lunedì 31 agosto 2009

Tremonti risponde a Draghi. Niente riforme, c'è la crisi

Niente riforme, c’è la crisi. Il confronto è sottotraccia, come sempre. Ma a Giulio Tremonti quell’elenco di compitini messo sul tavolo da Mario Draghi mercoledì scorso non era affatto passato inosservato. Considerato anche che più il numero uno di Bankitalia dettava l’agenda al governo, più la platea di Cl applaudiva. Così, com’era prevedibile, ieri, sempre dal Meeting di Rimini, il ministro dell’Economia è passato al contrattacco. Il match a distanza è iniziato nel primo pomeriggio, durante una conferenza stampa precedente alla tavola rotonda con l’esponente del Pd Enrico Letta. Qui il ministro ha allargato i confini del confronto prendendosela con tutti quegli economisti che quando si incontrano «ricordano le riunioni dei maghi». E giù esempi per scaldare la platea. Da Mandrake ad Harry Potter, fino al «mago Otelma» per dire che «le riunioni degli economisti sono proprio così e quello che colpisce di più è che nessuno di questi ha mai chiesto scusa, nessuno ha mai detto di aver sbagliato. Sbagliano sempre gli altri». Anche se il bersaglio è ampio e indefinito, è difficile non ricordare le dure e ripetute polemiche con il governatore - che guarda caso è anche il presidente del Financial stability forum, dove i «maghi Otelma» non si contano - sulle stime di Bankitalia. Fa effetto, ha poi aggiunto, «che il coro continui. Se ci fosse il buon senso da parte degli economisti di stare zitti un anno o due ne guadagnerebbero loro stessi e noi tutti». Ma è nella tavola rotonda che Tremonti sferra i colpi più duri. Prima ha rivendicato la diversità italiana, che invece di aiutare le banche considerandole «sistemiche», come hanno fatto gli altri Paesi, ha preferito «aiutare imprese e famiglie». Poi è arrivato al dunque, rispondendo a chi continua a invocare le riforme. Il ministro ha spiegato che a «shock ed elettroshock», espressione usata qualche giorno prima dall’ad di Intesa Corrado Passera, preferisce la «corrente continua». Chiaro il messaggio: a chi, come il governatore, sostiene che le riforme servono per uscire dalla crisi, Tremonti risponde che finché c’è la crisi le riforme non si fanno. Perché, ha incalzato, «è facile ragionare a tavolino», ma quando si ha a che fare con l’emergenza la musica cambia. «La crisi», ha spiegato, «non ti permette di pensare al futuro, bisogna gestire il giorno per giorno». E poi, ha proseguito, chi chiede le riforme «spesso non conosce i contenuti specifici». Quando il ministro è entrato nel dettaglio, però, la platea è rimasta fredda. «Al lavoratore che perde il lavoro fa più comodo la Cig o la riforma degli ammortizzatori sociali?», ha chiesto Tremonti, senza suscitare troppo entusiasmo nel popolo di Cl. Così come non ha riscosso grande successo l’idea che l’abolizione delle Province sia complicata («bisogna cambiare la costituzione») e in fondo non sia così importante, «perché non si risparmia molto sulla spesa pubblica». Più apprezzati, invece, i passaggi social-laburisti, con cui Tremonti a chiuso l’intervento. Entrambi, forse, gettati come esca a Cgil, Cisl e Uil per smussare i prevedibili attriti dell’autunno caldo. Il primo riguarda la compartecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese, tema caro ai sindacati, che secondo Tremonti sarebbe fattibile in presenza di «un patto con gli imprenditori». Il secondo, più sorprendente, riguarda la vicenda della Innse. «La notizia della fabbrica di Milano», ha detto il ministro salendo metaforicamente sulla “gru”, «è la più bella dell’estate, se fossimo in America ci farebbero un film a Hollywood». C’è stata una protesta, ha proseguito, «senza violenza, senza bloccare i servizi pubblici, ma con l’immagine di operai che vogliono salvare la loro fabbrica». Poi, ha concluso, «c’è stato l’arrivo di un imprenditore che non ha chiesto soldi al governo ma ha messo soldi suoi e salvato un’industria».

