giovedì 30 settembre 2010

Tremonti pensa positivo. Ma parte il pressing Ue

Arriva in sordina il nuovo Dpef, portato sul tavolo del Consiglio dei ministri a poche ore dall’attesissimo voto di fiducia alla Camera (finito con 342 voti favorevoli) sulle dichiarazioni programmatiche di Silvio Berlusconi. Ma è solo una coincidenza. I numeri sullo stato dell’economia messi nero su bianco da Giulio Tremonti nella Dfp (la Decisione di finanza pubblica che ha sostituito il Dpef) non disegnano infatti scenari preoccupanti, previsioni da tenere lontano dei riflettori. Anzi, il titolare di Via XX Settembre prosegue dritto per la sua strada, confermando sostanzialmente le stime già elaborate a maggio nella Relazione unificata (Ruef). Il che significa, in sintesi, che salvo sorprese non ci sono all’orizzonte interventi correttivi o manovrine aggiuntive. Come del resto sempre smentito categoricamente da Tremonti.

sabato 25 settembre 2010

Il lamento di Confindustria: «Siamo in crisi come gli altri»

L’Italia cresce troppo poco. E, soprattutto, meno degli altri. Il resto sono chiacchiere o, peggio, bugie. Non è la prima volta che Emma Marcegaglia lancia l’allarme sulle difficoltà del nostro Paese a rialzarsi dalla crisi. Sono settimane che il presidente di Confindustria pungola, stimola, incalza. Che invita il governo ad uscire dal pantano delle beghe politiche e a riprendere in mano l’agenda delle riforme per rilanciare crescita e occupazione. Questa volta, però, la Marcegaglia supera il confine delle circonlocuzioni e delle metafore e va dritta al punto. Palazzo Chigi, è il senso dell’affondo, la smetta di raccontare frottole. «Il peggio è alle spalle», premette, «e probabilmente non rietreremo, a livello nazionale ma anche internazionale, in una seconda recessione». Ma «quando si dice che siamo andati meglio di altri Paesi», tuona di fronte alla platea degli industriali toscani dove poco dopo il ministro Renato Brunetta ribadirà l’ottimismo governativo, «non è vero, siamo stati fortemente colpiti dalla crisi» e ne stiamo uscendo «con una capacità di crescita inferiore alla media europea». Se il messaggio non fosse arrivato a destinazione, aggiunge: «I problemi dell’occupazione non attendono i passaggi di parlamentari da una parte all’altra, pretendono risposte serie e immediate».

venerdì 24 settembre 2010

I treni veloci di Bombardier valgono 7 miliardi

Sette miliardi di euro entro il 2012. È questo il bottino che Bombardier Transportation pensa di portare a casa attraverso contratti “ad alta velocità” sparsi in mezzo mondo. Una cifra enorme per un gruppo che ha chiuso il 2010 con 10 miliardi di ricavi. Si tratta di oltre 300 treni che il colosso canadese dei trasporti dovrebbe piazzare a partire da quest’anno. Nel secondo trimestre dell’esercizio 2011 gli ordini sono già a quota 4,3 miliardi, con 2 miliardi di ricavi. La commessa più consistente è proprio quella italiana, in collaborazione con AnsaldoBreda, per la fornitura di 50 treni V300Zefiro alle Ferrovie dello Stato. Contratto per ora appeso al ricorso della Alstom al Tar. Ma tra i vincitori della gara c’è grande ottimismo.
Ieri, presentando alla Fiera di Berlino Innotrans le strategie del gruppo, anche il presidente di Bombardier Transportation, André Navarri, si è detto “molto fiducioso” di una soluzione positiva. Anche perché, ha proseguito, “abbiamo presentato l'offerta migliore su tutti i punti richiesti”. Ma l'Italia non è l'unico mercato dell'alta velocità nel mirino dei canadesi. Oltre ai 50 in Italia, Bombardier ha in corso trattative per 12 treni in Cina, 120 in Germania, 30 in Inghilterra, 36 (più altri 65 possibili) in Francia, 20 in Brasile, 12 in Portogallo, 8 (più 12) in Spagna e 145 negli Stati Uniti. Tutte macchine in grado di andare da un minimo di 250 fino a sfiorare i 400 chilometri orari. Veri e propri siluri con cui Bombardier punta a conquistare un mercato che sembra avere ormai spiccato il volo. Le rilevazioni sul 2009 dimostrano che il settore è cresciuto del 135% rispetto alla crescita registrata nel triennio 2006/2008, più del doppio del dato medio dei sette anni precedenti.
Per i prossimi anni si prevede una crescita ad un tasso molto superiore, tanto da arrivare, rispetto ai 10mila chilometri di binari ad alta velocità nel 2009, addirittura a 70mila chilometri di linee veloci nel mondo entro il 2025. In particolare 17.500 chilometri dovrebbero svilupparsi soltanto in Europa, 2mila negli Stati Uniti e 500 in Brasile. Faraonico il progetto della Cina, che prevede entro il 2025 di arrivare a 50mila chilometri di linee ad alta velocità.
E sul mercato del Dragone Bombardier è in prima linea col suo Zefiro, treno della stessa famiglia di quello che, giudici permettendo, dovrebbe circolare in Italia sotto le insegne delle Fs. In Cina il gruppo canadese ha venduto i primi 40 Zefiro 250 nel 2007. E altri 40 sono stati ordinati quest'anno. Sono invece 80 gli Zefiro 380 superveloci venduti sempre al governo cinese. In tutto 160 treni, che potrebbero arrivare a 210 con la commessa italiana. Quest’ultima costituirà il biglietto da visita per l’Europa.  Il V300Zefiro è infatti flessibile sia dentro che fuori. Internamente, la struttra a tubo aperto consente di riconfigurare velocemente posti e spazi per adattarsi ad ogni esigenza. Esternamente, il treno è predisposto per il servizio transfrontaliero dall’Italia o direttamente sui corridoi europei ad alta velocità. Può infatti operare sotto i quattro differenti tipi di alimentazione europei ed è predisposto per l’installazione di  differenti sistemi di segnalamento.

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Moretti fa causa ai francesi per lo stop all’alta velocità

 Il treno è avveniristico e affusolato. Vola sui binari a 400 chilometri orari e può essere smontato e rimontato internamente in poco tempo per adattarsi alle diverse esigenze di utilizzo. Ma ieri, al salone tedesco Innotrans, la più grande fiera mondiale del settore dei trasporti, non è stato il gioiellino targato AnsaldoBreda (Finmeccanica) e Bombardier a tenere banco. Malgrado il fascino del nuovo V300 Zefiro, i riflettori berlinesi erano tutti puntati sullo scontro a distanza con i francesi di Alstom, il cui ricorso al Tar del Lazio ha congelato la maxi gara da 1,56 miliardi indetta dalle Fs per la fornitura di 50 treni superveloci. Sulla fusoliera dello Zefiro c’è già il marchio Fs, ma per sapere se viaggerà effettivamente sui binari italiani bisognerà aspettare il 29, quando i giudici si esprimeranno sulla sospensiva. Uno sgambetto. Nessuno lo dice, ma è questo il sospetto che trapela dalle parole durissime di Mauro Moretti, che è pronto a chiedere un robusto risarcimento (si parla di centinaia di milioni di euro) per i «danni gravi e irreparabili» dovuti a ritardi che rischiano di far «mancare all’azienda l’appuntamento col mercato».
Nella circostanza si potrebbe configurare anche un danno erariale, visto che, spiega il manager, «l’azienda è anche sottoposta alla giustizia contabile». La convinzione dell’ad delle Fs è che il Tar, alla fine, rigetti l’istanza, perché la gara si è svolta in maniera assolutamente regolare. Ma non è questo il punto. Al di là della decisione dei giudici, Moretti vuole  verificare se ci sia stata della “malafede” nell’iniziativa di Alstom. La lista dei moventi è lunga. Intanto, ricorda lo stesso Moretti, i francesi sono legati al principale concorrente privato sull’alta velocità.  Alstom, infatti, fornirà i 25 treni Italo  con cui Luca Cordero di Montezemolo  costituirà la flotta della sua Ntv (dove  le ferrovie francesi Sncf sono nel capitale con il 20%). Un progetto che partirà alla fine del 2011 sulle tratte italiane  e che  potrebbe essere favorito dall’intoppo delle Fs sullo Zefiro. Ma tra le questioni in sospeso ci sono anche pesanti penali che l’azienda francese potrebbe dover pagare per i  problemi che si sono verificati su alcuni modelli di treni regionali  forniti alle Ferrovie dello Stato.
Immediata la replica di Alstom, che ha accusato Moretti di avere trasformato la cosa in una questione personale. Quanto al ricorso, ha spiegato il presidente Philippe Mellier, «si tratta di  fatti, non di sogni. Le nostre obiezioni sono fondate e accetteremo serenamente il verdetto dei giudici». Controreplica: «Siamo un’azienda che persegue solo il business senza tener conto di amicizie o inimicizie», fanno sapere fonti vicine all’ad.
Comunque andrà il ricorso, sarà difficile che i treni superveloci potranno essere firmati da Alstom. L’ad fa capire che se il Tar dovesse bocciare la gara, non ci sarà alcun bis. «A quel punto apriremo una trattativa privata», spiega:  «Non possiamo pagare più di trenta milioni per quel treno». Come dire: per i 35 offerti da Alstom non c’è   possibilità. Un’altra certezza è che la vicenda si andrà ad aggiungere agli altri contenziosi già aperti con i cugini d’Oltralpe. Per certi versi, c’entra sempre Montezemolo. Il quale, come ricorda Moretti, «ha solo i francesi di Sncf come partner industriale». Per il resto,  «tutti i i finanziamenti fanno capo ad un’unica banca». Che è Intesa Sanpaolo. A fronte dell’ingresso dei francesi, Moretti continua a ricevere porte sbattute in faccia. Da oltre un anno sta cercando di sbarcare   sulla tratta Torino-Lione, ma ogni volta le autorità d’Oltralpe si inventano qualcosa di nuovo. Risultato: le Fs non hanno ancora neanche potuto avviare la sperimentazione dei treni. «Altro che liberalizzazioni», sbotta Moretti, «a parole sono tutti bravi. Poi quando si va sul concreto si scopre che solo da noi il mercato si è aperto».
Moretti ribadisce che il futuro è sul mercato delle grandi rotte europee. L’opposto, dice sorridendo, di Alitalia, «che ha preso “rottine” interne con valore più politico che economico».

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Ripresa senza lavoro. Più licenziati che assunti

Ripresa senza lavoro. È questo l’ossimoro che spaventa il Vecchio continente, dove i segnali di ripartenza dell’economia sembrano del tutto slegati dalle prospettive di crescita dell’occupazione. Non fa eccezione l’Italia, che pur restando molto al di sotto della media Ue (disoccupazione all’8,4% contro il 10% dell’Eurozona) non riesce a frenare l’emorragia di posti di lavoro. Secondo gli ottimisti, si tratta di una normale asimmetria temporale tra crescita economica e ripartenza delle assunzioni. Punta l’indice, invece, sul deficit di produttività Confindustria, che stima a fine 2010 un tasso di disoccupazione in salita all’8,7% e al 9,3 nel 2011.  Lo stesso Giulio Tremonti ieri ha ammesso che l’Italia, pur non essendo a rischio sul fronte dei conti pubblici e delle speculazioni finanziarie, ha un problema di crescita. «Dobbiamo fare di più per lo sviluppo», ha detto il ministro dell’Economia, intervenendo alla festa del Pdl a Cortina.
I numeri, per ora, non danno molto conforto. A luglio, secondo i dati diffusi ieri dalla Cisl, gli occupati si sono ridotti di 18mila unità, lo 0,1% rispetto al mese precedente, ma hanno toccato quota 172 mila rispetto a luglio 2009, lo 0,7% in meno. Uno scenario preoccupante, per il sindacato guidato da Raffaele Bonanni, che chiede al governo di mettere il tema occupazione al centro dell’agenda politica. La ricetta sarebbe quella di incentivare le nuove assunzioni, attraverso la valorizzazione dell’apprendistato come primo contratto per i giovani, il rafforzamento del part time e del credito d’imposta per i contratti al Sud.
Previsione fosche anche quelle arrivate, sempre ieri, dalla Cgia di Mestre.  Da Torino e Milano a Palermo, passando per Roma e Napoli: nel 2010, secondo l’associazione di artigiani e piccole imprese, in tutte le province italiane, saranno più i lavoratori licenziati che i nuovi assunti. Con situazioni particolarmente preoccupanti nei grandi capoluoghi del Mezzogiorno, che già nel 2009 registrano un tasso di disoccupazione a due cifre e con segnali di altrettanta sofferenza anche nelle roccaforti dell’industria manifatturiera del Nord.
La prospettiva è che a fine anno i senza lavoro potrebbero sfiorare quota 2.200.000 unità. «Nonostante i timidi segnali di ripresa registrati in questi ultimi mesi, gli effetti della crisi economica esplosa negli anni scorsi continuerà a far crescere l’esercito dei senza lavoro», argomenta la Cgia che ha condotto l’indagine mettendo a confronto il tasso di disoccupazione delle province con le previsioni occupazionali fatte dagli imprenditori italiani nell’indagine conoscitiva elaborata da Excelsior-Unioncamere. «A fronte di 802.160 nuove assunzioni previste nel 2010», dice Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia di Mestre, «sono ipotizzati, sempre quest’anno, anche 980.550 licenziamenti. Pertanto, il saldo sarà pari a meno 178.390». La Cgia, a dire il vero, dimentica di sottolineare che, pur a fronte di un segno meno, il numero di assunzioni previste è superiore di 20mila unità rispetto al 2009 e che lo scorso anno, sempre in base ai dati Excelsior-Unioncamere, il saldo era ben più negativo, a meno 213mila unità.
Detto questo, il panorama industriale italiano non offre molti segnali incoraggianti. A partire dalle grandi aziende. Basti pensare al piano di 4.700 esuberi che Unicredit sta concordando in queste settimane con i sindacati, oppure all’accordo già raggiunto in Telecom per la messa in mobilità di 3.900 lavoratori.
Un altro colpo all’occupazione potrebbe arrivare da Fincantieri. Secondo la bozza circolata in questi giorni il piano di ristrutturazione della società conterebbe indicazioni per 2.500 esuberi in Italia. “Solo” 500, sono invece i lavoratori che rischiano il posto a Lecce, dove la multinazionale British American Tobacco (Bat), che ha rilevato i nostri tabacchi, intende chiudere gli impianti e delocalizzare la produzione.
Numeri più piccoli, ma sempre significativi, sono quelli su cui si sta trattando da alcune settimane a Treviso, dove la PepsiCo ha deciso di spostare la produzione di Gatorade e Lipton Ice Tea, mettendo a rischio circa 130 posti di lavoro.
Molti di più sono gli operai che potrebbero finire in mezzo alla strada per la ristrutturazione dell’azienda di abbigliamento intimo La Perla, che a Bologna prevede il licenziamento di 335 lavoratori su 665 dipendenti. Contemporaneamente, La Perla, prevede il taglio di 100 posti a San Piero in Bagno, in Romagna, e di altri 81, a Roseto degli Abruzzi, dove lo stabilimento chiuderà i battenti.
Finirà invece in Procura la lite tra sindacati e commissario liquidatore del Consorzio di Bacino di Napoli-Caserta, che ha avviato la procedura per mettere fuori dall’ente 424 lavoratori.
Ancora da scrivere, infine, il futuro dei 1.400 lavoratori dello stabilimento di Termini Imerese, dove Fiat chiuderà la produzione alla fine del 2011. Il prossimo appuntamento per verificare la presenza di candidati per la riconversione industriale dell’impianto si terrà martedì prossimo al ministero dello Sviluppo.

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sabato 18 settembre 2010

Romani fa ripartire la rete ultraveloce. Ma l’accordo è lontano

Eppur si muove. Dopo le tensioni dei giorni scorsi qualcosa sembra sbloccarsi sul fronte della banda ultra larga, la cosiddetta Rete di nuova generazione (Ngn). Dal tavolo del viceministro allo Sviluppo con delega alle Comunicazioni, Paolo Romani, sarebbe uscito un accordo di massima che potrebbe rappresentare il punto di partenza per un’intesa fra i gestori. Il condizionale è d’obbligo, perché il passo in avanti arriva dopo dieci giorni di scontri all’arma bianca culminati con l’uscita degli operatori alternativi (Fastweb, Wind, Vodafone, Bt, Aiip, Teletu, Tiscali e Welcome Italia) dal comitato Ngn voluto dall’Agcom. Una rottura provocata dalla diffusione di un documento sulle linee guida per la nuova rete che, è l’accusa, avrebbe riportato solo le posizioni di Telecom senza tener conto dei concorrenti.
Negli stessi giorni l’autorità per le Tlc ha varato un contestatissimo aumento del canone (unbundling) che gli operatori alternativi devono pagare per utilizzare la rete in rame dell’ex monopolista. Decisione che contrasterebbe con il trend europeo di diminuzione dei costi e che, aumentando la redditività della vecchia rete, rischia di rendere meno allettante per Telecom investire sulla nuova. A far alzare un altro po’ la temperatura ci ha poi pensato la Commissione europea, che nei giorni scorsi ha fatto trapelare  indiscrezioni sulle direttive che saranno pubblicate lunedì proprio in materia di rete di nuova generazione.
È questo il clima in cui si è aperto il tavolo col ministro. Una sessione tecnica, quella di ieri mattina, su cui Romani puntava proprio per superare le distanze e i dissapori delle ultime settimane. E le speranze non sono state disattese. Il vertice, al quale hanno partecipato tutti i duellanti, ha in sostanza definito il modello infrastrutturale di base, vale a dire come organizzare cavidotti, fibre ottiche spente, collegamenti verticali, permutatori ottici e collegamenti ottici per stazioni radio base, che «dovrà essere punto di riferimento dell’attività che governo, Enti locali e operatori prevedono di sviluppare congiuntamente».
Di sicuro, rispetto alla guerriglia che si era aperta, arrivare a mettere nero su bianco almeno un modello infrastrutturale condiviso è già molto. Ma il risultato è stato possibile solo grazie ad un rinvio dei nodi più spinosi. In primo luogo quello dell’architettura della rete. Il modello condiviso si può infatti definire “neutrale”, ovvero in grado di supportare sia la modalità “Gpon” che quella punto-punto. La prima, tanto per intendersi, è quella su cui punta Telecom, anche perché comporta molti risparmi per chi ha già il controllo della rete in rame. La seconda è quella preferita dagli operatori alternativi, che costa di più in fase di avvio ma è più remunerativa in seguito. Le differenze tra le due modalità non sono irrilevanti. Il punto-punto è del tutto aperto alla concorrenza, l’altro no. Se l’Ngn italiana dovesse essere in Gpon, infatti, nell’immediato i concorrenti privi di fibra propria potrebbero accedervi solo in modalità bitstream, con profili di servizio e velocità finali decise da Telecom. Non sarebbe possibile l’unbundling, cosa che  invece sembra stare molto a cuore anche alla Ue.
Pensare che sia scoppiata la pace, insomma, rischia di essere prematuro. Anche perché l’ex monopolista, spiega una fonte che segue la trattativa, “procede dritto sul Gpon e non ha alcuna intenzione di scendere a patti”. E se Bruxelles dovesse confermare l’aumento dell’unbundling, prosegue, “piazzerà un macigno sulla strada della Ngn”. In effetti, conti alla mano, la decisione peserà per circa 200 milioni l’anno sulle spalle degli operatori alternativi. Soldi che inevitabilmente andranno a intaccare il fondo da 2,5 miliardi previsto per lo sviluppo delle banda ultraveloce.
La partita, dunque, è ancora aperta. Il passo successivo sarà l’avvio, la prossima settimana, tramite una consultazione pubblica, di un censimento delle infrastrutture in fibra ottica presenti nel Paese e dei relativi piani di investimento per lo sviluppo delle stesse nei prossimi tre anni. Soddisfatto Romani, che ha ringraziato «tutti gli operatori che stanno contribuendo al progetto con grande professionalità e straordinaria disponibilità». Positivo anche il commento del presidente dell’Autorità, Corrado Calabrò, secondo il quale «poter disporre di un modello condiviso non può che agevolare il percorso di definizione delle nuove regole che l’Agcom si accinge a varare».

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I treni di Moretti restano in utile. Costi in discesa

Nove milioni di utili rispetto a un buco di 141 milioni. Prosegue la corsa di Mauro Moretti verso il riassestamento dei conti. Dopo aver chiuso nel 2009 il primo bilancio in utile del gruppo dopo anni di perdite vorticose, l’ad delle Ferrovie dello Stato ha fatto il bis nei sei mesi, portando a casa la prima semestrale in attivo con profitti schizzati del 106%. E le previsioni positive, si legge in una nota, «sono confermate anche per la fine del 2010». Il manager riconfermato la scorsa primavera alla guida delle Fs è riuscito a mantenere in crescita tutti gli indicatori. Il margine operativo lordo  al 30 giugno è stato di 658 milioni, in aumento del 44% rispetto ai 458 milioni del 2009.
La performance è stata favorita dalla crescita di volumi e ricavi nel trasporto viaggiatori, ma anche dal miglioramento gestionale, su cui Moretti insiste da quando ha messo piede ai piani alti di Piazza della Croce Rossa. Basti pensare che la razionalizzazione dei costi operativi ha portato in 4 anni a risparmi per oltre 1,1 miliardi su un totale di 7,3 miliardi del 2006. Balza alle stelle il risultato operativo del gruppo, che a giugno 2010 raggiunge i 115 milioni di euro, in crescita del 542% rispetto ai -26 milioni di euro del primo semestre 2009. Buone notizie anche sul fronte delle controllate. Trenitalia ha segnato un margine operativo lordo di 558 milioni (+25%) e un risultato netto che si avvicina al pareggio con un passivo di 13 milioni. Un dato che non può essere compreso senza ricordare che nel 2006 la società delle Fs chiudeva l’esercizio con un risultato negativo di 1,9 miliardi. Rfi ha invece segnato un utile netto semestrale di 19 milioni  rispetto al rosso di 61 milioni del primo semestre 2009.
Numeri che permettono a Moretti di togliersi l’amaro di bocca dopo il clamoroso stop del Tar del Lazio alla maxi gara da 1,54 miliardi per la fornitura di 50 treni superveloci. Una commessa vinta dal consorzio italo-canadese AnsaldoBreda-Bombardier, ma congelata da un ricorso dei francesi di Alstom (che casualmente fornisce i treni alla concorrente Ntv di Montezemolo).

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giovedì 16 settembre 2010

Patto Capranica in panne. Confcommercio resta sola

Alla fine ha avuto la meglio Giancarlo Cremonesi (nella foto LaPresse), attuale presidente di Acea nonché candidato forte di Gianni Alemanno. Alla terza ed ultima votazione utile per la presidenza della Camera di Commercio di Roma (dopo ci sarebbe stato il commissariamento) Cremonesi ha incassato il voto scontato dell’Unione industriali di Roma e quello inatteso dei piccoli. Cna, Confartigianato, Confesercenti e CdO si sono infatti accontentate di ottenere la vicepresidenza per il loro candidato Lorenzo Tagliavanti. La decisione ha fatto andare su tutte le furie la Confcommercio, che ha disertato il voto denunciando le «logiche politiche» che hanno portato alla vittoria di Cremonesi. Di fatto si tratta della prima spaccatura interna di Rete imprese Italia (il cosiddetto Patto Capranica dove Confcommercio è presente accanto ai “piccoli”), che a pochi mesi dalla sua nascita non è riuscita a presentarsi compatta al primo appuntamento importante.

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Per l’Istat l’inflazione rallenta. Ma è boom per i trasporti

I prezzi si sgonfiano. Anzi no. È un dato che va visto in controluce quello diffuso ieri dall’Istat, che ha sostanzialmente confermato le stime preliminari. Ad agosto l’indice nazionale dei prezzi al consumo ha registrato una crescita dello 0,2% rispetto al mese di luglio e dell’1,6% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Lo sguardo d’insieme è senz’altro positivo. Ha ragione Confcommercio quando sostiene che la riduzione all’1,6% rispetto all’1,7 del mese scorso dimostra l’assenza di «patologie inflazionistiche» nel nostro Paese e ci pone sostanzialmente in linea con l’Europa dove l’indice in media fermo sull’1,6%. D’altro canto, la stabilità dei prezzi è anche il segno di una difficoltà a ripartire. Tra i settori che hanno contribuito a rallentare il trend inflazionistico c’è ad esempio quello dell’agricoltura. Un fenomeno che alleggerisce le tasche dei cittadini ma pesa tutto sulle spalle degli operatori che vedono, come spiega la Cia, «prezzi sui campi in netta caduta (-16% negli ultimi due anni) e listini sugli scaffali in frenata (appena +0,1% in un anno)».
Detto questo, non tutto è così fermo come può sembrare. E la speculazione che a livello generale appare sotto controllo, lo è molto meno in alcuni settori specifici. Di sicuro sul rallentamento ha pesato la performance dei carburanti, con la benzina che registra addirittura un abbassamento delle quotazioni pari al -1% su base mensile, mentre a livello tendenziale ha segnato una brusca frenata, passando al +5,8% dal +8,9% di luglio. In ribasso anche il prezzo del gasolio per auto (-0,9% su mese, +9,1% su anno) e del Gpl (-0,6%,+ 20,6%). Ma all’interno del paniere ci sono voci schizzate alle stelle. E, guarda caso, si tratta proprio di quei settori che durante l’estate vanno a colpire di più il portafoglio degli italiani. Stiamo parlando di viaggi e vacanze. Secondo i dati dell’Istat i biglietti aerei hanno registrato un’impennata del 26,6% su luglio, mentre i prezzi sono cresciuti del 6,2% su agosto del 2009. Prezzi alle stelle anche per i traghetti, dove si è rilevato un rincaro del 7% su base congiunturale e del 41,1% su base tendenziale. Quanto ai treni, l’Istat ha registrato un rialzo dello 0,2% a livello mensile e del 9,8% a livello annuale.
La vera stangata arriverà in autunno, «quando le famiglie italiane si troveranno a pagare, su base annua, ben 902 euro in più, principalmente a causa di manovre speculative su prezzi e tariffe». Qualcuno è convinto che la corsa isolata di alcuni prodotti si allargherà presto a tutti gli altri settori.  Secondo Casper, il nuovo Comitato contro le speculazioni e per il risparmio, formato da Adoc, Codacons, Movimento difesa del cittadino e Unione Nazionale Consumatori, la vera stangata arriverà in autunno. Le prime avvisaglie, secondo il Casper già con gli aumenti dell’acqua  (+8,5%) e dell’Rc auto (+7,3%) le famiglie italiane già ad agosto stanno pagando, rispetto allo scorso anno, 30 euro in più per ogni vettura assicurata e 23 euro in più per l’acqua potabile.

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mercoledì 15 settembre 2010

Cresce il debito, non la produttività

A prima vista le cose non vanno niente bene. Da qualunque angolazione lo si guardi, il dato complessivo, arrivato come al solito in contemporanea da Bankitalia e dal Tesoro, sull’andamento delle entrate sembra tracciare un quadro fosco per le finanze pubbliche. Il calo del gettito nei sette mesi si attesta a -3,4% secondo Via Nazionale (che utilizza il criterio di calcolo per cassa) e a -3,1% per Via XX Settembre (secondo il criterio di competenza). E sebbene ieri, a differenza di altre occasioni, le due cifre convergano, mai come questa volta il documento parallelo diffuso dalle Finanze merita una lettura più approfondita. Il calo è infatti quasi totalmente attribuibile alla flessione delle imposte dirette, in particolare al crollo (-52,5%) dell’imposta sostitutiva su interessi e altri redditi da capitale imputabile principalmente alla riduzione dei tassi d’interesse avvenuta nel 2009 e al calo dei rendimenti dei buoni fruttiferi postali. Una flessione ampiamente compensata dall’aumento dell’Ire (2,3%) e dell’Iva (+4%).
Un’altra voce che ha fatto sballare i conti è il venire meno delle entrate una tantum per il riallineamento dei valori contabili per l’adozione dei nuovi criteri internazionali Ias. Una sorta di posta straordinaria che ha pesato sulle entrate dello Stato per 4,2 miliardi rispetto ai complessivi 7 miliardi che mancano in confronto ai sette mesi del 2009. Contemporaneamente sono però aumentati del 10% gli incassi da ruoli. In sostanza, si legge nel documento del dipartimento delle Finanze, «al netto delle “una tantum” si registra una riduzione percentuale più contenuta, passando dal -3,1% a -1,3% per la competenza giuridica e dal -3,4% al -1,3% per gli incassi. Se a questo si aggiungono i ruoli, i conti di Giulio Tremonti non sembrano più così cattivi. «Nel complesso le entrate, inclusi gli incassi erariali dei ruoli e l’effetto nettizzante delle poste correttive evidenziano un lieve incremento dello 0,1%». C’è poco da discutere, invece, sul debito, che a luglio ha collezionato l’ennesimo record negativo. Il “buco” dello Stato italiano, arrivato a quota 1.838 miliardi, è cresciuto del 4,7% rispetto a luglio 2009 e del 4,3% sulla fine dell’anno scorso. In altre parole, se il gettito tiene e le entrate sono in linea con le previsioni, la spesa della pubblica amministrazione non riesce invece a rallentare la sua corsa. Un dato che non può non preoccupare, soprattutto, se letto insieme a quello diffuso sempre ieri da Eurostat relativo alla produzione industriale nel Vecchio continente. Come già confermato nelle scorse settimane, l’Italia sta ripartendo, ma troppo lentamente. A luglio l’avanzamento è stato dello 0,1% sostanzialmente in linea con quello dell’Eurozona e dell’Europa a 27, che non ha di fatto registrato variazioni. Rispetto allo stesso mese dello scorso anno, però, l’area Euro è cresciuta del 7,1% e la Ue a 27 del 6,8%. Nel nostro Paese, invece, il dato annuale parla di un aumento limitato al 4,8%, segno che la scossa su produttività e competitività per rilanciare l’economia italiana, su cui da più parti arrivano  sollecitazioni, non è più rinviabile.

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Salta la banda larga. Telecom resta sola

Il tavolo sulla banda larga, com’era prevedibile, è saltato. La fuga in avanti del Comitato per la rete di nuova generazione (Ngn), che la scorsa settimana ha diffuso un documento non concordato con gli operatori alternativi, ha provocato l’ennesima battuta d’arresto sulla realizzazione dell’infrastruttura che dovrebbe mettere l’Italia al passo con gli altri Paesi europei. Aiip, Fastweb, TeleTu, Tiscali, Vodafone, Welcome Italia e Wind hanno deciso ieri di ritirare la propria adesione al Comitato Ngn. L’accusa, come si legge in una nota congiunta, è chiara: «Le linee guida proposte dal presidente rispecchiano quasi totalmente le richieste di Telecom Italia». Istituito dall’Agcom, con la partecipazione di tutti gli operatori, il gruppo di lavoro aveva una funzione puramente consultiva, doveva fare il punto sulle questione regolatorie legate alla banda ultra veloce e presentare una serie di proposte all’authority. È chiaro che l’intento di Corrado Calabrò era quella di favorire una convergenza, un punto comune da cui cui partire per definire le nuove regole dell’infrastruttura.
Appare chiaro che l’operazione è fallita. Il tavolo, dov’è rimasta soltanto Telecom, si può dire definitivamente chiuso. E l’authority per le Tlc dovrà fare da sola. Ma se queste sono le premesse, sarà difficile che si arrivi a soluzioni condivise. Ed è difficile anche che la concordia si materializzi miracolosamente al tavolo parallelo attivato dal viceministro dello Sviluppo, Paolo Romani. Gli ultimi incontri con gli ad delle società sono finiti con un nulla di fatto. Romani ci riprova venerdì convocando solo i tecnici, nella speranza che una discussione non centrata direttamente sulle questioni economiche possa portare risultati.
Ma le distanze appaiono, almeno per ora, troppo grandi. Se è chiaro, come più volte spiegato dall’authority, che duplicare gli sforzi e procedere in ordine sparso farà soltanto lievitare i costi e allungare i tempi, nessuno sembra voler cedere il passo. Soprattutto nei grandi centri urbani, dove Telecom continua a sostenere di voler correre da sola. È qui che si duella. Il piano dell’ex monopolista prevede investimenti per circa 2,7 miliardi in tre anni. Quello di Fastweb, Wind e Vodafone 2,5 miliardi in 5 anni. Ma al di là delle cifre è chiaro che il nodo da sciogliere è ancora quello della rete telefonica in rame. Gli aumenti per il canone di affitto agli operatori alternativi, decisi pochi giorni fa dall’authority, dimostrano che l’infrastruttura può essere ancora redditizia per l’ex monopolista, che non ha alcuna intenzione di mettere soldi nella nuova rete senza precise garanzie. La situazione non è favorita neanche dal governo, che promuove tavoli, ma non dice chiaramente quante risorse ha intenzione di dedicare al progetto. Pure la Ue si sta muovendo. La Commissione europea sta preparando un pacchetto di misure proprio per spingere le grandi compagnie ad aprire le reti a banda larga agli operatori rivali. Il problema è che mentre a Bruxelles si discute, l’Italia a differenza degli altri Paesi europei dove la fibra è già in una fase avanzata, resterà completamente tagliata fuori dai servizi offerti dalle nuove tecnologie.

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martedì 14 settembre 2010

La ripresa c’è, ma costa cara

Buone notizie per Giulio Tremonti, che proprio in queste ore sta mettendo a punto la nuova versione del Dpef, ovvero lo Schema di decisione di finanza pubblica la cui scadenza è prevista per domani. A pochi giorni dalle fosche previsioni dell’Ocse, che anche ieri ha ribadito le preoccupazioni sul nostro Paese, il ministro ha incassato i dati positivi dell’Istat sull’andamento del secondo trimestre e il miglioramento delle stime di Bruxelles. Secondo la Commissione Ue l’Italia è in grado di chiudere l’anno con una crescita dell’1,1% rispetto ad uno 0,8% previsto in precedenza. Un risultato su cui, va riconosciuto, il titolare dell’Economia ha sempre scommesso, malgrado il pessimismo diffuso a piene mani nei primi mesi dell’anno dai principali organismi internazionali.
La situazione, chiaramente, non è tutta rose e fiori. La ripartenza dell’Italia si associa infatti ad una ripresa complessiva del Vecchio continente, dove c’è chi viaggia a velocità molto più sostenute della nostra. In base alle nuove stime diffuse ieri dalla Commissione Ue, a guidare il gruppo di testa c’è sempre la Germania, che, nonostante la persistente debolezza del sistema bancario, dovrebbe chiudere l’anno con un Pil in aumento del 3,4%. Stessa crescita è prevista per la Polonia. Seguono, su ritmi più contenuti, l’Olanda all’1,9%, il Regno Unito all’1,7% e la Francia all’1,6%. Dietro di noi rimane la Spagna, che non riesce ad uscire dal pantano della recessione e dovrebbe chiudere il 2010 a -0,3%. Per l’intera Unione le stime sono quasi raddoppiate, passando dall’1% previsto a maggio ad un robusto 1,8%. La crescita non dovrebbe pompare più di tanto l’inflazione, che Bruxelles ha rivisto al ribasso. Nell’Eurozona si attesterà all’1,4% rispetto all’1,5% previsto, mentre per l’Italia il dato scende dall’1,8% all’1,6%.
Le stime, come si diceva, convincono poco l’Ocse, che ci inserisce nel gruppo di Paesi dove «ci sono segnali più forti di un passo più lento della crescita nei prossimi mesi». La conferma arriverebbe dalla flessione del superindice di luglio, che vede l’Italia arretrare di 0,2 punti rispetto al mese precedente (+3,5 sul 2009).
Di «grande incertezza» ha parlato anche il Commissario Ue agli affari economici e monetari, Olli Rehn. Pur ritenendo che «l’economia europea sia chiaramente sulla via della ripresa, in maniera più forte di quanto previsto a primavera», per Rehn questa ripresa «resta fragile». Di qui l’invito a restare in guardia sul fronte della stabilità finanziaria e della solidità fiscale. E accanto al solito appello alle riforme strutturali, il Commissario rivolge anche una raccomandazione specifica all’Italia per ribadire, se ancora per qualcuno non fosse chiaro dopo le ramanzine di Bankitalia e Bce, i rischi legati al deficit di produttività del Paese. Il nostro Paese, secondo Rehn, «beneficia meno dell’aumento del commercio globale anche per la perdita di competitività accumulatasi nell’ultimo decennio». Inoltre, «la fragilità del mercato del lavoro» non fa decollare i consumi privati. Ecco perché Roma deve compiere «sforzi costanti» per completare le riforme «essenziali per creare più competitività e più occupazione». Per aumentare la produttività Rehn auspica anche una maggiore «moderazione salariale». Analisi condivisa dai sindacalisti Raffaele Bonanni (Cisl) e Luigi Angeletti (Uil), che però ragionano diversamente sulla cura. Con la moderazione si fa poco, spiegano, «visto che ancora siamo nella trappola di bassi salari-bassa produttività». Serve piuttosto, sostengono i due segretari, «diminuire le tasse sui salari da accompagnare ad accordi sulla produttività in stile Pomigliano».

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lunedì 13 settembre 2010

L’Italia ribatte col Pil ai gufi mondiali

Dopo la doccia fredda arrivata dall’Ocse, l’Italia si riconsola con l’Istat. Se l’Organismo internazionale ha infatti previsto per il nostro Paese una crescita al rallentatore, con l’andamento più debole tra gli Stati del G7, l’Istituto nazionale di statistica ieri ha rivisto al rialzo i dati sulla crescita. Alcuni economisti hanno cinicamente fatto notare che i due verdetti non sono affatto in contraddizione, visto che l’Istat fotografa il passato e l’Ocse prevede il futuro. Di sicuro i problemi da affrontare, a partire dal deficit di produttività segnalato ultimamente sia da Bankitalia che dalla Bce, restano. E ad imporre cautela ci sono pure gli altri dati, diffusi sempre ieri dall’Istituto, che registrano una frenata nella produzione industriale dopo l’ottimo andamento dei mesi precedenti.

Sta di fatto, però, che in barba alle previsioni catastrofiche delle cassandre, che «verosimilmente saranno smentite», dice il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, l’Italia per ora tiene. Nel secondo trimestre il Pil è infatti cresciuto dello 0,5% rispetto al primo e dell’1,3% rispetto allo stesso periodo del 2009.

Il dato non solo è più alto della stima preliminare che si attestava rispettivamente a +0,4% e +1,1%, ma riporta il Paese ai livelli pre crisi. La crescita rispetto al primo trimestre è infatti la migliore addirittura dal secondo trimestre 2006, mentre quella tendenziale (anno su anno) la più alta dal terzo trimestre 2007, ovvero dall’inizio ufficiale della crisi economica.

La crescita acquisita per il 2010, spiega l’Istat, è dunque dello 0,9%, superiore allo 0,8% delle stima preliminare. L’Istituto nazionale segnala che nel secondo trimestre sono aumentate soprattutto le importazioni (+0,8% sul primo trimestre e +8,2% sull’anno) mentre i consumi finali nazionali si sono limitati a un aumento dello 0,1% congiunturale e dello 0,3% sul secondo trimestre 2009. Cresciute anche le esportazioni, aumentate del 3,3% sul primo trimestre e del 9,2% sullo stesso periodo del 2009.

A frenare gli entusiasmi, come si diceva, ci sono i dati poco incoraggianti sull’industria. La produzione è cresciuta a luglio solo dello 0,1% su giugno e del 4,8% (dato corretto per gli effetti di calendario) su luglio 2009. Si tratta di una frenata non trascurabile rispetto ai mesi precedenti. A giugno l’aumento congiunturale era stato dello 0,5% e quello tendenziale dell’8,1%, mentre a maggio si erano avuti incrementi addirittura del 7,3% e dell’1%.

Tra i settori è l’industria il comparto che registra la crescita più sostenuta (dopo aver subito la crisi più profonda) con un +0,8% congiunturale e un +3,1% sull’anno (68.137 milioni di valore aggiunto nel complesso) mentre i servizi (197.188 milioni di valore aggiunto nel complesso) segnano un aumento dello 0,6% sul primo trimestre e dello 0,9% sullo stesso periodo del 2009. Torna a camminare infine l’agricoltura, che con un aumento dello 0,4% conferma l’inversione di rotta dell’andamento tendenziale del valore aggiunto che aveva già fatto segnare un incremento dello 0,5% nel primo trimestre dopo il crollo del 2009.

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Fazio: «Le aziende ci aiutino a ridurre gli sprechi»

«Responsabilità e trasparenza». Sono queste, secondo Ferruccio Fazio, le due parole chiave per capire l’impatto del federalismo sulla sanità. «Ci sarà una maggiore responsabilità delle regioni sulla spesa», spiega il ministro della Salute, «la storia degli ultimi anni ci ha insegnato che le regioni che non hanno avuto disavanzi hanno offerto una qualità dell’assistenza migliore di quelle che hanno accumulato cospicui disavanzi». Contemporaneamente, prosegue Fazio, «diverrà più trasparente il rapporto tra quantità di risorse finanziarie richieste ai cittadini tramite le varie leve fiscali e il loro corretto utilizzo da parte delle amministrazioni regionali. Il federalismo sanitario oltre a eliminare gli attuali sprechi garantirà a tutti i cittadini l’effettiva erogazione dei livelli essenziali di assistenza».

Il Cerm ha calcolato che se tutte le regioni si fossero già allineate ai costi standard invece che alla spesa storica il fondo nazionale avrebbe potuto già nel 2009 risparmiare circa 4 miliardi sui 107 spesi. Ma i tagli non andranno a scapito della qualità dei servizi?

Nelle analisi condotte dal Cerm e anche da altri istituzioni scientifiche universitarie, quale ad esempio l’Istituto Sant’Anna di Pisa, è stato evidenziato che nei vari settori della spesa sanitaria vi sono cospicui margini di recupero di efficienza. In altre parole si può spendere meno di quello che oggi si spende. Tuttavia in questa maggiore spesa vi sono due componenti di pari entità che occorre tenere ben distinte. La prima si riferisce a veri e propri sprechi che vanno semplicemente eliminati. La seconda invece si riferisce a linee di erogazione di servizi offerte talvolta a scapito di altre prestazioni comunque necessarie e comprese nei livelli essenziali di assistenza. In questo secondo caso si tratta di una spesa che non va eliminata ma riqualificata.

Le industrie farmaceutiche temono che la lotta agli sprechi si traduca in una riduzione dei farmaci rimborsabili. È così?

Non è prevista alcuna riduzione dei farmaci rimborsabili, il costo fissato dall’Aifa è uno dei più bassi d’Europa. È prevista invece una maggiora appropriatezza prescrittiva grazie alla quale risparmiare risorse per l’utilizzo di farmaci innovativi.

I contraccolpi sulla spesa farmaceutica per le aziende ospedaliere, però, saranno inevitabili...

Dobbiamo partire da una considerazione importante: la maggior parte dei farmaci innovativi sono per loro natura destinati a un uso ospedaliero. Risulta quindi evidente come sia indispensabile trovare le risorse economiche per sostenere la spesa ospedaliera regionale. Tutto ciò che costituisce il futuro della cure delle patologie più importanti non potrà che essere gestito in ambito ospedaliero. Esiste, quindi, prima di tutto un problema circa la congruità dell’attuale valore di riferimento della spesa farmaceutica ospedaliera. Un problema, tuttavia, che deve essere affrontato combattendo con forza ogni forma di spreco e di uso inappropriato dei farmaci. È necessario che ogni Asl e tutte le Regioni utilizzino quegli strumenti di appropriatezza prescrittiva e di rimborso condizionato con cui l’Aifa ha autorizzato l’immissione in commercio dei farmaci più costosi. In ultima istanza, è doveroso che ogni azienda farmaceutica partecipi attivamente ad una revisione costante dei prezzi dei propri prodotti, adeguando gli stessi ai volumi di vendita progressivamente guadagnati evitando così che sia necessario ricorrere a manovre straordinarie, quando una costante gestione può garantire la sostenibilità del sistema.

Pensa che puntare sui generici può essere un modo per riallineare la spesa?

Il farmaco generico ha un valore imprescindibile per la sostenibilità del Servizio sanitario nazionale poiché rende disponibili le risorse necessarie a garantire un accesso sempre più ampio ai farmaci. La scelta del generico da parte del medico prescrittore e del cittadino non deve rappresentare solo un mezzo di contenimento della spesa ma deve diventare un fenomeno e un atteggiamento culturale di utilizzo responsabile delle risorse comuni.

Prima dell’estate ha condiviso le richieste dell’industria farmaceutica sostenendo di preferire alle gare per selezionare i farmaci generici più convenienti una riduzione progressiva del prezzo. Quale sarà la procedura?

La procedura è chiarissima ed è contenuta nel comma 9 dell’articolo 11 della legge Finanziaria. L’Aifa avrà il compito di operare una ricognizione dei prezzi vigenti nell’Ue e conseguentemente dovrà fissare un prezzo massimo di rimborso per confezione. L’obiettivo è quello di attivare un circolo virtuoso che spinga le aziende ad abbassare autonomamente il prezzo di vendita al pubblico.

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Berlusconi tira dritto: «Governerò per tutta la legislatura».

Altro che elezioni anticipate. Silvio Berlusconi vuole restare in sella fino alla fine della legislatura. E se la sua cura miracolosa per allungare la vita fino a 120 anni dovesse funzionare, scherza con l’amico Vladimir Putin, c’è anche la possibilità che la permanenza a palazzo Chigi sia molto più lunga. Il clima, come accade solitamente nelle trasferte russe, è accogliente e giocoso. E il premier, che sembra aver riposto nel cassetto il pallottoliere e la lista dei deputati, appare in ottima forma.

Dal palco del forum sulla democrazia di Yaroslavl, cittadina nel cuore della Russia profonda, il Cavaliere parla per quasi mezz'ora ed è un fiume in piena. In un auditorium blindato dopo gli attacchi di in Ossezia del Nord, il presidente del Consiglio prende la parola dopo l’ospite Dmitri Medvedev e il suo intervento vira quasi subito in un affondo tutto “interno” contro le toghe politicizzate per poi passare all’irrituale denuncia, nel cuore dell’ex impero sovietico, dell’oro di Mosca che affluiva copioso nelle casse dell’allora Partito comunista italiano. Ma è solo l’inizio.

L’affondo più duro, inutile dirlo, è rivolto a Gianfranco Fini. Berlusconi non nomina mai il presidente della Camera. Ma il riferimento è chiarissimo. «Alcuni amici», racconta dal palco dopo che nei giorni scorsi Putin aveva fatto sapere di seguire con attenzione il duello con il presidente della Camera, «mi domandano cosa stia succedendo in Italia. Li ho rassicurati: solo piccole questioni di professionisti della politica che vogliono avere la loro aziendina politica». Poi, arriva “l’avanti tutta”. Sono cose, spiega il premier, «che non toccano la governabilità, il mio governo andrà avanti per i tre anni di legislatura che ancora mancano». Un messaggio di stabilità, oltre che la definitiva chiusura del braccio di ferro con Bossi sulle elezioni anticipate, offerto ai mercati internazionali e ad un partner economico strategico come la Russia.

Riprendendo un temo caro, Berlusconi dedica poi una parte dell’intervento alle tasse. Lo Stato, è la tesi ribadita più volte dal Cavaliere, deve chiedere ai propri cittadini non più di un terzo del proprio reddito. «Se lo Stato ti chiede di più è eccessivo, se è più del 50% come succede in alcuni Paesi», dice il capo del governo, «il cittadino lo sente come un furto o una rapina».

Tra le pieghe dello show del premier c’è spazio anche per le lodi ai padroni di casa, Medvedev e Putin, due «doni del signore», e per ricordare la ricerca di don Verzè sulla longevità. Il presidente del Consiglio rivela infatti che è impegnato nel finanziamento «di una istituzione italiana che parte dall’iniziativa di un sacerdote magico di 90 anni ed è la più grande organizzazione di sanità italiana che ha l’obiettivo di aumentare la vita media a 120 anni». «Per arrivare a questa ulteriore permanenza di ognuno di noi su questa terra», continua, «lo sforzo che dobbiamo fare è che ci sia su questa terra democrazia».

Il passaggio è poi oggetto di un siparietto con il premier russo, che ha ospitato Berlusconi nella sua dacia di Novi Ogariovo, appena fuori Mosca. «Ho sentito il tuo intervento al forum, ma allora vivremo fino a 120 anni?», chiede Putin. E il Cavaliere: »Sembra di sì, questa è l’eta media. Ma quella per i leader», strizza l’occhio davanti ai cronisti, «è molto di più...». «Allora noi saremo primi ministri fino a 120 anni?», domanda il russo. Ma Berlusconi mette le mani avanti: «No, non è previsto nella cura, anche perché fare il premier significa lavorare molto e stancarsi molto...».
 
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venerdì 10 settembre 2010

Scontro sulla rete. Aumentano le tariffe ma Fastweb decuplica la sua banda larga

 All’indomani dell’annuncio dell’Opa Swisscom su Fastweb si riaccende il confronto sul futuro della rete ultraveloce in Italia. Ad infiammare il dibattito ci ha pensato ieri l’Agcom, che pur limando le cifre rispetto alla proposta iniziale ha ufficializzato l’aumento delle tariffe di unbundling, ovvero del canone mensile che gli operatori telefonici devono pagare a Telecom per l’utilizzo della “vecchia” rete in rame. La delibera dell’authority per le Tlc prevede il passaggio dagli attuali 8,49 ad 8,70 euro per il 2010, che diventeranno 9,14 nel 2011 e 9,48 nel 2012. Nulla di clamoroso, secondo l’autorità guidata da Corrado Calabrò, che sottolinea come l’Italia sia ancora ben al di sotto della media dei primi sedici Paesi della Ue, che è di 9,46 euro. Tutt’altra la versione degli operatori alternativi Fastweb, Wind, Vodafone e Tiscali che oltre a sottolineare l’inevitabile ricaduta degli aumenti sulle bollette degli italiani, fanno presente che rispetto all’Europa a 27 (dove la media scende a 8,38 euro) l’Italia si collocherebbe come uno dei Paesi più cari. Non solo, secondo le società di tlc la decisione si pone anche in controtendenza rispetto ad un trend europeo dove le tariffe della rete in rame stanno scendendo per favorire la realizzazione della rete di nuova generazione.
La tesi è che remunerare eccessivamente l’infrastruttura esistente è il modo migliore per scoraggiare il proprietario, l’ex monopolista, ad investire sulla nuova rete.
Ad aumentare un altro po’ la tensione ci ha messo lo zampino proprio il Comitato Ngn, l’organismo istituito dall’authority (in cui sono rappresentati tutti gli operatori) che sta lavorando alla definizione di un documento sulle linee guida per la transizione verso le reti ultraveloci. Dal Comitato è, infatti, trapelato un documento (finito sulle pagine del Sole 24 Ore) che nella sostanza metterebbe sullo stesso piano gli operatori alternativi e l’ex monopolista. Immediata la protesta di tutti le società di tlc in concorrenza con Telecom, che hanno disconosciuto il comitato e chiesto che la faccenda torni direttamente in mano all’Agcom. La vicenda è sul tavolo della prossima riunione dell’organismo, prevista per il 15 settembre. Nel frattempo, però, dall’authority fanno sapere che quelle del Comitato restano in ogni caso proposte di lavoro e che la definizione delle linee guida spetta soltanto all’Agcom. Comunque sia, i tempi saranno abbastanza stretti. Calabrò vuole chiudere nel giro di alcune settimane la stesura di un primo documento che dovrà poi passare al vaglio di Bruxelles e in seguito sarà messo in consultazione per recepire le proposte dei soggetti interessati.
Il mancato accordo tra gli operatori sulle linee guida rappresenta di sicuro un macigno sulla strada del tavolo promosso dal viceministro allo Sviluppo, Paolo Romani, che era rimasto congelato prima dell’estate su posizioni abbastanza divergenti tra Telecom e gli operatori alternativi. Si parla di una convocazione di una nuova riunione con tutti gli ad delle società di tlc per il 13 settembre, ma la data è ancora da confermare.
Nell’attesa, Fastweb ha deciso di fare da sola, perlomeno sulla velocità. Da qualche giorno la società di telefonia ha infatti reso operativa la possibilità di portare la capacità della sua rete in fibra ottica dagli attuali dieci mega a 100 mega. Di fatto, si tratta di raggiungere con diversi anni di anticipo gli obiettivi finali posti dalla Ue nell’agenda digitale varata lo scorso maggio. Le città che potranno usufruire del servizio Fibra 100 sono Milano, Roma, Genova, Torino, Bologna, Napoli e Bari. Complessivamente i 31mila chilometi di banda ultraveloce sparsi per l’Italia potranno raggiungere circa 2 milioni di famiglie e microimprese italiane. Inutile il confronto con la media italiana di 4,1 mega, ma consentire a così tante persone di navigare in Internet a queste velocità rappresenta un’eccezione anche in Europa.

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giovedì 9 settembre 2010

Gli squadristi rossi attaccano Bonanni

Domenica scorsa la sinistra aspettava ghignando le annunciate contestazioni tutte interne al centrodestra contro Fini a Mirabello. E invece, il brutto copione è andato in scena alla festa del Pd a Torino, dove nel mirino di un gruppo di militanti poco pacifici intervenuti alla kermesse non è finito un esponente della maggioranza o un imprenditore, ma un sindacalista. Uno dei più moderati, per giunta, come il leader della Cisl, Raffaele Bonanni. Episodi di contestazione si erano già verificati la scorsa settimana nei confronti del presidente del Senato, Renato Schifani.
Ma ieri la tensione è salita alle stelle. E al posto di qualche fischio sono invece volati i fumogeni e si è sfiorato lo scontro fisico. Oltre ai cartelli di insulti (“Marchionne comanda, Bonanni obbedisce”) i contestatori hanno accolto il segretario della Cisl al grido di “vergogna”, lanciando fac simili di 50 euro con la scritta “il denaro è un buon servo e un cattivo padrone”. Non soddisfatto, qualcuno del gruppo ha pensato bene di lanciare un fumogeno contro il palco, che ha sibilato verso Bonanni colpendo fortunatamente alla fine solo il giubbotto di striscio. Ancora non contento, qualcuno è addirittura salito sul palco, sperando di raggiungere fisicamente l’odiato sindacalista che negli ultimi mesi si è permesso di lavorare in direzione di un nuovo rapporto tra capitale e lavoro per aumentare la produttività senza lasciare i lavoratori senza garanzie o, peggio ancora, senza impiego.
I contestatori sono stati tutti identificati. Tra loro, oltre ad alcuni esponenti dell’area antagonista anche studenti medi e universitari, precari e qualche lavoratore. Complessivamente si è trattato di un gruppo di circa 50 persone. La studentessa che ha lanciato il fumogeno frequenta il centro sociale Askatasuna, una delle realtà antagoniste più dure di Torino. È chiaro che dietro l’aggressione a Bonanni c’è il clima di tensione delle ultime settimane sulla vicenda Fiat. Non è un caso che tra i primi a condannare l’accaduto siano stati Cgil e Fiom, che nei giorni scorsi non hanno risparmiato un’escalation dei toni e delle polemiche. Unanimi e generalizzati gli attestati di solidarietà a Bonanni e di denuncia nei confronti degli aggressori. Anche il padrone di casa Pierluigi Bersani si è affrettato a telefonare al leader della Cisl parlando di «inconcepibile attacco squadrista». Lo stesso segretario del Pd, però, così come altri esponenti del partito, non ha mancato di sottolineare polemicamente le responsabilità delle forze dell’ordine che avrebbero vigilato poco e male. Critiche immediatamente rintuzzate dal Questore di Torino, Faraoni, il quale ha voluto ricordare che la polizia ha sempre dovuto tener conto delle richieste arrivate dagli organizzatori. E in serata, a dimostrazione del clima ormai arroventato,  a Terni è stato contestato Luigi Angeletti, segretario della Uil, ospite della locale Festa democratica.
Durissima la condanna arrivata da Confindustria, che guarda con «preoccupazione al ripetersi di fenomeni di intolleranza nei confronti proprio di chi è più impegnato nel dialogo e nel processo di riforma della società».

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Parte l’Opa annunciata. Fastweb è di Swisscom

 Dire che il delisting di Fastweb era annunciato è dire poco. Di Opa totalitaria sul capitale del gruppo di tlc si iniziò a parlare già pochi mesi dopo l’acquisto dell’82% da parte del gruppo svizzero Swisscom, avvenuto nel maggio del 2007. Da qualche tempo a questa parte, però, l’ipotesi è diventata più concreta del solito. Per la precisione dal febbraio scorso, quando la bufera giudiziaria legata all’inchiesta sulla mega frode fiscale si è abbattuta con violenza sul gruppo. Da allora, pur di fronte alle smentite ufficiali, gli analisti di Swisscom hanno iniziato a studiare seriamente l’operazione. E l’annuncio ufficiale dato ieri dalla casamadre di Berna di voler procedere all’Opa su Fastweb in contanti a 18 euro per azione non ha colto di sorpresa quasi nessuno.
Sicuramente non erano impreparati i broker di Borsa. Quelli più smaliziati stanno facendo acquisti a mani basse da almeno una decina di giorni. Portando a casa ottimi guadagni, visto che solo il 20 agosto scorso il titolo era al minimo dell’anno a quota 10,6 euro. Anche ieri, comunque, l’occasione per gli investitori è stata ghiotta. I 18 euro offerti da Swisscom rappresentano un premio del 24,6% rispetto alla chiusura di martedì. Inevitabile l’assalto. Il titolo è schizzato verso il prezzo d’Opa balzando nel corso della seduta del 33,5% a 17,93 euro.
L’obiettivo ufficiale di Berna è quella di ritirare la società per avere «maggiore flessibilità sul spiano sia strategico sia operativo». Ma è chiaro che sulla decisione di accelerare l’operazione pesano gli arresti della scorsa primavera. Non è un caso che, pur non dichiarandolo ufficialmente, gli svizzeri si tengano aperta anche la strada di un futura fusione con la controllante o con un’altra società del gruppo. Un modo per voltare definitivamente pagina.
Per ora, comunque, i vertici di Swisscom non sembrano intenzionati a rinunciare ad un marchio che oggi ha quasi 1,7 milioni di clienti per servizi a banda larga con un fatturato 2009 di 1.853 milioni e un utile operativo di 138 milioni. Non solo, Fastweb, pioniere in Italia della fibra ottica, è anche in prima fila per la realizzazione della rete di nuova generazione ad alta velocità. Un progetto che dovrebbe vedere la collaborazione di tutti gli operatori, ma che la società sta portando avanti anche da sola. Solo pochi giorni fa Fastweb ha infatti annunciato che implementerà la tecnologia della rete gia esistente per far viaggiare i dati a 100 mega rispetto ai 10 attuali.
Quanto all’Opa, Berna metterà sul piatto 256 milioni. Una cifra più che ragionevole se si pensa che nel 2007 l’offerta di acquisto fu lanciata a 47 euro per azione, con un esborso finale di 3,1 miliardi.

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mercoledì 8 settembre 2010

La Marcegaglia licenzia la Fiom

Chi sperava in un clamoroso divorzio tra Fiat e Confindustria resterà deluso. Senza pensarci due volte ieri, nella prima data utile dopo la pausa estiva, il direttivo di Federmeccanica ha disdetto ufficialmente il contratto del 2008. Una mossa che non cambia nulla per i lavoratori, ma cambia tutto per la Fiom, che ora si ritrova all’angolo e con le armi spuntate. Per gli operai, fino alla scadenza del 2012, resterà tranquillamente in vigore il contratto nazionale siglato nell’ottobre del 2009 da tutte le parti sociali tranne la Cgil. Per i duri della Fiom lo scenario è più complicato. Per loro quello firmato nel 2008 è l’unico contratto considerato valido. Ed è quello, soprattutto, su cui il sindacato dei metalmeccanici si preparava a condurre aspre battaglie legali contro il piano per Pomigliano e il progetto Fabbrica Italia di Sergio Marchionne. Proprio da qui sarebbe partita la riflessione di Federmeccanica. La decisione di cancellare l’accordo del 2008, ha spiegato il presidente Pierluigi Ceccardi, è avvenuta «a fronte delle minacciate azioni giudiziarie della Fiom in via meramente cautelativa».
L’iniziativa delle imprese della meccanica che aderiscono a Confindustria, malgrado l’effetto sorpresa, è tutt’altro che estemporanea. Da settimane la squadra di Emma Marcegaglia stava studiando il nuovo scenario posto dalle richieste di Marchionne per dare un colpo d’acceleratore alla produttività degli stabilimenti Fiat. E durante il direttivo, ha raccontato Ceccardi, è emerso «il convincimento che sia necessario proseguire con determinazione nell’adeguamento delle relazioni industriali, sindacali e contrattuali alla domanda di maggior affidabilità e flessibilità che proviene dalle imprese».
Ma alla soluzione decisa ieri da Federmeccanica si è arrivati anche con la collaborazione delle quattro sigle sindacali (Cisl, Uil, Ugl e Fismic) che hanno firmato sia gli accordi del 2009 sia il piano di Pomigliano e che in questi giorni hanno lavorato alla difesa del contratto nazionale come cornice di garanzia entro cui inserire le nuove regole chieste dal Lingotto. Ed è questo il quadro che si va componendo. La decisione di Federmeccanica scongiura i salti nel buio di Marchionne fuori da Confindustria e apre invece la strada alla trattativa sulle deroghe e alla definizione delle specificità del settore auto. Lo stesso Ceccardi, che ha smentito pressioni o spinte da parte della Fiat, ha proposto ieri di aprire «un tavolo di confronto con le organizzazioni sindacali per definire norme specifiche per il comparto dell’auto». I lavori potrebbero partire già il prossimo 15 settembre, quando si terrà una riunione «ricognitiva e progettuale» con le sigle. La Fiom, per ora, resta fuori, non avendo sottoscritto gli accordi del 2009. Ma l’auspicio, ha aggiunto Ceccardi, è che «riconosca quel contratto e possa partecipare anche lei».
La prospettiva non è dietro l’angolo, anzi.  «Quella assunta da Federmeccanica», ha tuonato il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, «è una decisione gravissima e irresponsabile, che lede i principi democratici del nostro Paese».  Per le tute blu della Cgil, che oggi decideranno le iniziative di protesta in un comitato centrale, «l’unico contratto in vigore rimane, sotto ogni punto di vista, quello del 2008 firmato da tutti e votato dai lavoratori». Un contratto, come ha ricordato l’ex presidente di Federmeccanica, Massimo Calearo, che «una forte tensione sociale ci spinse a concludere». Ma i tempi, ha aggiunto, «sono cambiati e la Fiom deve confrontarsi con la realtà dei fatti».
E intanto da Termoli arriva un altro segnale in questo senso. Un sorvegliante dello stabilimento della Fiat di Termoli è stato, infatti, licenziato per l’uso improprio di permessi sindacali. I sindacati per il momento preferiscono non fare dichiarazioni in attesa di conoscere i fatti in dettaglio.

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martedì 7 settembre 2010

Con l’Udc e Lombardo è pronto il partito del Sud

Non ci voleva l’aereo propagandistico con la scritta “Il Sud con Fini” per sapere che la sfida politica del presidente della Camera si combatterà in gran parte nelle terre del Mezzogiorno. È lì che Gianfranco Fini ha da sempre il grosso del bacino elettorale ed è lì che l’asse Lega-PdL, micidiale strumento di consenso nel Nord, si dimostra fragile e vulnerabile. Non solo alle lusinghe di Futuro e Libertà, ma anche a quelle dei centristi dell’Udc e dei vari movimenti “separatisti” di centrodestra. Al Sud c’è ad esempio la formazione politica guidata da Adriana Poli Bortone. Piccola, ma agguerrita al punto da azzoppare facilmente la candidatura di Rocco Palese contro il governatore della Puglia, Nichi Vendola. Proprio lei, qualche settimana fa, ha parlato apertamente di Partito del Sud. Secondo l’ex sindaco di Lecce, animatrice del movimento Io Sud, il Mezzogiorno «può diventare il polo di attrazione tra diverse forze politiche». Il link immediato è ovviamente con la Mpa di Raffaele Lombardo, con cui  ha spiegato la Poli Bortone, «è stata già creata una federazione che raggruppa oltre cento tra consiglieri regionali e comunali».
In Sicilia la partita è complicata. Il PdL Sicilia, gruppo formato all’Assemblea regionale dalla scissione del PdL, è stato formato un anno fa proprio dagli ex An finiani. Decisione poi condivisa dal sottosegretario Micciché, anche lui con il pallino del Partito del Sud. Qualcuno ha già fatto delle simulazioni sul voto nell’isola ipotizzando un terzo polo formato da chi si è astenuto sulla mozione Caliendo, ovvero Fli, Udc, Mpa e Api. Ebbene i tre poli sarebbero lì a giocarsi la vittoria sul filo di lana del 32-33%. Fantapolitica? Forse. Più concreta, per ora, è l’azione politica che i finiani metteranno in atto nei prossimi mesi per dimostrare l’attenzione per il Sud. Federalismo e Mezzogiorno, del resto, sono due dei cinque punti su cui Berlusconi ha chiesto la fiducia. «Il federalismo è possibile solo se sarà fatto nell’interesse di tutta l’Italia, non soltanto nella parte più sviluppata del Paese», ha detto più volte Fini. Passando dalle parole ai fatti si tratterebbe di inserire nei decreti attuativi del federalismo una serie di correttivi che riguardano principalmente il fondo perequativo e l’applicazione dei criteri della spesa standard. Un modo per consentire al Sud di procedere gradualmente senza troppi traumi.
Ma in gioco non ci sono solo le risorse (e i costi) del federalismo. Fini insiste da un po’ anche sulla necessità di intensificare le politiche per il Mezzogiorno «puntando su grandi e pochi interventi di qualità ispirati allo sviluppo del capitale umano e delle reti». Anche domenica il presidente della Camera ha ribadito che, pur in assenza di risorse, bisogna trovare i mezzi per sostenere la competitività del Sud. Cosa ne dirà il ministro dell’Economia, che nelle prossime settimane dovrà portare in Parlamento la manovra? Bossi tempo fa ha tuonato: «Tremonti ha come nemico Fini perchè vuole i soldi da sprecare al Sud». In realtà, poco più di un anno fa Fini propose a Capri di fronte ai giovani industriali la creazione di una piattaforma nel Mezzogiorno per attrarre poli di ricerca ed eccellenze tecnologiche, destinando una quota della Finanziaria nei prossimi dieci anni. «È un’idea straordinaria, potrebbe essere un motore di sviluppo», disse lo stesso giorno, sempre a Capri, un entusiasta Tremonti.

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lunedì 6 settembre 2010

Draghi segue Trichet e pompa la ripresa

La ripresa c’è, ma è debole. E se l’Italia non prenderà lezioni dalla Merkel rischia di restare a piedi. Mario Draghi è dall’altra parte del mondo, ma le sue parole rimbalzano subito da Seul a Cernobbio, monopolizzando il dibattito della prima giornata di lavori del tradizionale workshop Ambrosetti. Le parole del governatore, del resto, arrivano all’indomani dei dati diffusi da Eurostat che, pur nel generale ottimismo espresso dal numero uno della Bce Jean Claude Trichet sulla ripresa del Vecchio continente, hanno certificato la lentezza della ripartenza italiana (pil a +0,4% nel secondo trimestre) rispetto a quella tedesca (pil a +2,2%).
Ma è soprattutto il contesto interno a rendere più pungente l’analisi di Draghi. