Al principio fu creato l'universo. Questo fatto ha sconcertato non poche persone ed è stato considerato dai più come una cattiva mossa. (Douglas Adams)
mercoledì 30 settembre 2009
Unicredit e Intesa fanno da sole: niente Tremonti bond
Nota, e limpida, la soluzione scelta dal gruppo guidato da Alessandro Profumo. Il consiglio di amministrazione ha approvato all’unanimità la proposta di un aumento di capitale fino a 4 miliardi. L’operazione avrà un impatto sul Core Tier 1 ratio (l’indice di patrimonializzazione), di circa 80 punti base che andranno ad irrobustire il 6,85% attuale. Se può essere di consolazione per il ministro dell’Economia, la rinuncia all’emissione di strumenti di capitale destinati alla sottoscrizione da parte del governo riguarda anche l’Austria. Unicredit ha infatti approvato anche la sottoscrizione di un futuro aumento di capitale per Bank of Austria da 2 miliardi. Per quanto riguarda l’Italia il consiglio definirà le modalità e i termini dell’aumento, in particolare il prezzo, prima della fine dell’anno. L’operazione dovrebbe concludersi entro il primo trimestre del 2010.
Resta ancora aperto, invece, lo scenario in cui si muoverà Intesa Sanpaolo. Il consiglio di gestione e quello di sorveglianza, hanno deciso, «alla luce di un andamento del gruppo migliore di quanto ci si potesse aspettare, di emettere fino a 1,5 miliardi di euro di Tier 1», ovvero obbligazioni che vanno a impattare sulla patrimonializzazione. Oltre al bond il gruppo accelererà e incrementerà «le azioni di capital management (dismissioni totali o parziali, partnership, quotazioni) previste dal piano d’impresa per garantire al gruppo le risorse patrimoniali necessarie a una crescita dell’attività creditizia anche superiore a quella oggi prevedibile». Intesa, in sostanza, «è in grado di raggiungere e andare oltre gli obiettivi di patrimonializzazione con risorse proprie». Senza il bisogno di operazioni straordinarie e, soprattutto, senza il bisogno di sospendere oltre la distribuzione di dividendi, che riprenderà nel 2010. Non è chiaro se si tratta di una pietra tombale dell’affare Exor-Fideuram, operazione cui sembrava affidato nelle scorse settimane il rafforzamento patrimoniale di Intesa. Il presidente del consiglio di gestione, Enrico Salza, si è limitato a dire al termine del cda: «Non c’è urgenza, si deve vendere bene, non in fretta».
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Il governo licenzia Telefonica
Se le intenzioni sono chiare, le soluzioni lo sono molto meno. Assodato che Telefonica è «un problema da risolvere», anche per gli ostacoli all’attività di Telecom in Argentina (Paese dal quale è imminente l’uscita) e in Brasile per questioni di normativa Antitrust, si tratta di capire da chi potrebbero essere sostituiti. E, soprattutto, a che prezzo. Il dossier è da tempo sul tavolo dei quattro soci (Mediobanca, Generali, Intesa e i Benetton) che siedono insieme a Telefonica nel patto di sindacato. I riflettori sono puntati sulla Findim della famiglia Fossati, che, forte del suo 5% di Telecom fuori da Telco, qualche settimane fa aveva ribadito la necessità di dare al gruppo «un assetto strategico definitivo per il futuro». Recentemente alcune banche d’affari avrebbero anche studiato l’ipotesi di un’alleanza con le Poste. Mentre in passato il mercato aveva guardato a un matrimonio con Mediaset, sempre smentito.
L’unica cosa che sembra da escludere, vista l’insistenza del governo sull’italianità, è il coinvolgimento di altri partner stranieri. Il viaggio in Cina, ha spiegato Romani smentendo alcune indiscrezioni di stampa, «non c’entra nulla con Telecom, siamo andati in estremo oriente solo per parlare di infrastrutture e per vedere come lavorano».
Sullo sfondo ci sono poi anche le insofferenze di alcuni soci (in particolare Intesa) sull’attuale gestione dell’ad Franco Bernabé. Attriti tenuti a freno, per ora, dalla regia di Mediobanca sono in qualche modo espressione.
Ma il nodo principale resta il prezzo. Il titolo ieri ha chiuso a 1,22 euro (in calo dell’1,61%), ben lontano dai 2,2 euro ai quali è stata svalutata la partecipazione di Telco in telecom.
Ed è chiaro che per liquidare gli spagnoli servirà qualcosa di più dei 3 miliardi del valore attuale della quota. Ipotesi esplosiva per Telecom, che deve ancora combattere con i suoi 35 miliardi di debiti. La cautela del presidente Gabriele Galateri, quando sostiene che «le sinergie con Telefonica vanno sfruttate fino in fondo», non è casuale.
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Sborsiamo trenta milioni per film che non vediamo
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Un milione di italiani non paga il canone Rai
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venerdì 18 settembre 2009
Uno scudo con le maglie più larghe
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Le Fiamme Gialle cercano il tesoro di Rocco
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Il Tesoro Usa prepara il divorzio da Citigroup
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giovedì 17 settembre 2009
Il Lingotto vuole altri incentivi. «Senza lo Stato, auto a picco»
Secondo alcuni negli ultimi 30 anni lo Stato avrebbe già “regalato” alla Fiat, tra rottamazioni, incentivi, cassa integrazione e contributi vari, qualcosa come 100 miliardi di euro. Secondo altri aiutare la Fiat significa aiutare il Paese. Sta di fatto che Sergio Marchionne è tornato a battere cassa. E che il governo, per bocca di Claudio Scajola, ha detto che si può fare. L’allarme lanciato dall’ad del Lingotto non è una sorpresa. Il manager aveva già sostenuto la necessità di prorogare gli incentivi pubblici per l’auto a tutto il 2010 dopo i risultati del secondo trimestre, dove era emerso chiaramente che la crescita del gruppo in Europa si deve in gran parte all’effetto degli aiuti messi in campo da molti governi.
Ieri, dal salone dell’auto di Francoforte, Marchionne è ripartito all’attacco profetizzando che senza il prolungamento degli incentivi «sarà un disastro». Non per la Fiat, ma per il Paese. La decisione spetta al governo, ha aggiunto, «ma non rinnovarli avrebbe un impatto piuttosto disastroso sul livello occupazionale in Italia». Anche perché se è vero che «il 2010 sarà meglio del 2009», il mercato dell’auto «tornerà ai livelli precrisi solo nel 2012-2013». Una minaccia difficile da snobbare, soprattutto nel giorno in cui l’Ocse ha diffuso previsioni catastrofiche sull’aumento della disoccupazione, sostenendo che in molti Paesi della Ue, tra cui l’Italia, «il peggio deve ancora arrivare». Lo scenario è un balzo al 10,5% (rispetto all’attuale 9,4) alla fine del 2010.
Tanto è bastato al ministro dello Sviluppo per accogliere a braccia aperte l’appello di Marchionne. La prosecuzione degli incentivi, ha spiegato Scajola, «è una cosa auspicata e auspicabile», anche se «è prematuro parlarne». Per il ministro «gli aiuti al settore dell’auto hanno dato risultati molto soddisfacenti» e quando ci saranno i dati finali a novembre si valuterà «di concerto con gli altri Stati della Ue» se procedere con il rinnovo.
A parte chiedere altre risorse ai contribuenti, Marchionne non ha però voluto scoprire alcuna carta, né sul piano industriale di Chrysler, né sulle prospettive finanziarie dell’azienda, né, in particolare, sul destino degli stabilimenti italiani. Un capitolo, ha spiegato, che si potrà affrontare solo a novembre, dopo che sarà presentato il piano industriale della casa americana. E, probabilmente, dopo che saranno sciolte le riserve sugli incentivi. L’unica cifra che Marchionne ha snocciolato con decisione è quella dei 6 milioni di vetture prodotte. Un obiettivo che il manager continua a ritenere indispensabile per la sopravvivenza del gruppo e che potrà essere raggiunto senza ulteriori alleanze. Sui conti l’ad si è limitato ad assicurare che tutti gli indicatori sono in linea con le previsioni.
In effetti, i dati diffusi nei giorni scorsi da Acea hanno confermato il rimbalzo delle vendite, che ad agosto hanno segnato in Italia un +8,5% (+3% in Europa). Con una quota di mercato del Lingotto che nella Ue occidentale dall’inizio dell’anno è salita al 9%. Ma la situazione non è così tranquilla come sembra. Nel Vecchio Continente le vendite sono evidentemente trainate dagli incentivi. E in America gli esperti prevedono un settembre nero per Chrysler, con un tonfo delle vendite addirittura del 30% (rispetto al -19% previsto per il mercato). Le cose sembrano andare meglio sul piano finanziario, dove qualche giorno fa Fiat ha festeggiato l’emissione di un altro bond a cinque anni da 1,25 miliardi con richieste che avrebbero raggiunto gli 8 miliardi di euro. Ma le obbligazioni del Lingotto continuano ad avere rating junk (spazzatura) e gli alti interessi pagati sui prestiti (poco sotto l’8%) restano ancora uno strumento molto costoso per tenere sotto controllo il debito del gruppo.
mercoledì 16 settembre 2009
Il taglio delle Province finisce in soffitta
Il binario mortoNessuno, ovviamente, ammetterà pubblicamente il delitto. Le quattro proposte restano in piedi e l’iter prosegue. Ma è chiaro che la costituzione di un comitato ristretto, come spiega l’udc Mario Tassone, «è un modo per mettere in ombra gli elementi di divergenza, ponendo su un binario morto un tema che non si vuole affrontare poiché manca una posizione univoca nella maggioranza e in parte dell’opposizione». A confezionare l’abito su misura per la riforma più annunciata e meno desiderata degli ultimi anni è stato uno schieramento bipartisan che va, tra gli altri, dai pdl Donato Bruno (presidente della Commissione nonché relatore del provvedimento) e Peppino Calderisi, agli udc Tassone e Pierluigi Mantini, fino ai pd Oriano Giovanelli e Sesa Amici. Tutti più o meno concordi nell’archiviare il caso. Anche dall’Udc, che pure insieme all’Idv di Antonio Di Pietro ha fatto della riforma una bandiera (non ha caso la proposta di legge depositata in Commissione porta la firma di Pier Ferdinando Casini), non sono arrivate che deboli obiezioni. Sia Tassone sia Mantini hanno invitato la maggioranza a chiarire qual è la direzione in cui andare prima di costituire il comitato ristretto, proprio perché quest’ultimo «agevola i lavori quando c’è la volontà di arrivare ad un risultato», mentre li affossa nel caso contrario. Ma poi Mantini ha voluto sottolineare che l’alternativa «non è semplicemente quella tra il mantenimento delle province nell’assetto attuale e la loro soppressione, potendosi ragionare anche su una riforma con legge ordinaria che, a Costituzione invariata, ridefinisca le funzioni delle province nel senso di una razionalizzazione del sistema e di una riduzione dei costi». Diversivo che piace molto anche al Pd. C’è l’esigenza, ha spiegato Amici, «di esaminare quanto prima i progetti di legge ordinaria in materia di riforma delle autonomie locali». Alla fine, al di là delle chiacchiere, la proposta del presidente Bruno del comitato ristretto (che sarà probabilmente composto dai capigruppo in commissione) è andata bene a tutti.La realtà è che chiusa la campagna elettorale i proclami gridati a gran voce (specialmente dal centro-destra) sono finiti immediatamente nel cassetto. Il dibattito si è riaperto alla fine dell’anno scorso in seguito alla martellante campagna di Libero che ha raccolto una quantità inimmaginabile di adesioni. Sono nate in quel periodo gran parte delle otto proposte di modifica costituzionale (quattro alla Camera, quattro al Senato) per eliminare le province. Ma l’entusiasmo (soprattutto quello di Casini e Di Pietro) è finito presto. La Lega ha puntato i piedi platealmente, mentre gli altri si sono pian piano defilati.
Il diktat di TremontiL’ultimo contrordine è quello arrivato da Giulio Tremonti una manciata di giorni fa durante il Meeting di Cl a Rimini. La riforma, ha detto il ministro dell’Economia, «richiede una modifica costituzionale ed è molto complicata». In più, ha aggiunto, non è vero che si risparmierebbe, «perché i costi sostenuti ora dalle province non sarebbero eliminati, ma dovrebbero essere caricati su altri soggetti». In sostanza, l’abolizione non s’ha da fare.Il messaggio è chiaro, ma l’argomentazione non convince. Se è vero, infatti, che le spese ora gestite dalle province per la manutenzione delle infrastrutture resterebbero è anche vero che degli oltre 14 miliardi (su un totale del settore pubblico di 750 miliardi) che gli organismi sottraggono al bilancio dello Stato, circa 2,5 miliardi se ne vanno solo per le spese di personale mentre un altro miliardo serve per le spese generali dell’amministrazione. Difficile sostenere che i tagli non arriverebbero. Complessivamente, secondo i calcoli dell’Eurispes, l’abolizione delle 104 province italiane comporterebbe oltre 10 miliardi di risparmi. Un po’ troppi per farli finire sotto il tappeto in un giovedì di fine estate.
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Novità al telefonino. Il cambio del gestore entro tre giorni
Tre giorni erano e tre giorni devono tornare ad essere. L’elastico della portabilità torna a stringersi. Dopo un braccio di ferro durato diversi mesi il Consiglio di Stato ha riportato le lancette alla disposizione iniziale dell’Authority per le tlc: gli operatori di telefonia mobile devono garantire il trasferimento del numero entro le 72 ore successive alla richiesta da parte del cliente. La decisione della giustizia amministrativa annulla la precedente sentenza con cui, nel giugno scorso, il Tar del Lazio aveva accolto il ricorso di Telecom e Vodafone contro la delibera dell’Agcom.
Secondo i due operatori “dominanti” il termine di tre giorni imposto dall’Authority costituirebbe una violazione alle norme che regolano il preavviso per il recesso dal contratto. Il riferimento è alla Legge Bersani, che prevede un termine di trenta giorni per tutti i contratti civili. In altre parole, per le due società di tlc i tre giorni dovrebbero aggiungersi ai trenta. Con buona pace dell’utente che vuole cambiare gestore. E dell’Europa, che continua a bacchettarci per i nostri tempi di trasferimento (una media di quindici giorni che ci colloca al penultimo posto dopo la Polonia). Tutt’altra, ovviamente, la versione (forse più in linea con lo spirito della Bersani) del Consiglio di Stato, che ritiene i trenta giorni un «termine massimo a garanzia del consumatore» e non un termine minimo a tutela dell’azienda.
La questione sul tavolo, chiaramente, va al di là del semplice disservizio. Non si tratta soltanto di evitare al consumatore inutili lungaggini burocratiche in un settore dove tutto è automatizzato. In gioco c’è la correttezza della competizione tra grandi e piccoli. Molto spesso, infatti, il periodo che intercorre tra la richiesta di portabilità del numero e la chiusura della pratica viene utilizzato dalla società per non perdere il cliente. In gergo tecnico si chiama attività di retention. In soldoni sono le telefonate martellanti con cui il vecchio operatore cerca di scoraggiare il passaggio al nuovo, anche attraverso annunci di offerte che poi non si concretizzano. La sostanza è che se la portabilità non si realizza in tempi rapidi, cade la ragione per cui è stata istituita. Ovvero favorire la concorrenza tra le varie offerte e allargare il mercato a nuovi competitor.
Non è un caso che oltre alle associazioni dei consumatori e all’Agcom, a firmare l’appello contro la sentenza del Tar c’erano anche operatori alternativi come Wind, Poste e 3.
Lo stesso Consiglio di Stato, nell’accogliere il ricorso, ha sottolineato che dalla decisione del Tribunale regionale «deriva un danno grave e irreparabile agli operatori minori, chiaramente pregiudicati dalla sospensione di un regime regolatorio che tende a disciplinare la portabilità del numero in modo efficace». Anche Vodafone, pur difendendo il «diritto dei clienti a fruire di offerte migliorative del proprio gestore anche durante il cambio di operatore», ha però voluto chiarire ieri che sull’accorciamento dei tempi di passaggio la società auspica che l’Authority possa garantire «certezza e minori ostacoli ai clienti» anche sulla telefonia fissa. Settore, guarda caso, dove il colosso dei cellulari torna ad essere un “minore”.
L’intervento dei giudici amministrativi non mette la parola fine alla vicenda. La disposizione si limita infatti ad annullare una sospensiva con cui il Tar aveva congelato la delibera dell’Authority. Ora bisognerà aspettare la sentenza di merito. Ma è chiaro che il parere del Consiglio di Stato, soprattutto nel passaggio in cui stabilisce che il rispetto del termine di tre giorni non comporta per Telecom conseguenze che abbiano «i requisiti della gravità ed irreparabilità del danno», peserà sulle determinazioni future.
giovedì 10 settembre 2009
La febbre dell’oro sale ai massimi
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lunedì 7 settembre 2009
Squadra da "zero tituli"? La Roma ha già vinto
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Il Pil riparte, l’occupazione no. Solo la sanità assume ancora
La banca si salva
Ma chi saranno le vittime di questa bomba a scoppio ritardato? Coloro che hanno ancora nella mente le immagini dei funzionari della Lehman che uscivano dagli uffici a testa bassa con gli scatoloni in mano, risponderebbero senza esitazioni i lavoratori del settore finanziario. Del resto, è da lì che è partita la crisi globale. In realtà, a parte il colosso Usa e pochi altri piccoli istituti, le banche non hanno affatto chiuso bottega. Anzi, come dice Tremonti, la maggior parte dei soldi pubblici è servita proprio a puntellare il mondo del credito. Il risultato, secondo i dati del sistema informativo Excelsior di Unioncamere, è che a fronte di un calo complessivo dell’occupazione nel 2009 dell’1,9%, le banche, le assicurazioni e i servizi finanziari subiranno una contrazione solo dell’1,2%. Molto peggio vanno i trasporti (-2,5%), il turismo (-1,9%) e il commercio all’ingrosso (-1,9%). La verità è che il colpo più duro è quello inferto all’industria (-2,6%) e alle costruzioni (-2,7%), con picchi che riguardano il tessile e l’abbigliamento (-3,5%), i beni per la casa (-3,2%), i mobili, il metallurgico e le materie plastiche (-2,7%). Si tratta, in sostanza, delle attività del manifatturiero più legate al made in Italy e all’export, due settori fortemente colpiti dalla recessione internazionale. Sorprendente l’invulnerabilità della sanità privata, unico settore in crescita (+0,3%).
I lavori anti-crisi
Un altro fenomeno che balza agli occhi, questo più scontato, è che a fare le spese della crisi saranno principalmente gli operai e il personale non qualificato, con un calo del 2,4% (pari a 160mila unità). Un dato significativamente più elevato rispetto a quanto atteso per i livelli dirigenziali (-1,6%) e impiegatizi (-1,1%). Inutile dire che la contrazione più forte colpirà le piccolissime imprese, con meno di 10 dipendenti. Complessivamente le previsioni per il 2009 parlano di circa 250mila persone che resteranno senza posto.
Qualche spiraglio, però, c’è. Si tratta dei cosiddetti lavori anticrisi che riescono a sfuggire ai contraccolpi del ciclo economico. Nel campo delle figure professionali qualificate, secondo i dati di Unioncamere, in cima alla lista dei lavori più richiesti nei prossimi mesi ci sono ovviamente gli infermieri e i fisioterapisti, ma anche gli addetti al marketing. Per quanto riguarda le occupazioni senza specializzazione, secondo la Cgia di Mestre, i mestieri più gettonati dell’autunno saranno quelli di commesso, addetto alle pulizie, muratore e carpentiere.
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sabato 5 settembre 2009
Tremonti sblocca 18 miliardi per le aziende
Non è un caso che sempre ieri il Fondo monetario internazionale abbia messo in guardia i governi da mosse troppo avventate, magari sull’onda dell’entusiasmo per i primi segnali di ripartenza. «Vista la fragilità delle prospettive di ripresa», ha detto il direttore generale dell’Fmi, Dominique Strauss-Khan, «sussiste il concreto pericolo che i Paesi portino a termine prematuramente le politiche fiscali e monetarie straordinarie adottate per contrastare la recessione». Fra i rischi menzionati da Strauss-Khan c’è proprio quello della disoccupazione, che continuerà ad aumentare fino al prossimo anno.
Anche di questo si parlerà oggi al G20 di Londra. I ministri finanziari e i banchieri centrali riuniti per la due giorni in Inghilterra hanno confermato che la caduta dell’attività economica è finita e che ora si ragiona sulle exit strategy, sui piani per ridurre gradualmente gli stimoli fiscali. Ma l’avvertimento del Fmi, che arriva dopo quelli dei giorni scorsi di Ocse e fed, è più che condiviso. Prima di fare scattare l’operazione, è l’opinione comune, occorre aspettare che la ripresa prenda solidamente piede in modo omogeneo.
A tenere banco al vertice londinese sarà però la questione bonus. Sul tema saranno costretti ad incrociare le loro strade anche i duellanti Mario Draghi e Giulio Tremonti. Se al Meeting di Rimini c’è stato il tempo e lo spazio per un confronto a distanza, a Londra i due dovranno non solo frequentare contemporaneamente le stesse stanze, ma addirittura collaborare. Già, perché per quante legnate il ministro possa somministrare a questo o quel convegno, la crociata di Tremonti e dei leader europei contro i bonus dei banchieri dovrà alla fine passare per il governatore di Bankitalia. Sarà infatti il Financial stability forum da lui presieduto, sulla base dell’accordo raggiunto ad aprile dai Paesi del G20, a scrivere le nuove regole della finanza, comprese le limitazioni agli stipendi e ai premi dei vertici delle banche.
Al di là degli appelli condivisi, una posizione comune è ancora lontana. La lettera firmata da Sarkozy, Merkel e Brown si limita infatti a chiedere di «esaminare i mezzi per limitare l’ammontare delle remunerazioni variabili nelle banche sia in proporzione alle remunerazioni totali sia in funzione dei profitti e/o del reddito». Ben più dura l’impostazione tremontiana contenuta nel documento firmato, oltre che dal ministro dell’Economia, da Francia, Svezia, Olanda, Lussemburgo, Spagna e Germania. Qui si dice chiaro e tondo che i bonus ai banchieri «sono abitudini non solo pericolose, ma scorrette, spregiudicate e inaccettabili» e rappresentano «una provocazione davanti alla disoccupazione in aumento». Nella lettera i sette ministri dell’Economia auspicano la possibilità di «mettere un tetto ai bonus, sottoporli a tassazione e imporre ulteriori obblighi alle banche». Molto più cauta la posizione di Londra, che ieri sera ha subito messo le mani avanti.
Il Cancelliere dello Scacchiere, Alistair Darling, ha detto che la Gran Bretagna è disposta a lavorare con gli altri Paesi per irrigidire le regole sulle retribuzioni dei banchieri, ma aggiunto che l’accordo deve essere globale. «I francesi» ha spiegato, «hanno proposto il tetto ai bonus. Personalmente non credo che sia una proposta realistica». E un freno arriverà oggi anche dagli Stati Uniti. Non a caso ieri il governatore di Bankitalia, nel corso di una serie di incontri bilaterali, ha passato molto tempo con il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, favorevole ad una linea più morbida sugli stipendi. La questione è all’ordine del giorno dei lavori di oggi, dopo gli incontri informali di ieri e la cena di benvenuto. L’obiettivo è quello di arrivare a fine mese con una posizione unitaria sui vari punti. E proprio in questa ottica è stata fissata per il 17 settembre a Bruxelles un’altra riunione, questa volta con capi di Stato e di governo dell’Ue.
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venerdì 4 settembre 2009
Il piano di Bruxelles per liberalizzare le reti del gas mette l'Eni all'angolo
Il sottosegretario la butta lì, ma la questione è centrale. L’insofferenza di Obama per gli accordi sull’energia che l’Italia sta stringendo con la Russia di Putin rappresenta infatti una sponda formidabile per quello che sta tentando di realizzare la Commissione Ue: la liberalizzazione delle reti per via “giudiziaria”. Una strategia che permetterebbe all’Europa di affrancarsi parzialmente dal controllo di Mosca. L’operazione è una sorta di piano B dopo il fallimento (per colpa principalmente di Francia e Germania) del tentativo di imporre con una direttiva la separazione proprietaria delle reti in luogo della più morbida separazione funzionale. Nel mirino dell’Antitrust Ue ci sono i principali colossi europei dell’energia, tutti in vario modo accusati di sfruttare una posizione dominante grazie al controllo della produzione e della rete. I francesi di Gdf stanno trattando in questi mesi con Bruxelles per la cessione a terzi dei principali punti di entrata della rete e dei gasdotti verso la Germania Megal e verso il Belgio Zeebrugge. Con la tedesca Rwe si è già arrivati ad un accordo attraverso la creazione di una società separata per la cessione di una fetta consistente della rete. Operazione che darà vita ad un corridoio indipendente tra Germania e Belgio da un lato e Olanda dall’altro. Resta l’Italia. I riflettori sono puntati non tanto su Snam, quanto sui gasdotti dell’Eni Transitgas (verso la Svizzera), Tenp (tra Svizzera, Germania e Olanda) e soprattutto sul Tag, che porta il gas dalla Siberia attraverso l’Austria all’Italia. Bruxelles, in teoria, potrebbe anche imporre al Cane a sei zampe la cessione dei tubi. Ma il governo ha già fatto sapere che non accetterà una soluzione del genere. Di qui il lavoro che stanno svolgendo in questi giorni i tecnici dell’Eni e del Tesoro per trovare un’alternativa. Sul tavolo c’è la Cassa Depositi e Prestiti, che potrebbe salvare capra e cavoli acquistando i gasdotti. Ma la partita è tutta da giocare.
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Cdp è pronta per i tubi Eni in Europa
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mercoledì 2 settembre 2009
Spunta la tassa occulta sull’ascensore
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