sabato 27 marzo 2010

I sabotatori della Fiat

Ci risiamo. A poco meno di due settimane dalla schiaffo ricevuto da Giorgio Napolitano, che smentì piccato la sua presunta ostilità verso la legge su arbitrato e articolo 18, gli uomini di Ezio Mauro tornano all’attacco. Oggetto delle attenzioni giornalistiche di Repubblica, questa volta, è il piano industriale della Fiat. Un piano lacrime e sangue, quello descritto sulle pagine del quotidiano romano, che pur prevedendo un aumento della produzione lascerebbe in mezzo alla strada 5mila lavoratori e ridurrebbe a 8 (sugli attuali 12) i modelli affidati agli stabilimenti italiani.


L’operazione downsize, questo il nome con cui Repubblica battezza il ridimensionamento delle attività del gruppo nel nostro Paese, coinvolgerebbe tutte le fabbriche dislocate sul territorio sia con cambi di produzione sia con tagli di personale e prepensionamenti. Le ricadute sarebbero drammatiche non solo a Termini (da 1.500 operai a zero), ma anche a Mirafiori, dove la forza lavoro scenderebbe dai 5mila addetti a 2.500.

A poco sono servite le smentite a muso duro di Sergio Marchionne, che ha parlato di «speculazioni» su notizie completamente false. «Questo è il momento sbagliato per parlarne», ha spiegato l’ad del Lingotto, «abbiamo avuto la crisi più profonda che si sia mai vista in Europa e non abbiamo licenziato nessuno. Non voglio medaglie, ma cercare di picchiare la Fiat in questi momenti è la cosa più sproporzionata che abbia mai visto, quasi vergognosa».

Parole inutili. Esattamente come con la questione dell’articolo 18, la sparata di Repubblica ha immediatamente riacceso la protesta dei sindacati. Dopo qualche settimana di relativa tranquillità i lavoratori sono tornati sul piede di guerra, chiedendo convocazioni urgenti al governo, minacciando mobilitazioni e, in alcuni casi, come è successo a Termini, proclamando scioperi istantanei contro il presunto piano industriale di Repubblica. La doccia è talmente gelata da ricompattare con facilità tutte le sigle. Così, accanto al leader della Cgil, Guglielmo Epifani, che vede nelle indiscrezioni «una conferma ai timori» avanzati dal sindacati, scendono in campo anche il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni, e il segretario dell’Ugl metalmeccanici, Giovanni Centrella, per invitare il governo ad un confronto prima del 21 aprile, quando il Lingotto presenterà ufficialmente il piano strategico.

Conseguenze prevedibili e previste, secondo Maurizio Sacconi, che ritiene per nulla casuale il colpo di Repubblica. «Le indiscrezioni su un presunto piano Fiat caratterizzato da ben 5mila esuberi occupazionali sono inquietanti e suscitano allarme sociale», ha detto il ministro del Lavoro, secondo il quale «solleva un legittimo interrogativo l’affermazione del portavoce della Fiat secondo cui le indiscrezioni stesse sono una provocazione politica a pochi giorni dalle elezioni».

Per quanto riguarda il Lingotto, dopo aver smentito in tutte i modi le indiscrezioni giornalistiche, Marchionne ha ribadito che su Termini «una soluzione si dovrà trovare» e che il gruppo farà tutto il possibile. Sull’ipotesi spin-off dell’auto, anch’essa prospetta da Repubblica, il manager della Fiat, intervenuto a margine della riunione confindustriale, ha detto che si tratta «solo di ipotesi». Lo scorporo, ha spiegato, si può fare in due modi: «o lasciamo l’Auto da una parte e togliamo il resto, o togliamo l’Auto e lasciamo il resto. Non è complicato». Quanto all’esigenza di consolidare prima Chrysler nel bilancio del gruppo Fiat, Marchionne ha osservato che «non ce n’è bisogno». Visto che «con il 20% della casa americana abbiamo già il controllo».

Le voci sul piano hanno influenzato anche i mercati, con il Lingotto che ha chiuso in rialzo del 4,26% a 9,8 euro. La bomba lanciata da Repubblica non ha invece scosso più di tanto i lavori del comitato direttivo di Confindustria, che si è tenuto non casualmente a Torino, in territorio Fiat.

Nel corso del “conclave” sarebbero infatti state confermate le anticipazioni sulla nuova squadra di Emma Marcegaglia, in particolare quelle relative all’ingresso del vicepresidente del Lingotto, John Elkann.

Anche Giorgio Squinzi, ha spiegato l’ex numero uno di Assolombarda Diana Bracco al termine della riunione, entrerà nel team di presidenza. Come previsto, il patron della Mapei, vicino alla Marcegaglia, andrà a sostituire il montezemoliano Andrea Moltrasio con la delega per l’Europa. Una mossa che, unita a quella di Elkann, è stata letta come la chiusura dell’epoca Montezemolo in viale dell’Astronomia.

La giunta di Confindustria che si riunirà oggi a Roma ratificherà la scelta, secondo quanto confermato da Mariella Enoc, presidente di Confindustria Piemonte. Per il rampollo di casa Agnelli ci sarebbe pronta la delega all’internazionalizzazione verso i paesi emergenti.
 
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mercoledì 24 marzo 2010

Emma azzera i montezemoliani

Dentro Giorgio Squinzi, Pier Francesco Guarguaglini e, soprattutto, John Elkann. Scatta il rimpasto in Confindustria. La scadenza finale è per l’assemblea di maggio. Ma i giochi si faranno molto prima. A partire dall’appuntamento di domani, quando Emma Marcegaglia presenterà al voto segreto della giunta il programma e la squadra di presidenza per i prossimi due anni.
Inizialmente la presidente di Confindustria sembrava intenzionata a non operare troppe sostituzioni. L’idea era quella di non stravolgere un vertice che, tutto sommato, ha accompagnato la presidente nei primi due anni di mandato senza troppi scossoni. Alla vigilia delle scadenze, però, le tensioni sotterranee sono venute alla luce. E i cambiamenti si sono resi necessari. Anche perché, secondo molti, in Viale dell’Astronomia c’è qualcuno che starebbe già preparando con congruo anticipo la corsa per la prossima presidenza. Tra questi si fa il nome di Andrea Moltrasio, che ufficialmente farà un passo indietro per seguire l’azienda di famiglia. Difficile, però, non vedere nell’uscita del montezemoliano di ferro un segnale delle manovre in atto. L’imprenditore chimico vicinissimo al presidente della Fiat è da dieci anni in Confindustria e a lui la Marcegaglia aveva affidato una delle deleghe più pesanti, quella sull’Europa.

Al suo posto dovrebbe andare Giorgio Squinzi, patron della Mapei. Il pezzo da novanta della chimica italiana potrà avere la delega, ma non l’incarico formale di vicepresidente. Poltrona che sarebbe incompatibile con l’attuale presidenza della Federchimica. Altro big dell’industria italiana che dovrebbe entrare nel team della presidente è Pier Francesco Guarguaglini. Un ingresso pesante quello dell’ormai storico numero uno di Finmeccanica, che da molti viene letto come una ulteriore apertura (l’ad dell’Eni Paolo Scaroni fa già parte
della squadra con una delega alla globalizzazione) della Marcegaglia verso le istanze dei grandi gruppi partecipati dal Tesoro, che da tempo chiedono maggiore spazio nei piani alti di Viale dell’Astronomia. Richieste che non sono state prive di ripercussioni anche a livello territoriale. A fare le spese dello scontro con i grandi potrebbe essere Antonio Costato, attuale vicepresidente espressione delle pmi del Veneto, che a causa degli attriti con Eni ed Enel sarà probabilmente spostato dall’energia alla semplificazione.
Ma l’arrivo più clamoroso è sicuramente quello di John Elkann. L’approdo del rampollo della famiglia Agnelli nel comitato di presidenza è oggetto di molte letture in questi giorni. Viale dell’Astronomia e il Lingotto hanno smentito la notizia secondo cui l’ingresso nella squadra di Confindustria del vicepresidente della Fiat nonché presidente della controllante Exor sarebbe stato concordato tra Marchionne e Marcegaglia durante un incontro di qualche settimana fa a Torino.
Di sicuro, però, l’arrivo di Elkann in Viale dell’Astronomia non farà troppo piacere a Montezemolo, che da tempo vede il giovane manager scalpitare anche dietro la sua poltrona. Che il rampollo degli Agnelli abbia rapporti migliori con l’ad della Fiat che con il presidente, del resto, non è un mistero. Così come non lo è la
scarsa sintonia tra Marchionne e Montezemolo.
In chiave politica, la scelta di Elkann sarebbe anche la conseguenza dei recenti attriti tra governo e Fiat sulla questione degli incentivi e sulla vicenda di Termini Imerese. Al Lingotto preferiscono chiaramente affidare i rapporti istituzionali al giovane Jaki piuttosto che alla vecchia volpe Montezemolo, che non solo incalza il governo con la sua associazione Italia Futura, ma si prepara anche a mettere i bastoni tra le ruote alle Ferrovie di Stato con i suoi treni superveloci (peraltro acquistati dalla francese Alstom piuttosto che dall’italiana AnsaldoBreda).

A voler essere maligni si direbbe che la scelta di Elkann sia il tassello di un rimpasto dalla chiara impostazione anti-montezemoliana. In quest’ottica andrebbe vista infatti non solo l’uscita del fedelissimo Moltrasio, ma anche l’arrivo di Squinzi. Non va dimenticato che il numero uno della Federchimica è stato uno dei più forti sostenitori della linea confindustriale che ha portato la Marcegaglia alla presidenza in aperto contrasto con la vecchia gestione di Montezemolo.

