sabato 27 febbraio 2010

La Saras lascia i Moratti (e l’Inter) a bocca asciutta

Forse la vittoria europea dell’Inter sul Chelsea di mercoledì scorso sarà servita ad addolcire un po’ la lettura dei bilanci. Il colpo è comunque di quelli duri. Fino a qualche mese fa Massimo Moratti aveva sperato di riuscire a salvaguardare «i migliori ritorni possibili per gli azionisti». Di fronte alla perdita netta di 54,5 milioni con cui la Saras ha chiuso l’esercizio 2009, però, le illusioni sono svanite: per quest’anno, niente dividendi. È questa la decisione che il cda proporrà all’assemblea degli azionisti. Una strada obbligata, visti i numeri. Basti pensare che nel 2008 il gruppo petrolifero aveva incassato 327,2 milioni di utili. Per il resto, il margine operativo lordo del gruppo ammontaa 141,2 milioni, in calo del 79%, mentre l’ebit è negativo per 51,9 milioni, in calo del 110%. Scendono anche i ricavi, che nel 2009 registrano una flessione del 39%, a quota 5.317 milioni. Risultato: la posizione finanziaria netta a fine anno è crollata a quota -533 milioni rispetto ai 333 milioni del 2008. Una doccia fredda per gli azionisti della Saras e per i mercati (il titolo ha chiuso in calo del 6,39% a 1,68 euro), ma anche per i tifosi dell’Inter, ormai abituati a considerare le ricche cedole del gruppo la migliore garanzia per i successi della squadra. Già perché senza i proventi del greggio, difficilmente la società di calcio sarebbe ancora in piedi. Anche l’ultimo anno il presidente Moratti ha dovuto sborsare 70 milioni di tasca sua per tappare il buco da 154,4 milioni con cui il club ha chiuso l’esercizio 2009. Ma la consuetudine va avanti da tempo. Anche perché è da tempo che l’Inter non riesce a tenere i conti in pareggio. Nel bilancio chiuso il 30 giugno 2008 la società ha dichiarato una perdita netta di 148,27 milioni, su un giro d’affari, escludendo le plusvalenze su cessione calciatori (pari a 8 milioni), di 197 milioni. Mentre egli undici bilanci che vanno dalla stagione 1995/96 al 2005/06, l’Inter ha accumulato 661 milioni di passivo e Moratti ha provveduto, sempre personalmente, a versare 400 milioni nelle casse. I soldi, finora, sono sempre arrivati dalla Saras. Qualche volta, stando ad alcune inchieste della magistratura, anche in maniera non del tutto trasparente. Quest’anno, però, i conti non torneranno più. Niente dividendo da travasare per tamponare il debito monstre che ad oggi sfiorerebbe i 400 milioni di euro. Un dramma? Non necessariamente. La soluzione c’è. Una bella sfoltita ai gioielli di famiglia. Quelli che ogni domenica si danno tanto da fare sul rettangolo verde. Di fronte a un’ipotesi del genere c’è da scommettere che il club riceverebbe la solidarietà, anche finanziaria, di tutti i tifosi italiani. A partire, ovviamente, da quelli di Milan e Roma.

Addio a Fragalà, instancabile cercatore di verità e giustizia

Amava il diritto e i diritti, Enzo Fragalà, soprattutto quelli non sempre rispettati nei Palazzi di giustizia.
E per difenderli si batteva con forza nei tribunali e in Parlamento. Ma una parte delle sue energie la riservava ad altri luoghi ed altri tempi. Alla sera, per esempio, quando si aprivano le sedute della Commissione Stragi. È lì che l’avvocato si mescolava allo storico, il politico all’investigatore. È lì che Fragalà smontava teoremi, svelava retroscena, incrinava certezze. Memoria di ferro, oratoria finissima, l’esponente di An era la testa di ariete del drappello di parlamentari di centrodestra che aveva deciso di fare a pugni con cinquant’anni di storiografia, di intaccare i miti granitici del dopoguerra: dalla strategia della tensione all’eversione di destra, dai servizi deviati alla vulgata sulla strage di Bologna. Episodio, quest’ultimo, su cui Fragalà non ha mai smesso di martellare, fino ad ottenere impensabili sintonie.
Una lotta impari, quella di cui fu teatro la commissione Stragi presieduta dal senatore dell’allora Pds, Giovanni Pellegrino, se nell’autunno del 1999 non fossero piombate nei corridoi di San Macuto le oltre 600 pagine trafugate dagli archivi del Kgb da un certo Vasilij Mitrokhin. Evento che porto l’organismo bicamerale
al centro del mondo. E che rialzò d’un balzo la temperatura del confronto tra i due schieramenti sui risvolti fumosi dei cosiddetti misteri d’Italia. Ho avuto la fortuna, insieme ad altri colleghi, di lavorare al fianco di Fragalà come consulente della Stragi proprio in quegli anni. Ricordo come fosse ieri l’instancabile grinta con cui il deputato di An, sorriso d’ordinanza sulle labbra, cortesia ed eleganza d’altri tempi, incalzava e si batteva su ogni questione, su ogni argomento, su ogni piccolo episodio, pur di sollevare dubbi, seminare interrogativi.
La storia d’Italia, forse, non è stata riscritta. Ma nei documenti usciti da quella commissione Stragi ci sono molti pezzi di verità, frammenti da cui ripartire per una memoria condivisa. Tanti, inutile dirlo, portano proprio la firma di Fragalà.

venerdì 26 febbraio 2010

Una legge “inglese” per fermare Veronica Lario

Un trust per proteggere il patrimonio da possibili faide fra gli eredi. Potrebbe arrivare dalla nuova legge europea la soluzione ai problemi familiari di Silvio Berlusconi. In particolare, alle grane legali che rischiano di scaturire dal divorzio chiesto da Veronica Lario. Questo, secondo quanto anticipato da Mf, il progetto cui sta lavorando un pool di ministri. Dal Guardasigilli, Angelino Alfano, al titolare dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, fino al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti.
Al centro dell’operazione ci sarebbe il trust di tradizione anglosassone. L’istituto è già presente nella legislazione italiana. Con la riforma verrebbe armonizzato alla normativa europea. Il veicolo naturale è il ddl comunitaria, con cui ogni anno il governo recepisce le direttive provenienti da Bruxelles. Il provvedimento, all’articolo 10, contiene una delega al governo per rimettere ordine, entro due anni dall’entrata in vigore della legge, al groviglio di norme che attualmente regolano la gestione e la divisione dei patrimoni.
Argomento che sta molto a cuore al Cavaliere, impegnato da alcuni mesi a ragionare su una spartizione dell’impero tra i suoi cinque figli che tenga conto dei veti parentali e dei possibili contraccolpi legati al divorzio con Veronica Lario. L’idea è quella di applicare anche in Italia la disciplina prevista dalla Convenzione dell’Aja, che darebbe a Berlusconi la possibilità di dividere il suo patrimonio in più trust, intestati ciascuno ad un erede diverso e gestiti per un certo numero di anni da un soggetto fiduciario che distribuisca ai titolari una percentuale dei profitti. A quel punto le somme e gli asset sarebbero blindati. Al riparo anche da eventuali incursioni attraverso vincoli da testamento o disposizioni del Tribunale. La disciplina di fiducia sarebbe insomma una cassaforte più sicura di quella rappresentata dalla donazione, che resta comunque esposta ad azioni di rivalsa da parte degli eredi.
L’utilizzo del trust, probabilmente, servirà anche a compensare i problemi legati alle cariche manageriali. Piersilvio sta a capo di Mediaset e Marina guida Mondadori. Si tratta ora di far entrare gli altri tre: Luigi, Barbara ed Eleonora. Ognuno di loro vorrebbe un incarico di importanza eguale a quella dei fratelli più grandi. Qualche passo in questa direzione è già stato fatto. Luigi si sta occupando di Mediolanum ed Eleonora ha cominciato uno stage in Mediaset. Resta il problema di Eleonora cui piacerebbe sostituire Marina alla testa della Mondadori. Un’ipotesi al momento piuttosto remota che, tuttavia, sta avvelenando il clima in famiglia
Prima di spartire, comunque, c’è ancora tempo per incassare. E le somme arrivate dall’impero Fininvest, malgrado la crisi, sono tutt’altro che trascurabili. Gli utili prodotti dalle holding di famiglia nel 2009 sono complessivamente 219 milioni, un po’ meno dei 252 dell’anno precedente. Di questi, 172,88 sono finiti direttamente in tasca ai rispettivi azionisti. Al premier, che ha scelto di mettere a dividendo la quasi totalità dei profitti, arriva la fetta più grossa: 135,84 milioni. Sette sono quelli incassati da Marina, che ha lasciato nella holding i restanti 8,5, mentre altri 30 sono stati distribuiti ai figli di Veronica, Barbara, Eleonora e Pierluigi. Anche loro hanno mantenuto in cassa altri 15,5 milioni di utile. I 15,7 milioni che mancano all’appello sono quelli di Piersilvio, che ha invece preferito destinare l’intero profitto a riserva straordinaria. Per le spese ordinarie Berlusconi jr dovrà accontentarsi dei suoi 1,5 milioni circa di stipendio come vicepresidente di Mediaset.
Impressionante la liquidità delle holding. Complessivamente le società di controllo della Fininvest possono contare su 420 milioni in cassa, cui si aggiungono gli oltre 890 milioni di riserve.

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Tutti pazzi per Termini

Tutti pazzi per Termini. Può sembrare strano, ma dal primo annuncio di qualche settimana fa le offerte per lo stabilimento siciliano della Fiat non hanno mai smesso di crescere. Ieri Claudio Scajola ha assicurato che ad oggi le proposte per rilevare gli impianti sono salite di nuovo rispetto alle iniziali 8-10. «Ci sono tante diverse intenzioni», ha spiegato il ministro dello Sviluppo a margine del secondo Forum economico del Mediterraneo, «che sono state presentate. Crescono di giorno in giorno e sono diventate sedici: le stiamo valutando con attenzione, ponderatezza e trasparenza attraverso Invitalia». Malgrado l’abbondanza, Scajola sembra ancora intenzionato a battere anche altre strade. E ha ribadito l’intenzione di lanciare «un bando internazionale per chiedere altre eventuali manifestazioni di interesse».
Ipotesi che trova l’appoggio di Confindustria. «Se c’è un bando internazionale che può portare varie opportunità di mercato, che stanno in piedi, ben venga», ha detto la presidente Emma Marcegaglia. Purché, ha insistito, il risultato non sia quello di «tenere in vita stabilimenti improduttivi». La strada maestra per risolvere la situazione dello stabilimento Fiat, secondo il numero uno di Viale dell’Astronomia è quella «di reimpiegare le persone». Poi, ogni scelta può essere fatta. Basta che sia «una scelta di mercato». Ben più vincolanti i paletti posti da Guglielmo Epifani. Secondo il leader della Cgil «la soluzione dev’essere quella industriale, poi bisogna vedere con chi. Altre cose si possono aggiungere ma non bisogna muoversi dal settore auto». Il sindacalista è convinto che la Fiat non possa disimpegnarsi e che bisognerà «continuare a produrre automobili perché è l'unico settore in grado di consentire un’occupazione di quelle dimensioni».
 
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mercoledì 24 febbraio 2010

I francesi prenotano Edison

«Non è aperto nessun tavolo e non c’è una trattativa in corso». Giuliano Zuccoli è categorico. Ma l’ipotesi che i francesi siano pronti a mettere le mani su Edison rilanciata da Bloomberg ieri ha mandato in tilt le contrattazioni di Borsa. La società di Foro Buonaparte ha chiuso la seduta di Piazza Affari in salita del 2,7%, seguita a ruota dalla A2a (+1,75%) di Zuccoli, che attraverso una lunga catena societaria controlla il 61% di Edison. L’ipotesi dell’agenzia di stampa prevede che Edf (che attualmente controlla circa il 50% della società) possa rilevare un ulteriore 31% del capitale dalla superutility lombarda e dai suoi partner, usando un mix di asset e di contanti, per un valore di 1,6 miliardi di euro. Tutto falso per Zuccoli, secondo il quale «chi fornisce queste notizie deve sentirsi responsabile perché non è né giusto né corretto nei confronti dei mercati». Scelgono il silenzio invece da Parigi, dove Edf non replica alle indiscrezioni. Fonti vicine ai soci italiani sottolineano però che quella francese è effettivamente una delle ipotesi sul tavolo, insieme a quella dello spezzatino o della fusione fra Edison e A2a. Ma che per ora non sembra ci sia una accelerazione in nessuna delle direzioni. Secondo l’agenzia americana, invece, l’operazione potrebbe concludersi entro poche settimane.La vicenda è complicata già a partire dall’intreccio azionario. Edf detiene per via diretta e indiretta il 20% circa del capitale di Foro Buonaparte, mentre un altro 61,3% è controllata da Transalpina di Energia. Società che è a sua volta controllata al 50% da Edf e al 50% da Delmi. Di quest’ultima scatola A2a detiene il 51%, Enia il 15%. E non è finita, perché A2A è l’utility nata dalla fusione della milanese Aem e della bresciana Asm. Inutile dire che la complessità del controllo è direttamente proprozionale alla difficoltà di mettere d’accordo tutti i soggetti e le posizioni in campo.Non più di dieci giorni fa il presidente del colosso francese, Henri Proglio, ha detto che non c’è alcuna fretta di rinnovare i patti parasociali che regolano la governance di Edison in anticipo rispetto alla scadenza di settembre 2011. Secca, anche in questo caso, la risposta di Zuccoli: «Questo lo dice lui, noi sollecitiamo da tempo un intervento, tutti gli azionisti sono d’accordo di fare una manutenzione sia dei patti sia della gestione comune di Edison». Anche nell’ipotesi che A2a decidesse di uscire, è comunque difficile immaginare che la partita non passi da Palazzo Chigi, visto che Edison è il secondo produttore di energia italiano e diventerebbe di fatto proprietà dei francesi.E qui la faccenda si complica ulteriormente vista la partita che Edf ed Enel stanno giocando per il rilancio dell’atomo nel nostro Paese. Ai primi di aprile è previsto un vertice bilaterale Italia-Francia a Roma incentrato proprio sul ritorno del nucleare in Italia. È del tutto evidente, a questo punto, che si parlerà anche della questione Foro Buonaparte.Molte anche i nodi tecnico-finanziari che dovranno essere sciolti. Il valore indicato per l’operazione sembra ben superiore a quello attuale di Delmi che ai prezzi correnti è intorno al miliardo di euro se si considera l’indebitamento di Transalpina di Energia. Quindi l’operazione sembrerebbe a premio. Inoltre, qualora i francesi davvero decidessero di comprare le restanti azioni dovrebbero lanciare un’Opa residuale. Ed è questa eventualità, peraltro già emersa in passato, ad accendere gli entusiasmi degli investitori.Per A2a, invece, vendere in questo momento vorrebbe dire realizzare una minusvalenza, visto che le azioni Edison le ha in carico intorno a 1,55 euro, mentre l’offerta ipotizzata ieri valorizza il titolo a poco più di un euro.

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Bernabé si sfoga: «Tutti criticano nessuno investe»

Basta critiche «inappropriate ed offensive» sulla rete, basta pressioni sugli investimenti. L’ad di Telecom, Franco Bernabé passa al contrattacco alla vigilia della presentazione dei conti e, soprattutto, del piano industriale. «Non accettiamo lezioni sulla qualità delle rete di accesso», ha tuonato, «da parte di operatori che nella rete non hanno mai voluto o non sono mai stati in grado di investire» dopo che «per anni hanno beneficiato di vantaggiose tariffe di accesso e qualità». Lo scontro, dopo le indiscrezioni sul congelamento dell’operazione con Telefonica, si riaccende in occasione della presentazione della prima relazione annuale dell’organo di vigilanza sugli impegni che Telecom Italia ha preso per garantire «parità di accesso» alla rete di telefonia fissa. Impegni fin qui rispettati, indica il rapporto, anche se migliorabili nella messa a punto. I tempi del monopolio, sostengono comunque dall’azienda, sono ormai lontani e gli operatori concorrenti di Telecom hanno spalle più forti. «Il regime regolatorio», dice Bernabé li ha sostenuti per anni, dando loro «la possibilità di investire». E se non lo hanno fatto e non lo faranno, accusa, «non possono recriminare». Né possono lamentare scarsezza di investimenti, o influenzare le scelte su tempi, modalità e tecnologie «che non possono e non devono in alcun modo essere influenzate da soggetti che non partecipano all’investimento». Una sponda alla sfuriata dell’ad arriva dal presidente dell’Autorità delle Comunicazioni, Corrado Calabrò, secondo cui l’esperienza dell’ultimo anno dimostra che la scelta adottata è valida: gli obiettivi sono «raggiungibili». Servono, dice però, «regole a prova di futuro», per gestire il presente e guardare alle reti di nuova generazione evitando che «si ripresentino monopoli o strozzature», cosa peraltro «in via di superamento o forse già del tutto superata». Mentre la tradizionale rete in rame «è buona ma insufficiente nelle zone ad alta densità di traffico», e bisogna quindi accelerare sulla fibra ottica.

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Frode da due miliardi: 56 arresti per riciclaggio

Pochi spiccioli che iniziano a girare vorticosamente attraverso decine di società fittizie con l’unico scopo di succhiare soldi al fisco. È questo, in estrema sintesi, il meccanismo che ha portato la procura di Roma a spiccare 56 mandati d’arresto nei confronti di altrettanti manager e dirigenti per associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio. L’operazione, secondo il capo della Direzione distrettuale antimafia, Giancarlo Capaldo, è «una delle più colossali frodi poste in essere nella storia nazionale». L’inchiesta, scaturita dalle indagini del Ros dei Carabinieri e del nucleo di Polizia valutaria della Guardia di Finanza ruota intorno a due società di telefonia: Fastweb e Telecom Italia Sparkle (controllata di Telecom che si occupa del traffico telefonico verso l’estero).Le due aziende, si legge nel decreto del gip di Roma Aldo Morgigni, «fungevano consapevolmente da cassa dalla quale estrarre le somme di denaro oggetto di successivo riciclaggio». Nascono da qui i provvedimenti di custodia cautelare più pesanti. In particolare, quelli piovuti sulla testa di Silvio Scaglia, ex fondatore di Fastweb (che risulta al momento latitante ma secondo i suoi legali si renderà disponibile quanto prima per gli interrogatori) e di Riccardo Ruggiero, ex ad di telecom Italia Sparkle. Ma tra gli indagati, oltre a molti dirigenti delle due società, c’è anche Stefano Parisi, attuale ad di Fastweb, nonché il senatore del PdL Nicola Di Girolamo, di cui i pm hanno chiesto l’arresto anche per la violazione della normativa elettorale con l’aggravante mafiosa.Le false fatturazioniI provvedimenti del giudice delle indagini preliminari, riguardano una frode Iva da quasi 400 milioni messa in atto in due operazioni distinte. La prima nel 2003, la seconda dal 2005 al 2007. Le indagini avrebbero accertato che i capitali illegali, riciclati attraverso un sofisticato circuito internazionale finanziario e bancario, provenissero da una serie di transazioni commerciali fittizie di servizi telefonici.Ed è qui che entrano in gioco le società di tlc. Le operazioni, infatti, secondo gli inquirenti, sarebbero state realizzate con la compiacenza degli ex vertici di Fastweb e Telecom Italia Sparkle, attraverso società di comodo di diritto italiano, inglese, panamense, finlandese e lussemburghese. Nel dettaglio, il riciclaggio veniva realizzato attraverso la falsa fatturazione di servizi telefonici e telematici inesistenti, venduti mediante due successive operazioni commerciali a Fastweb e Telecom Italia Sparkle dalle società Cmc, Web Wizzard, I-Globe e Planetarium. Due le operazioni illecite individuate dagli investigatori: la commercializzazione di schede telefoniche prepagate e la commercializzazione di servizi a valore aggiunto per adulti attraverso servizi di interconnessione internazionale per il trasporto di traffico telematico. In entrambi i casi, si legge ancora nell’ordinanza del gip, i dirigenti delle società di telefonia avevano «piena consapevolezza della inesistenza dei rapporti commerciali sottostanti alla emissione di documentazione fiscale e della utilizzazione di detta documentazione al solo scopo di appropriarsi in tutto o in parte, per proprio conto o per conto delle società amministrate, dell’Iva sottratta all’Erario».La frode caroselloEd è proprio sull’Iva che gira tutto l’ingranaggio chiamato “frode carosello”. Il primo acquisto fittizio, spiegano a Libero dal Nucleo di Polizia valutaria, «avviene sempre dall’Italia verso una società europea, per evitare il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto in base alle normative comunitarie». Poi entrano in gioco Fastweb e Telecom che acquistano a loro volta il servizio fittizio. Di qui parte il vortice di fatturazioni false, attraverso il quale, ad ogni passaggio, ogni azienda può accumulare crediti fiscali nei confronti dello Stato senza che nessuno versi mai un euro di tassa. Un po’ come se un libero professionista acquistasse un’auto per lavoro, pagasse l’Iva al concessionario, poi la detraesse al momento di pagare le tasse senza però che il venditore paghi mai la sua quota di Iva versata dall’acquirente al momento della transazione. Di fatturazione in fatturazione la somma lievita. Al punto che, dicono dalla Gdf, «dalle due operazioni iniziali di 800mila euro e 1,7 milioni si arriva ad un giro complessivo di fatturazioni fittizie di 1,8 miliardi». Su questa cifra, l’Iva intascata dagli indagati sarebbe di 365 milioni. Ma il trucco non finisce qui. Attraverso le vendite e i riacquisti le società avrebbero anche migliorato i bilanci, aumentando i fatturati e ricavando utili che le Fiamme Gialle avrebbero quantificato in 96 milioni. Al vertice dell’organizzazione criminale ci sarebbero stati, secondo gli inquirenti, Gennaro Mokbel, legato in passato ad ambienti della destra eversiva, e la moglie Giorgia Ricci. Il meccanismo delle frodi Iva sarebbe invece stato ideato dal consulente finanziario Carlo Focarelli. Gli arresti e i sequestri per centinaia di milioni hanno interessato, in Italia, Lazio, Umbria, Toscanala, Lombardia e Calabria, e all’estero, Stati Uniti, Francia, Svizzera, Lussemburgo, Regno Unito, Hong Kong. E provvedimenti potrebbero essere in arrivo anche per le due società coinvolte. I pm hanno infatti chiesto il commissariamento sia di Fastweb che Telecom Italia Sparkle in base alla legge 231 del 2001 che prevede sanzioni per le società che non predispongono misure idonee ad evitare reati da parte dei propri dipendenti da cui traggano vantaggio. Il gip si pronuncerà il 2 marzo. Sia Telecom Italia che Fastweb, ovviamente, si ritengono assolutamente estranee ai fatti nonché parti lese.

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Il fattore C. di Alitalia

Il destino cinico e baro? Roberto Colaninno e Rocco Sabelli non sanno neanche cosa sia. Ricordate cosa diceva solo qualche mese fa Michael O’Leary? «Colaninno si ritiri in una villa in campagnia e voli con Ryanair, che è meno costosa». Era novembre e l’ad del principale vettore low cost europeo annunciava spavaldo che nel corso dell’anno ci sarebbe stato il sorpasso su Alitalia. Prospettiva tutt’altro che evanescente, visto che già nel 2009 Ryanair ha praticamente eguagliato la compagnia di bandiera con circa 18 milioni di passeggeri. Solo qualche giorno più tardi, però, la società low cost si è trovata impelagata in un durissimo braccio di ferro con l’Enac per la questione dei documenti d’imbarco. La vicenda si è poi risolta. Ma ha costretto la società ha restare sulla graticola fino a spingere O’Leary a minacciare il ritiro dall’Italia.. Anche per l’altro grande avversario Lufthansa le cose non sono andate un granché bene. Un anno fa il vettore tedesco annunciava trionfale il suo piano per conquistare l’Italia. Otto rotte internazionali da Malpensa per collegare Milano alle principali città europee e tre collegamenti nazionali per aprire la competizione anche sul mercato domestico. Progetti concreti e temibili, che i manager dell’Alitalia non valutarono a cuor leggero.Eppure, già nel consuntivo 2009 sono arrivate le prime crepe. La filiale italiana del colosso tedesco si è fatto sorpassare da altri vettori sulle sue stesse rotte e ha iniziato a far viaggiare gli aerei sempre più vuoti. E ieri la bomba è esplosa anche nella casa madre, che si trova a fare i conti con una delle proteste più drammatiche che il trasporto aereo abbia mai visto. I piloti hanno incrociato le braccia allo scoccare della mezzanotte di domenica e non torneranno in servizio fino alla stessa ora di giovedì. Gli effetti si preannunciano devastanti. Il primo bilancio parla di quattromila piloti in sciopero, centinaia di voli annullati e migliaia di passeggeri a terra. E le cose non potranno che peggiorare: la compagnia ha previsto la cancellazione di 800 voli sui 1.800 previsti e prevede mancati guadagni fino a 100 milioni di euro. La gravità della situazione è tale che la compagnia ha deciso di rivolgersi alla magistratura di Francoforte per chiedere l’intervento delle autorità per chiudere la protesta. L’operazione ha avuto successo e ieri sera la protesta è stata interrotta. Questa mattina i collegamenti dovrebbero essere ripristinati. Lo sciopero ha coinvolto anche il nostro Paese. Sei voti sono stati sospesi a Malpensa e quattro a Fiumicino. Lo protesta è stata organizzata dal sindacato dei piloti Cockpit che teme che Lufthansa tagli il personale e trasferisca i posti di lavoro nelle controllate estere, come Austrian Airlines e Lufthansa Italia, dove gli stipendi sono inferiori. Ma i segnali dell’alleanza tra Colaninno e la dea bendata non sono finiti. Basti pensare a quello che è successo pochi giorni fa in Parlamento. Dopo 41 audizioni e due missioni all’estero, il presidente della commissione Trasporti della Camera, Mario Valducci, ha stilato il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sul trasporto aereo. Il verdetto: il sistema italiano soffre di nanismo e le sovvenzioni devono restare solo per gli scali più grandi. Ovvero, quelli su cui ha costruito il piano industriale Alitalia. Non basta? Il progetto Fenice messo a punto da Colaninno è costruito sulla stima di un prezzo del petrolio a 120 dollari al barile. Ebbene nel 2009 il greggio ha raramente superato gli 80 dollari. Per il 2010 si prevede una media tra i 75 e gli 85 dollari. Fatevi due conti.Gli effetti della sorte benigna non sono ancora così clamorosi, ma il giro del vento inizia a farsi sentire. Nell’ultimo bimestre del 2009 Alitalia ha registrato una crescita dei passeggeri superiore al 15%. E il trend sembra essere proseguito a gennaio. Nei primi quindici giorni del mese l’ex compagnia di bandiera ha trasportato 776mila passeggeri, 129mila in più dello stesso periodo del 2009, con un incremento del 20%.

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Fini si scopre liberista e riapre le ostilità con Tremonti

“Io non voglio il posto fisso”. Non fatelo sapere al ministro dell’Economia, ma tra i seminari del convegno che si terrà da venerdì prossimo a Milano ce n’è anche uno dal titolo inequivocabilmente anti-tremontiano. Nulla di strano, si dirà, visto che ad animare la tre giorni (26-28 febbraio) c’è l’ex radicale, ora scudiero del liberismo all’interno del Pdl, Benedetto Della Vedova. E ad organizzare il tutto la sua associazione Libertiamo. Meno scontato è però il fatto che all’iniziativa parteciperà anche Gianfranco Fini, il cui intervento è previsto sabato nella tavola rotonda (insieme all’economista Luigi Zingales, al direttore generale di Confindustria Giampaolo Galli e a Della Vedova) “Placata la bufera, torniamo al libero mercato”.È la prima volta che il presidente della Camera si avventura in una discussione pubblica a 360 gradi sui temi economici. Finora il confronto diretto sulla linea imposta allo schieramento da Giulio Tremonti e, in parte, dall’anima leghista, è stato sempre evitato. Ad affrontare lo scontro sulla Finanziaria si è esposto Mario Baldassarri, uno dei suoi principali consiglieri economici, e a martellare sulle tasse, sul welfare e sulle pensioni ci pensa spesso lo stesso Della Vedova, da tempo entrato nelle grazie del presidente. Ma al di là di qualche generico accenno al peso eccessivo del fisco o alla necessità di liberare l’economia dalle pastoie della burocrazia, Fini si è finora limitato a giocare dietro le quinte. Anche, secondo alcuni, per non inasprire troppo il rapporto con chi, come il ministro dell’Economia, in un futuro non troppo lontano potrebbe avere ancora più spazio nel Pdl. La prossima settimana, però, l’ex leader di An scenderà in campo. E il luogo è tutt’altro che casuale. Per la sua prima uscita pubblica sui temi economici ha infatti scelto un’iniziativa che oltre alla squadra di Libertiamo, coinvolgerà anche esperti, giornalisti e professori dell’Istituto Bruno Leoni e di FareFuturo. Un mix di liberalismo e liberismo da cui il numero uno di Montecitorio prenderà le mosse per aprire l’ennesimo fronte caldo all’interno del centrodestra. L’obiettivo iniziale era quello di declinare su un terreno più prettamente economico gli spunti e le tesi contenute nel libro dello scorso autunno “Il futuro della libertà”.Ma è chiaro che ora, con l’atmosfera rovente che si sta sviluppando all’interno dello schieramento, Fini non si lascerà sfuggire l’occasione di lanciare qualche stoccata in più. Bersagli naturali, visto il tema del dibattito, saranno i ministri economici. Ma il presidente della Camera offrirà una lettura complessiva delle cose che, a suo giudizio, non vanno nel centrodestra. E le tensioni di questi giorni ai piani alti del Pdl permetteranno di affondare il colpo più che in altre occasioni. Il tema dei ruoli e della struttura interna del partito è del resto un tasto su cui il presidente della Camera ha battuto, criticamente, più volte. Qualche bordata, sicuramente, ci sarà anche per il Carroccio. Fini non ha mai risparmiato le critiche, difficile che lo faccia ora che la Lega si prepara a sfruttare le difficoltà del Pdl per fare il pieno alle regionali.

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Un’intera Finanziaria presa agli evasori

La crisi economica ha frenato le entrate, ma la macchina del fisco continua a macinare risultati. Di tutto rispetto quelli raggiunti dalla riscossione, che negli ultimi due anni, alla faccia di chi insiste nel denunciare l’allentamento del contrasto all’evasione, è arrivata ad incassare circa un miliardo in più dell’era Visco. Negli anni della presunta guerra ai furbetti delle tasse, i volumi complessivi della riscossione dai ruoli erano a quota 6.738 milioni. Nel 2008, anno del passaggio di consegne da Prodi a Berlusconi, sono saliti a 7.014. Lo scorso anno sono balzati al livello record di 7.735 milioni di euro. In pratica, l’ammontare dei tributi evasi, compresi gli interessi e le sanzioni, recuperati da Equitalia equivale né più né meno ad una robusta manovra finanziaria.Non solo, stando ai dati forniti ieri dalla società di riscossione dell’Agenzia delle Entrate i risultati sarebbero stati ottenuti attraverso un abbassamento della soglia di persecuzione nei confronti del contribuente. «L’andamento crescente della riscossione», si legge in una nota di Equitalia, «è accompagnato da una diminuzione di ipoteche e ganasce fiscale». Numeri alla mano, su oltre 30 milioni di documenti inviati dalla società lo scorso anno, tra cartelle, solleciti e avvisi di pagamenti, le procedure cautelari e coattive rappresentano una parte molto circoscritta: nel 2009 sono stati attivati solo 86mila fermi delle automobili e 160mile ipoteche.Se la cifra sembra comunque alta, basta andare indietro di qualche anno e verificare quello che successe con l’arrivo di Vincenzo Visco alle Finanze. Nel 2006 i contribuenti inadempienti che si sono ritrovati con la vettura bloccata dal fisco hanno sfiorato un milione, con un’impennata del 628% rispetto al 2005. Ancora nel 2008, i fermi amministrativi ammontavano a 667.841, a fronte di 1.136.505 preavvisi. Il segnale di una maggiore collaborazione tra fisco e contribuenti poco solerti è anche negli 1,4 milioni di preavvisi, nei 2,7 milioni di solleciti di pagamento e nelle 630mila rateizzazioni. Cifre che sembrano rappresentare un cambiamento di rotta nell’approccio alle irregolarità fiscali. Quanto alle casse dello Stato, oltre al buon andamento della riscossione, iniziano anche ad arrivare i risultati della statalizzazione della macchina fiscale. L’anno scorso è stato infatti eliminato il contributo fisso che lo Stato dava a fondo perduto alle ex concessionarie private per riscuotere i tributi. Da quando Equitalia si finanzia con l’aggio sulla riscossione fissato per legge, lo Stato ha risparmiato 745 milioni. Sul fronte scudo, infine, ieri è arrivata la precisazione di Attilio Befera, dopo le polemiche sollevate dai dati di Bankitalia. «I giochi statistici possono essere diversi», ha spiegato il direttore dell’Agenzia delle entrate, «ma è la somma che fa il totale». Lo scudo fiscale 2009, ha ribadito, «si è concluso con 93 miliardi rimpatriati in Italia ad ogni effetto e 2 miliardi regolarizzati».

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sabato 20 febbraio 2010

Marcegaglia pessimista: «Per ripartire servono riforme»

Non è bastata la ripresina di dicembre a far tornare il sorriso ad Emma Marcegaglia. Il commento ai numeri diffusi ieri dall’Istat è secco: «C’è qualche miglioramento negli ultimi dati», ma «siamo ancora nell’ambito di una congiuntura molto complessa, serve grande attenzione perché la crisi non è finita». Il quadro, in effetti, non è dei migliori. Nella media dell’intero 2009 il fatturato dell’industria italiana è crollato del 18,7% rispetto al 2008 e gli ordinativi sono colati a picco del 22,4%. Secondo l’Istat si tratta dei peggiori cali da quando viene registrata la serie storica, ovvero dal 2000.
Se l’anno è andato complessivamente male, a dicembre la musica è decisamente cambiata. Gli ordini dell’industria sono aumentati del 4,7% rispetto al mese precedente e addirittura del 10,1% su base annua. Si tratta dell’aumento tendenziale più alto dal febbraio 2008.
Meno scoppiettante, ma pur sempre in salita il fatturato. L’aumento è stato dell’1,9% rispetto a novembre e dello 0,8% rispetto a dicembre 2008. Dato, quest’ultimo, che diventerebbe però negativo del 2,5% se corretto con gli effetti del calendario.
Regina incontrastata della ripresina è stata l’auto, che a dicembre su base annua ha registrato un aumento boom del 31,5% degli ordini e un +23,2% di fatturato. Risultati impressionanti rispetto ad una mediadell’intero 2009 in cui ordinativi e fatturato del settore hanno registrato il peggior calo dal 1991.
Ma i segnali, secondo Confindustria, sono troppo deboli per fare primavera. «I prossimi mesi saranno ancora complessi», ha spiegato la Marcegaglia, «i piccoli miglioramenti che si vedranno saranno lenti e difficili». A rendere fosche le prospettive, secondo Marcegaglia, «l’impatto sull’occupazione». Siamo già, ha ricordato il numero uno di Viale dell’Astronomia, «a un tasso di disoccupazione di oltre l’8,5%. Nei prossimi mesi dovremo gestire alcune situazioni complesse di ristrutturazione». Ed ecco il punto: il modello Termini Imerese non funziona. Non si può procedere, ha ribadito, «salvando stabilimenti che non possono stare in piedi, ma assolutamente salvando posti di lavoro e cercando di reimpiegare le persone che rischiano di perdere il posto». Poi la presidente di Confindustria riprende l’analisi fatto alcuni giorni fa dal governatore di Bankitalia, Mario Draghi, e invoca «grandi riforme, perché il Paese soffre di una crescita troppo lenta».
Anche noi, ha spiegato la Marcegaglia, «stimiamo per il 2010 un +1,1% di crescita del Pil». Ma è chiaro, ha proseguito, «che dopo un -5% del 2009 e un -1% del 2008 è un miglioramento non sufficiente».
Preoccupazioni condivise anche dalle piccole imprese, che guardano con timore soprattutto alle difficoltà dell’industria metalmeccanica. «Base portante della old economy», ha spiegato il presidente di Confapi Paolo Galassi, «rappresentata in Italia principalmente dalle piccole e medie industrie manifatturiere». Quanto alla ripresina di dicembre, per l’associazione delle Pmi è particolarmente significativo il recupero dell’auto spinta dagli incentivi. Una politica che ora dovrebbe «essere replicata per altri settori che in questo momento hanno più bisogno di rilancio».

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Ciclismo e Padre Pio per il governo Prodi erano «emergenze»

«Non possiamo», ha detto qualche giorno fa il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, «chiamare emergenza i campionati di nuoto». Verissimo. Vogliamo forse paragonare un cataclisma a una gara sportiva? Una frana a un paio di vasche stile libero? Eppure, la questione non è così semplice (...)
(...) come sembra. Mettiamo il caso dei campionati di ciclismo o dei giochi del mediterraneo. Qualcuno si sognerebbe mai di definirli emergenze? Stando alle ordinanze firmate dalla presidenza del Consiglio nell’agosto del 2006 e nel febbraio del 2007 sembra proprio di sì. E gli esempi non finiscono qua. Scorrendo il lungo elenco di emergenze/grandi eventi si scopre che anche Romano Prodi aveva la penna facile. Padre Pio? Una commemorazione? La firma di un trattato? Un bel decreto e tutto finiva tranquillamente in pasto alla protezione civile. Senza quei distinguo e quelle cautele che oggi il Pd e l’Italia dei Valori sembrano invocare.
Il primo atto arriva poco dopo l’insediamento del governo Prodi. L’ordinanza per trasformare in emergenza i XVI giochi del Mediterraneo e del 17 agosto 2006. Il commissario è Gaetano Fontana, i fondi 5 milioni. Poi, a dicembre, c’è il teatro Petruzzelli di Bari. Commissario Angelo Balducci, dotazione 29 milioni. Nel 2007 il governo ci prende la mano. A gennaio diventa emergenza il 50esimo anniversario per la firma dei trattati di Roma, a febbraio la stessa sorte è riservata ad Agorà Giovani ad Ancona. Entrambi gli eventi sono gestiti da Guido Bertolaso come commissario. A febbraio c’è la grande emergenza dei Campionati del mondo di ciclismo su strada, commissario il presidente della Provincia di Varese. A marzo Prodi affida alla Protezione civile anche il vertice intergovernativo Italia-Russia, commissario il prefetto di Bari. Poi, il primo di una lunga serie di eventi religiosi: il 14 giugno viene firmata l’ordinanza per la visita del Papa ad Assisi. Fondi a disposizione 200mila euro, commissario il sindaco di Assisi. Tra i progetti a lunga scadenza c’è l’Expo 2015 di Milano, firmata a ottobre con l’incarico al sindaco Letizia Moratti. Lo stesso mese la presidenza del Consiglio dà il via libera all’incontro per la Pace di Napoli. Commissario il prefetto del capoluogo campano che potrà utilizzare 500mila euro.
Il 20 novembre 2007 arriva il pezzo da novanta: Presidenza italiana del G8. Con la nomina, ora tanto discussa, del commissario Guido Bertolaso. Lungo, in questo caso, l’elenco delle disposizioni organizzative. L’ordinanza prevede: tre soggetti attuatori; un comitato di coordinamento di 15 soggetti, una commissione generale indirizzo di 13 soggetti, una struttura di missione di 30 unità; venti contratti a tempo determinato, dieci consulenti. ufficio dello sherpa presso presidenza del Consiglio (dieci unità più un dirigente, nove contratti a tempo determinato, otto consulenti), una delegazione del ministero degli Esteri di 45 unità, di cui 15 già in carico al ministero, 20 contratti a tempo determinato, 10 consulenti. Fondo di avvio 2 milioni di euro.
Altra ricorrenza i cui appalti sono finiti nel mirino dei magistrati di Firenze è il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Prodi lo dichiara emergenza il 23 novembre 2007. Poi, tanto per non farsi mancare nulla, a gennaio arriva il grande evento “delocalizzazione sfasciacarrozze di Roma”. Commissario delegato l’avvocato dello Stato, Paolo Di Palma. A marzo c’è il via libera alla visita di Benedetto XVI a Brindisi e ad aprile quello per la visita a Savona e Genova. Per rimanere in tema, sempre ad aprile la presidenza del Consiglio firma l’ordinanza per “l’emergenza” dell’esposizione delle spoglie di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. E lo stesso mese c’è quella per il Congresso eucaristico nazionale. In tutto poco meno di una ventina di quelle che in gran parte Bersani definirebbe false emergenze.
Certo, si dirà, ma chi ha iniziato? La legge sui grandi eventi è del governo Berlusconi. Il codicillo oggi tanto contestato è contenuto nell’articolo 5 bis (comma 5) aggiunto dall’esecutivo con un emendamento in sede di conversione del decreto del settembre 2001. E la sinistra? Il senatore Guerzoni, si legge nello stenografico dell’epoca, «pur non condividendo le scelte compiute dal governo, dichiara il suo voto favorevole sugli emendamenti» in questione «che appaiono introdurre elementi di maggiore coerenza».
La realtà, come spiega l’ex senatore verde Sauro Turroni, non proprio un berlusconiano, «è che tutti erano d’accordo con il comma 5 e che durante il governo Prodi né il ministro Di Pietro, né il ministro Bersani si sognarono di metterlo in discussione o di proporne l’eliminazione». Così, nel tempo, «il concetto di evento si è dilatato, così come quello di calamità o pericolo per l’incolumità pubblica. Ed ecco che a livello locale tutti hanno cominciato a premere perché questa o quella opera rientrasse nel novero di quelle che si potevano fare con le procedure straordinarie».

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venerdì 19 febbraio 2010

Alemanno sfratta i francesi da Acea

Alla fine, dopo tante chiacchiere e molto fumo, sono arrivati i fatti. Le trattative con i francesi sono ufficialmente chiuse. Ma l’esito della partita è tutt’altro che definito. La battaglia si sposta infatti dal piano della diplomazie e del mercato a quello degli avvocati e delle carte bollate. È questo l’esito della riunione fiume del cda di ieri, terminato in tarda serata.
L’Acea, si legge in una nota, ha deciso di percorre la strada dell’arbitrato per superare la controversia aperta con Gas de France-Suez. Il consiglio ha deliberato di rilasciare «la delega congiunta al presidente ed all’amministratore delegato per la composizione della controversia con il gruppo Gdf-Suez, mediante l’avvio delle procedure per la rimessione in arbitrato della controversia stessa».
Il bello è che fino a qualche giorno fa le voci messe in giro dalla società erano che l’intesa fosse a un passo dall’essere raggiunta. Mancano solo alcuni dettagli, si diceva. In realtà, che le cose non andavano bene si era capito da tempo. Almeno da quando, diversi mesi fa, era sbarcato personalmente a Roma l’ad del colosso francese Gerard Mestrallet per dire fuori dai denti che gli azionisti di Acea dovevano decidere in fretta e che Suez-Gdf avrebbe lavorato sul mercato italiano con o senza l’utility capitolina. Questo è probabilmente lo scenario che si va prefigurando. È chiaro infatti che mettere in campo l’arbitrato apre un braccio di ferro che punta a sfrattare i francesi dalla società guidata dal Comune di Roma. Non a caso Gdf considera l’abitrato non solo «privo di fondamento», ma anche «dannoso per le attività di Acea» e per i suoi azionisti.
Se è chiaro l’intento, tuttavia, meno certezza c’è sull’esito di una battaglia legale che si preannuncia lunga e senza esclusione di colpi. Nei prossimi giorni si capirà meglio quali sono le posizioni in campo. La palla ora è in mano all’ad Marco Staderini e al presidente Giancarlo Cremonesi, incaricata dal consiglio di avviare l’arbitrato. La controversia riguarda i rapporti di forza nelle jv di AceaElectrabel, dove i francesi controllano la maggioranza della produzione e la minoranza della distribuzione. Inevitabile, dunque, un rimescolamento dei rapporti di forza. Resta da vedere quali contraccolpi la vicenda provocherà sull’azionariato, dove i francesi sono presenti col 10%, Caltagirone col 9% e il Campidoglio col 51%. Uscire adesso, con il titolo crollato rispetto a un paio di anni fa non conviene a nessuno. A complicare un altro po’ la situazione, il rinnovo dei vertici previsto con l’approvazione del bilancio ad aprile.
Il cda di ieri ha inoltre deliberato l’emissione del prestito obbligazionario da 500 milioni di euro della durata di dieci anni, da collocarsi interamente presso Investitori Istituzionali e destinato ad essere quotato sui listini della Borsa del Lussemburgo o Dublino. L’emissione punta a migliorare l’equilibrio tra l’indebitamento a breve e a medio/lungo termine di Acea. In altre parole, ad allungare le scadenze troppo pressanti dell’esposizione finanziaria dell’utility.

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Parte il Palio dell’Abi

Il rito presidenziale è partito. Ieri il comitato esecutivo dell’Abi ha nominato i cinque saggi che dovranno selezionare la rosa di candidati tra cui pescare il prossimo capo dell’associazione. Tra i nomi spiccano quelli di Alessandro Profumo, ad di Unicredit, ed Enrico Salza, presidente del Consiglio di gestione di Intesa. Ma la vera notizia è che non c’è Corrado Faissola. Il che significa che l’attuale presidente è ufficialmente in corsa per agguantare il terzo mandato. Al suo posto ci sono Alessandro Azzi, presidente di Federcasse ed espressione del credito cooperativo, Giovanni Berneschi, presidente di Carige in rappresentanza delle casse di risparmio e Camillo Vanesio, presidente della Banca del Piemonte e portavoce dei piccoli del credito.
L’appuntamento è per luglio (il giorno preciso viene tradizionalmente concordato con Tesoro e Bankitalia). Ma le grandi manovre sono già partite da tempo. In particolare quelle che riguardano Giuseppe Mussari, che sembra destinato ad essere il grande sfidante. La candidatura del presidente di Mps circola con insistenza da qualche settimana. E sul suo nome, stando alle indiscrezioni, starebbero convergendo moltissimi consensi. Tra gli sponsor di Mussari c’è in prima fila il “saggio” Profumo. Un sostegno che ora diviene ancor più scontato, visto che sia nel 2006 che nel 2008 l’ad di Unicredit si oppose con decisione alla nomina di Faissola. Alla prima assemblea evitò addirittura di esprimere il suo voto, alla seconda si astenne. Da tempo il banchiere auspica un rinnovamento nell’associazione di cui quest’anno si farebbe portavoce Mussari. Ma il presidente di Mps può contare anche su altri appoggi eccellenti. Recentemente a suo favore si è espresso Giuseppe Guzzetti, potente ed autorevole presidente dell’Acri nonché della Fondazione Cariplo. Mentre è di qualche giorno fa il progetto lanciato da Francesco Gaetano Caltagirone, azionista di peso e vicepresidente di Mps, di lavorare al fianco di Mussari per far diventare la banca senese il primo istituto di credito a Roma e nel Centro Sud. Non solo, il placet dell’imprenditore romano potrebbe favorire anche quello di cesare Geronzi, di cui Caltagirone sarà alleato prezioso nella prossima battaglia per il rinnovo dei vertici delle Generali. Ma il via libera più importante potrebbe arrivare dal Tesoro. L’avvicinamento tra Mussari e Giulio Tremonti è in corso da tempo. Mps non solo ha raccolto l’appello del ministro dell’Economia su tutti i progetti di sostegno alle famiglie e alle Pmi, ma ha anche sottoscritto senza indugio quei Tremonti bond rifiutati con orgoglio da Intesa e Unicredit. Resta da vedere cosa succederà proprio in Intesa, presieduta dal grande sponsor di Intesa, Giovanni Bazoli. Anche qui le cose potrebbero non essere semplici. Sembra infatti che tra i sostenitori di uno svecchiamento dell’Abi ci sia anche un tale Corrado Passera.

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Alla Corte dei conti si ristrutturano casa grazie al terremoto

La corruzione è un «tumore maligno» contro il quale non ci sono «anticorpi» nella pubblica amministrazione e che con gli anni addirittura sembra peggiorare. Nel 2009 le denunce sono infatti aumentate del 229%. A parlare della necessità di recuperare «senso etico» perché «se non c’è senso etico nell’agire», è stato ieri il presidente della Corte dei Conti Tullio Lazzaro inaugurando l’anno giudiziario, «non bastano mai i giudici, i carabinieri o le altre forze dell’ordine a combattere questo male». Alla malversazione vera e propria si affianca poi tutta quella serie di comportamenti che portano ad «un ingente spreco di risorse pubbliche». Mala gestione della sanità, consulenze fuori legge, derivati che rischiano di indebitare le generazioni future per 20-30 anni. È lungo l’elenco degli esempi di inefficiente gestione della Pa. Ma è anche molto lungo l’elenco delle intercettazioni dell’inchiesta sul G8 che vedono coinvolti magistrati e funzionari della Corte dei Conti. Ed è bizzarro leggerli, con le parole di Lazzaro che rimbombano nella testa. Anche perché allo stato non risulta che alcun provvedimento sia stato preso nei confronti di chi, magari ingiustamente, è stato trascinato nel polverone.
Almeno tre sono i nomi collegati alla magistratura contabile: Antonello Colosimo, Mario Sancetta e Francesco Romeo Recchia.
Il primo, consigliere della Corte dei Conti, viene intercettato più volte nel febbraio del 2008 mentre parla al telefono con Francesco Piscicelli (l’imprenditore arrestato che diceva al cognato di aver riso la notte del terremoto, per intenderci). Il magistrato si offre di mettere in contatto l’imprenditore con alcuni banchieri per rifinanziare debiti in scadenza. E convince Piscicelli che della questione si sta occupando un certo Gallia di banca Intesa. Per confermare le sue entrature nel mondo del credito Colosimo fa anche ascoltare all’imprenditore una sua telefonata con un funzionario di Unicredit, il quale nell’eventualità potrebbe occuparsi della vicenda. Poi assicura di avere rapporti diretti con Passera, facendo addirittura credere a Piscicelli che quando il telefono squilla in sottofondo potrebbe essere l’ad di Intesa. In realtà, alla fine le banche chiederanno a Piscicelli di rientrare dall’esposizione debitoria e l’imprenditore finisce vittima del classico gioco degli equivoci alla Totò e Peppino, con una grottesca confusione tra Gallia di Intesa e Gallia di Bnl. Il tutto sembra però servito a Colosimo per farsi ristrutturare la piscina a prezzo di favore. «La mattina dell’11 febbario», ricostruiscono gli inquirenti, «Piscicelli ricorda a Colosimo di inviargli per fax il preventivo per la ristrutturazione della piscina in modo che possa subito chiamare il geometra Frera per farlo ridurre come importo».
Tutta centrata sulla ristrutturazione è anche l’attività di Sancetta, presidente di sezione della Corte dei Conti, che però affida la gestione dei lavori ad Antonio Di Nardo, dipendente del ministero delle Infrastrutture ritenuto dagli inquirenti vicino al clan dei Casalesi. A fare da tramite tra il magistrato e Di Nardo è l’imprenditore Rocco Lamino. È a lui che Sancetta, che è indagato per concorso in corruzione, riferisce di avere intercesso in favore del costruttore per gli appalti in Abruzzo. Accade così che le conversazioni sui lavori per il terremoto si alternano a quelli per il rifacimento del bagno. Lamino si dà da fare e così Sancetta parla con Angelo Balducci (capo del Consiglio superiore dei lavori pubblici) e gli chiede un appuntamento per, secondo i magistrati, far entrare gli imprenditori nel giro dei lavori post-terremoto.
C’è, infine, Recchia, che della Corte dei Conti è un dirigente. Lui telefona, nel settembre 2009, direttamente a Di Nardo. Con un’utenza della Corte, pagata dai contribuenti. Il suo cruccio principale è che il genio civile rischia di dichiarare inagibile una sua proprietà in provincia di Frosinone per i danni apportati dal terremoto e chiede al funzionario delle Infrasttrutture se può evitargli i sigilli.

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Tremonti scongiura la tassa per salvare gli operai dell’Alcoa

La situazione, com’era prevedibile, si complica. La buona notizia è che dal Tesoro è arrivato lo stop alla tassa Alcoa, la cattiva è che alla fine gli aumenti rischiano di finire comunque in bolletta, soltanto meglio nascosti.
Ma andiamo con ordine. Ieri, da fonti di Bruxelles, si è appreso che l’Italia ha ufficialmente notificato alla Commissione europea il decreto legge sull’energia per la Sardegna e la Sicilia alla cui sorte è legata anche la vicenda degli stabilimenti italiani della multinazionale americana Alcoa. Nelle stesse ore, però, dal Parlamento è arrivato lo stop alla copertura contenuta in un emendamento al dl attualmente in discussione al Senato.
La modifica, presentata dalla relatrice in commissione Industria a Palazzo Madama, Simona Vicari (Pdl), prevedeva un’addizionale in bolletta dello 0,4% che avrebbe permesso di recuperare i circa 800 milioni necessari di qui al 2012 per coprire lo sgravio concesso alle aziende “energivore” delle grandi isole. Formalmente un centinaio di imprese, ma sostanzialmente gli impianti Alcoa di Portovesme, in Sardegna, che saranno chiusi se il governo non riuscirà ad accontentare la multinazionale sul prezzo dell’elettricità.
Il problema è che in questo modo il salvataggio dell’Alcoa, oltre ad essere caricato sul groppone dei cittadini, sarebbe finito anche su quello della Pubblica amministrazione, che paga l’energia come tutti. Di qui lo stop della Commissione Bilancio, che ha dato via libera al provvedimento a patto, però che non ci siano oneri aggiuntivi per lo Stato e per gli utenti. L’altolà sarebbe arrivato direttamente da Giulio Tremonti, alle prese in questi giorni con l’esborso per gli incentivi di Scajola. Nel pomeriggio di ieri è infatti arrivata la conferma dalla Ragioneria dello Stato che i soldi dovranno essere recuperati in altro modo.
Una bella gatta da pelare per la commissione Industria, che ora dovrà riformulare l’emendamento e far uscire dal cilindro gli 800 milioni.
Il timore è che alla fine i soldi, pur di evitare il dramma sociale provocato dalla fuga della multinazionale americana dell’alluminio, vengano pescati nel solito modo. E cioè sempre in bolletta, ma non attraverso una addizionale, ma attraverso una rimodulazione dei cosiddetti oneri generali di sistema che già paghiamo regolarmente ogni mese. Bisogna ricordare, infatti, che solo il 65,8% è il costo della fornitura in senso stretto. Per il resto, il 13,2% della bolletta riguarda i costi di trasporto e distribuzione, il 13,7% sono imposte e il 7,3% sono gli oneri. All’interno dell’ultima componente, oltre alle spese per la manutenzione della rete, per la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie, per i cosiddetti Cip6 (incentivi a chi utilizza fonti rinnovabili, ma ancora distribuiti a pioggia anche ad imprese che utilizzano solo il greggio), per lo smantellamento delle centrali nucleari (anche ora che stiamo riandando verso l’atomo), ci sono anche i soldi che già in parte finiscono ai cosiddetti energivori come l’Alcoa.
Del resto è proprio da qui che dal 2006 al 2009 sono arrivati i 900 milioni di incentivi poi bocciati dalla Commissione europea ed ora oggetto del braccio di ferro tra il gruppo e il governo.
In ogni caso, alla fine Palazzo Chigi dovrà di nuovo fare i conti con Bruxelles. Al fine di dare certezza giuridica, come vuole Alcoa, agli sconti, la Commissione europea sarà chiamata a valutare l’eventuale presenza, nel decreto energia, di aiuti di Stato e della loro compatibilità con le norme che regolamentano la materia.
I nodi dovrebbero essere sciolti nelle prossime ore. La senatrice Vicari sta ancora lavorando ad una riformulazione «compatibile» con lo stop della Bilancio. Ma non è chiaro dove si troveranno i soldi. Tra le ipotesi c’è anche quella, bizzarra, del mantenimento della tassa in bolletta e di una sorta di rimborso a partire dal 2013. Il provvedimento arriverà in Aula martedì prossimo.

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Acea-Gdf ai ferri corti. Sul tavolo l’arbitrato

Ci risiamo. E il tempo, questa volta, non darà una mano. Le previsioni meteo parlano di freddo e forse pioggia, niente che possa provocare un provvidenziale slittamento del cda dell’Acea, come accaduto la settimana scorsa per l’inconsueta nevicata nella Capitale. Salvo ulteriori imprevisti, insomma, alle 17.30 di oggi pomeriggio i vertici della multiutility romana dovrebbero tornare a riunirsi.
Inutile dire che l’appuntamento si preannuncia infuocato. Soprattutto dopo le indiscrezioni sulla crescente irritazione dei francesi di Suez-Gdf, che da mesi aspettano di sciogliere il nodo della ridefinizione degli equilibri interni alla società controllata dal Comune di Roma.
All’ordine del giorno del consiglio c’è anche il bond da 500 milioni di euro destinato agli investitori istituzionali che dovrebbe avere una durata di dieci anni e sarà quotato in Lussemburgo. Un’emissione che servirà a prolungare la scadenza del debito.
Ma il piatto forte è, ancora una volta, la trattativa con i soci d’Oltralpe, azionisti con il 10% circa e partner nelle joint venture elettriche in AceaElectrabel. Secondo fonti vicine all’azienda è possibile che l’amministratore delegato di Acea, Marco Staderini, porti all’attenzione dei consiglieri il ricorso a un arbitrato internazionale per dirimere il contenzioso con Gdf-Suez. La mossa metterebbe la parola fine alle trattative con i francesi, ma aprirebbe un fronte legale tra le due parti dagli esiti forse ancora più incerti. Il procedimento stragiudiziale dovrebbe avere ad oggetto il mancato rispetto del contratto di esclusiva da parte dei francesi con particolare riguardo alla clausola di concorrenza. Suez-Gdf sarebbe accusata di non aver conferito nelle jv di produzione con Acea tutti contratti di fornitura di energia in Italia. La telenovela continua.

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L’Ecofin chiede altri tagli alla Grecia ma non apre il portafoglio

Trenta giorni di tempo. Con gli occhi puntati alle prossime scadenze del debito, che rischiano di travolgere tutta l’Europa. È questo il verdetto uscito ieri dall’Ecofin per tentare di puntellare la credibilità della Grecia e dell’euro. La tabella di marcia è sostanzialmente quella contenuta nella raccomandazione della Commissione europea, che prevede la riduzione del deficit di quattro punti (dal 12,7% del pil all’8,7%) entro il 2010, per arrivare al 3% entro il 2012. Il primo check point è previsto per il 16 marzo, quando il governo di Atene dovrà presentare il calendario dettagliato degli interventi messi in campo per risanare il bilancio. La verifica concreta sulle “misure urgenti” chieste dalla Ue verrà invece effettuata il 15 maggio.
Fino ad allora, l’Europa resterà col fiato sospeso. Fra aprile e maggio arrivano infatti a scadenza vari lotti di debito governativo che devono essere rifinanziati senza rischi. Non a caso la Commissione Ue ha annunciato che visiterà Atene nei prossimi giorni, insieme al Fondo monetario internazionale e alla Banca centrale europea. Dall’Ecofin e dall’Eurogruppo non sono arrivate indicazioni sulle misure tecniche in corso di preparazione tra i governi per stendere una rete di protezione sulle emissioni obbligazionarie future. Il presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Juncker ha detto che i governi «non devono accettare di essere bersaglio dei mercati finanziari». «Sono preoccupato», ha aggiunto, «per il modo di comportamento irrazionale dei mercati». Quanto al gruppo di paesi che in caso di necessità interverrà in aiuto della Grecia, non sarà limitato a Francia e Germania: «Anche altri potranno dare soldi alla Greca per stabilizzare il paese, ma il dibattito su questo non è ancora aperto», ha detto il ministro austriaco Josef Proell. Di sicuro non arriveranno aiuti dalla Russia. Ieri nel corso di un incontro avvenuto al Cremlino, il presidente Dmitri Medvedev ha suggerito al premier greco George Papandreou di rivolgersi all’Fmi e alla Banca mondiale per risolvere il deficit di bilancio.
Intanto in Europa iniziano tutti a farsi due conti. A partire da Francia e Germania, che hanno un’esposizione nei confronti della Grecia rispettivamente di 80 e 35 miliardi di dollari. Sta sicuramente meglio l’Italia, la quale, come ha spiegato ieri Giulio Tremonti, tra pubblico e privato ha sul piatto poco meno di 8 miliardi di dollari (circa 5,5 miliardi di euro). Una cifra comunque considerevole, che però secondo il ministro dell’Economia è invece la dimostrazione di una forza del sistema italiano rispetto agli altri Paesi. «Quando ho detto», ha spiegato da Bruxelles, «che nelle banche italiane non si parlava inglese, era un modo semplice per indicare la caratteristica conservativa delle banche italiane». Un altro aspetto importante per Tremonti è «capire come si è sviluppata nell’ultimo decennio l’esposizione dei Paesi della core Europe, la vecchia Europa, verso quelli della non-core Europe, la nuova Europa. L’esposizione italiana verso quei Paesi è molto bassa», ha sottolineato il ministro. E il nostro sistema ha tenuto perché fondamentalmente basato sul risparmio delle famiglie. «La figura emblematica dell’economia italiana è quella dell’eroica vecchietta con la borsa della spesa che ha salvato il sistema risparmiando e pagando le commissioni alla banche», ha aggiunto Tremonti.
I risparmi delle vecchiette non saranno comunque sufficienti a contenere gli effetti devastanti di un default della Grecia sull’economia mondiale. Complessivamente, secondo i calcoli effettuati dalla Banca internazionale dei regolamenti, i titoli di Stato di Atene collocati all’estero a giugno 2009 erano pari a 280 miliardi di dollari, di cui 235 solo in Europa. Oltre a Francia e Germania trema anche la Svizzera, esposta per quasi 60 miliardi. Ieri, comunque, l’euro è tornato a salire sul dollaro per la prima volta in cinque giorni. Segno che, malgrado la bufera, tra gli investitori è tornato un briciolo di speranza.

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martedì 16 febbraio 2010

Gare pilotate. Tonino sa ma resta zitto

Non poteva non sapere. Questo direbbe Antonio Di Pietro leggendo i verbali delle intercettazioni che lo trascinano nel polverone torbido degli appalti truccati. Nessun coinvolgimento diretto, per carità. Ma il Tonino nazionale compare più volte nei voluminosi faldoni raccolti dalla Procura di Firenze. A tirarlo in ballo in numerose telefonate ad amici e colleghi è il costruttore Vicenzo Di Nardo, che racconta a tutti sconvolto la stessa cosa. «Un imprenditore marchiagiano disse a Di Pietro: “Caro ministro è una vergogna che voi facciate i 150 anni dell’Unità d’Italia così, se vuole le posso fare i nomi e cognomi di chi vincerà gli appalti. Glieli scrivo su un foglio e poi li possiamo confrontare”. E l’ex pm rispose: “Ha ragione è una vergogna, ma non ci posso fare nulla”.»
L’episodio risale al 2007, il 21 novembre per la precisione, quando l’allora ministro delle Infrastrutture partecipò ad un incontro organizzato dall’Ance con gli imprenditori edili per discutere del nuovo codice degli appalti. «Fu una riunione molto tesa e animata», conferma a Libero il presidente dell’Associazione, Paolo Buzzetti, «soprattutto quando presero la parola alcuni nostri iscritti per le domande a Di Pietro».
Due o tre imprenditori, ricorda Buzzetti, che però non è in grado di identificare a memoria, «reclamarono maggiore trasparenza sugli appalti e dissero ad alta voce che intanto sapevamo tutti come sarebbe andata a finire la questione delle opere per i 150 anni». E Di Pietro? «Non ricordo le parole esatte, ma disse: “avete ragione, lo dite a me che ho battagliato per anni contro gli appalti truccati di Tangentopoli?». Il ministro poi, prosegue il presidente dell’Ance, «promise che si sarebbe fatto carico della questione».
È un po’ edulcorata la versione di Buzzetti, ma sostanzialmente conferma le parole di Di Nardo, il quale, di fronte alle assegnazioni, a suo dire illegittime, dei primi appalti per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia racconta l’episodio a moltissime persone. Aggiungendo anche dettagli sul comportamento di chi (fa il nome di Emiliano Cerasi, che poi vinse l’appalto per il teatro Nuovo di Firenze) aveva paura di esserci su quella lista e contestò l’iniziativa del “marchigiano”. La vicenda compare in moltissime chiamate: il 31 dicembre a Paolo di Nardo, a Luigi Di Renzo, a Carlo Lancia (che era presente alla riunione e conferma), a Marco Casamonti (che poi si aggiudicherà uno degli appalti del G8) e a tale Simona; il 2 gennaio ad Andrea Maffei.
Di Nardo contesta le graduatorie il calcolo dei punteggi e insinua che a vincere sono state le offerte meno convenienti, alla faccia delle regole sugli appalti. Il tutto, secondo l’imprenditore, risponde ad una logica prevalentemente spartitoria, in cui «la banda di Rutelli e di Veltroni si è data da fare». Il secondo avrebbero favorito “un romano” nelle gare di Firenze, il primo sempre “un romano” nelle gare di Venezia.
E Di Pietro? Il leader dell’Idv, in effetti, sollevò la questione. Un mese dopo la riunione con l’Ance, il 21 dicembre del 2007, portò all’attenzione del Comitato per i 150 anni, presieduto dall’allora vicepremier Francesco Rutelli, alcune obiezioni sulle procedure d’appalto. Perplessità che il Comitato respinse con decisione essendo, si legge nella relazione istruttoria, il frutto di una «non corretta valutazione» e di una «lettura distorta». Il caso si chiuse lì, senza troppe storie né tanti “che c’azzecca”.

