. L’Italia, ha ricordato Schifani, «è il paese europeo con la percentuale più bassa di donne che lavorano, il 47,2% contro una media Ue del 59,1%. Per iniziare, ha concluso, basterebbero «pochi interventi: nuove regole di organizzazione del lavoro, dei periodi e degli orari negli uffici pubblici, degli asili, delle scuole».

libero-news.it

venerdì 12 giugno 2009

Se l'Italia ci sta col Colonnello

Dalle partecipazioni sotto il 2%, che sfuggono al controllo della Consob, alla vendita di gas e petrolio. Dagli investimenti nelle tlc ai capricci calcistici, fino alle sinergie col tempio della finanza in quel di Piazzetta Cuccia. È ramificata, estesa, non sempre trasparente, ma di sicuro imponente la tela intrecciata nel corso degli anni dal colonnello Muammar Gheddafi col potere economico italiano. Una rete che negli ultimi mesi, grazie alla distensione politica avviata dal governo Berlusconi e alla smodata liquidità di cui i fondi sovrani libici dispongono in barba alla crisi mondiale, sta allungando i suoi tentacoli verso le roccaforti del sistema bancario e le aziende strategiche che lo Stato difende attraverso partecipazioni pubbliche o golden share.
Il business tra Libia e Italia non è una novità. Il primo, clamoroso, ingresso sulla scena risale al 1976, quando la Lafico (finanziaria di Gheddafi) entrò a sorpresa nel capitale Fiat con il 9,7%. Poi i libici riapparvero con un più modesto 2% tra il 2002 e il 2006. Da allora la quota, invisibile alla Consob, dovrebbe essere ulteriormente scesa. Ufficiale è però il 7,5% che Lafico detiene ancora nella Juventus, subito sotto la Giovanni Agnelli & C. Antico e consolidato è poi il rapporto commerciale con l’Eni. Affari preziosi e irrinunciabili per l’Italia, visto che dalla Libia importiamo il 30% del petrolio complessivo e il 12,5% del gas, per un totale del 10% del nostro intero fabbisogno energetico. L’alleanza con l’Eni, d’altro canto, fa comodo anche al colonnello, che non a caso a fine 2008, in cambio di ben 28 miliardi di euro di investimenti, ha deciso di rinnovare le concessioni del Cane a sei zampe fino al 2047.
Ma la campagna d’Italia sembra ora avere acquisito ritmi molto più serrati e obiettivi più ambiziosi. Ad agosto 2008 la Libyan post è entrata nel capitale di Retelit, società italiana di dorsali per le comunicazioni, con il 14,7%. E da mesi si parla di un possibile investimento in Telecom, di cui Gheddafi sarebbe disposto ad acquistare il 10%. Intenzioni bellicose riguarderebbero poi proprio l’Eni, di cui la Libyan investment authority (con “soli” 65 miliardi di dollari in cassa) ha già l’1%. L’idea sarebbe di salire almeno fino al 5%, ma il colonnello non disdegnerebbe una quota del 10. Stesso discorso per l’Enel, dove i libici dovrebbero partecipare all’aumento di capitale in corso. Ipotesi entrambe confermate ieri dal ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola: «I libici hanno liquidità e sono interessati».Così a prima vista l’Italia sembra nella scomoda posizione della preda. Ma ad uno sguardo più attento non si può escludere che il fronte libico diventi una seria opportunità. Così, ad esempio, è stato per Unicredit, che in autunno solo grazie ai fondi di Gheddafi (che ha sottoscritto anche la quota di spettanza della Cariverona) è riuscito a far andare in porto la necessaria ripatrimonializzazione dell’Istituto. Certo, ora il colonnello è il secondo socio di una delle due principali banche italiane con il 4,6% (che potrebbe diventare il 7 se le obbligazioni saranno convertite in azioni) e ha anche piazzato un suo uomo nel cda. Ma tutta l’operazione è stata gestita sotto l’attenta regia della Mediobanca di Cesare Geronzi, che è anche l’advisor per tutti gli investimenti dei libici in Italia. Difficile credere che il banchiere si lasci infinocchiare dagli uomini del colonnello. Così come è difficile che la situazione sfugga di mano ad Enrico Vitali, consulente di livello internazionale nonché socio dello studio tributario di Tremonti, che presiede il Comitato strategico del governo per gli investimenti stranieri in Italia.
E per quanto riguarda le opportunità non bisogna neanche sottovalutare le implicazioni dell’accordo sottoscritto dal premier Berlusconi con Gheddafi nell’agosto del 2008. Cinque miliardi in 20 anni per fare la pace sono tanti, ma se quei soldi finiranno in buona parte in pancia ad aziende italiane (come è previsto dal protocollo) piuttosto che ad aziende straniere l’esborso non sembra poi così oneroso. Senza contare che l’intesa prevede che la Libia utilizzi prevalentemente nostre imprese per realizzare il grande piano infrastrutturale di modernizzazione del Paese per cui il colonnello ha stanziato qualcosa come 150 miliardi di dollari. In ballo ci sono già aziende leader come Finmeccanica, Ansaldo, Fs, Impregilo, che si sono aggiudicate appalti da centinaia di milioni. Ma ci sarà spazio anche per centinaia di piccole e medie imprese. Con una contropartita così, forse qualche rischio si può anche correre. Tanto più che di fondi sovrani il mondo e pieno. E alcuni potrebbero persino far rimpiangere Gheddafi.