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martedì 23 marzo 2010

Trecento milioni di incentivi elettorali

L’accoglienza delle imprese non è stata delle migliori. Gli incentivi sono pochi e mal distribuiti, ha commentato a caldo Emma Marcegaglia. Mentre gli esperti di Confindustria del settore moto (Ancma), calcolatrice alla mano, hanno stimato che le somme destinate alle due ruote (12 milioni sul totale) finirebbero in una quindicina di giorni. A poco è servito il colpo di reni del governo, che nel rush finale ha tentato di gonfiare le cifre del pacchetto. Alla fine, dopo mesi di tira e molla tra Giulio Tremonti e Claudio Scajola, il decreto legge varato ieri dal Consiglio dei ministri mette complessivamente a disposizione 420 milioni. Trecento saranno destinati agli sconti per incentivare i consumi. Di questi 200 milioni saranno finanziati con entrate fiscali, 50 con il Fondo finanza d’impresa e 50 con credito d’imposta. Gli altri 120 arriveranno invece sotto forma di sgravi fiscali per gli investimenti nell’innovazione e nel tessile.


Oltre agli stanziamenti, nella versione finale del testo sono lievitate anche le disposizioni. Nel decreto, oltre ad una robusta sezione dedicata alla stretta sui controlli del fisco finalizzata al contrasto dell’evasione, hanno trovato spazio anche misure di semplificazione legislativa che riguardano principalmente gli interventi edilizi, i taxi e le auto a noleggio con conducente. Sul fronte casa è stato ampliato il perimetro dei lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria per i quali basterà una semplice comunicazione. Per i trasporti sono previste misure che consentiranno di «razionalizzare ed incentivare» l’esercizio dei servizi pubblici non di linea, «contrastando pratiche abusive o non rispondenti ai principi dell’ordinamento giuridico».

Confermato il meccanismo previsto per la concessione degli sconti, anch’esso poco apprezzato dalle aziende. I contributi al consumo, si legge nel dl, «saranno erogati fino ad esaurimento delle somme stanziate per ciascun settore». I principali settori che riceveranno gli aiuti sono la mobilità sostenibile, i motocicli elettrici e no, le abitazioni ad alta efficienza energetica, gli elettrodomestici, le cucine componibili, i rimorchi, le macchine agricole, le gru, i motori per la nautica.

Gli incentivi variano da prodotto a prodotto, con ribassi che generalmente oscillano dal 10 al 20% del prezzo. Dal 6 aprile, subito dopo Pasqua, i singoli consumatori potranno richiedere gli sconti ai rivenditori interessati. Finché, ovviamente, ci saranno quattrini a disposizione. Cosa che il commerciante dovrà verificare in tempo reale telematicamente o telefonicamente. Il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, ha assicurato che saranno previsti «meccanismi per evitare fenomeni di accaparramento». Non è ancora chiaro quali. Per ora si sa solo che i cittadini avranno a disposizione un call center gestito dalle Poste. E sempre le Poste si faranno carico di restituire l’incentivo al rivenditore. I dettagli tecnici dovrebbero essere contenuti nel decreto per ripartire le somme tra i settori coinvolti che Scajola dovrebbe varare già oggi.

Tra le misure previste dal dl ci sarà anche un bonus per Internet veloce da destinare ai giovani. Per quanto riguarda gli sgravi fiscali, 70 milioni andranno al settore tessile. Altri 50 a sostegno della cantieristica navale, delle alte tecnologie dell’aerospazio, della emittenza radiotelevisiva locale e per l’Agenzia per la sicurezza sul nucleare.

Quanto all’impatto sui conti pubblici, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha spiegato che «non crea deficit perché sono tutte entrate da contrasto all’evasione che noi riteniamo assolutamente realistiche. Per essere chiari le abbiamo già in tasca». Certo, ha ammesso Tremonti, la cifra messa a disposizione per gli incentivi «non è molto grossa, ma ne abbiamo discusso in tutti i modi.
 
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Il pasticcio infinito della Centrale del Latte di Roma

Non si sono ancora esaurite le conseguenze del pasticcio delle giunte Rutelli e Veltroni sulla Centrale del latte di Roma. A pochi giorni dalla sentenza con cui il Consiglio di Stato ha annullato la vendita del 75% della società alla Cirio di Sergio Cragnotti e poi alla Parmalat di Callisto Tanzi, i produttori insorgono contro il Comune per il prezzo del latte. Al centro del braccio di ferro c’è il rinnovo dell’accordo tra gli allevatori e la Centrale. Sotto accusa c’è il tentativo della società, tornata nelle mani del Campidoglio, di tirare sul prezzo. «Attualmente», spiega il presidente della Confagricoltura di Roma, Massimiliano Giansanti, «il latte vale alla stalla 0,375 euro al litro. Gli allevatori non sono in grado di sopportare una riduzione di tale prezzo che, se imposta, determinerebbe la chiusura della gran parte delle aziende produttrici dell’agro romano».


Il timore è che il verdetto dei giudici amministrativi influenzi negativamente la trattativa. «Non vorremmo», sostengono gli allevatori, «che la recentissima sentenza del Consiglio di Stato, con gli scenari che apre, possa portare la Centrale ad irrigidirsi su posizioni preconcette». Sugli effetti della sentenza bisognerà sostanzialmente attendere le decisioni dell’amministrazione comunale e del sindaco Gianni Alemanno. Scelte che potrebbero anche determinare un nuovo assetto proprietario dello stabilimento e del marchio. Gli allevatori chiedono solo che, al momento, i problemi societari restino fuori dal tavolo del negoziato sul prezzo del latte.

Richiesta legittima, ma non facilmente attuabile. Del resto, ci sono volute ben nove sentenze per scrivere la parola fine sull’ingarbugliatissima vicenda della vendita della Centrale del Latte. Ora il Campidoglio dovrà anche risarcire adeguatamente la Ariete Latte sano, la società che aveva tentato inutilmente di partecipare alla privatizzazione della Centrale. La piccola società attiva nel settore lattiero-caseario aveva diffidato il Comune sostenendo la nullità della doppia vendita (Cirio prima e Parmalat poi) e della transazione per violazione delle norme imperative che presiedevano allo svolgimento della procedura, in particolare quelle che garantivano la «par condicio» tra i concorrenti e vietavano, dopo la vendita, la rinegoziazione delle clausole osservate sia dal Comune che dalle società che aspiravano ad acquistare il pacchetto azionario.

La cifra esatta non è ancora stata quantificata. Spetterà al Comune, secondo quanto stabilito dal Consiglio di Stato, formulare entro 60 giorni una proposta di indennizzo del danno. In una precedente sentenza il Tribunale amministrativo del Lazio aveva già indicato nel 5 per cento degli utili netti di bilancio conseguiti dalla dalla Ariete nel 2000 la somma di riferimento.

Quanto alla situazione societaria, in soldoni si torna all’assetto già deciso dal Tar nel 2007. Il che significa che la Centrale del Latte di Roma è nuovamente nelle mani del Comune che potrà decidere se avviare o meno una nuova procedura di privatizzazione.
 
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Gli incentivi saranno a carico degli evasori

Un decreto leggero. Sia nel testo sia negli stanziamenti. È questo il compromesso sugli incentivi raggiunto da Giulio Tremonti e Claudio Scajola dopo mesi di braccio di ferro. La bozza su cui i tecnici dell’Economia e dello Sviluppo stanno effettuando le ultime limature è ridotta ai minimi termini: cinque articoli, compreso quello che stabilisce l’entrata in vigore. La parte che riguarda l’aiuto ai settori in crisi prevede la costituzione di un fondo da 200 milioni, alimentato dal Tesoro con il recupero dell’evasione fiscale. Altri 100 milioni dovrebbero arrivare dallo Sviluppo economico.


La spartizione delle risorse è contenuta in un altro provvedimento che Scajola dovrà emanare, di concerto con Tremonti, entro dieci giorni. La tabella è ancora da ultimare, ma lo schema circolato ieri prevede 58 milioni per l’acquisto dei mobili della cucina, 50 milioni per gli elettrodomestici, 12 milioni per la rottamazione dei motocicli, 10 milioni per i motori fuoribordo, 13 milioni per i rimorchi, 18 milioni per i trattori, 40 milioni per le gru edili, 14 milioni per alcuni motori industriali, 85 milioni per le eco-case. Gli stanziamenti non saranno modulabili. Per accedere agli aiuti è infatti previsto un sistema on line che bloccherà l’accesso «in caso di esaurimento della disponibilità del fondo». Nel dettaglio si prevedono fino a 1.000 euro di sconto (il 10% dell’importo) per le cucine componibili. Fino a 750 euro (per il 10% dell’importo) per gli scooter euro 3 e fino a 1.500 euro per le moto elettriche (il 20% del prezzo). Per le case ecologiche l’aiuto arriva a 7mila euro (da 83 a 116 euro al mq in base alla percentuale di efficienza energetica). Mille euro è il tetto per i motoscafi a basso impatto ambientale, mentre sui rimorchi si arriva a 5mila euro. Per le gru a torre lo sconto sarà di 30mila euro.

I primi articoli del dl sono invece dedicati alla stretta sul fisco. A partire da norme più severe in materia di Iva e frodi internazionali. Il decreto conterrebbe anche modifiche alla disciplina delle notifiche all’estero per gli avvisi e atti di riscossione. Mentre un passaggio sarebbe dedicato a deflazione e razionalizzazione del contenzioso fiscale per accelerare la riscossione.
 
