giovedì 29 aprile 2010

Caltagirone sfratta i francesi da Acea

Meno francesi e più privati. È questa la ricetta di Francesco Gaetano Caltagirone per rilanciare l’Acea. Fresco della vicepresidenza pesante conquistata alle Generali e forte del suo 10% e rotti di capitale, l’imprenditore romano ha finalmente scoperto le carte. Per mesi si è parlato dei suoi progetti nella multiutility, dei rastrellamenti di azioni, dei dissapori con i soci d’Oltralpe. Il chiarimento è arrivato ieri, fuori dai denti, dallo stesso Caltagirone. «Siamo assolutamente scontenti della joint venture tra Acea e Gaz de France», ha spiegato senza mezzi termini l’imprenditore nel corso dell’assemblea della Caltagirone spa.
Nessuna strategia, nessun complotto. Solo numeri. Quelli relativi ai risultati del settore elettrico, gestito dalla coabitazione Acea-Electrabel. «Facendo riferimento al bilancio 2008», ha tuonato Caltagirone, «questo segmento del business partecipa solamente al 12% dell’utile di Acea pur avendo un fatturato pari a più del doppio di quello dell’acqua». L’affondo di Caltagirone arriva proprio mentre la società, dopo mesi di braccio di ferro, ha messo sul piatto una richiesta di risarcimento contro i francesi che potrebbe arrivare anche a un miliardo di euro per aver violato gli accordi previsti dall’alleanza. Difficile ricostruire tutti i passaggi e tutte le spinte che nel corso degli ultimi due anni hanno portato alla rottura tra la società romana e il colosso pubblico dell’energia d’Oltralpe. Di sicuro, però, le parole usate ieri dal secondo socio di Acea (dopo il Comune, che controlla il 51%) dimostrano che il negoziato passa ormai anche per l’imprenditore.
A rappresentare Caltagirone nel nuovo consiglio di amministrazione di Acea che sarà votato oggi dall’assemblea ci sarà il figlio Francesco, presidente di Cementir, e l’ex commissario Consob, Paolo di Benedetto. Le trattative con i francesi (anche loro avranno due rappresentanti) riprenderanno il prossimo 3 maggio, nel corso della prima riunione del cda dopo l’insediamento. L’accordo sembra ancora lontano, ma su una cosa i due contendenti la pensano allo stesso modo. Nessuno ha intenzione di arrivare fino in fondo sulla strada di un arbitrato internazionale che potrebbe congelare l’attuale situazione per oltre due anni.
Ma lo stimolo di Caltagirone non si limiterà alla partita francese. Ieri l’imprenditore romano ha infatti puntato il dito anche su una gestione troppo attenta alla politica e poco all’efficienza. «Serve un grande riordino», ha detto durante l’assemblea della capogruppo che, malgrado la crisi, ha confermato la cedola a 0,08 euro.  «Il fatto che Acea sia stata per anni pubblica», ha aggiunto, «e che sia adesso per metà pubblica ha creato delle cattive abitudini ed ora c’è bisogno di una iniezione di cultura privata». A fronte di queste richieste, ha detto, ci saranno «tante proteste e tante agitazioni, ma noi vogliamo la politica fuori dall’azienda». Caltagirone si è detto consapevole che «portare questa cultura in questa azienda è una enorme fatica», ma ha però promesso che farà sentire la sua voce, «dal momento che abbiamo dalla nostra parte la ragione e la legge». Quanto al fatto che il gruppo sia salito a oltre il 10% malgrado la sterilizzazione dei diritti di voto all’8%, nessun mistero: «Vuol dire solo che crediamo nell’azienda e che facciamo una scommessa economica». In molti restano comunque convinti che le manovre dell’imprenditore siano già proiettate sui prossimi mesi, quando gli assetti di Acea saranno comunque rivisti alla luce della cessione del 20% annunciata dal sindaco Gianni Alemanno. Il quale ieri si è sentito in dovere di smorzare le parole di Caltagirone sull’attacco alla politica: «Credo che il suo giudizio fosse riferito a quanto ereditato dal passato, che è francamente inquietante».

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martedì 27 aprile 2010

Putin dà più energia a Silvio. Asse italo-russo sul nucleare

Putin monta in sella al nucleare italiano. Per la ripartenza dell’atomo il presidente russo metterà a disposizione tecnologia e, soprattutto, quattrini. È il solito trionfo di effusioni, scambi di sorrisi e abbracci, il vertice tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin. A conferma di un idillio che dura ormai da dieci anni. Ma sul tavolo dell’incontro di ieri a Villa Gernetto (Monza), oltre alle numerose partite industriali e commerciali tra Italia e Russia c’erano anche dossier pesanti, come quelli energetici. Il nucleare innanzitutto. Putin ha annunciato non solo che garantirà collaborazione tecnologia per la costruzione delle nuove centrali, ma che, attraverso società russe, è pronto anche a fornire robusti finanziamenti. In particolare, si è detto disponibile ad offrire combustibile nucleare e poi a riprendere le scorie per il trattamento. «Se in Italia questi progetti si realizzeranno», ha assicurato il presidente, «da parte russa ci sarà una vasta cooperazione». Vanno in questa direzione l’intesa siglata tra Enel e Inter Rao Ues e quella tra i rispettivi ministeri della Ricerca per rafforzare la collaborazione sul progetto di fusione nucleare “Ignitor”.
Musica per le orecchie di Berlusconi, che ha ribadito l’intenzione di posare la prima pietra delle nuove centrali entro il 2013. Malgrado la volontà di procedere senza fughe in avanti, soprattutto sulla scelta dei siti. «Prima di individuare un luogo», ha sottolineato il premier, «bisogna che cambi l’opinione pubblica italiana. Ne ho parlato anche con esponenti della nostra tv di Stato. Dobbiamo fare opera di convincimento, guardando alla Francia».
Ed è proprio intorno alla Francia di Sarkozy che ruota la rinascita energetica italiana. Oltre all’alleanza già siglata da Edf ed Enel (con la collaborazione di Areva e di Ansaldo Energia) per la realizzazione dei reattori con tecnologia Epr, rigorosamente made in France, l’industria d’Oltralpe sarà anche protagonista del grande progetto per il South Stream, il gasdotto realizzato da Eni e Gazprom che porterà il gas dalla Russia all’Italia e all’Austria aggirando i Paesi dell’Est Europa.
Putin ha infatti annunciato che Edf ha chiesto di avere una quota del 20%. L’accordo con i transalpini, che verrà siglato a giugno a San Pietroburgo, darà vita ad un asse a tre in grado di far uscire l’Italia dall’isolamento sulle politiche energetiche e sbloccherà l’impasse europeo sul progetto di gasdotto alternativo, Nabucco, sponsorizzato fortemente dal presidente Usa, Barack Obama e dalla Germania.
Per il resto, Putin e Berlusconi si sono impegnati a riportare l’interscambio fra i due Paesi ai livelli pre-crisi cioè circa il 30-35% in più dell’attuale. Mentre il presidente russo, a differenza di molti altri capi di Stato, ha voluto onorare la promessa fatta al G8 in Abruzzo, stanziando 7,2 milioni per  la ristrutturazione di Palazzo Ardinghelli e della chiesa di San Gregorio Magno all’Aquila.

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lunedì 26 aprile 2010

Urso e Ronchi rischiano il posto

Gli scenari aperti dal ruvido duello tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini sono ingarbugliati e imprevedibili. C’è chi assicura che le ripercussioni saranno limitate e non andranno oltre la sfiducia al vicepresidente finiano dei deputati del Pdl, Italo Bocchino. Ma molti sono pronti a scommettere che il terremoto si propagherà facilmente non solo ai presidenti di commissione vicini al numero uno di Montecitorio, ma anche ai suoi fedelissimi nella squadra di governo, Andrea Ronchi e Adolfo Urso, fino a travolgere pure alcuni manager delle controllate pubbliche.
La rappresaglia del premier potrebbe partire da subito, senza troppe conseguenze, dal viceministro per lo Sviluppo, che verrebbe privato delle deleghe sul Commercio con l’estero. Ma sempre dal dicastero di Via Veneto arrivano segnali di una manovra più ampia. In molti infatti si interrogano sulla partenza di Fabiana Santini, capo della segreteria particolare di Claudio Scajola, pronta a lasciare il ministro con cui collabora da anni per entrare nella giunta della neopresidente del Lazio, Renata Polverini. L’uscita sarebbe da legare al passaggio di Scajola ad un ministero meno impegnativo che gli permetta di assumere anche il coordinamento del partito. Di lì partirebbe un effetto domino che arriverebbe a travolgere anche il ministro delle Politiche europee Ronchi.
Ma l’allarme si è ormai allargato anche alle poltrone delle società partecipate dal Tesoro. Sotto tiro, ovviamente, ci sono i manager che siedono nel comitato esecutivo della fondazione FareFuturo. Si va da Emilio Cremona (presidente del Gse) a Ferruccio Ferranti (ad del Poligrafico), fino a Pierluigi Scibetta (consigliere Eni) e Giancarlo Lanna (presidente Simest). Sente il terreno che gli scotta sotto i piedi pure Alessandro Luciano, consigliere Enel vicino a Fini. Anche se per le grandi quotate i cda non scadranno prima della primavera del prossimo anno. C’è tutto il tempo, insomma, per trovare nuovi sponsor. Così come dovrebbe averne Marco Zanichelli, manager finiano arrivato meno di un anno fa alla presidenza della controllata delle Fs Trenitalia.
Chi si è già portato avanti è Massimo Sarmi. Arrivato nel 2002 alla guida di Poste con il sostegno del presidente della Camera, l’ad si è guadagnato nel corso degli anni la fiducia non solo di Silvio Berlusconi, ma anche dell’azionista Giulio Tremonti.

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venerdì 23 aprile 2010

Riscritto l’arbitrato. Il PdL salva l’art. 18

Niente arbitrato per i licenziamenti. Niente più alibi per sinistra e Cgil. A chiudere definitivamente le polemiche sul presunto attacco del governo all’articolo 18 ci ha pensato lo stesso relatore del ddl, Giuliano Cazzola. È infatti suo l’emendamento approvato in commissione Lavoro della Camera che recepisce l’avviso comune siglato dalle parti sociali (tranne il sindacato guidato da Guglielmo Epifani) che esclude il ricorso all’arbitrato nelle controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro.
L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, insomma, non si tocca. Per il resto, le modifiche hanno riguardato principalmente i punti toccati da Giorgio Napolitano nei rilievi con cui ha rispedito il provvedimento alle Camere.
«Abbiamo rafforzato», ha spiegato Cazzola, «la volontarietà del lavoratore nel sottoscrivere la clausola compromissoria, abbiamo inserito la facoltà di farsi assistere, davanti alla commissione di certificazione, da un legale o da un rappresentante sindacale».
La commissione ha poi approvato un emendamento in base al quale la clausola compromissoria sull’arbitrato «può essere pattuita e sottoscritta concluso il periodo di prova, ove previsto, ovvero trascorsi trenta giorni dalla stipulazione del contratto di lavoro in tutti gli altri casi», compresi quindi i contratti a tempo determinato.
Il via libera è arrivato anche sui paletti per l’arbitrato secondo equità, che dovrà rispettare non solo «i principi generali dell’ordinamento», ma pure «i principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari». Semaforo verde anche per «l’unico grado di Tribunale» nel caso di ricorso sul lodo arbitrale e alla comunicazione «scritta» del licenziamento (dalla cui data partono i 60 giorni per l’impugnazione).
«Abbiamo fatto un buon lavoro» ha detto Cazzola sottolineando «l’alto senso di responsabilità dell’opposizione nell’accelerare i lavori e rinviare il dibattito all’Aula». Un po’ di schermaglie tra Pd e PdL sono state provocate dall’unico emendamento arrivato dal governo relativo ai danni derivanti al lavoratore dall’esposizione all’amianto sulle navi di Stato. Emendamento che in commissione non ha trovato i voti necessari per l’approvazione. La modifica proposta dall’esecutivo, secondo l’opposizione, stabiliva il diritto al risarcimento solo in sede civile, mantenendo quindi in vita un’interpretazione che esclude chi è impegato sui navigli di Stato dalle tutele applicate a chiunque lavori l’amianto.
Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha comunque apprezzato e condiviso le correzioni approvate ieri, sostenendo che corrispondono «alla volontà condivisa delle parti sociali». La commissione tornerà a riunirsi martedì prossimo per ricevere i pareri delle altre commissioni interessate e dare mandato al relatore di riferire in Aula. L’esame di Montecitoriodovrebbe partire già dal giorno successivo.

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mercoledì 21 aprile 2010

L’Italia rischia sul deficit ma l’industria riparte

Guai in vista per Giulio Tremonti. Si abbassa ancora l’asticella delle previsioni sulla crescita italiana di quest’anno. Dopo il Fondo monetario internazionale, che aveva stimato uno 0,8%, ora arriva Standard & Poor’s che ci vede addirittura allo 0,5% (rispetto ad un precedente 0,5%). Percentuali ben lontane da quell’1,1% su cui il governo faceva affidamento solo qualche mese fa, presentando l’aggiornamento al Patto di Stabilità.
Uno scostamento che non presagisce nulla di buono. Crescere nel 2010 solo dello 0,5% significa infatti che la prospettiva di sforare il tetto del 5% sul rapporto deficit/pil non è così peregrina. E significa, di conseguenza, che il Tesoro potrebbe essere costretto ad intervenire in corsa per riportare i conti pubblici nei binari.
Nessuno per ora a Via XX Settembre vuole prendere in considerazione l’ipotesi. Ma il piano B, la cosiddetta manovrina estiva, è sempre nel cassetto. Una provvidenziale boccata d’ossigeno potrebbe arrivare dallo scudo fiscale. La proroga decisa dal governo è ormai in dirittura d’arrivo. Entro il 30 aprile tutti coloro che hanno deciso di far rientrare capitali non dichiarati detenuti all’estero, dovranno versare l’aliquota sostitutiva all’Agenzia delle Entrate. Le prime previsioni, però, parlano di un rientro di 15-20 miliardi di euro. Il che, calcolando la tassazione al 6% per i primi mesi dell’anno e al 7% per l’ultimo periodo, non produrrebbe quel gettito di 1,5-2 miliardi atteso dal ministro dell’Economia per coprire almeno le spese correnti.
I conti si faranno comunque ai primi di maggio, quando si saprà qualcosa anche rispetto all’andamento delle Entrate,  alla luce della prima scadenza delle dichiarazioni dei redditi dei lavoratori dipendenti che scatta sempre il 30 aprile.
Per ora, sul tavolo ci sono le ipotesi non incoraggianti dell’agenzia di rating, che pur riconoscendo nel «basso tasso di indebitamento privato, nell’alta percentuale di risparmio e nella resistenza del mercato immobiliare» alcuni punti di forza dell’economia italiana, ritiene che «il trand negativo di competitività e produttività» siano fattori cruciali che freneranno la crescita del Paese non solo nell’anno in corso, ma anche nel 2011. Con il pil che si attesterà all’1%, la metà di quanto stimato per l’intera Eurozona.
Segnali di cauto ottimismo arrivano però dall’industria italiana. A febbraio, secondo i dati diffusi ieri dall’Istat, il fatturato ha registrato un aumento del 4,2% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Stesso discorso per gli ordini, che sono cresciuti del 5,6% su febbraio del 2009. Che la ripresa sia ancora difficoltosa è dimostrato dall’andamento mensile. Il confronto con gennaio indica infatti un calo del fatturato del 2,6%. Più contenuta la frenata degli ordini che a febbraio sono scesi solo dello 0,4% rispetto a gennaio. Dati che però vanno letti anche tenendo conto che febbraio è il primo mese in cui l’industria ha fatto veramente i conti con il contraccolpo dello stop agli incentivi scattato alla fine di dicembre 2009. Se a questo si aggiunge il buon andamento dell’export, che a febbraio è balzato del 7,3% rispetto allo scorso anno, ce n’è abbastanza per poter guardare ai prossimi mesi con un po’ di ottimismo.

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martedì 20 aprile 2010

L’auto si allontana. Nel futuro degli Agnelli solo banche e mattoni

A poche ore dalla presentazione del piano strategico della Fiat, che avverà domani al Lingotto e che dovrà scoprire le carte sul futuro dell’auto, si moltiplicano i segnali che sembrano confermare l’intenzione della famiglia Agnelli di slegare il destino delle quattroruote da quello della holding. La voglia di utilizzare la finanziaria che attualmente controlla la Fiat (con il 30%) per tutt’altro genere  di business è confermata dall’operazione annunciata ieri dalla Exor. La società ha infatti deciso di investire 100 milioni di euro in una nuova società immobiliare che acquisterà uffici a Londra e Parigi. Un capriccio? È presto per dirlo.
Oggetto dell’accordo raggiunto dalla holding degli Agnelli è la Almacantar, società fondata da Mike Hussey e Neil Jones, due professionisti che hanno maturato una consolidata esperienza di successo nel settore immobiliare europeo. Le opportunità di business riguarderanno principalmente il settore commerciale, prevalentemente, come si diceva, uffici nelle capitali europee. Grazie all’intesa con Exor e con altri soci, Almacantar disporrà di 150 milioni, che consentiranno alla società di dare inizio alla sua strategia di investimento. L’accordo prevede inoltre l’impegno degli Agnelli a versare ulteriori 50 milioni di euro contestualmente all’apporto di altro capitale da parte di nuovi soci.
E dal mattone si arriva facilmente al private banking. Exor è infatti ancora in corsa per rilevare le attività della belga Kbc. L’unico candidato in gara, oltre alla holding di Torino, è la società di investimenti indiana Hinduja. Julius Baer, Credit Agricole, Societè Generale, Barclays e Banco Santander avrebbero già abbandonato la partita. E secondo il quotidiano belga De Tijd neanche il gruppo brasiliano Safra presenterà alcuna offerta perché sarebbe interessato solo a una parte del private banking di Kcb, che invece vorrebbe vendere l’intera divisione. Condizione che piace agli Agnelli. Recentemente l’ad di Exor Carlo Barel di Sant’Albano aveva spiegato che la società è interessata a tutto il comparto finanziario, in particolare «ad attività di asset management e private banking nel settore bancario».
I riflettori sono comunque puntati sull’appuntamento di domani. Il piano strategico 2010-2014 indicherà gli obiettivi finanziari e industriali e chiarirà finalmente se la strada che Sergio Marchionne intende imboccare è quella dello scorporo dal gruppo del settore auto per il collocamento in Borsa. Sulla questione dello spin off nelle scorse settimane si sono inseguiti indiscrezioni e rumors. A Ginevra lo stesso Marchionne ha definito l’ipotesi “un tormenton” rinviando sempre al piano.
Sul tavolo ci sono due alternative. La prima è quella di creare una società nella quale fare confluire le attività auto di Fiat e Chrysler lasciando nella vecchia società le altre attività industriali (Iveco, Cnh, Teksid, Magneti Marelli, Comau). La seconda prevede semplicemente di scorporare dalla Fiat le attività non auto. Oltre alle modalità, se l’operazione sarà varata, bisognerà capire i tempi. Ma anche le implicazioni. Dietro l’eventuale spin off c’è infatti da capire il rapporto futuro tra la famiglia Agnelli e l’auto. L’operazione potrebbe in prospettiva condurre a una diluizione della quota della dinastia torinese che manterrebbe comunque, attraverso la finanziaria Exor, una partecipazione rilevante. Già un anno fa John Elkann non aveva escluso che, nel caso di un’alleanza, la famiglia possa rinunciare al controllo, «purché sia un buon matrimonio».

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venerdì 16 aprile 2010

In tilt il call center degli incentivi. Il sito Internet slitta di un mese

Forse finiranno ancor prima di quanto previsto. Nel primo giorno degli incentivi sono stati prenotati circa 24mila acquisti, per un totale di 21,5 milioni di euro. In altre parole, il 7% dei 300 milioni messi a disposizione dal governo per gli sconti. Se va avanti così i quattrini svaniranno molto prima dei 30-40 giorni ipotizzati da Confindustria. Inevitabile e prevedibile l’intasamento dei call center delle Poste, che già erano andati in tilt nella fase di prenotazione. L’altissimo numero di telefonate, ammettono i tecnici del ministro dello Sviluppo, Scajola (in foto) «ha provocato qualche intasamento, ma secondo i gestori, dopo una prima fase di assestamento, il sistema sarà in grado di soddisfare le richieste in tempo reale» In molti si sono chiesti che fine abbia fatto il sito Internet dedicato che avrebbe decongestionato le linee permettendo ai venditori di registrarsi on line. Il portale c’è, ma sarà operativo solo a partire dal 17 maggio. Quando gli incentivi, forse, saranno già finiti.

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L’export riparte. Il made in Italy stenta

L’Italia ritorna a vendere all’estero come non accadeva dalla fine del 2008. Dopo un tiepido segnale positivo a gennaio (+1,1%), a febbraio le esportazioni sono cresciute sul 2009 del 7,3%. Complessivamente il saldo commerciale è comunque risultato negativo per 2,332 miliardi di euro, in peggioramento rispetto al deficit di 895 milioni dell’anno prima. Un fenomeno dovuto alla contestuale crescita delle importazioni (12,9% a febbraio), che segnala comunque una dinamica positiva dell’economia.
Per avere un’idea del cambio di marcia del Paese basta guardare i numeri diffusi ieri da Bankitalia, che parlano di un volume dell’export italiano crollato durante la crisi (dal secondo trimestre 2008 a metà 2009) del 24,8% a fronte di un calo della domanda mondiale del 17,7%. 
A trainare l’esportazione è il raggruppamento dell’energia (+34,6%), seguito dai prodotti intermedi (+11,6%). Tra i settori più brillanti spiccano i rialzi del coke e prodotti petroliferi raffinati (+33,5%), dei prodotti chimici (+26,3%) e farmaceutici (+23,8%).
A gelare un po’ gli entusiasmi c’è il cattivo andamento del made in Italy. Perdono infatti quota i prodotti classici della nostra industria, come l’abbigliamento e i mobili, in calo rispettivamente del 9,6% (-10,7% tra gennaio e febbraio) e dell’1,7% (-2,3% nei primi due mesi). Le esportazioni di prodotti agricoli e della pesca, secondo un’analisi della Coldiretti, sono cresciute in valore del 18% mentre quelle dei prodotti alimentari e delle bevande del 9%. Per quanto riguarda invece le importazioni, comincia ad incrementare sempre più il suo peso il greggio, il cui import rappresenta il 9,1% dei flussi in entrata (dal 6% del febbraio 2009).
Nell’insieme, i dati diffusi ieri dall’Istat rappresentano un «segnale importante» che «ci fa essere più fiduciosi sulla ripresa», spiega il vice ministro allo Sviluppo economico Adolfo Urso, che evidenzia come dall’ottobre 2008 le nostre esportazioni verso i Paesi Ue risultavano in costante caduta, mese dopo mese, con cali spesso a due cifre nella fase più acuta della crisi.
La cautela è comunque ancora d’obbligo. Così almeno sostiene la Banca centrale europea, secondo cui gli squilibri e le distorsioni dell’economia globale che hanno causato la crisi continuano ad essere «un fattore di rischio fondamentale». Nel suo bollettino mensile, l’Eurotower punta apertamente il dito contro il deficit commerciale Usa e la forte crescita dell’export cinese, che rappresentano fattori di destabilizzazione incontrollabili. Governi e consessi internazionali come il G-20, secondo l’istituto guidato da Jean-Claude Trichet, devono fare di più, visto che le consultazioni multilaterali sugli squilibri mondiali hanno visto «i paesi interessati non rispettare appieno gli impegni assunti sul piano delle politiche economiche».
Un atto di accusa plateale che raramente ha caratterizzato le comunicazioni di Francoforte. Il riferimento, neanche troppo velato, è al disavanzo commerciale degli Usa, finanziato da massicci acquisti di titoli di Stato americani dalla Cina. E di contro al maxi-surplus commerciale cinese, che sta comportando tassi di crescita stellari e ha creato, secondo alcuni economisti, una bolla creditizia e immobiliare pronta ad implodere. Sul fronte interno la Bce ha sottolineato che nel 2010 si prospetta «un ritmo di crescita complessivamente moderato nell’area euro, in un contesto caratterizzato da incertezza». Sulla crescita al rallentatore peserà anche il fardello della disoccupazione, che nei prossimi anni sarà «strutturalmente più elevata» in un’Europa in cui «le condizioni nei mercati del lavoro si sono deteriorate ulteriormente». La cura? Più incentivi all’occupazione e salari più flessibili. Ma non ditelo ai sindacati.

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giovedì 15 aprile 2010

I Benetton lasciano i prodiani. Cerchiai alla guida di Atlantia

Quello schiaffo al progetto fortemente voluto e sostenuto da Romano Prodi non gli è proprio andato giù. Dopo 8 anni passati alla guida della società autostradale italiana è l’unico rimpianto che ieri, lasciando il posto a Fabio Cerchiai, Gian Maria Gros-Pietro ha voluto gettare in pasto ai cronisti: lo sgambetto dell’ex ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, alla fusione tra la società dei Benetton e la spagnola Abertis. Del resto, il legame con Prodi viene da lontano. Fu proprio il professore bolognese, quando nel 1997 era alla guida del governo, a portare Gros-Pietro alla testa dell’Iri in sostituzione di Michele Tedeschi.
A lui Prodi affidò il delicato compito di liquidare l’istituto in un triennio di rimodellare, attraverso le privatizzazioni, il capitalismo nazionale. «La mancata fusione con Abertis», ha detto, «avrebbe consentito di creare il primo operatore mondiale. È stata una battaglia dura che ha avuto un sotto prodotto positivo: la riaffermazione dei diritti della società concessionaria applicati per legge e a livello europeo».
Al di là di questo, Gros-Pietro si è detto orgoglioso del suo bilancio di presidente di Autostrade prima e Atlantia poi. Poltrona che da oggi, dopo il voto assembleare che ha ratificato le scelte dei Benetton, dovrà lasciare a Cerchiai.
Una sostituzione che ha degli obiettivi ben precisi. La scelta della famiglia di Ponzano veneto è infatti caduta sull’ex numero uno dell’Ania (la società che raccoglie le compagnie di assicurazione) in base ad una logica ben precisa. Che riguarda principalmente il nuovo inquilino del Leone di Trieste.
Da Cerchiai, che delle Generali è stato, impiegato, direttore generale e amministratore delegato dal 1997 al 2002, i Benetton si aspettano un’opera di mediazione e di collegamento tra la holding di famiglia, Sintonia, e gli altri soci di Atlantia. Primo fra tutti Cesare Geronzi, che attraverso il colosso delle assicurazioni detiene il 3,3% della società autostradale. Ma anche la Caritorino di Fabrizio Palenzona, che è l’altro socio di peso di Atlantia con oltre il 6%. Ruolo fondamentale, quello di Cerchiai, dal momento che gli azionisti non sono ancora legati da alcun patto vincolante, malgrado i tentativi dei Benetton, che detengono il 38% del capitale.
Oltre al cambio di vertice, l’assemblea di ieri non ha dovuto esprimersi su questioni di grande rilievo. Con 4,6 miliardi di euro, Atlantia ha una posizione finanziaria solida e «una grandissima serenità» per sostenere un’accelerazione del piano di investimenti, ha spiegato l’ad Giovanni Castellucci. Secondo il quale il gruppo è riuscito a superare con risultati positivi anche «l’anno peggiore della crisi economica», 2010 e 2011 «non saranno altrettanto duri».  Il gruppo, ha aggiunto Gros-Pietro, quest’anno investirà 1,3 miliardi sui 900 chilometri più importanti della rete italiana per «costruire terze, quarte e quinte corsie e permettere agli italiani di viaggiare in condizioni migliori». Per l’estero - dove la presenza del gruppo è aumentata da 104 a 916 chilometri - ci saranno 100-200 milioni, per acquisire partecipazioni utili a consolidare la presenza soprattutto in Cile e Brasile, e più in là anche in India, dove i tassi di crescita sono più elevati. Atlantia lascia alle spalle un 2009 con ricavi per 3.611 milioni (+3,9% sul 2008), mol a 2.204 milioni (+4,2%) e utile netto in flessione del 6% a 691 milioni. Il dividendo sale del 5,1% a 0,746 euro per azione e potrà tornare a crescere del 10% quando la ripresa economica sarà concreta.

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I liberi professionisti si blindano

Tutti i riflettori sono puntati sulle tariffe e sul ritorno dei minimi aboliti dalle cosiddette lenzuolate di Bersani. In realtà, l’incontro previsto per oggi tra il ministro della Giustizia e gli ordini professionali è qualcosa di più. Si tratta, nelle intenzioni di Angelino Alfano, di ridisegnare le regole comuni alle principali categorie per arrivare alla stesura di un vero e proprio statuto delle professioni di cui si parla da anni. I nodi da sciogliere sono moltissimi. Anche perché al tavolo ci sono almeno 25 professioni regolamentate da mettere d’accordo: dagli architetti ai geometri, dai commercialisti agli ingegneri, dagli avvocati ai notai. In tutto circa 2 milioni di partite Iva.

La strada da percorrere, però, è già tracciata. L’appuntamento di oggi arriva infatti dopo una serie di incontri tra i tecnici del ministero e i rappresentanti delle categorie. L’idea è quella di procedere inizialmente alla definizione dello statuto con i principi generali per poi, in una fase successiva,  riformare le singole professioni.
Il primo passo sarà quello di costituire un gruppo di lavoro che avrà il compito di snellire gli ordinamenti. Un modo, spiegano dal ministero, per eliminare eventuali sovrapposizioni di norme che, nel tempo, si sono succedute e procedere all’eliminazione di quelle che, introdotte nelle precedenti legislature, non avrebbero favorito i cittadini, ma solo punito i professionisti.

Ed ecco tornati al punto più scottante. Le liberalizzazioni di Bersani. Uno degli obiettivi del Guardasigilli è infatti quello di rimuovere dalla  legislazione tutte quelle norme introdotte dall’ex ministro dello Sviluppo economico che «con il finto intendimento di proteggere i cittadini, hanno solo penalizzato i professionisti».
Nel mirino ci sono, ovviamente, anche le tariffe di cui sopra. Il ministro vuole reintrodurre le parcelle minime abolite quattro anni fa. «Bisogna garantire», ha spiegato, «prestazioni efficaci e tariffe semplici, comprensibili, eque e trasparenti». Questione delicata su cui a suo tempo, caso più unico che raro, gli avvocati scesero addirittura in piazza per contestare le decisioni del governo Prodi. Al di là delle diverse opinioni, il dato di fatto è che la riforma non ha funzionato. «È successo il contrario di ciò che si aspettava il ministro», ha spiegato il presidente dell’Organismo unitario dell’avvocatura, Maurizio De Tilla, «invece di proteggere i cittadini, il pacchetto ha difeso le lobby. Banche, assicurazioni ed enti pubblici propongono convenzioni a chi offre di meno. Invece ai clienti privati si continua ad applicare il tariffario».

Alle stesse conclusioni, pur bacchettando le professioni che avrebbero ostacolato in tutti i modi la Bersani, è arrivato l’Antitrust dopo un’inchiesta di due anni. Anche recentemente Antonio Catricalà è tornato sull’argomento, dichiarandosi contrario alle tariffe minime e alla loro inderogabilità. Il numero uno dell’Authority ha puntato il dito anche sulla mancanza di trasparenza, punto su cui sembrano invece tutti d’accordo, dal ministro agli ordini. Le parcelle minime, ha denunciato, «sono oscure, non si capisce la voce che di volta in volta si va a pagare e, non assicurano il risultato così come è giusto che sia».
Sempre oggi intanto parte la Conferenza annuale della Cassa Forense, occasione in cui il presidente Marco Ubertini annuncerà il nuovo corso dell’ente, che è pronto a collaborare con Tremonti sugli investimenti nelle infrastrutture. A partire dal progetto dell’housing sociale per la realizzazione delle case popolari.

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I giudici sciolgono i matrimoni gay

Niente matrimoni gay. E’ questo, a prima vista, il verdetto arrivato ieri dalla Corte Costituzionale. Ma la questione è un po’ più complicata, sia sul piano giuridico, sia su quello politico.
Nel dettaglio, la Consulta ha rigettato i ricorsi dichiarando inammissibili le questioni sollevate dai Tribunale di Venezia e dalla Corte di Appello di Trento in relazione all’ipotizzata violazione degli articoli 2 (diritti inviolabili dell’uomo) e 117 primo comma (ordinamento comunitario e obblighi internazionali) della Costituzione. I ricorsi sono stati invece dichiarati infondati in relazione agli articoli 3 (principio di uguaglianza) e 29 (diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio). Le motivazioni della decisione si conosceranno nei prossimi giorni e saranno scritte dal giudice costituzionale Alessandro Criscuolo. Ma già fin da ora appare chiaro che il senso della sentenza della Consulta è che la materia non è di sua competenza. «La scelta della Consulta sui matrimoni gay restituisce, come è giusto, la palla al legislatore», spiega il radicale-finiano del Pdl, Benedetto Della Vedova, che insiste da tempo per una discussione in parlamento della questione.
La gioia dei teo-con
Inutile dire che sulla decisione della Corte è immediatamente salito tutto lo schieramento “teo-con” del centrodestra, sostenendo che è stato ristabilito il diritto e che sulle nozze omosessuali ci si può anche mettere una pietra sopra. «La famiglia», spiega il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella,  «non può che essere, secondo i giudici, una società naturale composta da un uomo e una donna e fondata sul matrimonio». «Mi auguro che finiscano», le fa eco la senatrice del Pdl Laura Bianconi, «queste forzature giuridiche che vorrebbero arrivare a riconoscere le coppie omosessuali andando contro la Costituzione ed il buon senso». Anche per il vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi, si tratta di «un pronunciamento netto che non lascia margini di incertezza».
Atteggiamento che incontra l’ironia di Della Vedova, «anziché compiacersi per lo “scampato pericolo”, penso che la maggioranza dovrebbe iniziare seriamente a lavorare sul testo Rotondi-Brunetta, che senza scomodare impropriamente l’istituto del matrimonio e senza prevedere benefici troppo generosi sul fronte della spesa pubblica, inizia a definire un quadro apprezzabile e concreto di diritti e di garanzie per i partners delle coppie gay. Siamo pur sempre il Popolo della Libertà». In effetti, la firma sotto il progetto di legge dei Didore non è di due esponenti del Pd, ma di due ministri del Pdl.
Questo non ha però impedito al testo di restare ben chiuso nei cassetti degli stessi esponenti del PdL, visto che la proposta lanciata nel 2009 non fu neanche presentata ufficialmente in Parlamento.
Del resto, finora i tentativi di  regolamentare giuridicamente le unioni civili sono tutti naufragati: dai Pacs di Franco Grillini, ai Dico del governo Prodi, ai Cus di Salvi, fino ai Didore di Brunetta e Rotondi. «Una iniziativa personale», hanno sottolineato a suo tempo i due ministri, «anche perché le unioni civili non fanno parte del programma di governo». Però - hanno anche rimarcato - non si può più rinviare una legge su un «un fenomeno che non è marginale e che riguarda le persone che a vario titolo convivono, comprese le coppie gay.
In Parlamento comunque giacciono 5 proposte di legge (3 alla Camera 2 al Senato) tutte assegnate alle rispettive commissioni Giustizia. Ma il loro esame non è stato mai avviato. A Montecitorio c’è la proposta presentata da Paola Concia del Pd che introduce e disciplina l’istituto dell’unione civile, volta a «porre i cittadini dello stesso sesso stabilmente conviventi nella condizione di scegliere quale assetto conferire ai propri rapporti giuridici e patrimoniali, come accade per tutti i cittadini». La proposta stabilisce comunque che l’unione civile non influisce in alcun modo sulla condizione giuridica dei figli, restando estranea al’unione la disciplina delle adozioni dei minori.
Si riparte dai radicali
La legge presentata dai radicali (prima firmataria Bernardini), prevede l’istituzione di un registro delle unioni civili e mira a dare loro una »copertura normativa«. Anche il Pd ha presentato una sua proposta (primi firmatari Lucà-Fassino-Turco) per fissare «regole ombrello» valide sia per le coppie eterosessuali sia per le omosessuali. Tra l’altro si prevede una “certificazione” a livello comunale non per celebrare le unioni ma «per formalizzare la loro previa esistenza, per cui il diritto nasce dal fatto e non viceversa».
Al Senato anche Vittoria Franco del Pd ha presentato un ddl per il riconoscimento giuridico delle unioni civili, mosso dalla volontà di evitare che «chi ha convissuto con una persona magari per trent’anni si veda poi negato perfino il diritto di assistere il proprio partner morente in ospedale«. Sempre a palazzo Madama è stato presentato un ddl (radicali-Pd-Idv) che oltre a istituire il registro delle unioni civili e a regolamentare i passaggi della formale costituzione del rapporto, mira a dare «copertura normativa» al nuovo istituto sul versante del lavoro, della sanità e delle successioni.

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mercoledì 14 aprile 2010

La Lega mette un piede in banca

Non è un veneto, come avevano esplicitamente chiesto sia il neogovernatore Luca Zaia che il sindaco di Verona, Flavio Tosi. Ma il brianzolo Gabriele Piccini è comunque il frutto di un accordo tra Unicredit e le Fondazioni azioniste che piace anche alla Lega. È lui il nuovo country manager scelto ieri all’unanimità dal cda dell’istituto di credito. Una nomina che ha sbloccato il progetto di riorganizzazione «Insieme per i clienti» fortemente voluto dall’ad Alessandro Profumo e bloccato sull’ultimo miglio proprio dalle richieste delle ex casse di risparmio su cui ora pesa il successo del Carroccio non solo in Veneto, ma anche in Piemonte. Regioni che ospitano le potenti fondazioni CariVerona e CariTorino che insieme detengono quasi il 9% di Unicredit. La richiesta di un manager vicino al territorio, del resto, è stata una delle prime dichiarazioni pubbliche di Zaia all’indomani del verdetto delle urne. E non è casuale che ieri, commentando il via libera alla riorganizzazione e alla nomina Piccini, Profumo abbia definito «l’azienda più focalizzata verso i clienti e più vicina ai territori e alle comunità locali». Stesso accento sull’importanza del «radicamento geografico come punto di forza di Unicredit» è arrivato dal presidente dell’istituto Dieter Rampl. «Nulla da eccepire sulla nomina, la aspettavamo da tempo», ha dichiarato a caldo Tosi. Anche se a piccini sembra sia mancato il voto del vicepresidente Luigi Castelletti, in quota CariVerona, che avrebbe scelto di astenersi sia sulla riorganizzazione sia sul country manager.

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Bernabè promette dividendi più ricchi

Avanti a testa bassa. Senza correzioni di rotta, senza sorprese. L’ad di Telecom Franco Bernabè si presenta alla comunità finanziaria con i conti in regola e gli obiettivi raggiunti. Con la promessa di un rapido ritorno ai ricchi dividendi. E con 9 miliardi di investimenti per la fibra ottica e l’innovazione che dovrebbero sedare, almeno per un po’, le insofferenze di chi nel governo si arrovella sul dossier della rete e sul ruolo degli spagnoli.
Doveva essere il cda del redde rationem, della bufera giudiziaria, della graticola per il management. Tutto invece è filato liscio. La cedola è stata mantenuta a 5 centesimi, ma Bernabè confida di poterla ingrassare già dal prossimo anno. Per quanto riguarda i conti Telecom Italia chiude il 2009 con un utile in calo, ma sopra le attese, a 1,58 miliardi di euro. A segno anche gli obiettivi sull’ebitda (margine operativo lordo), cresciuto dello 0,2% a 11,1 miliardi e sull’indebitamento, calato a quota 34,7 miliardi e visto in ulteriore discesa a 32 miliardi nel 2010. Per il 2012 resta confermato il taglio del debito a 28 miliardi grazie alla crescita dei flussi di cassa, saliti a 6,29 miliardi nel 2009 (e che saranno pari a 21 miliardi nel triennio) e «alla ripresa dei ricavi e la riduzione dei costi».
Quest’anno la flessione dei ricavi dovrebbe limitarsi a un 2-3% a fronte del -6,3% accusato nel 2009.  Di qui al 2012 Telecom vede un incremento medio dei ricavi di circa l’1% annuo e un Ebitda di circa 12 miliardi a fine periodo. Gli investimenti industriali cumulati per gli anni 2010-2012 sono di circa 12 miliardi, di cui circa 9 in Italia per, si legge in una nota, «lo sviluppo competitivo della fibra, il forte impulso all’innovazione e il miglioramento delle performance della rete radio».
La riduzione dei costi verrà attuata con una robusta dieta dimagrante del gruppo. Non solo è stato «sostanzialmente completato il piano di riduzione degli organici previsto per fine 2010». Ma Bernabé ha anche annunciato che per essere efficiente il gruppo sarà sempre più «snello» e che quindi ci saranno ulteriori riduzioni di personale.
Sul versante giudiziario il cda ha deciso la creazione di un fondo rischi per la controllata Sparkle, finita sotto inchiesta per la frode sull’Iva, di complessivi 507 milioni (calcolando 72 milioni per illecito profitto, 421 milioni per chiudere con una transazione il conto con l'Erario e altri 14 milioni, a fronte di rischi fiscali ritenuti probabili sulle altre operazioni soggette a restatement). Il che comporterà la rettifica dei bilanci 2005-2008, mentre l’impatto sul 2009 sarà molto limitato. Telecom ha inoltre avviato un’azione di responsabilità nei confronti dell’ex ad della società Stefano Mazzitelli, in custodia cautelare in carcere dal 23 febbraio.
Per quanto riguarda le prospettive industriali del gruppo l’ad ha spiegato che non c’è alcuna intenzione di avviare «un’espansione geografica». «Concentriamo la nostra presenza sul mercato domestico», ha spiegato, «dove «puntiamo a recuperare quote di mercato». Il Brasile, invece, «sta tornando a dare grandi soddisfazioni al gruppo. Abbiamo fatto bene a non considerare le ipotesi di dismissioni, come ci consigliava qualcuno», ha detto l’ad. Non si cambia nulla neanche sul fronte spagnolo: né fusione, né divorzio. «Con Telefonica abbiamo ottimi rapporti sia personali sia commerciali», ha specificato Bernabè, «siamo soddisfatti cosi come siamo».
Qualcuno ha storto un po’ il naso di fronte ai generosi emolumenti che si è concesso l’ad. Il compenso percepito Bernabè è infatti salito nel 2009 a 3,43 milioni rispetto agli 1,95 milioni del 2008 (+76%) grazie a un bonus da 1,35 milioni per i risultati raggiunti e a 296mila euro di benefici non monetari (auto, alloggio, polizze assicurative, previdenza complementare). Al presidente Gabriele Galateri di Genola sono andati 1,788 milioni rispetto agli 1,767 milioni del 2008.
La cura Bernabè è comunque piaciuta ai mercati. Dopo essere balzato di oltre il 3% il titolo ha chiuso la seduta di Piazza Affari in rialzo dell’1,19% a 1,1 euro.

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Assenti ingiustificati. Il governo va sotto sul decreto salvaliste

«Non ci sono rischi. Si troverà una soluzione normativa». Il vicepresidente dei deputati del PdL, Italo Bocchino, esclude riflessi negativi dalla clamorosa bocciatura da parte dell’aula della Camera del decreto salva-liste. Resta il fatto che la maggioranza è caduta con tutte le scarpe nel tranello organizzato dal Pd che ha portato all’approvazione di un emendamento (a firma Gianclaudio Bressa) interamente soppressivo del provvedimento del governo.
Il blitz è stato studiato e orchestrato dai segretari d’aula dell’opposizione Roberto Giachetti ed Erminio Quartiani.  Il trucco, a dire la verità, non è stato molto sofisticato. Il Pd si è limitato a tenere una ventina di deputati fuori nelle prime due votazioni. Cosa che avrebbe fatto sballare i conti di PdL e Lega. Al momento decisivo è bastato far rientrare le “truppe” appostate e zac, la maggioranza è andata sotto e il decreto in fumo: 254 contro 262. Sono bastati 8 voti per far saltare il testo su cui tanto si era battagliato alla vigilia delle elezioni regionali.
Si potrebbe discutere a lungo di uno schieramento che è costretto a giocare a nascondino per ottenere qualche risultato parlamentare. Ciò non toglie che al momento della votazione dell’emendamento incriminato fossero assenti 38 deputati del PdL e quattro della Lega. E non si tratta di peones. Tra i latitanti eccellenti del Partito della Libertà spiccano i nomi del capogruppo Fabrizio Cicchitto (che ha fatto sapere di essere a casa per una broncopolmonite), del vicepresidente della Camera Maurizio Lupi (che era in missione), di Niccolò Ghedini e del coordinatore Denis Verdini (assenti),  ma anche dei finiani Fabio Granata e Flavia Perina.
È mancato all’appello pure mezzo governo. Ma per lo più si è trattato di missioni autorizzate (molti, come la Brambilla, erano fuori dall’Italia). Così come per 31 esponenti del PdL e 7 del Carroccio.
Complessivamente, un po’ troppi per potersela prendere con i giochini della sinistra. Tanto più che, come dice Bocchino, «il problema dell’assenteismo è ormai endemico».
Critico anche Giancarlo Lehner. «Il presidente Berlusconi, se intende varare le riforme istituzionali e della giustizia, dovrebbe mandare a casa gli attuali deputati, capaci, spesso e volentieri, di andare sotto, pur avendo, sulla carta, una maggioranza bulgara», tuona l’esponente del Pdl.
Ma non fa sconti agli assenti neanche Cicchitto. «L’opposizione», dice il capogruppo, «ha tutto il diritto di sottolineare di avere marcato un punto positivo nella dialettica parlamentare». Detto questo, prosegue il parlamentare, «fra una votazione e l’altra c’è stata una diminuzione nel voto della maggioranza derivante da una inaccettabile sciatteria. Siccome non è giusto che coloro che stanno sempre in Aula paghino conseguenze politiche e di immagine a causa di chi non fa il proprio dovere, d’ora in avanti», annuncia, «il gruppo renderà noto ai vertici del partito e renderà pubblico l’elenco degli assenti ingiustificati; prenderà anche altri provvedimenti visto che siamo a metà legislatura».
Al di là delle polemiche c’è da capire con esattezza quali saranno le conseguenze dello scivolone in Aula e se sarà necessario varare un altro provvedimento. Ipotesi, quest’ultima ventilata dallo stesso Cicchitto.
Lo stop al decreto metterebbe addirittura «a repentaglio il risultato di alcune elezioni», secondo il consigliere regionale uscente del Pdl, Donato Robilotta. «Nel Lazio», spiega, «il decreto è stato infatti applicato dal presidente reggente Montino in merito alla vicenda che ha riguardato la lista Rete Liberal di Sgarbi». Ma il problema, secondo l’esponente radicale Marco Cappato, si riproporrebbe anche in Lombardia per il listino di Formigoni.
Gongola, chiaramente, l’opposizione. «Il voto alla Camera sul decreto salva-liste è una sconfitta politica per la maggioranza ed il governo», dice il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, «aggiungendo pasticcio a pasticcio, finiscono vittime della loro stessa arroganza». Sintetico il commento di Antonio Di Pietro: «Ancora una volta l’elettore italiano si è ritrovato cornuto e mazziato».

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Berlusconi e De Benedetti “salvano” Le Monde

Dopo El Pais anche Le Monde. Un altro faro editoriale della sinistra rischia di finire nell’orbita di Silvio Berlusconi. Questa volta a subire i colpi della crisi e a dover chiedere aiuto al mercato è il punto di riferimento della cosiddetta “gauche au cachemire”, il quotidiano un po’ snob e radical-chic che esce con la data del giorno dopo e al posto dell’editore ha un “consiglio di sorveglianza”.
Tutto cambia. E anche la storica testata francese volta pagina. Con la ricapitalizzazione presentata venerdì all’assemblea dei soci (il consiglio di cui sopra), il controllo della società passerà molto probabilmente dai giornalisti a nuovi investitori. Ed ecco il bello. Tra i principali candidati c’è il gruppo spagnolo Prisa (che controlla El Pais). Lo stesso che qualche mese fa è entrato con il 18% in Telecinco in seguito alla cessione del canale Cuatro e del 22% della pay tv Digital+ alla società controllata da Mediaset. Il business tra Prisa e Berlusconi ha già lasciato di stucco i lettori del Pais, che l’estate prima avevano potuto visionare sul quotidiano le foto proibite di Villa Certosa con le “veline” del Cavaliere. Ora la delusione colpirà anche il popolo di Le Monde, che non simpatizza davvero per il presidente del Consiglio italiano. Attualmente lil quotidiano francese è controllato per il 60,4% da Lmpa (Le Monde et Partenaires Associes). Gli altri azionisti sono il gruppo Lagardere (17,3%), le Nouvel Observateur (1,7%). Poi c’è la Prisa, che ha già il 15% del capitale e potrebbe salire al 34%. Ma le sorprese non sono finite. Perché tra i soci, con il 3%, c’è anche il gruppo l’Espresso. E anche loro sarebbero in lizza, malgrado le smentite dei giorni scorsi, per partecipare all’aumento. Secondo il quotidiano finanziario Les Echos «i componenti della famiglia De Benedetti, che controlla il 53,9% dell’Espresso, non sono per ora d’accordo tra loro». L’ipotesi sul tavolo, in caso di adesione alla ricapitalizzazione, è una crescita dal 3 al 17%. A quel punto, anche se indirettamente, Berlusconi e De Benedetti si troverebbero di nuovo invischiati in una storia di editoria, proprio mentre è in corso il contenzioso da 750 milioni per la vecchia guerra sul lodo Mondadori.
Beghe che interessano poco a Le Monde, che rischia di portare i libri in tribunale prima dell’estate se non troverà subito risorse fresche. I 25 milioni di euro messi a disposizione l’anno scorso da Bnp-Paribas sono infatti già stati prosciugati. E ora l’alternativa alla cessione di quote di controllo, tentata fino all’ultimo dai giornalisti-soci, non è più tra le opzioni percorribili.
 
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Marchionne insaziabile. Fa la corte pure a Peugeot

L’asse franco-tedesco non lo spaventa. Anzi, Sergio Marchionne è pronto a rilanciare con la stessa moneta, lasciando intendere che la risposta all’alleanza tra Renault-Nissan e Daimler potrebbe essere un rafforzamento dell’intesa con l’altra grande casa francese, la Peugeot-Citroen. Non fa nomi, l’ad della Fiat, ma il riferimento è chiaro. Tra i prossimi gruppi automobilistici candidati a nuove fusioni, ha spiegato il manager durante la presentazione della nuova Giulietta al Quirinale, «probabilmente c’è un altro gruppo francese che ci ha provato con la Mitsubishi». «Ci proverà con qualcun altro», ha suggerito l’ad di Fiat, che non ha rinunciato al suo maglioncino blu d’ordinanza neanche per incontrare Giorgio Napolitano.

Lo scorso 30 marzo Jean-Gales, direttore generale dei marchi francesi, aveva detto che Fiat e Peugeot si parlano, ma che nessuna decisione è stata presa per ora. Con Torino, con cui Psa Peugeot Citroen ha una collaborazione di lunga data nei veicoli commerciali leggeri, «vi sono discussioni, ma nessuna decisione per ora» per quanto riguarda un ampliamento della partnership e un rinnovamento di quella esistente, aveva spiegato Jean-Gales.

Le voci di un matrimonio italo-francese sono ritenute poco credibili non tanto sotto il profilo industriale, quanto sotto quello politico. Una fusione fra i due big europei, infatti, avrebbe senso solo se orientata a ridurre la capacità produttiva. Cosa che né in Francia né in Italia sarebbe attualmente proponibile. Basti pensare alle polemiche sulla vicenda di Termini Imerese.

Per ora, quindi, Fiat si limita a studiare la fattibilità dello spin off della divisione auto. L’argomento verrà trattato al momento della presentazione del nuovo piano strategico, il prossimo 21 aprile. Di qui ad allora per il Lingotto sarà un susseguirsi di incontri con il governo e con le parti sociali per sciogliere i nodi relativi all’ impianto siciliano. Il primo tavolo è previsto per questa mattina al ministero dello Sviluppo economico. Mentre nel pomeriggio si terrà l’incontro tra l’azienda e i sindacati dei metalmeccanici su Powertrain, la società che per conto di Fiat costruisce i motori.

Ieri mattina Claudio Scajola si è detto «molto fiducioso» sul futuro di Termini Imerese. E ha ribadito che la casa torinese ha garantito l’impegno per la produzione al Sud. Lo stesso ad del Lingotto ha confermato che la società sta lavorando con il ministro dello Sviluppo e ha aggiunto di credere nel marchio Lancia Romeo. La nuova Giulietta, presentata ieri sia al Quirinale sia a Palazzo Chigi, è, secondo Marchionne, l’occasione giusta per rilanciare il marchio la cui produzione non dovrebbe abbandonare l’Italia.

Sul fronte statunitense, l’ad ha detto che entro due anni l’obiettivo di crescita a quota 35% in Chrysler dovrebbe essere a portata di mano. Quanto alla possibile minaccia rappresentata dall’alleanza franco-tedesca, il manager ha messo le mani avanti: «Non voglio entrare nel merito dell’accordo, ognuno in cucina fa come vuole». Certo, ha proseguito, «che sia un passo avanti nella direzione giusta è chiaro, se poi i dettagli dell’accordo sono tali da creare quel tipo di alleanza che veramente produce risultati sia strategicamente che operativamente, è da vedersi». Marchionne ha poi concluso: «Sono coinvolte due personalità molto forti. Un’alleanza internazionale tra francesi e tedeschi non è tanto facile».

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Scajola rompe il rigore: «Apriamo i cordoni per aiutare la ripresa»

La linea del rigore ribadita da Giulio Tremonti venerdì a Parma davanti alla platea di Confindustria è condivisa da tutti all’interno del governo. Ma non tutti pensano che salvaguardare i conti pubblici significhi necessariamente togliere ossigeno allo sviluppo. Tra questi, non da ieri, c’è Claudio Scajola, che in più occasioni, anche durante la discussione sulla Finanziaria, ha esortato il ministro dell’Economia ad ammorbidire la linea della fermezza.
Invito che il titolare dello Sviluppo è tornato a ribadire ieri dalle telecamere di Mattino 5. Intervistato da Maurizio Belpietro, Scajola ha spiegato senza mezzi termini che «le risorse disponibili devono essere utilizzate per sostenere le imprese italiane e l’export». In altre parole, se sarà necessario, «dovremo allargare i cordoni della borsa, non per fare nuovo debito, ma per aiutare e dare sostegno alla ripresa».

Una ripresa che ormai sembra certificata anche dai numeri. Intanto, ha detto il ministro, c’è «il dato positivo del primo trimestre, con una crescita dell’1,2% sopra la media Ue dello 0,9%». Ma soprattutto ci sono i segnali arrivati ieri dall’Istat, con la produzione industriale tornata a crescere per la prima volta dal 2008, ovvero da quando è scoppiata la crisi. A febbraio il balzo è stato del 2,7% rispetto allo stesso periodo del 2009. Nel corso degli ultimi 18 mesi, per chi lo avesse dimenticato l’indice è arrivato a toccare anche il -26,7 (aprile 2009). Anche il Centro Studi di Confindustria conferma la tendenza positiva di marzo: la crescita su febbraio è dello 0,8% (+3,2 gli ordinativi), dopo la variazione nulla, registrata anche dall’Istat, di febbraio su gennaio. «È la migliore risposta a chi continua a parlare di declino», ha commentato Scajola, che resta tuttavia convinto, come si diceva, che l’onda debba essere cavalcata. Perché la ripresa «non è ancora stabilizzata, è intermittente e resta esposta a rischi di frenate e arretramenti».

Un concetto ribadito anche da Emma Marcegaglia che solo due giorni fa, sempre da Parma, ha incalzato il governo chiedendo impegni concreti per ridare ossigeno alle imprese. Da parte sua Scajola ha annunciato la partenza degli incentivi. Non è molto, ma da dopodomani ci sono sul tavolo 300 milioni di sostegno ad alcuni settori come le due ruote, gli elettrodomestici e l’immobiliare che hanno sentito fortemente il peso della recessione.

La strada è ancora lunga, ha spiegato la presidente di Confindustria, ricordando «rispetto ai picchi precedenti la crisi siamo sempre sotto del 18,7%». Di qui la richiesta di intervenire subito con alleggerimenti sul fisco e con investimenti sulle infrastrutture.

Cose di cui, per ora, il ministro Tremonti non vuole sentire parlare. Anche perché sembra ancora alle prese con i conti del 2010, che rischiano di non tornare. Sulla linea del ministro dell’Economia è apparentemente anche Josè Manuel Barroso, che ieri ha rinnovato l’invito al «rigore» e alla «disciplina» sui conti pubblici. D’altro canto il presidente della Commissione Europea ha anche definito l’economia italiana «solida e forte». Il che implicherebbe la possibilità, senza rischi per gli equilibri della finanza pubblica, di aprire un po’ quei cordoni della borsa per sostenere lo sviluppo come chiedono Scajola e la Marcegaglia.

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lunedì 12 aprile 2010

Berlusconi insiste sulle riforme: «Più strumenti per governare»

Più ottimismo e, soprattutto, più poteri per il presidente del Consiglio. È questa la medicina per far ripartire le riforme e l’Italia. Ne è convinto Silvio Berlusconi, che ieri si è presentato davanti agli imprenditori riuniti a Parma per festeggiare il centenario di Confindustria con un elenco asciutto di punti da realizzare nei prossimi tre anni. È il cosiddetto “cantiere delle riforme”. Nell’ordine di illustrazione, che secondo lo stesso premier non coincide necessariamente con quello di realizzazione: Costituzione, fisco e giustizia. Il premier parte dalla constatazione che i Padri costituenti avevano altri pericoli da qui guardarsi e hanno moltiplicato a dismisura passaggi e filtri oggi non più necessari. «Nella nostra costituzione», dice il Cavaliere, «l’esecutivo non ha alcun potere». Un esempio? Il piano casa. «Lo abbiamo approvato più di un anno fa», spiega, «ma nessuna regione, anche quelle amiche, lo ha applicato veramente». Questo si scontra con la consapevolezza che non si può ulteriormente rinviare l’azione di modernizzazione del Paese. Ritardi ulteriori, infatti, non sarebbero compresi, dopo i proclami delle ultime settimane e gli inviti rivolti in tal senso anche dal presidente della Repubblica.

Il premier sottolinea che parlerà con tutti per trovare una convergenza sulle riforme, ma poi aggiunge che il governo «ha una maggioranza solida e coesa» e «ha i numeri per far approvare dal Parlamento un programma di riforme che i governi precedenti non hanno mai potuto fare». Il riferimento è, principalmente, al presidenzialismo. Quanto al fisco, la riforma, spiega, «è urgente, complessa e difficile». Ma il premier promette comunque: «Disboscheremo la selva delle leggi fiscali per arrivare ad un codice». Di tagli alle tasse, comunque, non si parla. Anzi, Berlusconi spiega che «il rigore del conti pubblici è assolutamente imprescindibile» per la stabilità del Paese. E noi ci siamo riusciti «grazie a Tremonti che ha tenuto i conti in ordine». Quindi, «chapeau al signor Tremonti».

Ma accanto alle note dolenti, alla consapevolezza che molto c'è da fare per far ripartire il Paese, ci sono anche motivi di speranza. «Questa crisi, pur avendo esercitato conseguenze negative”, spiega, “ha fatto venir fuori dei punti di forza come la coesione sociale o i provvedimenti anticrisi». Ed è qui che Berlusconi si aggancia per dimostrare, numeri alla mano, che il tanto decatantato declino dell’Italia non risulta da alcun confronto internazionale. In più, aggiunge, durante la crisi «noi non abbiamo consumato debito, non abbiamo fatto finanza spericolata». L’Italia, insomma, «ha le risorse e le capacità per andare avanti», ma serve maggiore «ottimismo». Con il «catastrofismo, disfattismo e pessimismo spesso alimentato dai media», conclude il Cavaliere, «non si va da nessuna parte».

La platea si scalda a tratti. Come quando Berlusconi parla della sua condizione di perseguitato dalla magistratura. Ma l’atmosfera non raggiunge mai il calore delle grandi occasioni. Gli imprenditori reagiscono poco anche quando il premier li chiama in causa facendo riferimento al loro ruolo determinante nel fronteggiare la crisi. Forse, come mormorano molti delegati, ci si aspettava un’agenda più concreta. Impegni piuttosto che suggestioni, scadenze piuttosto che promesse.
 
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Paolazzi: "Pechino cambia il modello di sviluppo per favorire la diffusione del consumismo"

Si è parlato tanto di Cina alla kermesse confindustriale di Parma, ma la notizia che ha spiazzato tutti è arrivata in diretta da Pechino, con l’annuncio del primo deficit commerciale del Dragone da sei anni a questa parte. «Se non ci fossero stati i comunisti per tanto tempo, la Cina ci avrebbe comprato tutti». Silvio Berlusconi ha sintetizzato così, con una delle sue battute, quello che è stato un po’ il filo conduttore della due giorni organizzata dal Centro studi di Viale dell’Astronomia. Evento che non a caso è stato preceduto da una riunione tra la consulta dei presidenti di Viale dell’Astronomia e il responsabile economico cinese, Anz Banking Group, Li-Gang, che poi ha partecipato anche al convegno. Come non accadeva dal 2004, la Cina a marzo ha registrato un deficit della bilancia commerciale di 7,2 miliardi. Cifra clamorosa, ma non così sorprendente per chi osserva con attenzione le dinamiche dei mercati internazionali. «E’ la conseguenza», spiega a Libero il direttore dell’Ufficio studi di Confindustria, Luca Paolazzi, «di un percorso che il governo di Pechino sta mettendo in atto con decisione per rilanciare la domanda interna».


Insomma, non è che i cinesi abbiano deciso all’improvviso di non inondare più l’Occidente con i loro prodotti. Si tratta piuttosto, prosegue Paolazzi, «del frutto di politiche finalizzate a migliorare le infrastrutture, a rafforzare il servizio sanitario nazionale e a modernizzare il Paese». L’obiettivo della Cina è di aumentare considerevolmente la quota dei consumi sul Pil che resta ancora molto bassa (il 35%) per un Paese con quei livelli di crescita. Richieste in questo senso erano arrivate la scorsa estate dall’amministrazione Obama, ma la cosa non potrà non fare piacere anche all’Italia. «Per noi è sicuramente un’ottima notizia», spiega Paolazzi. Due i motivi principali che ci permettono di guardare con ottimismo il nuovo trend cinese. Il primo «è che le nostre imprese, molto attive in Cina nel settore delle infrastrutture e dei macchinari, potranno cogliere importanti occasioni di business». Il secondo è che una crescita dei consumi potrà essere assorbita in parte da una produzione interna, «ma di sicuro si apriranno moltissimi spazi per quello che in senso lato può essere definito made in Italy». Certo che per permettere questo, avverte Paolazzi, «bisognerà ripensare il ruolo della Cina anche all’iterno del Wto. Pechino è entrato nell’organizzazione mondiale del commercio come paese emergente e quindi con una discreta libertà di applicare politiche protezionistiche, con dazi e tasse, che penalizzano i prodotti stranieri». Questa situazione non è più giustificabile visti i successi dell’Economia cinese (quest’anno supererà il Giappone), così come «non sono giustificabili quelle manovre sui tassi di cambio con cui il governo di Pechino difende il suo export».
 
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Sacconi insiste: nuovo Statuto per i lavoratori

Non solo la Carta costituzionale e i codici della giustizia. Da riscrivere c’è anche lo Statuto dei lavoratori. Troppo vecchio, ha spiegato ieri Maurizio Sacconi di fronte agli imprenditori riuniti a Parma per i cento anni di Confindustria, per accompagnare con efficacia i rapidi mutamenti del sistema economico. Di qui l’annuncio del ministro del Welfare di un piano triennale sul lavoro da presentare entro maggio prossimo «per completare la liberazione dall’oppressione burocratica, da tutto quello che genera conflitto e dall’incompetenza che minaccia l’occupabilità».


Sarà questa l’occasione per passare dallo Statuto dei Lavoratori alla Statuto dei Lavori «come una evoluzione quale è stata disegnata da Marco Biagi», ha proseguito Sacconi applaudito con entusiasmo dalla platea di Confindustria. Il ministro ha poi ricordato che a breve la Carta dei lavoratori compirà 40 anni e che quindi una riforma si rende necessaria. Nulla, ci ha però tenuto a sottolineare, sarà comunque adottato senza il «necessario passaggio con le parti sociali». Infine Sacconi ha invitato gli imprenditori ad organizzare «insieme una difesa della cultura del lavoro rispetto a quel nichilismo che purtroppo dagli anni Settanta, dai peggiori anni della nostra vita per coloro che li hanno vissuti, si è diffuso». Il ministro ha voluto dare un’interpretazione originale della teoria gramsciana sul potere. «Alcuni ritengono», ha detto, «che l’inserimento di quella generazione in questi ambiti sia stato dovuto ad una logica che prevedeva l’occupazione delle casematte per costruire una società migliore. Io ho sempre avuto un’opinione diversa: che si siano infrattati in questi ambiti lavorativi per una scelta molto più banale: sempre meglio che lavorare».
 
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Gli applausi degli industriali contro i giudici

«Il più grande imputato di tutti i tempi». È qui che la platea di Confindustria, fino a un minuto prima piuttosto freddina, si spella le mani per Silvio Berlusconi. Sarà strano, ma l’applauso più fragoroso tributato al premier dagli imprenditori riuniti a Parma arriva proprio sulla questione a lui più cara: la giustizia. A suscitare grande entusiasmo è la certificazione delle 2.550 udienze “subite” che, a giudizio del Cavaliere, lo rendono uno dei più accreditati a parlare di riforma di diritto penale. «Fidatevi di uno come me che conosce bene la materia», dice per introdurre il tema. E poi, spesso interrotto dagli applausi, giù a snocciolare i guasti della giustizia. «Una situazione grave», la definisce il premier, con una Corte costituzionale «che da organo di garanzia è divenuto organo politico» perché «abroga le leggi che non piacciono ai pm e ai giudici di Magistratura Democratica» in quanto «formata da 11 membri che appartengono alla sinistra e 4 alla destra».


Ma dal «più grande perseguitato dell’universo e di tutti i tempi» arrivanno bordate anche sui «processi messi in atto solo per tenere l’avversario politico sulla griglia mediatica» e sulla questione mai risolta delle intercettazioni. Dal dibattito in Parlamento, assicura verrà fuori una «legge che darà il diritto di parlare con riservatezza al telefono». Perché «le parole che dite al telefono, se scritte sul giornale, hanno un altro significato e poi sono prove manipolabili». Poi, riferito a sé: «È stato registrato 18 volte da una procura lontana che non aveva assolutamente la competenza per farlo anche il presidente del Consiglio, una cosa unica nel nostro Paese». Infine, rivolgendosi alla platea, chiede: «Quanti di voi pensano di non aver mai corso il rischio di essere intercettati?». Nessuno alza la mano. E lui, sornione, aggiunge: «Avete tutti uno scheletro nell’armadio, eh?».

Nella grande riforma della giustizia ci sarà spazio, ovviamente, anche per ridisegnare quella civile, soprattutto dimezzando i tempi dei processi. Anche qui Berlusconi si affida ai sondaggi espressi. «Alzi la mano», dice, «se qualcuno ha ottenuto una sentenza amministrativa prima di 5 anni». Identico il risultato.
 
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Silvio smentisce. Ma la manovrina si farà

Aria, terra, aria e fuoco. Scomoda persino i quattro elementi della tradizione ellenica Giulio Tremonti. Snocciola acronimi e formule, battute e metafore, cita Platone. Ma di fronte alla platea di Confindustria riunita a convegno a Parma si guarda bene dal pronunciare quello 0,8% riferito alla crescita del pil italiano nel 2010. Cifra che pure era scritta nero su bianco nella bozza di discorso distribuita ai giornalisti. E su cui, guarda caso, sono concentrati i timori dei tecnici che in questi giorni stanno studiando l’andamento dei conti pubblici e le possibili correzioni in corsa sul rapporto deficit/pil. La prospettiva dello 0,8%, contenuta nel World economic outlook che il Fondo monetario pubblicherà il 21 aprile, è infatti più bassa dell’1,1% contenuto nelle ultime stime del governo presentate con l’aggiornamento al Patto di Stabilità.


Pizzicato dai cronisti al termine dell’intervento, il ministro dell’Economia si è giustificato sostenendo che lo 0,8% «è il dato Eurostat». Un dato che sarebbe comunque sufficiente a far alzare l’asticella che Tremonti ha miracolosamente tenuto in equilibrio con la Finanziaria di fine anno. Roba di qualche zero virgola. Ma dopo l’esplosione della crisi greca l’Italia non ha alcuna intenzione di diffondere messaggi di sfiducia sui mercati internazionali che rischierebbero di ripercuotersi sulle agenzie di rating e sulle emissioni dei titoli di Stato. Dal Tesoro continuano a smentire che ci sia un dossier aperto sulla manovrina estiva. Ma non è un caso che ieri sull’argomento abbia deciso di scendere in campo anche Silvio Berlusconi. «Smentisco decisamente le voci di una finanziaria aggiuntiva», ha detto il premier da Parigi a margine del vertice italo-francese.

Anche il Cavaliere insomma, seguendo la linea del ministro dell’Economia, gioca sull’equivoco generato dall’anticipazione della finanziaria a giugno in base alla nuova legge di bilancio. L’intervento, come ha spiegato più volte Tremonti, servirà a correggere i conti del 2011 dello 0,5% come previsto dagli accordi presi in sede comunitaria. Nella stessa sede, però, il ministro potrebbe decidere non solo di rifinanziare alcune voci di spesa corrente del 2010, si è parlato di 1,5 miliardi per le missioni internazionali all’estero, ma anche di dare una stretta al rapporto deficit/pil per evitare che sfori sopra il 5%. In quel caso, la si può chiamare come si vuole, ma la manovra interverrebbe sui saldi dell’anno in corso. Fonti parlamentari confermano che il piano d’emergenza è sul tavolo del ministro. Tutto è chiaramente appeso non solo all’andamento dell’economia, il cui tagliando sarà fatto ai primi di maggio, ma anche all’esito della proroga dello scudo fiscale che scadrà proprio il 30 aprile. Alcune stime del Tesoro parlano di un possibile gettito per le Finanze di circa 2 miliardi. Ossigeno per le casse dello Stato, che però coprirebbe soltanto gli sbalzi della spesa corrente. Lasciando scoperto il possibile buco da 5-6 miliardi di deficit.

Nei prossimi giorni gli orientamenti del governo saranno più chiari. Non è escluso che già oggi Berlusconi dica qualcosa a riguardo. L’intervento del premier, atteso sempre a Parma, è stato annunciato dallo stesso Tremonti con una sibillina citazione di De Gasperi («i politici pensano alle prossime elezioni, gli statisti alle future generazioni, domani sentirete, sentiremo il presidente del Consiglio dei ministri») che i più benevoli hanno voluto interpretare come un omaggio al capo. Per il resto, oltre a ripercorrere la storia degli ultimi anni, tra globalizzazione, crollo del muro di Berlino, espansione dei debiti pubblici e crisi finanziaria, il ministro dell’Economia ha parlato soprattutto di fisco. Senza aggiungere molto a quanto già detto, per la verità, ma ribadendo la necessità di andare avanti su quella che ha definito «la riforma delle riforme». Non si tratterà di un intervento «platonico», ha spiegato Tremonti, ma di un cambiamento «ad alta intensità politica». Per prima cosa, ha continuato, sarà riaperto il cantiere del Libro Bianco del '94 «per un inventario responsabile e trasparente delle varie opzioni possibili» le cui direttrici sono ormai note: «dalle persone alle cose, dal complesso al semplice e dal centro alla periferia».

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Una Smart contro Marchionne

Smart, Twingo e veicoli commerciali. La notizia non piacerà a Sergio Marchionne. Ma i segmenti di mercato al centro della nuova alleanza tra Renault-Nissan e Daimler (Mercedes) sono proprio quelli su cui la Fiat punta per il rilancio. Utilitarie e furgoni, per intenderci. Come la Panda che sbarcherà a Pomigliano, la 500 con cui il Lingotto pensa di conquistare gli States o i Doblò e Ducato che nel Paese di Obama saranno venduti sotto il nuovo marchio Ram Trucks con l’obiettivo di aumentare le vendite del 50% entro il 2014. Ma le nozze franco-tedesche andranno a stuzzicare anche i buoni rapporti tra Torino e Parigi che hanno portato alle numerose joint venture con la Psa Peugeot Citroen.


A sottolineare il sostegno dell’Eliseo al nuovo progetto c’è l’intenzione dello Stato francese di acquistare, nell’ambito degli scambi azionari previsti dall’operazione, un pacchetto dello 0,55% per mantenere il 15,01% storicamente detenuto in Renault. Insomma, per il Lingotto l’asse annunciato ieri è una bella gatta da pelare. L’alleanza strategica tra i due colossi delle quattro ruote punta a conquistare i vertici delle classifiche mondiali delle vendite. Che tradotto in cifre significa sviluppare sinergie per 4 miliardi di euro.

L’idea è quella di non fare prigionieri. Ovvero di competere con le big in tutti i settori, dalle microcar fino alle jeep. «Parliamoci chiaro», ha detto l’amministratore delegato di Renault-Nissan, Carlos Ghosn, «le nostre aziende, per sopravvivere, devono essere presenti ovunque sul mercato, dalla low cost in India all’auto di lusso in Europa. Ma da sole non ce la fanno». E l’unico modo per mantenersi vive sul mercato, ha spiegato, è andare verso la condivisione di tecnologia per consolidare la produzione.

I punti di forza delle due case, ha spiegato Ghosn assieme all’ad di Daimler, Dieter Zetsche, in una conferenza stampa a Bruxelles, sono complementari e la sinergia può puntare da subito a due settori precisi: le auto compatte e le tecnologie verdi. Renault-Nissan è interessata ai motori di Daimler e, in futuro, anche alla sua esperienza nei marchi di lusso. La tedesca, invece, vuole approfittare del know-how in fatto di utilitarie della madre di Clio e Twingo.

Renault e Nissan sono partner dal 1999, con i francesi che possiedono il 44% della casa giapponese. Con 6,09 milioni di veicoli venduti nel 2009, il gruppo si è piazzato al quarto posto della classifica mondiale dei costruttori. Una classifica stravolta dalla crisi nell’arco degli ultimi due anni. Dalle big three, le tre leader statunitensi del vecchio mercato auto (Ford, Gm e Chrysler) si è passati alle medium six (Toyota, Gm, Ford, Renault Nissan, Volkswagen, con Fiat-Chrysler e Hyundai a lottare per il sesto posto).

I francesi ora vogliono il terzo gradino. Obiettivo che insieme a Daimler, che nel 2009 ha venduto 1,6 milioni di auto, sembra a portata di mano. «L’attività di produzione aumenterà, amplieremo i nostri portafogli e rafforzeremo la posizione sul mercato», hanno detto i due amministratori delegati. L’alleanza, precisano i due big, non sarà l’anticamera di una fusione né farà confusione sui prodotti e sui marchi associati alle due case. La partecipazione azionaria resterà simbolica al 3,1% e ognuno manterrà la propria indipendenza. «Ma sarà un’alleanza strategica di lungo corso», secondo Zetsche, e non uno dei tanti tentativi falliti di partnership come quella Daimler-Chrysler finita nel 2007. Non solo: l’intesa di oggi «non preclude la strada ad altre alleanze», ha detto Ghosn, sempre più convinto che le sinergie siano il futuro del settore. Le rassicurazioni dei due manager sono una magra consolazione per i competitor. Il fatto che non si tratti di una fusione non solo non riduce la portata dell’accordo, ma anzi lo configura come un’alleanza che dovrebbe lasciare maggiori margini di manovra nella scelta delle aree in cui cooperare e della tecnologia da condividere. In modo da avere l’ampiezza di fuoco dei tre marchi con la potenza di un’unica strategia.

La nuova attività comune sarà indirizzata da un comitato di 12 membri, guidato dai due ad. Nei piani, come si diceva, c’è già lo sviluppo delle nuove Smart e Twingo. E dal 2013, tutti i nuovi modelli prodotti in comune saranno disponibili anche in versione elettrica. Infine, una curiosità: per le sue future city car Renault tornerà al motore ed alla trazione posteriori, soluzione che aveva abbandonato dai tempi della Dauphine e della R8.
 
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mercoledì 7 aprile 2010

Partono gli incentivi, ma il centralino va in tilt

«Siamo spiacenti, tutti gli operatori sono momentaneamente occupati, la preghiamo di chiamare più tardi». Inizia così, con un cortese messaggio di scuse, l’avventura degli incentivi per scooter, cucine, elettrodomestici, macchine agricole, motori per la nautica e banda larga. Il muro del call center gestito dalle Poste per conto del ministero dello Sviluppo economico (numero verde 800556670), nel primo giorno di operatività, è praticamente invalicabile. Migliaia di rivenditori, come era prevedibile, si sono attaccati ai telefoni per avviare la procedura di iscrizione e hanno intasato i centralini. Presto un po’ di traffico dovrebbe essere decongestionato attraverso un sito Internet dedicato. Ma per ora di parlare con un operatore non c’è verso. Tutti occupati, sostiene con gentile fermezza la voce di donna registrata. Anche se alcuni fortunati e caparbi commercianti, armati di molta pazienza, sostengono di essere riusciti nell’impresa.


Il discorso cambia per il numero dedicato ai consumatori (800123450). Qui dopo alcune sommarie informazioni fornite dalla solita voce registrata (sempre di donna) si riesce con discreta facilità a parlare con gli operatori. I quali ammettono, però, di ricevere più chiamate dai rivenditori che dai clienti. «Su dieci telefonate», spiega un cortese centralinista (uomo, questa volta), «almeno sette sono di commercianti che non riescono a parlare con nessuno all’altro numero. Cerchiamo di indirizzarli, ma qui siamo autorizzati soltanto ad illustrare ai consumatori le procedure per fare gli acquisti, gli sconti previsti e i requisiti per accedere all’incentivo». Il grosso delle telefonate su questo versante, ovviamente, arriverà dal 15 aprile, quando si potrà materialmente andare in negozio e comprare a prezzi agevolati.

Dalle Poste, che per il disturbo incasseranno circa 7 milioni di euro equamente divisi tra commercianti (3 milioni) e ministero dello Sviluppo (4 milioni prelevati dai 300 complessivi), si limitano a dire che le operazioni sono partite. La spa guidata da Massimo Sarmi, si legge in una nota diffusa ieri, «ha predisposto da oggi tutti i necessari servizi basati sulla rete tecnologica dell’azienda». È in particolare «già attivo il call center per la registrazione dei venditori e le informazioni ai clienti». Per gli abbonamenti ad Internet veloce, invece, dovranno registrarsi solo gli operatori delle telecomunicazioni, e non i rivenditori, utilizzando esclusivamente un indirizzo email dedicato.

Quanto alla procedura per acquisti e erogazione dei contributi, spiegano da Poste, «il consumatore si rivolgerà direttamente al rivenditore». A sua volta il negoziante (o il costruttore) consulterà il call center (dove a quel punto si spera che risponderà qualcuno) per conoscere la disponibilità delle risorse finanziarie e fornire una risposta all’acquirente. Successivamente, dal 17 maggio, «il rivenditore potrà eseguire il procedimento di prenotazione del contributo direttamente sul portale di gestione e prenotazione degli incentivi che sarà messo a disposizione». Saranno poi le Poste, «su disposizione del ministero dello Sviluppo, a rimborsare il rivenditore o il costruttore liquidando le somme con bonifico o postagiro».

Le associazioni dei consumatori invitano comunque tutti a tenere gli occhi bene aperti. Il pericolo è che in questi giorni i prezzi dei prodotti vengano ritoccati al rialzo. Per i clienti che volessero fare i furbetti, invece, è previsto che l’acquirente comunichi il suo codice fiscale. In questa maniera si dovrebbero evitare doppi sconti per lo stesso prodotto.
 
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Da Zapatero a Obama. Gli aiuti all'Aquila mai arrivati

Silvio Berlusconi l’aveva definita la «lista di nozze». Ma quando si è trattato di tirare le somme gli invitati non si sono fatti vedere. E di regali neanche l’ombra. A pensarci ora, col senno di poi, forse era meglio prendersi i contanti e chiuderla li. Invece, di fronte alla gara di solidarietà internazionale immediatamente scattata fra i grandi del pianeta di fronte alla sciagura abbruzzese, il Cavaliere aveva avuto un moto di orgoglio. Niente soldi. Meglio, appunto, una lista di nozze. Un elenco di monumenti danneggiati dal sisma da “adottare” per garantirne il restauro e la ristrutturazione. Le offerte furono così dirottate al ministero dei Beni culturali che stilò l’elenco delle opere da salvare. Quarantaquattro in tutto, per un importo di circa 300 milioni di euro.


L’idea fu lanciata il 16 aprile dello scorso anno. Appena dieci giorni dopo il terremoto che aveva devastato l’Aquila. A un anno dalla scossa, però, la gran parte dei siti inseriti nell’elenco sono rimasti orfani. Soltanto 12 sono stati adottati, più altri quattro fuori lista, con cifre che peraltro coprono solo una parte dell’importo necessario al restauro. Molti dei governi che in un primo momento avevano assicurato il loro sostegno, nascondendosi dietro lo scudo della crisi economica, alla fine hanno preferito lasciare nelle casse nazionale il denaro promesso. Il caso più macroscopico è quello della Fortezza spagnola, che aveva subito un danno da 50 milioni di euro. Una cifra promessa da Zapatero, in considerazione dello storico legame con la penisola iberica del Castello cittadino, fatto costruire nel ’500 dal viceré Pedro di Toledo quale simbolo della dominazione di Carlo V. Ma i soldi non si sono mai visti.

Stesso discorso per gli Stati Uniti. L’amministrazione Obama aveva mostrato interesse per la chiesa di Santa Maria Paganica. Non un impegno stratosferico: 4 milioni e mezzo l’entità del restauro. Spiccioli per un governo che ha sborsato miliardi su miliardi per salvare le banche “troppo grandi per fallire”. Risultato: i 4 milioni sono rimasti alla Casa Bianca. Anche la Cina, che si è fatta beffe della crisi continuando a crescere senza sosta, non ha stanziato nulla per Palazzo e Torre Margherita (4,8 milioni) né per il Palazzetto dei Nobili (900mila euro), come inizialmente promesso. Proprio come il Giappone, intenzionato a intervenire sulla Chiesa di Sant’Agostino (sei milioni l’importo) e l’Australia (oratorio Sant’Antonio da Padova).

Ma a defilarsi sono stati anche gli amici italiani, come il Comune di Trieste, che aveva manifestato interesse per la chiesa di San Pietro a Coppito. O come il presidente del Montepaschi, Giuseppe Mussari, ora candidato per la guida dell’Abi. Il banchiere aveva addirittura promesso in diretta tv a Porta a porta l’impegno per la chiesa di San Bernardino. Costo complessivo: 36 milioni. Da Siena, un anno dopo, non si è fatto sentire nessuno.
 
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martedì 6 aprile 2010

Gli avvocati chiamano Tremonti: meno tasse in cambio di case

Il treno della riforma fiscale sta per partire. E gli avvocati non hanno alcuna intenzione di restare a piedi. Le trattative con Giulio Tremonti sono state avviate da tempo. Ma ora la categoria togata è in grado di rilanciare su un terreno caro al ministro dell’Economia, come quello delle infrastrutture e degli investimenti per lo sviluppo. In ballo c’è una dote da 4 miliardi, pronta ad essere messa sul tavolo. Al centro dell’operazione c’è la Cassa Forense, che dal 15 al 18 aprile terrà a Stresa la sua nona Conferenza nazionale.


In quell’occasione il presidente Marco Ubertini, illustrerà le linee del suo progetto per ridisegnare il ruolo dell’ente previdenziale. «Sotto il profilo finanziario», anticipa a Libero Ubertini, «dobbiamo pensare a strutturarci sul modello, seppur rivisitato, delle fondazioni bancarie, per gestire in modo sempre più efficiente il nostro patrimonio ed anche essere di supporto all’economia italiana». A rendere possibile il nuovo corso della Cassa saranno gli effetti della riforma previdenziale entrata in vigore dal gennaio di quest’anno. Un percorso fortemente voluto da Ubertini con cui l’ente, come direbbe Tremonti, ha messo in sicurezza i conti. In sintesi, i sacrifici chiesti alla categoria per evitare il collasso finanziario di qui al 2030 sono l’aumento progressivo dell’età pensionabile a 70 anni, con 35 anni di versamenti, l’incremento dal 12 al 14% dell’aliquota contributiva e e l’innalzamento dei contributi minimi.

Tutto questo consentirà alla Cassa di sgombrare il campo dall’incubo del default finanziario e di ragionare con maggiore libertà sugli investimenti, che finora hanno riguardato solo in minima parte l’economia reale. Basti pensare che sui 3.827 milioni complessivi soltanto 519 (il 13%) sono dedicati al settore immobiliare. Mentre ben 3.300 (l’86%) sono investiti in azioni, gestioni patrimoniali e in obbligazioni.

Al bando, ovviamente titoli tossici e derivati. Mossa che ha permesso alla Cassa di superare indenne la crisi dei mercati finanziari. Malgrado il buon rendimento dell’attuale portafoglio, Ubertini ha comunque intenzione di rimodulare gli impieghi. L’idea è quella di avvicinare la Cassa al territorio, attraverso investimenti in infrastrutture e sviluppo. Ed è qui il punto di contatto con Tremonti.

Uno dei progetti a cui l’ente previdenziale intende partecipare è infatti quello dell’housing sociale, vecchio pallino del ministro. Il tempismo è perfetto, perché il piano per l’edilizia popolare sta muovendo i primi passi proprio in queste settimane. L’obiettivo di Tremonti è la costituzione di un fondo immobiliare con una dotazione di 2,5 miliardi. Strumento che dovrebbe consentire di realizzare 50mila alloggi nei prossimi cinque anni. La Cassa depositi si appresta a sottoscrivere una quota da 1 miliardo. Il resto dovrebbe arrivare da Fondazioni, banche, assicurazioni e fondi previdenziali privati. Da quest’ultimo fronte Tremonti si aspetta un contributo che si aggira sui 500 milioni. La Cassa forense è pronta a fare la sua parte. Magari chiedendo che una quota degli alloggi sia destinata anche ai giovani avvocati. Ma le occasioni di collaborazione potranno estendersi ad altri settori. E la categoria togata si aspetta di poter avviare un confronto anche sulla riforma fiscale e sugli interventi anti-crisi. Qui le richieste dell’avvocatura puntano ad ottenere l’estensione delle agevolazioni generalmente tarate sul sistema delle imprese, la moratoria sugli studi di settore, ma anche la costituzione di fondi di garanzia e il rafforzamento del sistema dei confidi. Non ultimo c’è il nodo dei pagamenti della Pa. Sembrerà strano, ma anche gli avvocati, come le imprese, aspettano anni prima di vedere il saldo.
 
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Gli eco-incentivi del governo: un affare solo per le Poste

Sarmi perde i giornali, ma incassa gli incentivi. Mentre monta la polemica sullo stop alle tariffe postali agevolate per la stampa, i tecnici di Claudio Scajola hanno definito i termini della convenzione con Poste spa per l’erogazione degli “sconti” su scooter, cucine, macchine agricole, motori per la nautica e Internet a banda larga.


La società guidata da Massimo Sarmi gestirà tutta la macchina organizzativa, a partire dal call center che attiverà l’erogazione dei fondi, fornirà tutte le informazioni del caso e verificherà la regolarità delle operazioni. Non solo. Agli sportelli postali saranno anche affidate materialmente le somme da destinare agli incentivi. Sarà il Bancoposta, in altre parole, a rimborsare tramite bonifico i venditori che hanno praticato gli sconti. Il servizio, ovviamente, non sarà gratuito. Per il disturbo le Poste incasseranno circa 7 milioni. Quattro arriveranno saranno prelevati direttamente dal fondo di 300 milioni, che quindi scenderà a 296. I restanti tre saranno caricati sulle spalle dei commercianti.

Il meccanismo, infatti, prevede che al momento del rimborso erogato ai rivenditori Poste trattenga l’1% della somma a titolo di compensazione. La cifra complessiva che entrerà nelle casse delle Poste non è paragonabile a quello che verrà perso se il governo non risolverà la questione delle tariffe per l’editoria (ogni anno Sarmi si ritrova in tasca circa 240 milioni di rimborsi pubblici per gli sconti effettuati ai giornali), ma è sempre un bel gruzzoletto. Considerato che il lavoro dei postini, stando alle stime effettuate da Confindustria, dovrebbe esaurirsi nel giro di 30-40 giorni. Il tempo necessario ai consumatori per spolpare la torta da 300 milioni messa a disposizione dal governo.

La scelta di affidare la pratica alle Poste è stata fortemente caldeggiata da Giulio Tremonti, che ha già coinvolto la spa di Sarmi nell’operazione della Banca del Mezzogiorno. Come in quel caso, serviva una struttura non solo fortemente radicata sul territorio, ma anche sufficientemente vicina ai cittadini per poter gestire il caos che inevitabilmente si verificherà nei primi giorni degli incentivi. Al ministero dello Sviluppo economico prevedono che al call center arriveranno almeno 575mila richieste di incentivi.

Troppe per essere affidate all’improvvisazione. Per questo il 6 aprile, giorno in cui il decreto attuativo dovrebbe finire in Gazzetta ufficiale, partiranno solo le registrazioni dei rivenditori e dei gestori di telefonia al servizio. Per i consumatori la partenza è prevista per il 15 aprile. Ma non sono esclusi ulteriori slittamenti.

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Incentivi verso lo slittamento. I commercianti non sono ancora pronti

La corsa agli acquisti dovrà aspettare. La partenza degli incentivi, prevista per il 6 aprile, slitterà di qualche giorno. Per ora si parla del 15 aprile, ma non è escluso un ulteriore allungamento della scadenza. I tecnici dello Sviluppo economico hanno già definito tutti i dettagli e il decreto attuativo, ora all’esame della Corte dei Conti, dovrebbe arrivare martedì in Gazzetta Ufficiale, in linea con la tabella di marcia. Ma per far partire la macchina che distribuirà i 300 milioni di aiuti per l’acquisto di scooter, elettrodomestici, macchine agricole, motori nautici e banda larga servirà la registrazione dei commercianti al servizio messo a punto dalle Poste per l’erogazione effettiva degli incentivi e il controllo sulla regolarità delle operazioni. Una procedura che richiederà un po’ di tempo aggiuntivo. L’esigenza di non affrettare la partenza sarebbe stata espressa dagli stessi esercenti, che vogliono evitare di essere travolti dall’assalto dei clienti prima che tutti gli ingranaggi del meccanismo siano ben oliati. Un rischio che, arrivati così vicini alla scadenza, non sarà comunque facile scongiurare.

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giovedì 1 aprile 2010

Napolitano delude la sinistra sull’art. 18

Il rinvio alle Camere alla fine c’è stato. Ma lo scenario è ben diverso da quello ipotizzato dalla sinistra, che sperava di cavalcare lo stop del Quirinale durante la campagna elettorale. Non è un caso che per sottolineare i suoi rilievi alla legge delega sul lavoro il capo dello Stato abbia aspettato l’esito delle urne. Troppo delicato l’argomento per offrirlo in pasto alle strumentalizzazioni politiche. Due gli articoli su cui Giorgio Napolitano chiede approfondimenti e modifiche, il 20 e il 31. Su quest’ultimo, in particolare, si erano concentrate le proteste delle opposizioni e della Cgil. Si tratta infatti delle nuove norme che introducono l’arbitrato nelle liti tra lavoratore e azienda. Norme che, secondo i critici, avrebbero aggirato l’articolo 18 dello statuto aprendo la strada ai licenziamenti selvaggi.


Ben diversa l’analisi del Colle, che ritiene però più opportuno che le tutele per i lavoratori vengano definite per legge sin da subito e non affidate alla valutazione successiva del ministero del Welfare. In particolare, Napolitano ha chiesto che sia maggiormente garantita la scelta volontaria dell’arbitrato da parte del lavoratore. Obiezioni che hanno trovato l’immediata disponibilità di Maurizio Sacconi, il quale si è limitato ad auspicare un esame rapido da parte del Parlamento per consentire «la tempestiva attuazione di importanti deleghe come quella in materia di lavori usuranti». Del resto, anche da Confindustria arriva l’invito a procedere in fretta, vista l’importanza della materia. Mentre secondo Cisl e Uil, il rinvio alle Camera può essere l’occasione per mettere nero su bianco l’avviso comune sull’arbitrato siglato qualche settimana fa.

Accanto ad alcuni rilievi tecnici il Quirinale ha anche bacchettato il governo sulla eccessiva vastità dei temi trattati nel provvedimento. E’ l’ennesimo appello contro le leggi omnibus, che appare però lontano da una contrapposizione con Palazzo Chigi su cui Pd e Idv stanno facendo affidamento in vista della seconda firma attesa da Napolitano, quella sul legittimo impedimento. Anche da ambienti vicini al Quirinale si tende a sottolineare l’assoluta mancanza di collegamento tra il giudizio sul ddl lavoro e quello che arriverà sulla giustizia. Insomma, chi dopo l’antipasto già pregusta il piatto forte rischia di restare a bocca asciutta.

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Fitto paga l’unico flop: mi dimetto da ministro

Per Adriana Poli Bortone finirà tutto a tarallucci e vino. «Dimissioni di facciata», le definisce la senatrice del PdL che ha rovinato la festa elettorale di Silvio Berlusconi spianando la strada alla vittoria pugliese di Nichi Vendola. In realtà, il passo indietro di Raffaele Fitto, che ieri ha ufficializzato l’intenzione di lasciare l’incarico da ministro dei Rapporti con le regioni, è una bomba dalle conseguenze imprevedibili. Certo, l’atto era dovuto. Soprattutto alla luce dei numeri snocciolati ieri dalla Prefettura di Bari, che hanno certificato i danni del mancato accordo con il polo di centro. Il PdL è infatti risultato il primo partito in Puglia e Vendola è dovuto ricorrere, per avere i voti necessari a governare in Regione, non solo al premio di maggioranza (13 seggi), ma anche a quello di governabilità (altri 8). È difficile, però, credere che il caso Fitto finirà con un buffetto sulla testa. Chi ha sentito il Cavaliere in mattinata raccontava di un Berlusconi su tutte le furie. Al punto che secondo alcuni sarebbe stato lui stesso a sollecitare la lettera di dimissioni.


Che la candidatura di Palese fosse nata storta non è un mistero. Basti ricordare quello che disse un fedelissimo del premier come Giorgio Stracquadanio: «Una scelta tutta di apparato, resa pubblica con parole degne di un politburo, non di un partito carismatico». A complicare la vicenda, c’erano state le acrobatiche manovre dei finiani. Con gli ex An pugliesi a sparare contro la Poli Bortone. Mentre lo stesso Fini lavorava ad una soluzione alternativa in stretto collegamento con Casini. D’altra parte, se è vero che Fitto è plenipotenziario del PdLdella Puglia, il coordinatore regionale del partito è il senatore finiano Salvatore Amoruso.

Ora, tutti i nodi tornano al pettine. Ingigantiti da una tornata elettorale in cui, accanto al successo del centrodestra, si sono consumati confronti interni e prove di forza con cui il Cavaliere dovrà fare i conti. La Lega al Nord, Fini nel Lazio e in Calabria, la Destra di Storace, l’Udc di Casini. È questo l’intricato contesto in cui si inseriscono le dimissioni di Fitto, che i più cinici considerano l’occasione d’oro per avviare il percorso che porterà a un rimpasto considerato da molti inevitabile. Di sicuro, il caso Puglia apre le ostilità per il riassetto post elettorale non solo nel governo, ma anche dentro il PdL. Caotico, per ora, il fuoco delle reazioni.

La Poli Bortone punta il dito sui finiani. Dovrebbe seguire l’esempio di Fitto, dice, «tutta la classe dirigente del PdL, a partire dai 13 ex An firmatari della lettera contro di me». I finiani, per bocca dell’europarlamentare Salvatore Tatarella, scaricano subito la croce sul ministro: «Se Fitto non avesse obbedito a un miope calcolo di potere, oggi staremmo festeggiando la vittoria del centrodestra anche in Puglia». Vuole il passo indietro anche l’ex sottosegretario di Forza Italia, Maria Teresa Armosino. Gettano acqua sul fuoco, invece, il presidente dei senatori PdL Maurizio Gasparri e il ministro della Difesa Ignazio La Russa. Secondo gli ex An le dimissioni «sono un gesto di responsabilità che va respinto». Tesi condivisa dal coordinatore pugliese Amoruso. Quanto a Berlusconi, starebbe ancora riflettendo se accettare o meno il passo indietro di quello che, a lungo, è stato uno dei suoi pupilli. Chi ha parlato con il Cavaliere non ha avuto risposte definitive. «Vuole prendere tempo», riferisce uno dei fedelissimi. Non è escluso che Berlusconi decida di convocare l’ufficio di presidenza del PdL. La matassa dovrà però essere sciolta prima del Consiglio dei ministri che, a quanto si apprende, sarebbe fissato per domani mattina.

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Vendola approfitta del suicidio PdL

L’effetto Frisullo non c’è stato. Malgrado il clamoroso arresto, avvenuto il 18 marzo, dell’ex vicepresidente della Regione nell’ambito dell’inchiesta sulla malasanità pugliese, Nichi Vendola è riuscito a fare meglio del 2005. Allora lo scarto fu minimo e il testa a testa durò fino a notte inoltrata. Ieri il candidato del Pd nonché leader di Sinistra ecologia e libertà ha incassato sin da subito un vantaggio netto di circa tre punti percentuali (in serata sono diventati otto) sull’avversario del PdL, Rocco Palese. Eppure, nonostante la vittoria schiacciante (49,6%), i conti non tornano del tutto. I riflettori sono puntati sul terzo incomodo, Adriana Poli Bortone. Lo scostamento tra le preferenze delle liste collegate e quelle raccolte dalla candidata dell’Udc hanno alimentato il sospetto che dietro il successo di Vendola ci sia lo zampino di un voto disgiunto non proprio spontaneo.


Colpi bassi o meno, è fuori dubbio che sul voto pugliese pesi la spaccatura tra il PdL e il partito di Pier Ferdinando Casini. Il 41,8% ottenuto da Palese va infatti ben dal di là delle attese. Il che significa che il candidato fortemente voluto dall’ex governatore Raffaele Fitto si è reso protagonista di un ottimo sprint sull’ultimo miglio. Se ci fosse stata la convergenza con l’Udc (la Poli Bortone ha raccolto il 8 2%) la vittoria sarebbe stata assicurata. «Di quanto avremmo vinto», si è chiesto Fitto, «se il polo di centro avesse appoggiato Palese?». Non si può dimenticare che al livello comunale e provinciale, ha spiegato, «l’Udc governa col centrosinistra».

L’aria che tirava a Bari era chiara ancor prima che i seggi chiudessero i battenti. Nell’arco di poche centinaia di metri, a pochi passi dalla città vecchia, i due comitati elettorali avevano già fiutato il vento. Serio, composto e silenzioso quello di Palese in via Melo. Caotico, rumoroso e palpitante quello di Vendola, che ha da subito costretto la polizia municipale a bloccare il traffico nella centrale via De Rossi.

Finita la festa, sarà il momento di tirare le conclusioni. E le ripercussioni non saranno indolori per nessuno dei due schieramenti. Nel centrodestra il conto sarà presentato principalmente al ministro per gli Affari regionali Fitto. È lui che ha puntato i piedi fino all’ultimo per Palese. Ed è lui ora che dovrà rispondere della sconfitta, peraltro non inattesa. Prima delle elezioni si era parlato addirittura della possibilità di un passo indietro dalla squadra di governo.

Forse ancora più incisive le conseguenze sul centrosinistra. Il successo di Vendola, che nelle primarie ha travolto il dalemiano Boccia, imporrà a Pierluigi Bersani decisioni che faranno storcere il naso nel Pd sia alla componente di maggioranza sia a quella veltroniana, che a suo tempo decretò l’esclusione dell’ultrasinistra dalla coalizione. Ora l’allargamento all’area antagonista sarà inevitabile.

«La sinistra dovrà pronunciare con più forza le parole dell’alternativa», ha detto Vendola. La cosa lascerà perplesso anche Antonio Di Pietro, che si troverà al fianco un leader politico sfiorato dalle inchieste della magistratura e accusato di aver governato in Puglia con un sistema di potere pseudo-craxiano. Il caso ha voluto che ieri Marco Travaglio fosse anche lui a Bari per presentare il suo spettacolo. Chiacchierando con un po’ di amici durante il volo, come rivela Dagospia, ha sentenziato: «Vendola? Anche lui ne ha fatte di cazzate, ma come si fa ad affidare la sanità ad un ex craxiano?».
 
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