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Il Governatore piccona le banche

Ricordate la commissione di massimo scoperto? L’odiosa tassa sugli interessi passivi che faceva schizzare improvvisamente alle stelle i costi dei conti correnti in rosso? Dopo un lungo braccio di ferro con il mondo bancario, nel gennaio del 2009, una legge dello Stato ne ha vietato l’applicazione. Ebbene, a dodici mesi di distanza in un caso su tre le spese sono addirittura aumentate. Il sospetto, a dire il vero, era venuto a molti. Ieri, dal Forex di Napoli, è arrivata la conferma.
Intervenendo al tradizionale convegno degli intermediari finanziari, Mario Draghi ha diffuso i dati di un’indagine effettuata da Bankitalia sull’82% dei conti correnti offerti alla clientela. Le commissioni, ha spiegato il governatore, hanno visto una riduzione in media, ma «per circa un terzo dei casi l’onere è invece aumentato». Con l’aggravante che è diventato quasi impossibile accorgersene, perché «la varietà di commissioni introdotte in sostituzione ha ridotto il grado di comparabilità del costo dello scoperto di conto».
Di qui la «necessità» di un nuovo intervento legislativo «che superi le incertezze interpretative del precedente». A tale scopo Bankitalia inoltrerà nei prossimi giorni al governo «una proposta organica di disciplina che porti a oneri espressi con chiarezza».
Compito delle banche sarà invece quello di procedere con rapidità a riallineare premi e bonus dei manager con quanto stabilito dal Financial stability board. Già dalle prossime assemble, ha ammonito Draghi, «le relazioni dovranno contenere informazioni esaurienti e dati puntuali circa l’effettivo adeguamento dei contratti e dei sistemi di incentivazione alla normativa». Questo, anche perché «gli utili conseguiti devono essere prioritariamente impiegati nel rafforzamento patrimoniale» previsto dalle nuove regole di Basilea piuttosto che finire nelle tasche dei banchieri. E la guardia deve restare alta, perché la redditività del credito italiano è nettamente peggiorata «di pari passo con il deterioramento della qualità dei loro prestiti». Nei primi nove mesi del 2009 gli utili si sono dimezzati rispetto allo stesso periodo del 2008, mentre il flusso di nuove sofferenze, nel terzo trimestre, ha superato il 3%, valore più elevato degli ultimi dieci anni.
E preoccupante è anche la situazione complessiva del Paese. L’Italia è entrata nella crisi globale con una crescita bassa e ne sta uscendo con lo stesso ritmo di sviluppo, inferiore ai Paesi europei. A zavorrare la ripresa, secondo il governatore, sono la mancanza di riforme strutturali, che «da quindici anni frena la competitività italiana», e la disoccupazione. La forza lavoro «forzatamente inoperosa è elevata e crescente» e finché non ci sarà un’inversione di tendenza «permane il rischio di ripercussioni sui consumi, quindi sul prodotto interno lordo». Draghi è però fiducioso sulla solidità dell’euro, che rappresenta anche una garanzia per il rientro della crisi di Atene. L’Italia dei primi anni Novanta, del resto, era in condizioni economiche «peggiori» di quanto non lo sia attualmente la Grecia, eppure è riuscita ad uscire dalla crisi con le proprie forze.
E in tema di misure di sostegno all’economia il numero uno di Via Nazionale ha invitato le banche ad essere attente nell’esaminare le domande di rientro, al fine di individuare e segnalare operazioni sospettabili di riciclaggio. Cosa che finora è avvenuta in misura troppo «esigua» rispetto alle dimensioni del fenomeno.

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La neve congela i dossier di Acea

La pace con i francesi può attendere. Il consiglio di amministrazione dell’Acea previsto per ieri pomeriggio è slittato al 17 febbraio per motivi tecnici. Alla base del mancato svolgimento ci sarebbero i disagi provocati dal maltempo. Alcuni consiglieri, recita la nota ufficiale dell’azienda, non sarebbero riusciti ad arrivare in tempo nella Capitale, malgrado la riunione fosse stata spostata di qualche ora. Nessuno, ovviamente, poteva prevederlo. A Roma la neve non cadeva da 24 anni. Ma è molto probabile che quando i primi fiocchi sono apparsi nel cielo, in mattinata, qualcuno abbia tirato un sospiro di sollievo. Nel consiglio di amministrazione di ieri, oltre all’emissione di un bond da 500 milioni per allungare la scadenza del debito, si sarebbe anche dovuto discutere della bozza di intesa con i soci francesi di Gdf-Suez. Questione spinosissima che va avanti da mesi e che nelle ultime settimane si è anche intrecciata con le polemiche sulla presunta privatizzazione della società da parte del Comune. Solo qualche ora prima, al termine dell’infuocata riunione di giovedì, il consiglio comunale di Roma aveva dato il via libera all’avvio dell’iter di dismissione delle quote in Acea, di cui ora il Comune detiene il 51%, in adempimento del decreto Ronchi, ma «in un percorso che garantisca al Comune il controllo della società e del servizio idrico» e «in coerenza con le opportunità offerte dal mercato».
Il dossier si sovrappone inevitabilmente a quello del riequilibrio interno con Suez-Gdf (che detiene il 10%). I soci francesi hanno chiesto da tempo di aumentare la propria partecipazione, così come sembra intenzionato a salire ancora il socio forte Francesco Gaetano Caltagirone (di recente passato dall’8 al 9%). Prima di ridisegnare gli assetti societari bisognerà però trovare un accordo sulle partecipazioni nelle società attive nella produzione, nel trading e nella vendita di energia elettrica. Società attualmente gestite dalla joint venture tra Acea e la controllata di Suez-Gdf, Electrabel. Secondo fonti vicine alla società mancherebbero da definire soltanto alcuni dettagli. Ma altri assicurano invece che l’intesa è ancora lontanta. Il rischio, insomma, è che i pochi giorni concessi dalla neve non siano affatti sufficienti. E che i nodi si scioglieranno solo dopo le elezioni regionali.

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Il suocero di Casini si allea con il PdL per allargarsi al Sud

Francesco Gaetano Caltagirone prosegue a testa bassa la sua scalata alle Generali. L’imprenditore romano ha acquistato altre 450mila azioni del colosso delle assicurazioni di cui è già socio con il 2%. Un investimento di 7,3 milioni per consolidare ulteriormente una posizione strategica in vista della delicata partita che si giocherà ad aprile per la presidenza del Leone di Trieste. Una partita in cui Caltagirone, che da mesi rastrella quote sul mercato, è pronto a dare pieno sostegno al grande manovratore di Mediobanca, Cesare Geronzi.
Ma per quanto importante, la sfida delle Generali per Caltagirone sembra essere solo un tassello di un progetto più ampio. Qualche idea in proposito l’Ingegnere l’ha fornita ieri in un lungo colloquio con il Foglio. Riflessioni di economia e politica a poche settimane dalle regionali.
Non è una novità, lo aveva già fatto alla vigilia della sfida elettorale di Roma tra Francesco Rutelli e Gianni Alemanno, invocando una «discontinuità» nell’amministrazione che è stata poi ampiamente certificata dal risultato delle urne. Da allora molte cose sono cambiate. A partire, tanto per dirne una, dal patto di acciaio che l’imprenditore sembra aver stretto con il sindaco in Acea (dove Caltagirone è recentemente salito dall’8 al 9%) contro gli invasori francesi di Gdf-Suez.
Questa volta l’Ingegnere non si schiera platealmente, ma concede più di un’apertura di credito al Cavaliere, sostenendo che dalle regionali in poi Silvio Berlusconi avrà «tre lunghi anni in cui potrà concretizzare le sue idee di riforme per provare davvero a rivoluzionare l’Italia».
Il tutto, ovviamente, funzionerà meglio se nella dialettica politica ci sarà spazio anche per «un partito terzo» che avrà la capacità di «offrire e a volte imporre nel dibattito pubblico nuove idee». Un suggerimento dove ogni riferimento al genero (marito della figlia Azzurra) Pier Ferdinando Casini, inutile dirlo, è puramente casuale. Così come è una coincidenza che l’Udc nel Lazio corra al fianco della candidata del PdL Renata Polverini. E che tra i possibili successori al Cavaliere indicati dall’Ingegnere, oltre a Tremonti e Fini, ci sia proprio l’ex presidente della Camera.
Ma il vero colpo ad effetto sparato ieri da Caltagirone è un altro. L’imprenditore vuole creare una grande banca per Roma e per tutto il Centro-Sud. Una banca qualsiasi? Macché, il Monte dei Paschi di Siena, la roccaforte finanziaria della sinistra, lo storico presidio rosso nel mondo del credito. Il progetto di Caltagirone, che dell’Mps ha il 4,7% ed è vicepresidente, è quello di «diventare il primo istituto di credito non solo romano, ma di tutto il Centro Sud». Ci fosse Piero Fassino, direbbe: «Non abbiamo più una banca». In realtà, l’operazione ha poco a che fare con le battute. Mps non solo, dopo l’acquisizione di Antonveneta, è il terzo polo bancario italiano, ma è anche strategica, con il suo 1,6%, per gli equilibri dei soci italiani in Generali. Come se non bastasse, il suo presidente Giuseppe Mussari è il candidato forte alla successione di Corrado Faissola alla guida della potente Associazione bancaria italiana. Candidato gradito anche al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, con cui collabora da tempo su tutti i progetti di sostegno alle Pmi e alle famiglie. Senza dimenticare che Mps, a differenza di Intesa e Unicredit, ha sottoscritto senza indugio i famosi Tremonti bond.
Tutto, insomma, lascia pensare che quelle dell’Ingegnere non siano parole buttate lì, senza importanza. L’imprenditore ha tracciato i contorni di un quadro nuovo. Uno scenario rivoluzionario per l’economia, la finanza e perché no, la politica italiane, il cui primo passo potrebbe avvenire molto lontano dalla Capitale, a Trieste, per poi però propogarsi a catena nel resto del Paese. Forse è un caso, ma oggi, tra i principali banchieri italiani invitati al prestigioso Forex di Napoli dove si discuterà insieme a Mario Draghi di strategie future, c’è anche un industriale: Francesco Gaetano Caltagirone.

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«Leghisti scimmie vestite». Cazzotti in Aula coi dipietristi

Che il clima della giornata non fosse dei migliori lo si era capito già nel primo pomeriggio, quando tra Simone Baldelli e Mario Pepe, entrambi del Pdl, sono volate un po’ di parolacce su questione procedurali. Secondo Baldelli il collega di partito, con una richiesta di rinvio di voto effettuata la mattina, avrebbe favorito lo scivolone del governo su un emendamento dell’Udc al ddl sul rafforzamento della competitività del settore agroalimentare.
Ma è in serata che l’atmosfera si è fatta incandescente. Stesso provvedimento in discussione. Altro passo falso del governo, che va sotto per la terza volta su una modifica al testo votata da Pd e Udc. È a quel punto che gli animi si sono surriscaldati. In particolare tra i banchi della Lega Nord e dell’Italia dei valori. Motivo del contendere una mostra organizzata di recente dalla regione Piemonte sul darwinismo e l’evoluzione della specie. I leghisti hanno polemizzato dicendo che i soldi spesi per l’organizzazione della mostra potevano essere utilizzati in modo più proficuo. A quel punto il dipietrista Fabio Evangelisti ha risposto che dalle «scimmie nude» si era passati alla fase delle «scimmie vestite», indicando i banchi della Lega come destinatari della sua battuta. Immediata la reazione di alcuni deputati del Carroccio. Il presidente della commissione Bilancio, Giancarlo Giorgetti, è riuscito a bloccare Gianluca Buonanno. Ma Fabio Rainieri è partito e si è diretto verso Evangelisti. I commessi in servizio in aula hanno tentato invano di placcare il leghista. Il quale, però, raggiunto il bersaglio si è invece preso un bel pugno in faccia sferrato da Evangelisti. Subito il presidente di turno Maurizio Lupi ha sospeso la seduta. Il vice capogruppo dell’Idv, Antonio Borghesi, in Transatlantico ha cercato di scaricare il barile, spiegando che sia Rainieri che Buonanno «hanno provocato Evangelisti che si è solo difeso». Non ho mai visto, ha caricato la dose Borghesi, «tanta violenza. I leghisti si sono scagliati contro Evangelisti come un manipolo fascista di vecchia memoria».
«Evangelisti», ha invece spiegato il vice presidente del gruppo della Lega Nord, Luciano Dussin, «nel corso della seduta aveva offeso il ministro dell’Agricoltura Luca Zaia, e poi ci ha provocato chiamandoci scimmie. A quel punto qualcuno dei nostri è scattato per rispondergli per le rime. Ma Rainieri si è preso un bel pugno in faccia». Una terza versione arriva infine dallo stesso Evangelisti. «Non ho dato né preso pugni. Io non mi sono mosso dal mio banco e sono stato vittima di un tentativo di aggressione. Ho chiesto ai questori di acquisire i filmati e di prendere provvedimenti contro gli aggressori», ha raccontato il deputato dell’Idv, spiegando di aver semplicemente sottolineato, dopo il terzo voto contrario al governo, «come un ministro con una dignità si sarebbe dimesso, come dovrebbe fare Zaia». Dalla Lega sarebbero partiti i cori: “Scemo, scemo”. E siccome, ha proseguito Evangelisti, «poco prima c’era stato un intervento di un leghista critico contro la Regione Piemonte per una mostra sulle scimmie, io ho detto: Quando le scimmie escono, ecco che ci sono i cori da stadio».
Ma la tensione dell’aula non si è placata con la sospensione della seduta. «Eccolo lì, uno che mi vuole picchiare», ha detto Evangelisti mentre stava spiegando ai giornalisti, in un corridoio vicino al Transatlantico, la sua versione dei fatti, alla vista del leghista Matteo Brigandì. A quel punto Brigandì si è scagliato contro di lui ma è stato subito bloccato dai colleghi. «Ma che cazzo me ne fotte», è sbottato Brigandì, «dì una parola che ti spacco il culo e non farti più vedere in giro perché appena ti incontro da solo ti spacco la faccia».
Sarà l’ufficio di presidenza di Montecitorio convocato per oggi alle 10 a occuparsi della rissa tra i deputati dell’Idv e della Lega. Lo ha comunicato all’assemblea il vicepresidente Lupi in una brevissima riapertura dei lavori con i commessi schierati in fila lungo i banchi dell’Idv per impedire il contatto con gli altri deputati.

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Senza gli incentivi si venderanno 350mila auto in meno

Può sembrare bizzarro, ma lo stop agli incentivi, tanto invocati nei mesi scorsi, ha riaperto il dialogo tra Fiat e governo. «Una scelta condivisa», così sia Sergio Marchionne che Luca Cordero di Montezemolo hanno commentato il blocco degli aiuti pubblici al settore dell’auto annunciato da Claudio Scajola. «Condividiamo la decisione del governo e le ragioni per cui è stata fatta», ha precisato l’ad del Lingotto, assicurando che col ministro dello Sviluppo economico non c’è alcuna polemica.
Tesi confermata da Scajola, che ha detto di aver lavorato «a stretto contatto con Marchionne e Montezemolo» e in «concordanza di vedute col Lingotto».
Torna l’idillio
Quanto alle ragioni dello stop, il titolare dello Sviluppo ha ribadito la necessità di «tornare alla normalità» chiudendo i rubinetti degli aiuti che «drogano il mercato e lo destabilizzano». Inoltre, ha proseguito il ministro, «tutti i Paesi con cui ci siamo confrontati ragionano in questo modo. Le risorse sono limitate e le dedicheremo ad altri settori che soffrono la crisi e hanno bisogno di una spinta».
È tornato l’idillio? Solo in parte. Sottotraccia viaggiano ancora le tensioni dei giorni scorsi. «La Fiat è un pilastro del sistema industriale del Paese» , ha riconosciuto Scajola, «merito della sua capacità di innovare il prodotto, ma anche della considerazione e dell’appoggio che ha sempre avuto dai governi di questa Repubblica». Anche l’accordo con Chrysler, ha proseguito il ministro tanto per riprendere la polemica con Montezemolo sul sostegno pubblico al Lingotto, «è stato raggiunto per merito del suo management, dei suoi lavoratori, dei suoi prodotti e anche grazie all’appoggio, nel tempo, del governo».
Vendite giù del 16%
E le punture non mancano neanche sull’altro fronte. «Accettiamo quello che ha detto il ministro», ha detto l’ad della Fiat con una punta di sarcasmo, «lavoriamo sul mercato, andiamo fuori dall’Italia, stiamo lavorando dappertutto». Anche sul rischio di aumento della cassa integrazione il manager non usa mezzi termini: «Ci dovrà essere per forza, ma la gestiremo. L’ho già detto altre volte». Del resto, ci ha tenuto a sottolineare Marchionne, lo stop agli incentivi significa per il 2010 «350mila auto vendute in meno», con un calo del 16% rispetto alle 2.150.000 vendute nel 2009.
Il sostegno di Emma
Detto questo, il manager ha voluto rassicurare i lavoratori e il governo sul fatto che «nessun’altra fabbrica è in pericolo». Mentre su Termini Imerese il Lingotto ha smentito qualsiasi tentativo di ostacolare altri soggetti. «Siamo disposti ad ascoltare tutti, non abbiamo chiuso la porta a nessuno», ha spiegato Marchionne, «ma fino adesso non ho visto niente». L’ad ha poi aggiunto che la «soluzione si sta cercando con tutte le istituzioni». Lo stesso Scajola ha confermato che «a breve la Fiat, con una lettera, metterà nella piena disposizione lo stabilimento di Termini Imerese perché possa avere uno sviluppo industriale».
Si dice convinta che la Fiat farà la sua parte anche Emma Marcegaglia. «La sfida americana e globale della Fiat va compresa e aiutata. C’è un problema su Termini Imerese», ha detto la presidente di Confindustria, che ha condiviso la scelta del governo sugli incentivi, «ma l’azienda se ne farà carico per prima per risolverlo». Guai, ha poi aggiunto la Marcegaglia, «a bloccare le ristrutturazioni aziendali, perché vorrebbe dire tenere in vita stabilimenti non produttivi».
Intanto il governo russo ha annunciato che il premier Vladimir Putin siglerà oggi a Naberezhnye Chelny un accordo ufficiale che prevede la creazione di una joint venture tra Fiat e Sollers per la produzione di 500mila auto l’anno. L’accordo ha un valore di 2,4 miliardi di dollari e prevede la realizzazione di 9 modelli sulla base della piattaforma Fiat-Chrysler.

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mercoledì 10 febbraio 2010

Cancellati gli incentivi all’auto. Fiat e governo felici. Operai no

Termini Imerese ripartirà con l’auto a pile. È ancora presto per dire l’ultima parola, ma tutto, sembra andare in questa direzione. A partire dall’annuncio di Claudio Scajola che nel pacchetto incentivi non ci sarà posto per gli aiuti all’auto, tranne quelli destinati alla innovazione e alla ricerca. «Credo sia opportuno pensare ad altri settori che hanno bisogno di essere spinti», ha dichiarato il ministro da San Sebastian Tra questi il ministro ha ricordato il tessile, gli elettrodomestici, delle macchine agricole. È lì, al vertice spagnolo dei ministri dell’Industria europei, che l’ipotesi avrebbe fatto passi avanti. Ma l’idea di trasformare lo stabilimento in un centro per la produzione di tecnologia e vetture a emissioni zero cammina sottotraccia da un bel po’. Non è un caso che ieri la giunta siciliana guidata da Raffaele Lombardo abbia deciso, accanto all’investimento di 350 milioni, di vincolare l’aera in cui sorge la fabbrica della Fiat alla produzione automobilistica. Uno schiaffo al possibile arrivo di colossi come Ikea o Auchan che non avrebbe senso in mancanza di progetti alternativi e rassicurazioni governative. Del resto, al ministero dello Sviluppo tra le proposte c’è anche quella del finanziere siciliano Simone Cimino, presidente del fondo Cape Natixis. Cimino vorrebbe rilevare lo stabilimento, con la casa automobilistica indiana Reva, per farne un centro di assemblaggio di vetture elettriche di piccole dimensioni, creando oltre 3mila posti di lavoro ed assorbendo dunque i 2.200 addetti di Fiat e delle aziende dell’indotto. La proposta è stata presentata dalla Cape Sgr Spa, il fondo costituito quattro anni fa da Cimino con la Regione siciliana, che ne detiene il 49%. Se non bastasse, bisogna ricordare che il finanziere è cugino dell’assessore regionale Michele Cimino, vicino al plenipotenziario per il Sud del Pdl Gianfranco Micciché che, coincidenza, ha il suo collegio elettorale proprio a Termini. Sempre ieri, inoltre, il governatore Lombardo ha presentato la Maranello, un’auto elettrica prodotta dalla Effedi (che ha avuto da Ferrari il via libera all’utilizzo del marchio) nei suoi impianti di Carini, venduta nel comune di Antibes in Francia e in alcune città italiane, ma non nell’isola perché manca la rete di distribuzione per questo tipo di vetture. Il quadro sarebbe perfettamente compatibile con lo stop agli incentivi. L’auto elettrica potrebbe infatti usufruire delle risorse pubbliche destinate all’innovazione e alla ricerca. È stato lo stesso Scajola a parlare dell’ipotesi come di una «una soluzione possibile» per Termini. Il ministro avrebbe anche raccolto in Spagna la disponibilità della Renault a partecipare al progetto. I francesi hanno in programma di proporsi sul mercato già nel 2011 e di mettere in piedi un polo per lo sviluppo delle tecnologie per le batterie elettriche necessarie all’alimentazione dei veicoli. Sarebbe questo il settore in cui l’Italia potrebbe proporsi per sviluppare una collaborazione.

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Al governo non piace lo spezzatino Eni

No allo spezzatino, sì alla società delle reti. Non si placa il dibattito sul futuro dell’Eni, all’indomani dell’accordo con l’Antitrust Ue che prevede la cessione da parte del Cane a sei zampe dei tre gasdotti europei. Il sottosegretario allo Sviluppo economico, Stefano Saglia, ha definito ieri «un errore industriale» la separazione caldeggiata dal fondo Knight Vinke tra il settore petrolifero e quello del gas. Ipotesi che, secondo l’esponente del Pdl, risponderebbero ad una logica da «fondo speculativo» e non farebbero gli interessi degli azionisti.Discorso diverso quello della rete. Saglia non ha infatti escluso l’ipotesi di una società che gestisca i tubi, magari «una public company». Scenario non incompatibile con la vendita dell’infrastruttura Eni che porta il gas dalla Russia all’Italia (il Tag) alla Cassa depositi e prestiti di cui si è parlato molto nei giorni scorsi. Ipotesi confermata ieri anche da Alberto Meomartini. Il presidente di Snam rete gas ha infatti escluso un ruolo della società che gestisce l’infrastruttura italiana nell’operazione europea. «Bisogna chiedere a Eni», ha spiegato, «ma non mi sembra che si stia andando nella direzione di una cessione dei gasdotti a Snam». L’operazione, del resto, ha già ricevuto il consenso di Franco Bassanini, il quale si è detto disponibile all’investimento. Lo stesso presidente della Cdp ha però precisato che prima di fare qualsiasi passo la Cassa dovrà valutare attentamente il valore dei diritti di utilizzo e degli accordi tra l’Eni e la società di gestione del gasdotto. Un tema delicato, visto che in capo al Cane a sei zampe restano tutti i diritti di passaggio precedentemente detenuti. Il gruppo guidato da Paolo Scaroni cederà infatti una quota dell’89% della società che controlla il gasdotto e non potrà più decidere chi accederà alla rete, ma manterrà inalterata la possibilità di far passare il suo gas. Il rischio, dunque, per Bassanini è quello di far spendere al Tesoro e alle Fondazioni azioniste della Cassa 700 milioni (questa la cifra di cui si è parlato) per dei tubi posseduti solo sulla carta.E analoghe valutazioni dovranno essere fatte anche sul versante delle tlc, qualora il governo decidesse di far giocare alla Cdp il ruolo di grande gestore della rete a partecipazione pubblico-privata. Eventualità che potrebbe verificarsi prima del previsto. Ieri il quotidiano brasiliano O Globo ha rilanciato l’ipotesi della fusione Telecom-Telefonica, sostenendo che le nozze sono molto vicine. La scadenza indicata dal giornale sudamericano sarebbe la fine del mese o i primi di marzo, dopo i cda di bilancio delle due aziende (il 25 febbraio Telecom, il 26 Telefonica). «Non c’è alcuna accelerazione», indicano fonti finanziarie, che ribadiscono quanto emerso una settimana fa: l’operazione, se si farà, dovrà attendere l’esito delle elezioni regionali (28 marzo) e della la partita per il rinnovo del vertice delle Generali (l’assemblea è il 24 aprile), nella quale saranno impegnati gli azionisti italiani di Telco (Mediobanca, il Leone, Intesa Sanpaolo). La fusione con gli spagnoli «è un problema che dev’essere affrontato tenendo presente che l’Italia è un paese democratico, con libera iniziativa economica, dove ogni impresa ha la libertà di muoversi», ha osservato il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola ribadendo quanto già detto la settimana scorsa da Silvio Berlusconi. L’ipotesi ha comunque infiammato le Borse. Le azioni Telecom, dopo aver toccato un massimo a 1,108 euro con rialzi superiori al 4%, hanno terminato la seduta in crescita del 3,05% a 1,082 euro.

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Anche Scajola rifà i conti di Montezemolo

Silvio Berlusconi assicura che i posti di lavoro saranno «salvaguardati», ma il dialogo tra governo e Lingotto prosegue ad armi spianate. Ad aprire la giornata di ieri un intervento di Luca Cordero Montezemolo che sembrava teso a smorzare i toni dopo gli scambi di battute al vetriolo di giovedì. Tra Fiat e Palazzo Chigi, spiega il presidente della casa automobilistica in mattinata, «c’è un rapporto molto chiaro e molto positivo, di dialogo e di confronto, così come deve essere». E ancora: «Le scelte industriali che servono a mantenere competitive un’azienda non potranno essere disgiunte dal problema di farsi carico delle famiglie e delle persone». Il presidente garantisce poi che la Fiat «è e rimane italiana». «Non solo perché è l'unica azienda il cui nome è Fabbrica italiana auto Torino», aggiunge, «ma anche perché da quando sono presidente e Marchionne è amministratore delegato, cioè dalla metà del 2004, abbiamo investito nel mondo 25 miliardi e in Italia oltre 16. Oltre due terzi sono stati investiti in Italia e intendiamo andare avanti su questa strada». Ma dietro alle aperture, rispuntano le frizioni. Montezemolo ci tiene infatti a ribadire che il gruppo da quando c’è lui «non ha mai ricevuto un euro dallo Stato». Quanto al peso degli incentivi sull’azienda, spiega, «ho visto delle cifre che dicono che sono andati per il 70 per cento alle aziende straniere, solo il 30 per cento alla Fiat. Quindi credo che dobbiamo uscire da un approccio demagogico e guardare alla realtà così com’è».La prima reazione arriva da Roberto Calderoli. «Se la dichiarazione di Montezemolo sul fatto che la Fiat non ha preso un euro», replica il ministro della Semplificazione, «è una barzelletta, allora non fa proprio ridere. Se invece Montezemolo non scherza e parla sul serio, allora la faccenda assume contorni sanitari...». E non si fa attendere troppo neanche la risposta di Claudio Scajola, impegnato tra l’altro durante la giornata nel vertice con sindacati e Fiat per sciogliere i nodi su Termini Imerese. «La Fiat ha saputo crescere in Italia e nel mondo con le sue capacità», dice il ministro dello Sviluppo in serata, «ma anche con l’aiuto dei governi italiani e degli italiani». Al di là delle polemiche, ieri il ministro ha cercato di dare un colpo di acceleratore sul salvataggio di termini Imerese. «È tutto nelle sue mani», ha spiegato Silvio Berlusconi, aggiungendo che «il governo farà di tutto per salvaguardare l’occupazione». Al tavolo tecnico Fiat avrebbe confermato l’intenzione di dismettere lo stabilimento, ma non le tecnologie. È escluso insomma che il Lingotto possa mettersi a fare altre cose che non siano automotive e che possa mettere soldi per il disimpegno di Termini Imerese. Piuttosto, avrebbero detto i rappresentanti della Fiat, meglio cedere la fabbrica “a zero lire”. E dalla casa di Torino sarebbe arrivato anche un rifiuto all’ipotesi di 6 mesi di incentivi, perché non garantirebbe continuità, come invece in Francia dove sono stati garantiti 18 mesi.Il ministero ha comunque nominato Invitalia advisor per esaminare le proposte alternative per il polo industriale palermitano. Intanto, la giunta regionale della Sicilia approverà lunedì un provvedimento per formalizzare una proposta su Termini che sarà poi trasmessa al governo. Soluzioni concrete, per ora, non ce ne sono, anche se sono state confermate le sette manifestazioni di interesse.Al tavolo, che è stato aggiornato al 5 marzo, la Fiat avrebbe anche presentato i numeri dell’impatto sociale della chiusura dello stabilimento. Circa 806 operai dei 1.658 dipendenti della fabbrica siciliana potrebbero accedere alla mobilità con pensione.

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venerdì 5 febbraio 2010

Aggirato l’ultimatum di Bruxelles: Eni vende i tubi ma si tiene la gestione

Calcolatrice alla mano, la soluzione non fa una grinza. L’Eni evita una multa che sarebbe potuta schizzare fino a 1,5 miliardi e ne guadagna altrettanti attraverso la dismissione di asset. Anche gli americani del fondo Knight Vinke, che da mesi sostengono la necessità di una separazione più netta tra produzione e distribuzione, dovrebbero essere soddisfatti. Eppure, fino all’ultimo il Cane a sei zampe (ma anche il governo) ha battagliato per evitare l’inevitabile. Che il gasdotto “strategico” Tag, che viaggia dalla Russia, attraverso l’Austria, fino all’Italia, fosse destinato ad essere ceduto, con tutta probabilità alla Cdp, lo scrivemmo su queste pagine il 3 di settembre, quando Paolo Scaroni ancora escludeva con decisione l’ipotesi. Ieri, da Bruxelles, è arrivata l’ufficializzazione. L’infrastruttura, ha spiegato l’ad durante una conferenza stampa congiunta con il commissario Ue Antitrust, Neelie Kroes, sarà venduta alla Cassa depositi e prestiti. I dettagli sono ancora tutti da verificare, ma è chiaro che il tentativo è quello di cedere i tubi senza lasciare che finiscano in mano straniera. Per ottenere il via libera della Ue, che punta progressivamente alla realizzazione di una rete internazionale indipendente, Scaroni dovrà invece lasciare in pasto al mercato le quote di Eni nel gasdotto Tnp (che attraverso la Germania porta in Italia il gas dall’Olanda) e Transitgas (che collega l’Italia alla Germania via Svizzera). In questo caso ci sarà un diritto di prelazione rispettivamente in capo alla tedesca E.On e alla Suisse Gas.
«Una scelta dolorosa, ma fatta nell’interesse degli azionisti», ha ammesso l’ad dell’Eni. In realtà, l’operazione non è neanche così dolorosa. «Quello che ci avrebbe fatto veramente male», ha spiegato Scaroni, «sarebbe stato essere costretti a vendere i diritti di trasporto sui tre gasdotti che invece manteniamo». Era questo in effetti il vero timore del Cane a sei zampe: che Bruxelles costringesse il gruppo a cedere il controllo effettivo dell’infrastruttura. Non è così, per ora. L’Antitrust ha accettato la proposta dell’Eni, ma si riserva fino ad aprile per chiudere l’istruttoria. A quel punto Scaroni dovrà vedersela col nuovo commissario Joaquin Almunia. E non è detto che sia un bene.

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Silvio testimone di nozze per Telecom

Evviva il libero mercato. Il governo non metterà bocca nell’affaire Telecom-Telefonica. Parola di Silvio Berlusconi. Dopo settimane di indiscrezioni, rumors e smentite, sulla possibile opzione spagnola per il gruppo di tlc scende in campo il presidente del Consiglio. E non per ventilare paletti, vincoli, condizioni. Ma per dare un sostanziale via libera all’operazione che potrebbe far finire i telefoni italiani nell’orbita madrilena. «Per quanto riguarda la sostanza di qualche proposta, ricordo che siamo un governo liberale e viviamo, e crediamo sia giusto così, in un’economia di mercato», ha detto Berlusconi. Il Cavaliere ha confermato, tuttavia, di non aver ancora ricevuto «nessuna proposta, nessun progetto». Il che lascerebbe pensare che per entrare nel vivo delle trattative ci sia ancora tempo. Soprattutto per quelle che inevitabilmente vedranno coinvolte anche le diplomazie politiche dei due Paesi. Le parole del premier hanno messo il turbo al titolo. Poi, però, si è lasciato coinvolgere dal pessimismo generale del mercato, perdendo l’1,81%.
Rispetto a tre giorni (quando Palazzo Chigi ha smentito di aver dato il via libera a un’offerta pubblica di scambio di Telefonica su Telecom) ci sono senza dubbio significativi passi avanti. Ma il nodo della rete è ancora tutto da sciogliere. Il governo anche mercoledì ha ribadito di ritenere strategica per il Paese la rete fissa di Telecom Italia. E ieri dalla Camera sono arrivate le parole di Luigi Casero, che ha chiarito quali saranno i tempi della politica rispetto a quelli del mercato. La golden share che il governo ha nei confronti delle decisioni strategiche di Telecom, ha detto il sottosegretario all’Economia, rispondendo in aula ad una interrogazione, potrà essere attivata «dopo le determinazioni delle società. Solo in tale fase il Tesoro potrà valutare, d’intesa con lo Sviluppo economico, se esercitare i poteri speciali». Poteri contenuti nello statuto della società e quindi inattaccabili anche da parte della Ue. Nel dettaglio, il ministero ha «il potere di veto in relazione al concreto pregiudizio arrecato agli interessi vitali dello Stato, alle delibere di scioglimento della società, di trasferimento dell’azienda, di fusione, di scissione, di trasferimento della sede all’estero, di mutamento dell’oggetto sociale, di modifica dello statuto». In altre parole, Telecom non si può muovere senza il placet di Via XX Settembre. Ma neanche senza l’ok di Claudio Scajola. Per quanto riguarda la necessità di assicurare la continuità di investimenti sulla rete, l’attività di ricerca e il mantenimento dei livelli occupazionali, ha infatti proseguito Casero, «c’è l’esclusiva competenza degli azionisti, nonché sotto l’aspetto politico e strutturale, del ministero dello Sviluppo». Il sottosegretario ha quindi ricordato la posizione di Claudio Scajola che, oltre a confermare che «le operazioni sulla fusione diffuse dalla stampa sono prive di fondamento, condivide che la rete Telecom sia un asset strategico per l’Italia e per il suo sviluppo futuro». Proprio ieri il ministro dello Sviluppo ha avuto un incontro di 40 minuti con l’ad Franco Bernabé. Vertice dal quale sarebbe però uscita soltanto la garanzia da parte dell’azienda di un filo diretto col governo.
Difficile prevedere quali saranno le prossime mosse. Di sicuro le banche azioniste di Telecom - Intesa e Mediobanca - vogliono dismettere le loro partecipazioni che da inizio 2007 hanno dimezzato il loro valore. Sul Corriere della Sera - quotidiano che ha tra i soci anche i due istituti - è stata ventilata l’ipotesi di uno scambio tra Italia e Spagna basato sull’acquisto di Abertis da parte dei Benetton e di Telecom da parte di Telefonica. In questo modo, suggeriva l’articolo, Berlusconi, che si è battuto per impedire la vendita di Alitalia agli stranieri di Air France, potrebbe rendere più accettabile la perdita del controllo italiano sull’ex monopolista dei telefoni. Il governo spagnolo, inoltre, non potrebbe più lamentare la mancanza di reciprocità, dopo che Enel si è aggiudicato Endesa e la stessa Telecinco, la televisione Prisa Cuatro .

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Pronti gli incentivi auto per salvare Termini. Marchionne non ci sta

Diventa sempre più puntuto il confronto tra il Lingotto e Palazzo Chigi. La minaccia, neanche troppo velata, di chiudere i rubinetti degli incentivi auto se la Fiat non collaborerà su Termini Imerese ha provocato ieri la sortita di Sergio Marchionne, affidata alle pagine “amiche” della Stampa. «Sono agnostico sugli incentivi: il governo faccia la sua scelta e noi la accetteremo senza drammi», si legge nell’intervista all’ad della Fiat, «ma abbiamo bisogno di decisioni in tempi brevi e di uscire dall’incertezza, poi saremo in grado di gestire il mercato e la situazione qualunque essa sia». Non si fa attendere la risposta, piccata, del premier. «Stiamo esaminando la possibilità di erogare incentivi al settore automobilistico», dice Silvio Berlusconi durante la conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri, ma «pare che il principale produttore di auto italiano, la Fiat, non sia interessato ad averli».
Insomma, alla vigilia dell’incontro cruciale tra governo, azienda e sindacati, che oggi dovrebbe sciogliere i nodi su Termini Imerese, al dialogo si sostituisce lo scontro. «Bisogna avere il coraggio», rincara la dose il presidente del Senato, Renato Schifani, «di dire basta ad elargizioni statali se non vengono salvaguardati i posti di lavoro e i presidi industriali». La chiusura di Termini Imerese, prosegue il numero uno di Palazzo Madama, «sarebbe un fatto scellerato». Ancora più esplicito il ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli: la Fiat «ha preso i soldi e ora scappa».
A stretto giro arriva la controreplica di Marchionne. Più che «palliativi», è il pensiero che il manager affida ad una nota stampa, serve una «forte seria politica industriale per l’auto». Perché «rinnovare i bonus non farebbe altro che rimandare il problema alla prossima scadenza». Poi Marchionne va oltre, sottolineando che «l’eventuale scelta del governo di non rinnovarli ci trova pienamente d’accordo». Secondo il numero uno del Lingotto, «come già ufficialmente detto la scorsa settimana comunicando le previsioni sui risultati del gruppo per il 2010, la Fiat è in grado di gestire la situazione, sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista industriale, anche nello scenario più pessimistico». Resta inteso, o sottinteso, che nello scenario pessimistico il governo può anche dire addio al surplus di produzione in Italia e al salvataggio degli impianti non competitivi come Termini.
Al fianco del Lingotto scende in campo Emma Marcegaglia. «Mi pare», dice la presidente di Confindustria, «che la posizione di Marchionne sia quella di una richiesta di stabilità e di certezza». Il problema, continua la Marcegaglia tentando di riportare il ragionamento sulle questioni concrete, «non è tenere in piedi stabilimenti non efficienti. Il problema serio, sul quale dobbiamo tutti lavorare, è reimpiegare le persone che rischiano di perdere il posto di lavoro». Ed è su questo, secondo il leader di Viale dell’Astronomia, che «serve l'impegno di Fiat, serve l’impegno nostro e serve l’impegno del governo e mi pare che ci siano proposte su cui si sta ragionando». In ogni caso, dice ancora, legare la chiusura di Termini Imerese all’erogazione o meno di incentivi «non risolve realmente» la situazione in atto. Diversa l’opinione delle piccole imprese. «Gli incentivi devono essere necessariamente legati a delle garanzie», dice il presidente di Confapi, Paolo Galassi, aggiungendo che «è l’azienda che resta in Italia e che si impegna per il bene del Paese che va sostenuta, non quella che porta produzione e occupazione all’estero». Sul fronte degli aiuti, prosegue Galassi, «lo Stato in un certo senso dovrebbe agire da imprenditore e premiare solo quelle imprese che rappresentano un buon investimento, che apportano cioè un contributo economico-sociale al paese che le nutre».

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