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Il made in Italy è legge. Super multe a chi bara

Per una volta le polemiche e gli insulti sono rimasti a casa. E non è poco, considerati i bollori pre-elettorali che scuotono gli schieramenti. A provocare il raro momento di convergenza è stata la difesa del made in Italy, che ieri ha compiuto un significativo passo avanti con il voto bipartisan della commissione Attività produttive della Camera. Un via libera all’unanimità che ha trasformato in legge il ddl Reguzzoni-Versace sulla tutela dei prodotti nazionali.


In base al provvedimento la denominazione “made in Italy” potrà essere usata esclusivamente per prodotti finiti le cui fasi di lavorazione abbiano avuto luogo prevalentemente nel territorio italiano. In particolare, se almeno due delle fasi di lavorazione sono state eseguite nel territorio italiano e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità. Non solo. L’etichetta obbligatoria dovrà anche contenere indicazioni sulla conformità dei processi di lavorazione alle norme vigenti in materia di lavoro, la certificazione di igiene e di sicurezza dei prodotti; l’esclusione dell’impiego di minori nella produzione; il rispetto della normativa europea e degli accordi internazionali in materia ambientale. Le nuove disposizioni riguardano i prodotti tessili, dell’abbigliamento delle calzature e della pelletteria.

Infischiarsene della normativa non sarà privo di conseguenze. La mancata o scorretta etichettatura dei prodotti e l’abuso della denominazione made in Italy saranno puniti con una sanzione amministrativa da 10mila a 50mila euro. La merce sarà sempre oggetto di sequestro e confisca. Se le violazioni sono reiterate scattano le sanzioni penali, con la reclusione da 1 a 3 anni. Che salgono fino a 7 se dietro c’è una apposita organizzazione. Se ad abusare del made in Italy sono invece le imprese, la sanzione andrà da 30mila a 70mila euro con la sospensione dell’attività fino ad un anno.

«L’approvazione della legge è una vittoria per tutti i consumatori e per le numerose aziende che ancora oggi stanno affrontando il difficile periodo di crisi», sostiene il deputato della Lega, Matteo Bragantini. Entusiasta anche Raffaello Vignali (Pdl), secondo il quale «è un gran giorno, in cui si dimostra che si può difendere un sistema economico senza rinchiudersi in un protezionismo egoistico, dannoso per un Paese che ha nell’export un punto di forza». Parla di «pietra miliare» Massimo Calearo (Api), il quale avverte però che «siamo solo all’inizio, al primo step di un percorso che difende la struttura portante dell’economia italiana, la piccola media impresa». Ed ecco il problema: malgrado la buona volontà del Parlamento italiano, senza il sostegno di quello europeo, il provvedimento resterà lettera morta. Determinante, in questo senso, è lo slittamento di quattro mesi dell’entrata in vigore della legge, previa notifica alla commissione Ue per il necessario esame di compatibilità. «Si tratta», ha spiegato il viceministro allo Sviluppo, Adolfo Urso, «di un atto politico, per rafforzare la posizione negoziale dell’Italia su una materia che resta di esclusiva competenza dell’Unione». La speranza è che da Strasburgo non arrivino intoppi. «Faremo ogni sforzo in sede europea», dice Urso, «affinché il regolamento sulla etichettatura obbligatoria, da noi proposto già nel 2003, possa essere approvato celermente dal parlamento europeo».
 
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L’irresistibile ascesa di Palenzona il Mediatore

Destra e sinistra, finanza laica e cattolica, Tremonti e Fazio, trasporti e banche. È difficile trovare un terreno che Fabrizio Palenzona non abbia coltivato. Una strada che non abbia percorso. Solo per mettere in fila gli incarichi ci vorrebbe un libro. Il manager di Novi Ligure che ha studiato legge a Pavia quando il ministro dell’Economia era assistente universitario, tanto per citare le poltrone più prestigiose, è vicepresidente di Unicredit, presidente degli Aeroporti di Roma, presidente di Assaeroporti, presidente dell’Aiscat, nonché consigliere di Mediobanca.


Ma Palenzona è anche, e soprattutto, uomo forte della Fondazione Caritorino, secondo azionista di Unicredit. Da lì è partita l’operazione che porterà alla nascita della Carito, (Carige più fondazione Crt) che nelle intenzioni dei soci fondatori dovrà far rivivere l’antico blasone della Cassa di risparmio di Torino, svenduto per un tozzo di pane, secondo alcuni, per confluire nella grande banca di Alessandro Profumo.

Del manager-banchiere si è tornato a parlare ieri, perché nella pancia di una sua controllata sono finite le azioni di Generali di cui Unicredit si doveva liberare per obblighi antitrust. Un affare concluso acchiappando i classici due piccioni. Palenzona ha tolto una castagna dal fuoco a Profumo, ma ha anche messo un piede in quel Leone che di qui a breve sarà teatro del grande riassetto bancario italiano.

Ed è relativamente a questa partita che circola più di una voce sulle mosse di Palenzona. Dopo la pioggia di nomi trapelati sui giornali è proprio sul numero due di Unicredit che si sarebbero concentrate le attenzioni per una eventuale staffetta con Cesare Geronzi alla guida di Mediobanca.

Anche su Piazzetta Cuccia, del resto la storia di Palenzona parla chiaro: solo lui riuscì allo stesso tempo ad essere con Maranghi e con chi Maranghi lo cacciò via. Tutto, ovviamente, è ancora da vedere. Ma se è vero che, al di là dei balletti, alla fine sulla poltrona più alta delle Generali andrà a sedersi proprio l’ex presidente di Capitalia, le possibilità che il successore di Cuccia sia il banchiere di Novi Ligure sono molto alte. La cosa, tra l’altro, farebbe tirare un sospiro di sollievo allo stesso Profumo, che riuscirebbe a liberarsi di un vicepresidente che non vede l’ora di togliere quel “vice” dal suo biglietto da visita.
 
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Il turismo si fa strada tra i dossier italo-russi

Dopo l’energia, le infrastrutture e il commercio, anche il turismo entra a pieno titolo nel già nutrito elenco dei dossier aperti tra Italia e Russia. L’ennesimo tassello di un’alleanza alimentata dall’intesa tra Berlusconi e Putin. A rafforzare il legame sul terreno delle vacanze e degli scambi culturali ci ha pensato Michela Vittoria Brambilla. Lunedì il ministro del Turismo è volata nella terra degli zar per incontrare l’omologo Anatolij Yarochkin e mettere a punto l’agenda degli interventi in vista del 2011, quando si celebrerà contemporaneamente l’anno della cultura russa in Italia e di quella italiana in Russia.


L’obiettivo è quello di facilitare e intensificare i flussi turistici tra i due Paesi, sfruttando una tendenza già in atto. L’Italia è la sesta destinazione turistica dei vacanzieri russi dopo Turchia, Egitto, Grecia, Francia e Spagna. Con 450mila russi che sbarcano nella nostra Penisola a fronte di circa 220mila italiani che visitano la Russia. Numeri che i dati aggiornati sui primi mesi del 2010 danno in ulteriore crescita. «Puntiamo sulla Russia», ha detto chiaramente la Brambilla.

Il freddo ancora duro e pungente non ha rovinato l’atmosfera. Anzi. I due, in barba agli interpreti, discutono in uno spagnolo fluente e si aggirano tra i padiglioni dell’Intourmarket di Mosca, la Fiera internazionale del turismo, come vecchi amici. Oltre a presiedere i gruppi di lavoro con operatori e associazioni di categoria, la Brambilla ha anche annunciato che è alle battute finali, partirà a maggio, la realizzazione di un call center multilingue, compreso il russo, che offrirà assistenza turistica e servizi di pronto intervento anti-truffe per i visitatori stranieri. Nell’estate dovrebbe poi partire il Magic Italy in tour, una rassegna itinerante che toccherà i Paesi centroeuropei, la Scandinavia e, nel 2011, approderà a Mosca e San Pietroburgo. Resta da sciogliere il nodo dei visti, considerato da Mosca uno dei principali ostacoli al turismo russo in Europa. La Brambilla ha già provveduto a snellire le procedure e i tempi di rilascio. Ma Yarochkin vuole di più: «Confido che Berlusconi riuscirà ad aprire le porte di Schengen anche alla Russia».

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martedì 16 marzo 2010

Per le Generali spunta a sorpresa il nome di Cucchiani

Si scalda il fronte delle nomine. Mentre l’ad dell’Eni, Paolo Scaroni, chiude definitivamente le voci sulla sua possibile candidatura alla presidenza del Leone («non sono interessato»), dal settimanale MilanoFinanza, solitamente bene informato su Piazzetta Cuccia, spunta la carta a sorpresa: il manager Enrico Tomaso Cucchiani, attuale presidente di Allianz Italia.

A comprimere i tempi delle grandi manovre ci sono le scadenze in arrivo. Mercoledì si riunisce il cda delle Generali per esaminare i conti 2009 e fissare la data dell’assemblea per il rinnovo dei vertici. Se l’appuntamento sarà fissato per il 20 aprile (il 24 in seconda) il termine per la presentazione delle liste cadrebbe il 5 aprile. Entro la fine della prossima settimana dovrebbe poi riunirsi il comitato nomine di Mediobanca, primo azionista del Leone con il 14,7%, dove l’ad Alberto Nagel presenterà la lista dei consiglieri per le Generali che si preannuncia più leggera (da 19 a 15 membri).

Gli umori che accompagnano la corsa alla poltrona più alta delle assicurazioni di Trieste cominceranno ad avvertirsi giovedì con la riunione del patto di sindacato di Rcs. Un appuntamento che molti ritenevano l’ultimo anello della catena e che invece si sta rivelando il primo nodo da sciogliere. Sul piatto c’è la questione della presidenza dei Quotidiani. I grandi soci, principalmente Cesare Geronzi (presidente di Mediobanca) e Giovanni Bazoli (presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa) avrebbero raggiunto l’accordo sulla sostituzione di Piergaetano Marchetti, ma sarebbero ancora in contrasto sulla candidatura di Giuseppe Rotelli, l’imprenditore della sanità lombarda che ha l’11% dei diritti di voto. Sui negoziati pesa come un macigno l’articolo pubblicato dal Corriere qualche giorno fa in cui si ricordava ai lettori, pur senza fare mai il nome del numero uno di Piazzetta Cuccia, che da un momento all’altro il ministro Scajola potrebbe sbloccare il regolamento sui requisiti di onorabilità per i vertici delle assicurazioni che bloccherebbe la strada a Geronzi su cui incombono antiche pendenze dei tempi di Banca Roma e Capitalia. Una mossa dietro la quale, secondo i maligni, ci sarebbe lo zampino di Bazoli.

La partita, stando alle indiscrezioni, sarebbe ancora aperta. Ma il nome di Cucchiani fatto ieri da MilanoFinanza lascia immaginare che il presidente di Mediobanca stia pensando di rinunciare al trasloco a Trieste. La sua rinucnia chiderebbe la partita per la presidenza di Mediobanca, dove si era inizialmente parlato di Marco Tronchetti Provera (che ha anche il 5% di Rcs) o di quella, nel nome della continuità, dell’attuale direttore generale Renato Pagliaro. Restano sullo sfondo gli umori della politica. A Milano si ragiona sulla nomina di Rotelli alla presidenza del Corsera, che non dispiacerebbe al premier Silvio Berlusconi, mentre a Roma si vocifera sulle riflessioni del ministro Giulio Tremonti, che sarebbe molto più interessato al destino di Mediobanca che a quello delle Generali.
 
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venerdì 12 marzo 2010

L’aereo costa, il manager va in treno

Giacca, cravatta, ventiquattr’ore e via a 300 chilometri orari. Non sono pirati della strada, ma i nuovi manager. Dirigenti, funzionari, capitani d’industria che per spostarsi preferiscono rimanere con i piedi per terra. I cieli, ovviamente, restano ancora affollati, ma da quando sui binari si viaggia veloci l’esercito dei “pendolari di lusso” si ingrossa giorno dopo giorno. E non solo per scelta. Moltissime imprese, complice anche la crisi che ha imposto una riduzione dei costi, hanno infatti negli ultimi mesi cambiato la politica aziendale sugli spostamenti di lavoro riducendo ai minimi termini o annullando del tutto i viaggi in aereo. In questa direzione si stanno muovendo gradualmente grandi gruppi come Sky Italia, Enel, Engineering, Poste e colossi del credito come Intesa Sanpaolo e Unicredit. Ma il fenomeno è ben più esteso. L’elenco delle società che si sono rivolte alle Fs per convenzioni e accordi, tanto per avere un’idea, è sterminato. Si tratta di 3.200 soggetti, tra aziende private ed enti pubblici. Compresi molti Comuni. Già, perché anche la Pa sta progressivamente abbandonando l’aereo che, con buona pace dei contribuenti, continua ancora a concedersi.

La maggior parte del traffico si concentra chiaramente sulla Roma-Milano, la tratta del business per eccellenza su cui ogni giorno decine e decine di manager fanno la spola per incontri d’affari e appuntamenti di lavoro. È qui che il fenomeno è più visibile. Da quando è partito il servizio che permette di percorrere la distanza in 3 ore, il 14 dicembre scorso, il Frecciarossa delle Ferrovie dello Stato ha trasportato circa il 28% di passeggeri in più rispetto allo stesso periodo dell’anno passato. Un traffico rubato principalmente alla nuova Alitalia. Come dimostrato anche dal fatto che l’incremento maggiore è stato registrato proprio dalle carrozze di prima classe, con picchi del 40%, dove normalmente viaggia la clientela business. Non è un caso che recentemente le Fs abbiano siglato un contratto con Telecom per garantire l’alta velocità non solo sui binari ma anche su Internet. Addirittura, stando a quanto dichiarato dai due ad, rispettivamente Mauro Moretti e Franco Bernabé, la rete wi-fi che sarà attivata sui Frecciarossa «permetterà connessioni venti volte più rapide di quelle analoghe di tutto il mondo». Con un costo che andrà dai 3 ai 10 euro per la seconda classe, mentre sarà incluso nel prezzo del biglietto per la prima.

Non solo, entro l’estate del 2011 l’intera flotta sarà equipaggiata per la visione di film, per servizi interattivi e giochi. Insomma, tutto quello che serve per convincere anche il manager più snob ad abbandonare l’aereo. La quota di chi lo ha già fatto è comunque consistente. Basti pensare che attualmente il 67% dei passeggeri che viaggiano sui Frecciarossa tra Roma e Milano appartiene al segmento business, mentre solo il 26% sale per vacanze o per altri motivi (il 7%). La migrazione dei passeggeri è ben visibile nei dati che riguardano le percentuali complessive di traffico in base al tipo di mezzo scelto. Sempre sulla Roma-Milano, il confronto è abbastanza indicativo. Prima dell’alta velocità la quota del treno era del 32%, mentre il 52% dei passeggeri preferiva l’aereo e il 16% l’auto. Oggi il rapporto è praticamente ribaltato. Un viaggiatore su due sceglie il binario, mentre soltanto il 40% è rimasto fedele all'aereo. Anche l’auto, tra patente a punti, leggi sull’alcol e limiti di velocità, ha perso molto fascino, attestandosi ad un 12%. Malgrado i risultati, Moretti è ancora convinto che il futuro sia “l’intermodalità”, ovvero la sinergia tra cielo e terra. «Il cittadino», ha spiegato ieri l’ad delle Fs, «potrà prendere un biglietto e in relazione all’ora del ritorno decidere se andare con lo stesso biglietto in aereo o in treno in maniera del tutto indifferente».Quanto costerà il biglietto, per ora, preferiamo non saperlo.

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giovedì 11 marzo 2010

Berlusconi sblocca gli incentivi: in arrivo 350 milioni

Tra il caos di liste, listini e conferenze stampa per le regionali Silvio Berlusconi ha trovato pure il tempo di mettere in riga i due ministri economici che da mesi duellano sul rinnovo degli incentivi. Fucile puntato, dopo lo slittamento di martedì scorso il premier ha convocato nel pomeriggio di ieri Giulio Tremonti e Claudio Scajola e li ha, per così dire, incoraggiati, ha trovare un’intesa in tempo utile per metterla sul tavolo della difficile campagna elettorale. Secondo quanto riferiscono fonti ministeriali, le risorse da destinare al decreto sarebbero intorno ai 300-350 milioni. I tecnici dei due ministeri avrebbero ricevuto mandato di lavorare sul testo da portare al Consiglio dei ministri la prossima settimana. Rispetto all’idea di prevedere un decreto solo sulle quantità, da modulare poi con successivo decreto, l’orientamento è ora quello di un provvedimento agile, 7-8 articoli, ma già comprensivo dell’indicazione dei settori cui indirizzare le risorse. Quanto al merito, restano in campo le misure individuate da Tremonti, sulla lotta all’evasione, la stretta sui paradisi e l’agevolazione della riscossione. A queste si aggiungeranno gli sgravi per le banche che hanno aderito alla moratoria per le pmi e gli interventi nei settori degli elettrodomestici, mobili e informatica.

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Finiti gli aiuti, la Germania tira il freno

La produzione riparte, ma forse non c’è molto da festeggiare. Il tonfo della Germania è infatti talmente forte da scuotere facilmente quel piccolo, seppure importante, +0,1% su base annua registrato dall’Istat a gennaio. Nello stesso mese, infatti, le esportazioni tedesche sono praticamente crollate, registrando un ribasso del 6,3% rispetto a dicembre 2009, quando l’indice era salito del 3,4%. Per avere un’idea dell’entità della frenata basti pensare che gli analisti si aspettavano un incremento dell’export dello 0,5%. Le cose sono andate un pochino meglio su base annua, con l’indice che ha segnato un rialzo dello 0,2%. Ma il surplus commerciale del Paese si è comunque quasi dimezzato a 8 miliardi dai precedenti 13,4 miliardi. Ancora più drastico, secondo i dati diffusi ieri dall’ufficio federale di statistica, il ridimensionamento del surplus corrente, che è sceso a 3,6 miliardi dai 19,9 miliardi di dicembre. Se a questo si aggiunge un aumento della produzione a gennaio dello 0,6% rispetto a previsioni che la davano abbondantemente sopra l’1%, il rischio che la locomotiva tedesca inizi a sentire gli effetti dello stop agli incentivi di Stato che hanno trainato l’economia nel 2009 è più che concreto.


Se così fosse, per noi non si preannuncia nulla di buono. La Germania resta infatti il principale partner commerciale dell’Italia sia in termini di esportazioni dal nostro Paese sia in termini di investimenti diretti in entrata. Per ora l’import tedesco tiene. Ma il crollo dell’export potrebbe essere il primo assaggio di un calo della domanda che avrebbe ripercussioni molto negative sull’Italia. Una doccia gelata per gli entusiasmi suscitati ieri da quello 0,1%. Che per quanto piccolo, come ha detto Claudio Scajola, rappresenta «il primo dato annuale positivo dall’aprile 2008». Anche l’analisi congiunturale (mese su mese) sembra giustificare l’ottimismo. A gennaio l’indice destagionalizzato è salito del 2,6% rispetto al -0,2% di dicembre (rivisto da -0,7%).

A riportare tutti con i piedi per terra ci pensa pure l’Ocse, che ieri ha snocciolato numeri e statistiche tutt’altro che incoraggianti. Ventesima su trenta per Pil pro capite, per effetto della crisi l’Italia rischia ora di scivolare agli ultimi posti della classifica se non interviene rapidamente su alcuni punti deboli, come la scarsa produttività e l’eccessiva pressione fiscale su lavoro e pensioni. Questo l’avvertimento lanciato dall’Organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico nel rapporto Obiettivo crescita 2010, secondo il quale gli effetti a lungo termine della crisi sul nostro sistema produttivo saranno molto più pesanti che altrove. L’Ocse quantifica il colpo in un taglio di 4,1 punti del Pil. Impatto superiore alla media dei Paesi membri, stimata a 3,9 punti di calo, ma soprattutto più alto di quello previsto per le principali economie dell’Unione europea (Francia -2,8, Gran Bretagna -2,9, Germania -3,9) e del mondo (Stati Uniti -2,4, Giappone -2,1).

Tra i principali handicap del nostro Paese, sottolinea l’Ocse, l’insufficiente produttività della manodopera e la pressione fiscale. Per rilanciare l’economia occorre dunque «ridurre i tassi marginali d’imposizione sul reddito e i contributi previdenziali, e ampliare il campo delle deduzioni sui costi della manodopera a livello di imposta regionale sulle attività produttive». Al messaggio rivolto a Giulio Tremonti si associa immediatamente Emma Marcegaglia, che chiede al governo di recuperare le risorse per finanziare lo sviluppo, anche attraverso un taglio delle tasse per famiglie e imprese. Confindustria non è comunque pessimista, Pur restando ribadendo che la ripresa sarà «lenta e graduale», l’ufficio studi di Viale dell’Astronomia sostiene che nel primo trimestre 2010, la variazione congiunturale acquisita della produzione industriale è pari a +2,6% (-0,6% nel quarto 2009). Se confermata, aggiungono gli esperti, farà da traino a un rimbalzo significativo del Pil, che avrà comunque difficoltà quest’anno a centrare il target dell’1%. Per quanto riguarda il 2009, l’Istat ha corretto in peggio le stime portando il crollo a -5,1% rispetto al precedente 4,9%.

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mercoledì 10 marzo 2010

Il magistrato nel 2007 torchiò Scaglia: "Parla che sei ricco, non un impiegato"

«Un povero impiegatuccio» che lotta «contro i mulini a vento». E per giunta con «la trattenuta fiscale alla fonte». Può sembrare strano, ora che i “draghi” e i “giganti” sono finiti dietro le sbarre, ma a dipingersi come un povero e tartassato Don Chisciotte è il sostituto procuratore di Roma, Giovanni Di Leo. E davanti a lui, tre anni fa, c’era proprio Silvio Scaglia, il fondatore di Fastweb da un paio di settimane detenuto a Rebibbia. È interessante rileggere i verbali di quell’interrogatorio, che si è tenuto al Tribunale di Roma il 13 marzo 2007, con l’inchiesta sulla maxi frode carosello partita da pochi mesi.


Chissà se Scaglia ci ha ripensato quando, alcuni giorni fa, si è ripresentato davanti alle stesse toghe e poi ha dichiarato che «la giustizia inglese è meglio di quella italiana». Chissà se gli è tornato alla mente il duro alterco di tre anni fa con i titolari della pubblica accusa (oltre a Di Leo era presente anche il pm Francesca Passaniti e un ufficiale di pg), il tentativo di spiegare gli aspetti tecnici delle operazioni incriminate, le incomprensioni e, alla fine, lo sfogo del magistrato.

L’atmosfera si surriscalda quando Scaglia tenta di spiegare che se i pm avessero chiesto alla società i dettagli sul traffico telefonico oggetto dell’indagine, Fastweb sarebbe stata in grado di fornire tutti gli elementi. Anche i numeri telefonici di chi avrebbe usufruito dei presunti servizi fittizi intorno ai quali le società coinvolte avrebbero effettuato la girandola di transazioni commerciali per evadere l’Iva. Di Leo già inizia ad irritarsi: «Se noi avessimo i numeri di telefono delle persone che chiamano per collegarsi ai siti porno, non avremmo neanche il processo». Poi, il crescendo: «Cioè, io attivo un’archiviazione se mi fornite questi dati degli utenti finali nel resto d’Europa, io questa cosa, glielo prometto, mi ci metto e la scrivo in non più di 35 minuti».

Scaglia torna a dire che l’atteggiamento della magistratura è stato sbagliato. E Di Leo torna all’attacco: «Non ci è stato fornito alcun numero di telefono, ma neanche un numero di centralino». Poi, di fronte alla frase di Scaglia, «ci siamo andati di mezzo tutti», il pm sbotta: «Allora si metta nei panni di noi, che siamo dei poveri impiegatucci, che si vedono lo stipendio già trattato alla fonte e non hanno altre cose, che vedono una persona del genere (il riferimento è al presunto direttore d’orchestra di tutta la truffa, Focarelli, ndr), che fa queste cose, e che le fa con il primo gestore telefonico in Italia e poi con voi... Perché c’è il vostro nome sui giornali, io non ci posso fare niente». La calma, malgrado lo sfogo, non ritorna. Ma il magistrato ci tiene a dire che non c’è alcun accanimento. «Non siamo partiti prevenuti», spiega a Scaglia. Anzi, prosegue, «siamo anche partiti con un notevole senso di responsabilità, perché visto il tipo di risposta che abbiamo avuto, dopo il 26 di novembre (del 2007, giorno della perquisizione in Fastweb, ndr) noi saremmo dovuti tornare, il giorno successivo, con un decreto di sequestro della struttura operativa, interrompendo tutto il traffico di Fastweb». Scaglia, prudentemente, lascia parlare il legale...

Un’operazione mediatico-finanziaria. È questo il sospetto di Scaglia, che nella trama ai danni di Fastweb trascina anche Repubblica. «Un incidente». Così viene definito nell’interrogatorio tenuto dal fondatore del gruppo di tlc nel marzo del 2007, di fronte ai pm titolari dell’inchiesta, l’articolo pubblicato il 23 gennaio dello stesso anno dal quotidiano romano. Nel servizio, a firma Giovanni Pons, si dava notizia per la prima volta della maxi inchiesta a carico dei vertici di Fastweb per false fatturazioni. «C’è fiducia da parte nostra in voi», dice Scaglia ai magistrati. Poi il manager aggiusta il tiro: «Ho più dei dubbi sul giornalista, sulla buonafede, sul fatto che abbia dei legami diversi». Buonafede o meno. L’articolista è sicuramente bene informato.

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Italcementi trasloca in Libia

Il bond da 2 miliardi non basta. Per sopravvivere alla crisi (che ha dimezzato gli utili a 71 milioni) il colosso dei Pesenti dovrà anche proseguire la dieta del 2009 che ha portato risparmi per 240 milioni di euro. A farne le spese saranno i lavoratori italiani. Presentando i conti dell’anno passato agli analisti il dg di Italcementi, Giovanni Ferrario, ha infatti annunciato un robusto piano di tagli nel nostro Paese. «La nostra strategia in Italia», ha detto, «è di ristrutturare. Abbiamo un programma in tre anni: ridurremo significativamente il nostro numero di stabilimenti». Ancora non è noto quali saranno gli impianti che Italcementi sacrificherà per «migliora l’efficienza». Attualmente il gruppo di Bergamo ha 17 cementerie a ciclo completo sparpagliate su tutto il territorio nazionale, da Trieste a Porto Empedocle. Complessivamente in Italia sono impiegati oltre 4mila dipendenti. Gli «eventuali esuberi», ha spiegato Ferrario, verranno gestiti attraverso «la cassa integrazione ordinaria, straordinaria e con lo stato di crisi. Useremo tutti gli strumenti a disposizione». Comunque, ha rassicurato, «non parliamo di grandi numeri: si tratta di piccole cifre, di cementerie molto piccole non più efficienti e quindi senza futuro. Le altre le riqualifichiamo: procederemo al revamping (trasformazione e ottimizzazione, ndr) di due società nel Nord Italia e di una al Sud».


In compenso, la società «considera seriamente di acquistare un paio di impianti già esistenti in Libia per lavorare per il mercato locale». In quel mercato, ha proseguito l’ad Carlo Pesenti, «come italiani siamo abbastanza privilegiati, speriamo di riuscire nell’operazione». La società, ha ricordato il manager, al mercato libico ci sta pensando «da tanto tempo: è un Paese che si integra molto bene nel nostro sistema Mediterraneo» considerando che il gruppo cementiero è già fortemente presente in Marocco e in Egitto.

Tutti i dettagli sulle prossime mosse saranno contenuto nel piano strategico che Italcementi presenterà a settembre nel corso di un investor day. Un lavoro che il gruppo sta mettendo a punto con l’aiuto dei consulenti di McKinsey. «La mia ambizione», ha detto Pesenti, «è arrivare con un piano strategico e non solo con un piano industriale. Il piano strategico è qualcosa di più, ha a che fare con l’organizzazione dell’azienda, con le priorità nella ricerca e sviluppo, le tecnologie e i trend macroeconomici. Stiamo facendo un ottimo lavoro».