libero-news.it

Draghi detta l'agenda al governo. Schiaffi a Bossi e Tremonti

Etica, solidarietà, integrazione. È un Draghi nuovo quello che si è affacciato ieri al Meeting di Rimini. Che parla a braccio, che sorride e che coniuga parole, come ha detto lui stesso, «fino a poco tempo fa ignorate dagli economisti» e che ora sembrano diventate la pietra angolare del cambiamento, «il filo conduttore che lega tutte le riforme». E senza riforme il Paese non esce dalla crisi. Perché i «segnali di ripresa ci sono», «il peggio è passato» e si vedono «alcune rondini», ma per tornare al punto di partenza la strada è tortuosa. Certo, ammette il governatore di Bankitalia, molto è stato fatto. E la «risposta tempestiva dei governi e delle banche centrali ha permesso di evitare le conseguenza catastrofiche del ’29». L’Italia però era già malata. E si è portata dietro «un’eredità pesante fatta di bassa crescita e di scarsa competitività». Di qui la necessità del salto di qualità. Che non significa semplicemente aiutare le imprese, rilanciare i consumi e sistemare i conti pubblici, ma sciogliere i nodi strutturali che zavorrano il Paese. Ed è qui che Mario Draghi inizia a picchiare duro. Contro il sistema Italia in generale, ma anche contro bersagli ben più identificabili. La Lega in particolare, con la bocciatura delle gabbie salariali e delle politiche esclusive per l’immigrazione. Ma anche il governo e lo stesso Giulio Tremonti, stangando senza mezzi termini l’idea delle politiche per il Sud e della riedizione della cassa del Mezzogiorno e invocando un allargamento degli ammortizzatori sociali. Tutt’altra la ricetta del governatore, che individua tre priorità di intervento. La prima riguarda il capitale umano. Secondo Draghi è necessario procedere a una rivoluzione che introduca nel sistema scolastico robuste iniezioni di competitività, meritocrazia e meccanismi premianti. Il secondo punto riguarda il mercato del lavoro e la protezione sociale. Bene la flessibilità, dice il governatore, perché ci ha permesso di assorbire l’impatto della crisi, ma con la cassa integrazione non si va lontano. «Le tutele», spiega, «devono essere estese ai precari e a tutti i disoccupati che sono in cerca di lavoro», compresi gli immigrati, che «sono una risorsa e che vanno integrati». Quanto ai salari, basta chiacchiere sulle gabbie, tanto più che «gli stipendi reali non sono così diversi» tra Nord e Sud. Quello che invece è urgente è procedere in fretta verso il rafforzamento della contrattazione decentrata. Poi, il nodo dei nodi: la questione meridionale. Le divergenze esistono e sono forti, ma non è, secondo il governatore con la riedizione di vecchi strumenti che hanno fallito che si può pensare di uscirne. Come la vecchia Cassa del Mezzogiorno, che «funzionava finché si limitava a finanziare infrastrutture». Quando si è messa a distribuire finanziamenti è incentivi «è invece diventata un fattore di sottosviluppo». Il problema, dice, è che al Sud i soldi arrivano già, solo che vengono spesi male. Dunque, «basterebbe applicare bene gli strumenti che già esistono». Stilettate in sequenza, quelle del governatore, sottolineate da applausi sempre più fragorosi. Al punto che Draghi, forse preoccupato di calcare troppo la mano, ha deciso di risparmiare l'ultimo affondo al governo. Nella bozza distribuita prima dell’intervento il numero uno di Bankitalia tornava a puntare il dito sulla riforma incompiuta delle pensioni, un macigno sulla strada della riduzione del debito. Dal palco di Cl il governatore si è limitato a lanciare un ben più innocuo allarme sulla finanza pubblica. L’avversario, del resto, era già ko.