libero-news.it

mercoledì 10 giugno 2009

Voight senza rivali: dopo la Jolie, Gingrich

Pensavamo che la sua filmografia zeppa di cult movie e l'avere messo al mondo Angelina Jolie bastassero a fare di Jon Voight uno dei miti assoluti del cinema hollywoodiano. Ora scopriamo anche che tra una pellicola e l'altra se ne va in giro a parlar male di Obama accanto alla Palin e all'intramontabile Newt Gingrich (leggi l'articolo), che già scalda i muscoli per la Casa Bianca. «È ora di farla finita con questo falso profeta», ha tuonato a un banchetto dei Repubblicani. Inarrivabile!

martedì 9 giugno 2009

Iata e Lega gelano Alitalia

Lunedì nero per Alitalia. Da una parte i risultati elettorali, che premiano la Lega e non promettono nulla di buono sulla questione Malpensa. Dall’altra i dati catastrofici diffusi dalla Iata, che dipingono un quadro ben peggiore di quello su cui Colaninno e soci hanno costruito il piano industriale. Su quest’ultimo fronte i guai sembrano grossi. Basti pensare che a dicembre del 2008 l’associazione che riunisce 230 compagnie aeree (pari al 93% del traffico internazionale) stimava per il 2009 un calo dei passeggeri del 2,7%, con perdite complessive per il settore di 2,5 miliardi di dollari. E’ su queste basi che gli uomini di Colannino e Sabelli hanno calcolato investimenti e sostenibilità del piano per la nuova Alitalia. «La situazione non poteva essere più difficile», diceva allora l’ad di Iata, Giovanni Bisignani, riferendosi al decollo della compagnia di bandiera, «per iniziare qualcosa ci vuole molto coraggio».

Ora la musica cambia. E non di poco. Il traffico passeggeri è previsto in calo dell’8% (dato che sale al 17% per le emrci), le perdite complessive del settore a 9 miliardi (che sommate ai 10,4 del 2008 arrivano a quasi 20 miliardi). «Non esistono precedenti recenti che possano essere paragonati alla crisi economica attuale», ha spiegato ieri da Kuala Lumpur Bisignani, «Il terreno è slittato. La nostra industria è stata scossa. Questa è la situazione più difficile che l’industria sia mai stata chiamata ad affrontare». In effetti i dati sono addirittura peggiore di quelli relativi al 2001, quando l’undici settembre provocò una flessione del fatturato del 7%. Ora siamo di fronte ad un calo del 15%, il che significa meno ricavi per 80 miliardi di dollari.

L’unica nota positiva arriva dai costi del carburante. La voce è prevista in diminuzione di 59 miliardi di dollari. In realtà, tutto è appeso all’andamento del greggio. E il rischio al quale abbiamo assistito nelle ultime settimane, ha ammesso l’ad di Iata, «è che anche il minimo bagliore di speranza di ripresa economica serva a fare aumentare nuovamente i prezzi. Così possiamo trovarci di fronte ad un aumento prima di renderci conto di qualsiasi miglioramento delle entrate». Insomma, sul carburante è difficile fare previsioni.

Più semplice è invece immaginare quello che succederà su Malpensa. Quel 10,2% incassato dal Carroccio alle europee e gli ottimi risultati conseguiti anche alle amministrative ridarà vigore alle richieste del Nord sullo scalo milanese. A partire da quella relativa alla liberalizzazione degli slot per dare la possibilità ad altre compagnie di investire seriamente sull’aeroporto. A riaprire senza giri di parole la questione è stato ieri Marco Reguzzoni. «È stata fatta da parte della sinistra una campagna contro la Lega a proposito di Malpensa», ha detto il vicesegretario della Lega Lombarda, «ma la gente ha capito che la Lega ha agito con coerenza, compreso bene come stanno le cose. Infatti proprio nell’area di Malpensa siamo cresciuti moltissimo. È un risultato che aiuta il futuro dello scalo milanese».

«Contro il mercato non si può andare», aveva detto qualche giorno fa il viceministro delle Infrastrutture, Roberto Castelli, «e il mercato ci dice che la maggior parte del traffico intercontinentale sta in Padania. I tentativi dirigistici di governare il flusso dei passeggeri sono inevitabilmente destinati a fallire». Palazzo Chigi è avvertito. L’Alitalia pure.

libero-news.it

venerdì 5 giugno 2009

Effetto benzinai: prezzi impazziti anche al negozio

Ricordate la storia dei benzinai? Al di là delle intricate spiegazioni dell’Unione petrolifera sui complicati meccanismi che regolano l’andamento delle materie prime sui mercati, quello che accade solitamente è che quando il prezzo del petrolio sale non facciamo in tempo ad uscire di casa che i cartelli del distributore di benzina sono già stati cambiati, con le cifre che salgono. Quando invece il greggio scende, potete anche star tranquilli che prima di vedere sconti sul carburante possono passare anche dei mesi.

Ebbene, la cattiva notizia è che i benzinai non sono affatto un caso isolato. Lo stesso identico meccanismo accade infatti anche con moltissimi altri prodotti che consumiamo regolarmente. Il gioco è sempre lo stesso: quando i prezzi all’origine salgono, salgono anche quelli per il cliente finale, quando scendono, gli altri restano uguali o, peggio ancora, aumentano. A svelare il trucchetto sono gli esperti del Cerm, che si sono presi la briga di mettere a confronto i prezzi alla produzione con quelli al consumo. Il risultato non lascia spazio all’immaginazione.

Da aprile 2007, si legge nello studio del Cerm, «entrambi gli indici hanno cominciato ad aumentare, con una dinamica più intensa per i prezzi alla produzione, a causa della fiammata dei corsi del greggio». Fin qui tutto normale. Il bello viene ora: da luglio-agosto 2007, mentre i prezzi alla produzione iniziano un rapido rientro che li porterà a ridursi di quasi il 9%, i prezzi al consumo resistono, si flettono leggermente, per poi riprendere ad aumentare. Lo stesso è successo in tempi più recenti. L’indice alla produzione tra settembre 2008 e aprile 2009 si è ridotto del 4,6%, l’indice al consumo è invece restato sostanzialmente invariato. Anzi, i prezzi che troviamo nei negozi da gennaio 2009 hanno già ripreso a salire. La sostanza, spiegano il direttore del Cerm e il senior economist Nicola Salerno, «è che in Italia i prezzi al consumo sono molto reattivi quando si tratta di aumentare, mentre non hanno mai voglia di scendere». Proprio come quelli della benzina. Un mal comune di cui, però, c’è poco da stare allegri.

libero-news.it

C’era una volta il triangolo industriale

Che la crisi economica si fosse abbattuta con violenza sull’Italia è cosa nota. L’Istat ha diffuso alcuni mesi fa i dati sul pil nel 2008 (calato dell’1%) certificando una recessione che non si vedeva dalla metà degli anni ’70. Con picchi trimestrali negativi che ci portano indietro fino alle prime serie storiche, cioè da quando i tecnici dell’Istituto nazionale di statistica si prendono la briga di fare due conti sulla nostra economia.