Per ora si sa soltanto che per affrontare «un 2010 ancora difficile» Italcementi punta a realizzare nell’esercizio in corso 100 milioni in risparmi di costi, ad ottimizzare per 50 milioni la struttura del capitale circolante e a ridurre gli investimenti a 620 milioni dai 700 del 2009. Il gruppo si attende nel 2010 volumi di vendita «stabili o in leggero aumento», accompagnati da una «visione prudente» sull’andamento dei prezzi. Dai principali progetti in corso di realizzazione in Italia, Usa, India e Marocco sono attesi 50 milioni di euro in più a livello di margine operativo lordo.

Per quanto riguarda il programma di emissioni obbligazionarie da 2 miliardi la prima tranche verrà emessa molto probabilmente all’inizio della prossima settimana. Nei prossimi giorni, ha spiegato ancora Pesenti, partirà un roadshow che toccherà Milano, Londra, Parigi, Monaco e Francoforte. «Abbiamo già un overbooking di incontri con gli investitori», ha aggiunto il manager. Il bond servirà al gruppo per allungare le scadenze del debito e diversificare le fonti di finanziamento. Nell’ambito di questo progetto, verrà rifinanziata anche parte importante dell’esposizione della controllata Ciments Francais. L’operazione non prelude comunque alla fusione con la società francese, per la quale bisognerà attendere ancora. Alcuni degli ostacoli che hanno già impedito il progetto, ha spiegato l’ad, «sono ancora presenti».

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lunedì 8 marzo 2010

Gli ex risparmiatori di Alitalia vogliono l’indennizzo

Gli ex risparmiatori di Alitalia non mollano. Martedì prossimo al Tribunale di Roma si svolgerà l’udienza della causa civile e collettiva contro gli ex amministratori della compagnia di bandiera nel periodo che va dal 2000 al 2008. All’iniziativa, promossa da Consumatori associati, hanno aderito centinaia di piccoli azionisti e obbligazionisti della società che hanno rifiutato l’offerta del Tesoro. Nei dettagli, con il decreto anticrisi dello scorso anno il governo ha previsto un rimborso di 0,26 euro per ogni obbligazione (il 70,97% del valore nominale) e di 0,27 euro per ogni azione (il 50%). Risarcimento che non si tradurrà, però, in denaro contante ma in titoli di Stato di nuova emissione, senza cedola, con scadenza 31 dicembre 2012 e taglio minimo unitario di 1.000 euro.


Non solo, le assegnazioni di titoli pubblici non potranno superare i 100mila euro per ogni obbligazionista e i 50mila euro per azionista. Il che significa che resteranno a bocca asciutta tutte le sgr e le società di gestione dei fondi, che hanno in pancia ben più delle cifre stabilite dal Tesoro. Tanto è vero che complessivamente il governo ha stanziato circa 330 milioni di euro rispetto ai 270 milioni rappresentati dalle sole obbligazioni in mano ai risparmiatori (gli altri 445 milioni erano in possesso di Via XX Settembre) e ai 600 milioni di azioni detenuti da 40mila piccoli azionisti al momento della sospensione del titoli a Piazza Affari avvenuta nel giugno 2008.

Il termine per presentare le richieste è scaduto il 31 agosto 2009, ma i titoli di Stato verranno trasferiti soltanto a dicembre di quest’anno. Solo allora sarà possibile quantificare il livello di adesione. Stando a quanto sostiene Ernesto Fiorillo, presidente nazionale di Consumatori Associati, sarebbero moltissimi coloro che «ritengono i rimborsi del governo esigui e per nulla adeguati alle somme, spesso anche ingenti, che hanno perso gli azionisti e gli obbligazionisti per la cattiva gestione degli amministratori di Alitalia».

Nel mirino dei consumatori ci sono principalmente i super stipendi degli ex vertici. Come i 6 milioni di euro intascati da Giancarlo Cimoli tra il 2004 e l’inizio del 2007. Tra l’altro è stato sempre Cimoli nel 2005 ad allungare la vita dei cosiddetti Mengozzi bond, che in origine avevano rendimento lordo annuo del 2,9% e scadenza 22 luglio 2007 e poi 22 luglio 2010, con l’innalzamento del tasso d’interesse al 7,5%. L’azionista, ovvero il governo, si è invece messo al riparo da qualsiasi azione di responsabilità stabilendo per legge (sempre nel decreto anticrisi) che il ministero non può mai essere considerato come un imprenditore e non esercita direttamente alcuna forma di impresa.
 
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sabato 6 marzo 2010

Livio Ferruzzi: «Ve lo garantisco, mangiate già Ogm»

«Quando racconto agli agricoltori in Sudamerica o negli Stati Uniti che l’Italia vuole combattere i prodotti ogm mi prendono per matto». A parlare è Livio Ferruzzi, che con i Ferruzzi ha in comune non tanto il cognome (non è parente), quanto una vita passata al fianco della famiglia di Ravenna. Lui, al contrario, è nato ad Arborea, in provincia di Oristano, nel 1940, ma all’età di 33 anni dopo una laurea in Scienze agrarie, viene assunto dal patriarca e fondatore del gruppo, Serafino Ferruzzi, come assistente per tutto il comparto agricolo.


Oggi Livio Ferruzzi, vive a Beaufort, nel North Carolina, ed è amministratore delegato della Fersam, la holding di proprietà della figlia di Serafino, Alessandra, e del marito Carlo Sama, che negli anni di Tangentopoli finì travolto dalla bufera giudiziaria. Sotto la sua direzione c’è una delle più grandi proprietà dell’Argentina, 35mila ettari che Alessandra riacquistò quando i beni della famiglia furono posti in liquidazione. È qui che Livio Ferruzzi produce tonnellate e tonnellate di soia e mais rigorosamente transgenici.

Ma come, un italiano che punta sugli ogm?

«Guardi, sono circa 15 anni che nella nostra azienda coltiviamo mais e soia transgenici, come del resto fanno tutti. E non solo qui in Argentina. Anche le coltivazioni in Brasile, Paraguay, Urugay e, ovviamente Stati Uniti, sono ormai quasi al 100% ogm».

Da noi non ne vogliono sapere. Il ministro delle Politiche agricole, Luca Zaia, ha già annunciato che si opporrà in tutti i modi alla patata Amflora...

«Forse riuscirà ad impedire la coltivazione della patata della Basf, ma difficilmente potrà evitare che gli italiani mangino cibi geneticamente modificati».

Si spieghi meglio...

«Prendiamo il caso della soia. Se l’Europa volesse essere autosufficiente dovrebbe convertire tutta la produzione agricola attuale e coltivare solo soia».

E questo che significa?

«Significa che le tonnellate di prodotto importate dal Vecchio Continente arrivano principalmente da tre Paesi: Argentina, Brasile e Stati Uniti. E si tratta ovviamente di soia ogm, da cui deriva l’olio e soprattutto la farina, che tra le altre cose finisce nelle mangiatoie delle vacche da latte per fornire l’apporto di proteine che sarebbe impossibile fornire attraverso gli altri legumi».

Sta dicendo che mentre alziamo le barricate contro le coltivazioni ogm, i cibi transgenici sono già sulle nostre tavole?

«Non potrebbe essere altrimenti. Anche perché spesso l’ogm si coltiva pure dove è bandito. Fino a un po’ di anni fa in Brasile la coltivazione transgenica era vietata, ma gli agricoltori la facevano lo stesso di contrabbando per guadagnare di più. Perché i prodotti tradizionali sono chiaramente più costosi. Il risultato è che il 40% della presunta soia ogm free esportata dal Paese e comprata anche dall’Italia era geneticamente modificata».

Allora dobbiamo preoccuparci per la nostra salute?

«Quella è un’altra grande sciocchezza. In tutto il mondo gli ogm si consumano da decenni e le organizzazioni sanitarie e di controllo non hanno mai avuto nulla da ridire. Del resto è l’ unico modo per soddisfare una domanda sempre crescente di prodotti agricoli. Noi con gli ogm, che permettono non solo di abbassare i costi, ma anche di diminuire il controllo su insetti e parassiti, abbiamo raddoppiato gli ettari della soia da 4 a 8mila. Semmai bisogna preoccuparsi che l’Italia resti fuori dal mercato senza averne neanche i benefici».

Un po’ come succede con il nucleare?

«È esattamente lo stesso. Si fanno le crociate, si dice che il mais transgenico è il cibo di Frankenstein, ma alla fine gli ogm si mangiano lo stesso e senza alcun beneficio economico. Come l’energia acquistata dalle centrali atomiche a due passi dai confini italiani. Recuperare il terreno perduto, in entrambi i casi, sarà molto faticoso».

In Italia, però, anche gli agricoltori ostacolano gli ogm...

«I piccoli, forse, perché non hanno grandi ripercussioni sui costi e pensano di poter sopravvivere tranquillamente anche senza i vantaggi delle coltivazioni transgeniche. Ma deve essere chiaro che quelli di Coldiretti sono gli unici agricoltori al mondo ad essere contrari».
 
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venerdì 5 marzo 2010

Enel colora di verde la Borsa

La versione ufficiale, estorta dalla Consob spagnola dopo una girandola di indiscrezioni di stampa, è che Endesa «sta valutando insieme al suo azionista di riferimento la possibilità di creare un gruppo leader nelle rinnovabili per migliorare le sinergie del gruppo». La realtà è che Fulvio Conti vuole trasformare Enel Green Power in una corazzata prima dello sbarco in Borsa, sia a Milano che a Madrid, che potrebbe arrivare subito dopo l’estate. L’operazione ruota intorno agli asset iberici non ceduti ad Acciona nel momento dell’acquisizione di Endesa da parte dell’Enel. Si tratta di circa 800 Mw di potenza in impianti eolici a cui si aggiungerebbero i circa 500 Mw detenuti dal gruppo italiano nella joint venture Eufer (controllata al 50% da Enel e Gas Natural, attraverso Union Fenosa). Conti avrebbe già avviato le trattative per sciogliere la società. Stando a quanto riferiscono fonti vicine al dossier Gas Natural sarebbe aperta a qualsiasi opzione, anche la vendita del suo 50%.


Gli asset verrebbero poi conferiti in una newco controllata al 60% dall’Enel e al 40% da Endesa. La valorizzazione delle attività che verrebbero conferite dal gruppo spagnolo si aggira intorno ai 2,1 miliardi. Ai 500 Mw di Eufer, valutati 700 milioni, l’Enel aggiungerebbe poi risorse fresche, ancora da decidere le modalità, per 1,5 miliardi. Successivamente la nuova società dovrebbe confluire in Enel Green Power, che diventerà il marchio con cui presentarsi sui mercati internazionali. Nel polo dell’energia verde dell’Enel nato nel 2008 sono già confluite tutte le attività rinnovabili del gruppo: eolico, il solare, il geotermico e l’idroelettrico. Un blocco di asset che attualmente può già contare su 4.700 Mw di potenza in 15 Paesi. Con l’operazione allo studio di Conti i megawatt diventerebbero quasi 6mila.

Il dossier sarebbe già in fase avanzata, anche se al momento, hanno precisato da Endesa, «non c’è alcuna decisione definitiva». I tempi però stringono. Soprattutto se l’obiettivo è quello di sbarcare sui mercati azionari prima della fine dell’anno. A questo proposito Conti avrebbe già avviato un giro di consultazioni per la scelta degli advisor e delle possibile banche candidate per il consorzio di collocamento. In pole position ci sarebbe ancora Mediobanca, che era già stata individuata come consulente lo scorso anno per un tentativo di quotazione poi rientrato.

L’operazione fa comunque gola a molti. La valorizzazione del gruppo oscilla tra i 10 e i 13 miliardi, comprese le attività detenute in Spagna attraverso Eufer. Ancora da decidere la quota che finirà sul mercato, che non dovrebbe comunque essere superiore al 30% anche se in alcune occasione lo stesso Conti aveva ventilato l’ipotesi di scendere nel capitale di Enel green power fino al 51%. In ogni caso, attraverso il collocamento l’Enel rientrebbe ampiamente dell’investimento necessario all’operazione con Endesa e avrebbe anche un po’ di risorse per alleggerire il il peso del debito che dovrebbe scendere a 45 miliardi, da 51, entro la fine dell’anno.
 
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Lucchini non ci sta: «Ho perso l’azienda per colpa dei russi»

Niente chiacchiere e nessun dettaglio finanziario. Per decretare la fine dell’era Lucchini i russi si sono limitati a comunicare che la Severstal ha scalato completamente il gruppo siderurgico italiano attraverso l’acquisizione dell’ultimo 20,2% ancora in mano alla famiglia bresciana come quota di minoranza. Se i compratori hanno le bocche cucite, ben più abbondanti e pungenti sono invece le notizie che arrivano dai venditori. Notizie contenute in una lettera che lo stesso Giuseppe Lucchini, forzando il suo «abituale riserbo» ha inviato ai suoi dipendenti. Non un messaggio d’addio, ma una raffica di accuse contro gli ex soci russi che avrebbero dato il benservito agli storici proprietari del gruppo senza troppi convenevoli. «Ero a buon punto», scrive Lucchini, «nella creazione di un solido gruppo di investitori, quando purtroppo mi sono trovato di fronte ad una posizione dell’azionista di maggioranza che, avendo dichiarato di voler dismettere la sua partecipazione in tempi strettissimi, non mi ha permesso di proseguire nella ricerca di una soluzione nell’interesse primario dell’azienda».

L’imprenditore bresciano ricostruisce senza peli sulla lingua le tappe della vicenda che hanno portato alla perdita dell’impresa di famiglia. «Nel 2003-2004», si legge nella lettera, «ci si trovò a fronteggiare la parte finale di una difficile crisi» e fu così «che trovai nel gruppo russo Severstal un azionista con il quale stipulare un importante accordo. Cedere la leadership del gruppo fu per me nel 2005 una scelta dolorosa, ma in tal modo fu possibile immettere nelle casse della società una cospicua liquidità (circa 450 milioni di euro) con un contributo significativo anche della mia famiglia». L’operazione, spiega, diede risultati positivi nei successivi quattro anni ma nel 2009 si presentò «il peggiore anno mai vissuto dall’economia mondiale post bellica».

È a questo punto che Severstal ha dichiarato di volersi ritirare. Lucchini, «preoccupato di ciò», si è dunque «nuovamente impegnato personalmente a cercare una soluzione». «Ho perciò», racconta l’imprenditore, «coltivato numerosi contatti con il mondo finanziario, bancario e imprenditoriale». Quando Lucchini era «a un buon punto nella creazione di un solido gruppo d’investitori» i russi di Severstal avrebbero però stoppato l’operazione. «In pratica» , dice, «sono stato messo in condizione di dover accettare l’uscita dall'azionariato della Lucchini (peraltro a condizioni peggiori rispetto a quelle previste dai patti stipulati a suo tempo)». Aspra la conclusione: «Non posso nascondere un fondo di amarezza: in questo particolare frangente sono convinto avrei potuto giocare un ruolo importante per il futuro della realtà industriale che porta il nome della mia famiglia, realtà costruita sulla base di un disegno industriale da me impostato e definito negli anni '90 e tuttora in essere».
 
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giovedì 4 marzo 2010

L’arbitro delle liti in azienda per licenziare l’articolo 18

Inutile stare a spiegare che la norma era già prevista dal ddl Biagi, che il testo prevede mille garanzie per i lavoratori. Inutile precisare che non ci sarà alcuna obbligatorietà. Le elezioni sono troppo vicine e l’occasione per riaprire lo scontro sull’articolo 18 troppo ghiotta per poter essere lasciata sfuggire. Così, arrivati alla quarta lettura, Cgil e opposizione si sono improvvisamente accorti che nel ddl lavoro approvato ieri sera in via definitiva dal Senato (151 voti a favore, 83 contrari e 5 astenuti) ci sono passaggi che, dicono, rappresenterebbero un vero e proprio attacco del governo allo Statuto dei lavoratori. «In due anni di iter parlamentare nessuno ha mai gridato allo scandalo», ha sottolineato il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, «oggi, in vista delle elezioni, si grida alla lesa maestà». Al centro delle polemiche c’è la norma contenuta nell’articolo 31 della legge, che prevede la possibilità di affidare ad un arbitro, invece che ad un giudice, la risoluzione delle controversie fra lavoratori e imprese.


Possibilità che secondo alcuni garantirà il rispetto reale dei diritti previsti dallo statuto, ma che, secondo altri, aggirerebbe il dettato dell’articolo 18, che stabilisce il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa. In realtà, ha spiegato il ministro Sacconi, la legge prevede semplicemente che «in caso di controversia con il datore di lavoro, non solo per i licenziamenti, il lavoratore avrà davanti a sé due strade: il giudice ordinario oppure l’arbitrato». Non solo. L’arbitrato potrà essere applicato solo se il contratto collettivo nazionale di lavoro lo prevedrà. E non potrà essere applicato in caso di licenziamenti discriminatori. Quanto al rischio di imporre la strada dell’arbitrato per i contratti dei nuovi assunti, Sacconi ha chiarito che «servirà un certificatore che attesti la reale volontà delle parti».

Il provvedimento, sintetizza il relatore del ddl alla Camera, Giuliano Cazzola, non fa altro che «dare sviluppo alle procedure di composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro, rafforzando il diritto vivente, promuovendo l’iniziativa contrattuale delle parti sociali e rendendo i lavoratori responsabili e consapevoli delle proprie scelte».

Tutt’altra la versione della Cgil. «Siamo di fronte», ha tuonato il segretario Guglielmo Epifani, «ad una vera e propria controriforma delle basi del diritto del lavoro italiano, portando sostanzialmente ad un forma di arbitrato obbligatorio che farebbe saltare le forme tradizionali delle tutele contrattuali e della libertà del lavoratore di poter adire a queste scelte». Il sindacato, a questo punto, non esclude un ricorso sulla legittimità costituzionale del provvedimento. Iniziativa che potrebbe non essere sottoscritta dalle altre sigle. «Agitare fantasmi, come l’abolizione implicita dell’articolo 18 non serve, né occorre assumere posizioni allarmistiche che confondono i lavoratori», è il giudizio del segretario confederale della Cisl, Giorgio Santini. Mentre per l’Ugl «anche se la legge introduce modifiche rilevanti alla procedura del diritto del lavoro, attraverso la contrattazione collettiva sarà comunque possibile innalzare garanzie e tutele a vantaggio dei lavoratori». Durissima e concorde, invece, la contestazione da parte di Pd e Idv, che parlano di «legge sciagurata» che «cancella 100 anni di lotte sindacali».
 
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Tiraboschi promuove l'arbitrato: «I lavoratori sono più tutelati»

«Polemiche inutili. Un modo pericoloso di ragionare. Un linguaggio che serve solo a creare un clima di scontro». Non usa mezzi termini Michele Tiraboschi, che la legge finita sotto accusa per il presunto attacco all’art. 18 l’ ha studiata fin nei minimi dettagli. E la promuove a pieni voti. Forse non piacerà a chi in questi giorni sta tentando di separare il provvedimento dalle idee del giuslavorista ucciso dalle Br, ma Tiraboschi oltre che docente di Diritto del Lavoro è anche direttore scientifico della Fondazione Marco Biagi presso l’università di Modena e Reggio Emilia.


Perché tanta preoccupazione, professore?

Ho difficoltà a capire. Soprattutto trovo sorprendenti gli appelli politici provenienti da alcuni colleghi che fino a pochi mesi fa sponsorizzavano e sostenevano l’importanza degli arbitrati nei contenziosi tra lavoratori e imprese.

Sta dicendo che gli allarmi sull’aggiramento dell’articolo 18 sono pretestuosi?

Intanto bisogna dire che si sta guardando la pagliuzza in un provvedimento profondamente importante e innovativo che interviene su moltissimi aspetti come l’apprendistato, il lavoro delle donne, gli ammortizzatori sociali e i lavori usuranti. Al suo interno ci sono inoltre strumenti essenziali per riattivare il mercato del lavoro.

Ma sulla pagliuzza le critiche sono fondate o no?

Sull’aspetto degli arbitrati, la legge introduce maggiore effettività e più tutele per i lavoratori e maggiori certezze per le imprese. Fa in modo che ci sia più trasparenza ed equità nei contratti e un contatto più diretto tra dipendente e datore di lavoro.

La Cgil dice che si impedisce al lavoratore di seguire le vie legali in caso di licenziamento senza giusta causa...

La realtà è che la norma è strutturata in maniera tale da restare lettera morta senza che ci sia il consenso delle parti ad ogni livello. In primo luogo per diventare operativa la legge prevede che imprese e sindacati stabiliscano il perimetro dell’applicazione all’interno dei contratti collettivi nazionali. In altre parole, per quali contenziosi sarà possibile scegliere la strada dell’arbitrato in alternativa a quella del tribunale. Anche in questo caso, poi, la clausola resterà volontaria. Ogni lavoratore potrà decidere se inserire nel contratto individuale la possibilità di ricorrere ad un arbitro per dirimere il contenzioso e la volontà verrà vagliata da apposite commissioni che certificheranno la scelta evitando il rischio di intromissioni o pressioni da parte dell’azienda.

Non c’è il rischio che l’arbitrato sia meno efficace del giudice?

Al contrario. Gli arbitri, che saranno scelti nel mondo accademico, in quello delle associazioni, delle rappresentanze territoriali e sindacali, negli enti bilaterali, avranno una conoscenza molto più diretta e approfondita delle tematiche relative al mondo del lavoro e soprattutto arriveranno ad una composizione del contenzioso in tempi enormemente più brevi di quelli della giustizia civile, che per giungere ad una sentenza definitiva può impiegare anche 8 anni. L’arbitrato, come del resto avviene da tempo in tutti i Paesi moderni, è l’unico strumento in grado di garantire la certezza del diritto nell’interesse reciproco delle parti.
 
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Con gli Ogm la resa aumenta del 30%

Il tubero manipolato non passerà i confini nazionali. La dichiarazione di guerra ufficiale è arrivata ieri da Luca Zaia. «L’Italia», ha detto il ministro delle Politiche agricole, «chiederà la clausola di salvaguardia per bloccare la diffusione della patata Amflora geneticamente modificata e di tre tipi di mais transgenici autorizzati dalla Commissione europea». «Attiveremo tutte le procedure, come previsto dal regolamento europeo», ha proseguito Zaia, «questo significa bloccare la commercializzazione e la coltivazione, qualora ciò avvenisse, della patata Amflora». Il ministro, per chi avesse ancora dei dubbi, ha poi ribadito la sua posizione di «totale e netta contrarietà» sugli ogm e ha annunciato che farà il possibile per evitare una “minaccia” che, a suo giudizio, non riguarda solo la nostra salute, ma anche la nostra tradizione. Tutti contenti? Non proprio. Se Coldiretti e Cia hanno subito alzato le barricate contro gli ogm, diversa è la posizione di Confagricoltura, che invece i vegetali geneticamente modificati li coltiverebbe eccome. E le motivazioni non sono affatto ideologiche. Secondo l’organizzazione, che da sola rappresenta quasi la metà dei terreni agricoli del Paese, si tratta di restare o no sul mercato. A dimostrarlo, i numeri: dall’introduzione sui mercati mondiali del mais Ogm resistente alla piralide ad oggi, il valore del mais italiano è infatti precipitato da 27 a 13 euro al quintale; negli Usa invece il prezzo è rimasto pressoché invariato, a fronte di un aumento delle rese di circa il 30% determinato proprio dagli ogm. Dato, quest’ultimo, certificato dall’Istituto nazionale della ricerca per l’alimentazione (Inran). Non solo: notevole sarebbe anche il risparmio sui fitofarmaci, 120 euro per ettaro, a fronte di un maggior costo delle sementi (76 euro). Su queste basi, secondo i calcoli effettuati da Confagricoltura, si determinerebbe un aumento del reddito di oltre 266 euro per ettaro che, moltiplicato per oltre un milione di ettari, porterebbe a un valore aggiunto di 280 milioni di euro. «È demagogico e semplicistico - conclude Confagricoltura - gridare no quando in gioco c’è la sopravvivenza di un settore dell’economia nazionale che lo scorso anno ha registrato perdite economiche doppie della media europea». Quanto alle colture tipiche, secondo alcuni esperti, gli ogm non porterebbero affatto all’estinzione, ma anzi le preserverebbero dalla scomparsa, perché le rendono più resistenti Il pomodoro San Marzano non ogm, tanto per fare un esempio, è fortemente minacciato dalla virosi che ne decreterà la scomparsa.

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mercoledì 3 marzo 2010

L’Europa apparecchia la patata Ogm

Il giudizio è pressoché unanime, dall’Idv fino alla Lega, passando per tutto quello che c’è in mezzo: una decisione sciagurata. Ci voleva una patata per ricompattare gli schieramenti. A compiere il miracolo, a pochi giorni dall’appuntamento rovente delle elezioni regionali, non è un tubero qualsiasi, ma la patata transgenica Amflora, realizzata dalla multinazionale Basf, che ieri ha ricevuto uno storico via libera dalla Commissione europea. Dopo 12 anni di moratoria sui prodotti geneticamente modificati, Bruxelles ha autorizzato la coltivazione di Amflora sia a fini industriali (per la produzione di carta) sia per l’utilizzo dei sottoprodotti destinati all’alimentazione degli animali.


Apriti cielo. Immediata la levata di scudi di tutto l’arco parlamentare, delle associazioni ambientaliste, degli agricoltori e dei consumatori. L’opposizione chiede al governo di attivarsi con urgenza per garantire che la diavoleria genetica non metta piede sul suolo nazionale, la Coldiretti e la Cia spiegano che grazie agli ogm la fame nel mondo è aumentata e la produzione di qualità italiana è destinata a soccombere, i consumatori denunciano lo strapotere delle multinazionali mentre gli ambientalisti presagiscono gravi conseguenze per la salute dell’uomo. La musica non cambia dalle parti della maggioranza e di Palazzo Chigi, dove il ministro delle Politiche agricole, Luca Zaia, si dice addirittura pronto a sostenere un referendum popolare per respingere oltre frontiera la temibile patata hi-tech. Assolutamente bipartisan anche il no che arriva dall’Europarlamento, dove il tubero ogm sembra non piacere a nessuno.

L’unica voce politica fuori dal coro è quella di Benedetto Della Vedova, esponente del Pdl, ex radicale, finiano, ma soprattutto liberale. Accanto a lui, scende in campo anche Confagricoltura, secondo la quale la decisione della Ue, «apre una finestra di possibilità nuove per l’agricoltura in Europa». Positivo, ovviamente, il commento di Assobiotec, l’associazione nazionale per lo viluppo delle biotecnologie che fa parte di Federchimica. «Un deciso passo avanti dopo 12 anni di attesa, che hanno fortemente penalizzato la ricerca agrobiotecnologica europea, a causa di una lunga moratoria che ha congelato l’approvazione di nuove varietà vegetali geneticamente modificate», spiega il presidente Roberto Gradnik. Un sostegno, a sorpresa, arriva anche dal Vaticano. Il cancelliere della Pontificia accademia per le scienze, monsignor Marcelo Sanchez Sorondo, a Cuba per un vertice sui problemi dell’economia nella globalizzazione, ha espresso l’approvazione agli ogm, se servono per combattere la fame nel mondo.

In realtà, la Amflora non è il primo ogm che ottiene il diritto di cittadinanza nel Vecchio Continente. Nel 1998 era infatti stata autorizzata la coltivazione del mais Monsanto 810. A cui ora si affiancheranno altri tre nuovi mais, di cui Bruxelles ha dato il via libera ieri, seppure limitato all’importazione e alla trasformazione per produrre alimenti e mangimi.

Per quanto riguarda la patata, gli esperti sono già al lavoro per le contromosse. Fonti comunitarie ricordano che i Paesi membri che fossero contrari alla patata transgenica Amflora della Basf o di un altro qualsiasi ogm, possono fare appello alla «clausola di salvaguardia» per impedire la coltivazione all’interno del territorio nazionale. Tale strumento è già stato utilizzato da Francia, Germania, Austria, Lussemburgo, Ungheria e Grecia per stoppare il Monsanto. Già hanno aperto le porte ad Amflora, invece, Repubblica Ceca, Germania, Olanda e Svezia.
 
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