libero-news.it

«Google ci ruba le notizie». Gli editori chiamano lo sceriffo

Non è la prima volta, né sarà l’ultima che il colosso del web Google finisce nel mirino dell’antitrust. Questa volta, però, la vicenda riguarda da vicino il nostro Paese perché sotto accusa c’è la sezione italiana della creatura di Page e Brin. In particolare il portale delle news, che secondo gli uomini di Antonio Catricalà potrebbe abusare della sua posizione dominante. Ad innescare la nuova grana per Google è stata la Federazione italiana degli editori che il 24 luglio scorso ha denunciato la pagina web che aggrega e indicizza le notizie provenienti da 250 siti di lingua italiana attraverso un ordine gerarchico elaborato da un algoritmo. Ed è su quest’ultimo che si sono concentrate le attenzioni degli editori. Il meccanismo, infatti, è coperto da segreto industriale e questo impedirebbe alle aziende di capire in che modo il portale determina, si legge in una nota dell’Authority, «unilateralmente la visibilità degli annunci e il livello di preminenza dato ad alcuni rispetto ad altri, potendo favorire un soggetto a scapito di un altro». La posta in gioco è, ovviamente, il mercato della raccolta pubblicitaria online. L’istruttoria dell’Antitrust dovrà verificare se i comportamenti di Google incidono sulla concorrenza favorendo in maniera indebita la sua posizione nell’intermediazione degli spot sul web. A far infuriare gli editori sarebbe il meccanismo con cui il gigante di Internet tiene al guinzaglio i fornitori di notizie. Google dà infatti la possibilità alle società editoriali di non essere inserite nella selezione delle news, allo stesso tempo, però, la stessa azienda sarà anche esclusa dall’usatissimo motore di ricerca. Il che, per un giornale, sarebbe come scomparire dalla rete. La presenza sul segugio di Page e Brin, sostiene il Garante, «è determinante per la capacità di un sito internet di attrarre visitatori e dunque ottenere ricavi dalla raccolta pubblicitaria, vista l’elevatissima diffusione di tale motore tra gli utenti». L’indagine è già entrata nel vivo. Il procedimento è stato infatti notificato ieri alla società nel corso di un’ispezione condotta in collaborazione con la Guardia di Finanza negli uffici di Milano. Lapidaria e sferzante la risposta di Google. «L’Antitrust - si legge in una nota - ha formulato una notifica contro Google Italy. Stiamo raccogliendo ulteriori dettagli, benché sappiamo che la notifica sia relativa a Google News, un servizio che porta traffico e utenti ai siti dei giornali». Come dire: invece di denunciare, gli editori dovrebbero ringraziare il portale che attira clienti e fatturato pubblicitario.Per sapere chi ha ragione bisognerà aspettare almeno fino al 15 ottobre, termine entro il quale dovrà concludersi l’istruttoria dell’Antitrust. Malgrado la pratica fatta negli ultimi anni nel combattere contro autori, titolari di diritti e società concorrenti che di volta in volta hanno accusato il re del web di giocare sporco (anche adesso l’Antitrust Usa sta indagando su accordi taciti con Apple e sui Google Books), non è escluso che la Fieg riesca ad avere la meglio. In quel caso per il gruppo di Page e Brin le notizie italiane potrebbero costare care. In caso di condanna la legge prevede una sanzione che può arrivare fino al 10% del fatturato. I ricavi della divisione italiana superano i 13 milioni di euro, quelli del gruppo si aggirano sui 22 miliardi di dollari. Fatevi due calcoli.

libero-news.it

domenica 23 agosto 2009

Gli statali sono una tassa da 60 miliardi

Che il governo non abbia ben presente la situazione è da escludere. Da quando ha messo piede alla Funzione pubblica, Renato Brunetta, non ha fatto altro che sparare contro la burocrazia, azzannare gli assenteisti, piazzare tornelli e invocare l’utilizzo di internet per snellire le pratiche e velocizzare i servizi. Lo stesso Silvio Berlusconi, dalla campagna elettorale in poi, non ha mai smesso di tuonare contro la voracità di una Pubblica amministrazione, che «costa ad ogni cittadino 4.500 euro rispetto ai 3mila della media europea».
E qualche battaglia, a dire il vero, è già stata vinta. Il tasso di assenteismo, ad esempio, è precipitato. Le sacche di inefficienza si sono ridotte. E i servizi on line iniziano a fare capolino sulle pagine web. Di qui a pensare che la soluzione sia dietro l’angolo però ce ne passa. La guerra sarà lunga e difficile. Soprattutto fino a quando i sindacati non smetteranno di difendere lo statale pizzicato al supermercato durante l’orario di lavoro o non accetteranno di ragionare sulle dinamiche dei salari, che nel pubblico impiego non conoscono crisi e continuano a crescere a ritmi molto più elevati del settore privato. Ma anche fino a quando gli enti locali non finiranno di minacciare cataclismi di fronte a qualche euro in meno alla voce trasferimenti dello Stato.
Il risultato è che la spesa della Pa continua a registrare picchi ben più alti della media europea. I dati diffusi ieri dalla Cgia di Mestre, che di tanto in tanto, calcolatrice alla mano, si prende la briga di fare due calcoli, descrivono un quadro poco incoraggiante. Che diventa impietoso se messo a confronto con i risultati ottenuti dalla vicina Germania. Tra il 2000 e il 2008, nel Paese della Merkel, i costi per il personale pubblico (stipendi più contributi) in percentuale del Pil sono scesi dall’8,1 al 6,9%. Nello stesso periodo in Italia l’esborso è passato dal 10,4 al 10,9%. Si tratta di oltre 4 punti, che tradotti in soldi sono circa 60 miliardi. Altro che la Finanziaria triennale, con una cifra del genere Giulio Tremonti potrebbe passare le giornate a fare le parole crociate.
Ancora peggio le cose vanno se si prende a riferimento la spesa del personale pubblico in percentuale sulla spesa primaria (ovevro al netto degli interessi sul debito pubblico). Qui il dato della Germania è al 16,7%, mentre l’Italia è 8,3 punti al di sopra, al 25%. Tra i diversi motivi del dislivello individuati dalla Confederazione di Mestre, balzano agli occhi due questioni che ci riguardano da vicino. La prima riguarda il numero dei dipendenti, che in termini assoluti sono 3,6 milioni rispetto ai 4,5 della Germania. Il problema è che da noi ve ne sono 61 ogni mille abitanti, mentre in terra tedesca solo 55. Guarda caso è proprio il punto su cui c’è lo scontro più acceso tra sindacati e governo, che vuole ridurre il turn over nella Pa nei termini di un nuovo assunto ogni 8-10 pensionati.
L’altro punto ci porta dritti al federalismo. La grossa differenza con la Germania (patria del decentramento) è infatti relativa al numero dei dipendenti che lavorano per le amministrazioni centrali. Se in Italia il 57% è al servizio dello Stato e l’altro 43% è impiegato in “periferia”, in Germania l’88% è distribuito tra i Lander e gli altri enti locali. Scontata la morale. Come dice il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, «occorre accelerare sul fronte della riforma federalista. Ed oltre a trasferire competenze ed autonomia impositiva agli enti locali, si dovrà anche provvedere alla distribuzione del personale per consentire una graduale riduzione dei costi». Inutile dire che una bella sforbiciata del numero dei parlamentari e la tanto discussa abolizione delle province aiuterebbero nell’impresa.

libero-news.it

Anche l'unità d'Italia nel cilindro del Fas

Ci risiamo. Dopo le Pmi, gli ammortizzatori sociali, gli obbligazionisti di Alitalia, la banda larga, il G8, i debiti della sanità locale e via discorrendo, sembra che dal cilindro magico del Fondo per le aeree sottoutilizzate stia per spuntare un altro gruzzoletto. A beneficiare del mitico Fas, questa volta, sarebbero le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia. L’ipotesi è stato ventilata dal ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, nel tentativo di tranquillizzare il Capo dello Stato sul fatto che il programma di iniziative e opere pubbliche per festeggiare l’evento sarà all’altezza della situazione. La soluzione permetterebbe di non toccare i saldi di bilancio e di non andare quindi ad indebolire la già precaria situazione dei conti pubblici, ma andrebbe anche incontro a una serie di rischi. Il primo riguarda la Commissione europea. Il Fas, istituito dalla Finanziaria 2003 e poi ridisegnato da quella 2007, è infatti legato a doppio filo agli stanziamenti comunitari che ne vincolano tassativamente l’utilizzo. In particolare, i governi dovrebbero rispettare il principio di addizionalità, che prevede l’uso di risorse nazionali soltanto in termini di cofinanziamento con quelle europee per le politiche di sviluppo nelle aree sottoutilizzate del Paese. In altre parole si tratta di soldi aggiuntivi, che possono essere spesi soltanto sulla base di un preciso Quadro strategico nazionale e di precise proporzioni (l’85% al Sud e il 15% al Nord). La norma è stata già abbondantemente violata nel corso dell’ultimo anno, al punto che la Corte dei Conti lo scorso giugno ha espresso pesanti perplessità sul ricorso al fondo in «modo massiccio, spesso anche a copertura di oneri di natura corrente e di maggiori spese derivanti da politiche pubbliche ordinarie, non direttamente connesse con la missione concernente il riequilibrio territoriale». L’ulteriore scippo al Fas potrebbe dunque con molta facilità finire nel mirino di Bruxelles. Ma il problema principale riguarda le disponibilità. Il rischio infatti è che a forza di attingere, nel barile non ci sia più nulla da raschiare. La dotazione iniziale stabilita del Cipe per il periodo 2007-2013 era di 64,4 miliardi, scesa poi a 63,2 dopo alcune decurtazioni. La vera sforbiciata arriva con il 2008, quando dal fondo vengono sottratti 10,5 miliardi per le coperture dei provvedimenti anticrisi. A quel punto il Cipe (dicembre 2008) divide la torta in 27 miliardi per i programmi regionali (tra cui i 4,1 miliardi per la Sicilia) e 25,4 per la quota nazionale del Fas. È su quest’ultima fetta che si è avventato il governo. Circa 12 miliardi vanno al fondo infrastrutture di Matteoli, 4 al fondo ammortizzatori sociali di Sacconi e 9 alla Presidenza del Consiglio per “spese varie”. È da qui che potrebbero uscire i soldi per i festeggiamenti. Il problema è che in cassa è rimasto qualcosa come 1,6 miliardi. Basteranno?

libero-news.it

giovedì 20 agosto 2009

La rivincita di Malpensa. A Fiumicino ritardi record

Altro che superhub. A Fiumicino parte in ritardo un aereo su due. Una bella gatta da pelare per Roberto Colaninno e Rocco Sabelli, che sullo scalo romano hanno concentrato 240 dei 700 voli giornalieri dell’Alitalia. Una bella soddisfazione per la Sea di Giuseppe Bonomi, che con la sua Malpensa “declassata” è da diversi anni ai vertici delle classifiche europee per puntualità. Per Milano è l’ora della rivincita. A pochi mesi dall’operazione Fenice e dalla decisione di Cai di puntare tutto sulla capitale a scapito del capoluogo lombardo.
Chi la fa, verrebbe da dire, aspetti. E di aspettare a Fiumicino non manca davvero occasione. In media si tratta di 20,8 minuti a volo. È il record negativo in Europa, dove l’attesa dei passeggeri si aggira solitamente sui 10 minuti. A zavorrare i voli dello scalo romano è proprio la nuova Alitalia. Nell’aeroporto scelto come trampolino per il rilancio della società gli aerei della compagnia non vogliono saperne di partire in orario. A fronte di un tasso di puntualità generale del 70% (rispetto all’84 di Air France), nell’aeroporto della Capitale Alitalia scende a percentuali che vanno dal 44,1% a luglio al 46,5% nei primi 15 giorni di agosto.
Dalla società spiegano che l’estate è difficile per tutti i vettori. Ma dai dati diffusi da Eurocontrol emerge che il tasso delle altre compagnie si attesta sul 65-70% e che sarebbe la lentezza di Alitalia a far scendere al 59,5% la puntualità generale di Fiumicino. Il problema romano non nasce comunque con Colaninno. La questione è vecchia e non riguarda solo Alitalia. Prova ne è che all’aeroporto Leonardo da Vinci quello dei ritardi dei voli non è l’unico record negativo. A spazientire un altro po’ i passeggeri c’è anche la riconsegna dei bagagli, i cui tempi minimi non sono stati rispettati per il 40% dei voli atterrati a luglio e per il 50% ad agosto. E se è vero che alla fine dei conti la responsabilità a Roma è di aziende di handling controllate dalla compagnia di bandiera (mentre a Milano è la stessa Sea a provvedere), è anche vero che su borse e valigie c’è lo zampino della società di gestione degli scali Adr, cui fanno capo la logistica e le infrastrutture del servizio. Non a caso l’Enac, che ieri ha comunque punito Alitalia con tre “multine” da 2mila euro, ha infatti convocato entrambe le società per il 16 settembre per risolvere la questione sia dei bagagli sia dei ritardi.
Nell’attesa, Fiumicino si tiene i suoi tristi primati. La rotta con minore puntualità in Europa è da Parigi a Istanbul con una media, a giugno, di 25,2 minuti di ritardo. Ma già al secondo posto c’è Fiumicino-Torino, 25,1 minuti per volo. Al terzo posto Fiumicino-Palermo (24,8 minuti), al quarto Fiumicino-Malpensa (24,6), al sesto Fiumicino-Atene (23,4), al decimo Fiumicino-Catania (19,5), al diciassettesimo Fiumicino-Venezia (17,8 minuti), al ventesimo Torino-Fiumicino (17,3 minuti) e via proseguendo. Di Milano neanche l’ombra. Alla faccia della Fenice.

libero-news.it

martedì 18 agosto 2009

Basta motori, l’Italia si dà al giardinaggio

In miniatura, a scorrimento, a conchiglia, supersottili, antiurto e finanche subacquei. Toglieteci tutto, ma sui cellulari non si scherza. Non ci sono crisi, recessioni o crac che tengano: l’ultimo modello deve essere in tasca o nella borsetta e gli altri (chissà poi perché) ben conservati nell’armadio. Che gli italiani fossero telefonino-dipendenti è cosa nota, ma quel balzo degli acquisti del 189% in sette anni certificato ieri da Confcommercio fa comunque impressione. Così come salta agli occhi che la corsa all’ultimo cellulare non si è arrestata neanche nel 2008, quando, malgrado i venti di crisi, i consumi sono aumentati del 15,4%.
Una mania compulsiva? Un frutto sano del mercato che ha provocato robuste sforbiciate dei prezzi degli apparecchi e dei costi delle tariffe? Forse entrambe le cose. Sta di fatto che i telefonini sembrano ormai essere diventati uno dei pochi capricci che gli italiani si concedono. Sfogliando il Rapporto sul terziario del 2009 ci si accorge, infatti, che la crisi (reale o percepita che sia) si è fatta sentire, eccome. Sugli elettrodomestici ad esempio, altra passione nostrana, l’indice è salito del 50% negli ultimi sette anni, ma la recessione nel 2008 ha frenato gli acquisti del 7,1%. Lo stesso è accaduto per auto e moto (-15,1%), per i servizi di trasporto (7,4%) e per quei beni alimentari come pane, frutta, latte e uova (-3%) che nell’anno passato hanno subito un’impennata dei prezzi a causa dell’aumento delle materie prime. E la frenata ha bussato per la prima volta anche alle porte della grande distribuzione, con super e iper mercati che hanno registrato nel 2008 un incremento del fatturato dell’1%, il dato più basso dal 2000.
Il quadro complessivo è dunque poco incoraggiante. Il calo dei consumi nel 2008 è stato dell’1% e l’ufficio studi di Confcommercio prevede una contrazione per l’anno in corso ancora più robusta, fino all’1,9%. Fosche anche le stime sul prodotto interno lordo, che nel 2009 dovrebbe attestarsi su un -4,8%. Un po’ di sereno, in linea con le previsioni degli organismi internazionali, dovrebbe arrivare nel 2010, con il consolidamento della ripresa a partire dal 2011.
Le difficoltà finanziarie hanno inevitabilmente provocato significativi cambiamenti nelle abitudini. A partire dalla manutenzione della casa, con le attrezzature per il fai da te e per il giardinaggio aumentate solo nell’ultimo anno del 14,3%, a fronte di un incremento complessivo dal 2002 al 2008 dell’8,7%. E i tessuti e le stoffe, schizzati del 4,7% rispetto ad un -18% nei sette anni precedenti. Si tratta, spiega il rapporto, di spese che hanno consentito alle famiglie «di accrescere la quota di autoservizio in sostituzione di prestazioni professionali erogate dal settore delle riparazioni di beni personali e della casa».
Per quanto riguarda la composizione dei consumi per macroaree, Confcommercio ha registrato nel 2008 lievi diminuzioni delle spese destinate alla cura di sé, al tempo libero e alle vacanze, mentre sono aumentate quelle per l’abitazione, salite dal 26,7% del totale al 28,6%.
Preoccupante è, infine, l’aumento dei consumi che dipendono poco dalla crisi o dalla paura della crisi e molto dall’incremento delle tariffe e dei servizi. Si tratta, in sostanza delle spese obbligate per la casa e per la vita quotidiana: dall’energia, agli affitti fino ai servizi bancari. Ebbene, la quota è cresciuta dal 21,7% del budget totale registrato nel 1970 al 36% del 2008. Alla faccia del mercato e delle liberalizzazioni.

libero-news.it

lunedì 17 agosto 2009

In mano al sindaco il telecomando dei senesi

Quando c’è il Palio, come ieri, tutto fila liscio. I senesi non aspettano altro e chi non ha la fortuna di seguire l’evento dal vivo resta incollato sui canali Rai con il cuore palpitante. Le altre sere, però, sono dolori. A scegliere i programmi è infatti il Comune, che nel 1999, con delibera di Giunta n. 892, decise di far realizzare (con i soldi del Monte dei Paschi e la tecnologia di Telecom) una rete via cavo ibrida su cui far viaggiare tutti i canali televisivi che arrivano nelle case dei senesi. Certo, direte voi, ma nessuno può essere costretto a sintonizzarsi su TeleComune. Sbagliato. Perché contestualmente alla installazione della avveniristica rete in fibra ottica la giunta di Siena, con una formidabile scelta eco-progressista, ha deciso di vietare l’utilizzo delle parabole e di demolire le antenne tradizionali. Ora i cittadini sono al riparo da qualsiasi radiazione elettromagnetica e i tetti sono piacevolissimi da vedersi, solo che in casa non si prende né Sky, né Mediaset premium, né il digitale terrestre, né le tivù locali che non piacciono al sindaco. In compenso è possibile gustarsi diverse ore di programmazione di Ccs Cable tv, un canale “civico” gestito prima dal Comune e ora da un consorzio partecipato dagli enti locali della Provincia. La questione è da tempo oggetto di un braccio di ferro tra il ministero, le piccole emittenti e Siena, ma finora il problema resta irrisolto. Pochi giorni fa il deputato del Pdl, Deborah Bergamini, ha presentato l’ennesima interrogazione parlamentare per chiedere al ministro Scajola di intervenire viste le palesi violazioni di legge dell’iniziativa. In realtà, il Comune riceve diffide dagli ispettori dello Sviluppo economico già da tre anni. Ma Sua Emittenza il sindaco non sembra intenzionato a mollare.

libero-news.it

Gli ispettori del fisco sguinzagliati in provincia per l'operazione scudo

Dirigenti sguinzagliati nelle sedi periferiche per intensificare gli accertamenti e telefonate a sorpresa per controllare l’efficienza dei call center. Sono i due tasselli cui sta lavorando il direttore Attilio Befera per mettere a punto la macchina tributaria in vista della ripresa autunnale. I tempi stringono e Giulio Tremonti vuole che tutto sia pronto al più presto per garantire la necessaria copertura operativa al nuovo scudo fiscale. Che non potrà funzionare senza essere affiancato da una massiccia opera di contrasto all’evasione. Di qui il colpo d’acceleratore alla riorganizzazione dell’Agenzia delle Entrate. Un’operazione partita formalmente a gennaio, ma ancora incagliata nelle trattative con i sindacati.
Le novità sono state discusse con i rappresentanti dei lavoratori qualche giorno prima della pausa estiva. Il punto principale, come si apprende dai verbali dei due incontri del 27 e del 30 luglio, riguarda il decentramento dei dirigenti del fisco, che verranno spostati nelle sedi provinciali per dare maggiore efficacia agli accertamenti a tappeto che il ministro vuole attivare contestualmente all’apertura della sanatoria per il rientro dei capitali dall’estero. L’operazione si preannuncia come una vera e propria rivoluzione. Si tratta infatti di trasferire nelle nuove 106 sedi provinciali circa il 70% delle posizioni dirigenziali.
Nel dettaglio, prima della riorganizzazione più della metà dei dirigenti di primo livello (31, pari al 57,4%) era in servizio presso le direzioni centrali. I rimanenti 23 (42,6%) lavoravano invece presso le direzioni regionali. Tutt’altra la musica dopo il riassetto, con le posizioni centrali che passano da 31 a 28, quelle regionali da 23 a 42, quelle locali da 0 a 32. In termini percentuali la presenza dei dirigenti in periferia passa dal 42,6 al 72,3%, con un terzo delle posizioni di primo livello che andranno proprio nelle nuove direzioni provinciali su cui si incardina la nuova struttura dell’apparato tributario. Gli uffici sono stati ridisegnati sulla base della asimmetria economico-fiscale del territorio. Nel primo 30% delle province, si legge infatti nel documento, «si concentra il 66% di tutto il pil nazionale». Ed è qui che il fisco concentrerà gli sforzi, anche attraverso un allargamento delle circoscrizioni territoriali che consentirà «maggiore efficacia e qualità dell’azione accertatrice, rendendo possibili significative economie di scale e di specializzazione nell’utilizzo di risorse professionali molto qualificate».
Accanto alla tagliola degli ispettori, Befera sta però anche lavorando al miglioramento dei servizi forniti al contribuente. A questo scopo si attiverà da settembre un controllo serrato dell’efficienza dei call center che il direttore generale delle Entrate ha voluto affidare ad una società esterna specializzata nel settore. L’azienda, si tratterebbe secondo fonti sindacali della Pragma, effettuerà telefonate a sorpresa ai centralini del fisco per verificare la qualità del servizio e il grado di soddisfazione dell’utente. Nello svolgimento dell’indagine, spiega l’Agenzia in una circolare, «non saranno acquisiti riferimenti relativi al singolo operatore». Ma l’iniziativa ha fatto comunque saltare sulla sedia i sindacati, che sono da tempo in agitazione per il taglio degli incentivi e il blocco delle assunzioni. Ai controlli a sorpresa, inoltre, si affiancherà anche il progetto di rilevazione “emoticon” previsto dal ministro Renato Brunetta con cui i cittadini potranno assegnare faccine buone o cattive in base alla qualità dei servizi offerti.
Ce n’è abbastanza, secondo le sigle, per puntare i piedi. Tutti i sindacati hanno infatti bocciato la riorganizzazione sostenendo che i vertici dell’Agenzia continuano a procedere in «operazioni complesse» come quelle della valutazione delle posizioni dirigenziali senza «un confronto sostanziale». A settembre si riaprirà il braccio di ferro, ma è difficile che Tremonti si lascerà fermare.

libero-news.it