Quello che ancora non si sapeva è chi ha preso più bastonate. Così, a naso, gli occhi della maggior parte di noi sarebbero andati subito verso il basso. Se il fieno viene a mancare è inevitabile che a farne le spese sia chi ne ha meno in cascina. E in effetti il Mezzogiorno sta pagando a caro prezzo il passaggio del ciclone economico-finanziario, con aumenti robusti di una disoccupazione già alta e difficoltà enormi per le imprese già in affanno.

Calvinisti e lumbard

Ma ad uscire veramente con le ossa rotte dalla crisi non è tanto il Sud pigro, burocratizzato e arretrato. E, udite udite, neanche i sudditi piacioni e indolenti di Roma ladrona. No, a soffrire di più gli effetti della recessione è stato il Nord operoso, moderno e iperattivo. Quello verso Ovest in particolare, regno degli instancabili lumbard e del calvinismo piemontese. Piaccia o no ai leghisti dalle scarpe grosse e dalla vivace partita Iva, è qui che i colpi della frenata dell’economia si sono fatti sentire con più intensità.

Le spiegazioni sono tante, a partire da quella più banale e scontata per cui se ad essere colpita maggiormente colpita dalla recessione è l’industria, è inevitabile che dove ce n’è tanta il contraccolpo sia sonoro. Ma fa comunque impressione assistere alla frenata del motore d’Italia, al passo falso di quel triangolo industriale Milano-Torino-Genova che dagli anni ’50 ad oggi non si era mai fermato rendendo possibile il miracolo economico e avvicinando il Paese all’Europa. Eppure, i dati parlano chiaro. Rispetto ad una media nazionale del -1% nel 2008, secondo i dati diffusi ieri dall’Istat, a resistere meglio è stato il Centro (-0,8%) seguito dal Nord Est (-0,9%). C’è poi il Sud (-1,3%) che, come noto da sempre, non se la passa troppo bene.

E infine il clamoroso dato del Nord Ovest, dove il pil è sceso più in basso (-1,1%) di quello nazionale. Tra le cause, certamente, la marcata caduta del comparto industriale, il cui valore aggiunto è crollato nel 2008 in maniera rilevante del 3,3%.

Pmi in frenata

Ma la responsabilità della frenata non va ricercata solo nella grande impresa. Anzi, la realtà è che tra le triangolazioni sindacato-governo-Confindustria a restare schiacciate dalla crisi sono state principalmente le Pmi, che rappresentano il 99% del tessuto produttivo del nostro Paese. «È inevitabile», spiega il presidente di Confapi, Paolo Galassi, «che la crisi della piccola e media industria manifatturiera abbia pesanti ripercussioni sul Pil, soprattutto nel Nord dove è storicamente più radicata e florida».

Il problema ora è il futuro. Ieri la Banca centrale europa ha tagliato ulteriormente le stime su Eurolandia, prevedendo per l’anno in corso un pil a picco, tra il -4,1 e il -5,1%. Mentre il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, solo qualche giorno fa ha previsto per l’Italia un prodotto interno lordo in caduta del 5%. Se tanto ci dà tanto, quella contrazione si farà sentire ancora in maniera robusta sul Nord Ovest se il sistema non si rimetterà in moto. E dopo aver letto i dati Istat appare chiaro che per far ripartire l’Italia non basterà aiutare il Sud.

il sud della retorica

Se c’è un elemento positivo nella fotografia scattata dagli esperti dell’Istituto è che quei numeri dovrebbero spazzare via la vecchia retorica meridionalista che considera il gap tra il Nord e il Mezzogiorno come l’unica vera piaga italiana. Ora in difficoltà c’è anche il triangolo industriale, con le sue aziende nazionali e con le sue piccole imprese che, come dice Galassi, «denunciano cali di fatturato tra il 30 e il 70%».

Il punto, continua il presidente di Confapi, è «che non ci sarà una ripresa senza la volontà di costruire le basi della ripresa, con misure concrete a sostegno della struttura produttiva nazionale». Già, perché anche sulla produttività se il Mezzogiorno ha fatto segnare un -0,5%, il Nord Ovest è invece calato dell’1,1%.

La buona notizia è la resistenza dell’agricoltura. Che è cresciuta in tutte le aree d’Italia, compreso il Nord Ovest, dove il valore aggiunto agricolo è aumentato dell’1,3%. Si tratta di un fattore antirecessione di cui bisognerà tenere conto per organizzare la ripartenza.

libero-news.it

martedì 2 giugno 2009

Times al veleno: Berlusconi clown

«Un buffone sciovinista che disprezza gli italiani». Stavolta Rupert Murdoch ci è andato giù pesante. Un editoriale in prima pagina sul suo Times infarcito di insulti e giudizi durissimi all’indirizzo di Silvio Berlusconi. Da «anziano libertino» a «comportamento privo di dignità» fino alla «alla maschera del clown che cade» (questo il titolo dell’articolo) quando «vengono poste domande legittime su rapporti che toccano lo scandaloso». Il tutto per concludere «che l’aspetto più di cattivo gusto non è che egli sia un buffone sciovinista. Né che si accompagni con donne che hanno 50 anni meno di lui. La cosa più scioccante è l’assoluto disprezzo con cui tratta gli italiani». Parole violente, che non hanno però impressionato più di tanto il Cavaliere. «I collegamenti tra certi gruppi editoriali italiani e stranieri sono stretti e i giornali stranieri ripetono pedissequamente accuse che in Italia non hanno seguito», ha tagliato corto, «sono cose ispirate dalla sinistra». In effetti, quello di ieri non è il primo intervento a gamba tesa di Murdoch sulla vicenda Noemi. In particolare, tralasciando alcune gaffe dovute ad eccesso di zelo (il “Signore” cui dice di affidarsi la mamma di Noemi viene tradotto con “Berlusconi”), il quotidiano londinese era sceso in campo contro il premier, sempre con un editoriale, il 18 maggio. In quell’occasione l’articolo spiegava che «l’attacco di Berlusconi contro un giornale italiano è una campagna per intimidire il dissenso». Il giornale era ovviamente La Repubblica. E, al di là degli insulti sparpagliati qua e là, lo scritto del quotidiano aveva l’unico obiettivo di difendere le “dieci domande” di «un giornale che sta facendo un’opera di pubblico servizio per una popolazione malamente governata». Ma più che a un fedele alleato il quotidiano del Gruppo Espresso somiglia a un nemico del nemico. Un’occasione come un’altra, insomma, per affondare l’ennesimo colpo. Già, perché negli ultimi mesi, a partire dalla dura campagna di Sky contro l’aumento deciso dal governo dell’Iva dal 10 al 20% (che poi la tv satellitare ha scaricato sui clienti, mentre Mediaset se l’è accollato), il magnate australiano non ha davvero risparmiato gli attacchi, in quella che più che una guerriglia politica sembra uno scontro tutto economico sul mercato delle pay tv in Italia. Finché Mediaset si è occupata di tv in chiaro, infatti, i due sono andati d’amore e d’accordo. Del resto, Sky nasce anche da una costola (Tele+) dell’impero Fininvest, che la famiglia Berlusconi cedette nel 2003. «In Italia c’è pluralismo, la Rai è anti-berlusconiana come gran parte dei media», diceva allora il tycoon, che oltre al Times e a Sky ha giornali e tv in ogni angolo del mondo (con un fatturato di 28 mld di dollari, dieci volte più di Mediaset). Da quando però la pay tv di Segrate, nel 2005, ha acquistato i diritti del calcio per il digitale terrestre, Murdoch ha iniziato a storcere il naso. Negli ultimi tempi, poi, la concorrenza si è fatta più serrata, con il progetto di Mediaset di sbarcare sul satellite con una propria piattaforma. Il caso Fiorello, portato a Sky con una super offerta, dimostra che la guerra è senza esclusione di colpi. La vicenda Noemi ha semplicemente fornito allo “squalo” il terreno per sferrare quelli più bassi.

libero-news.it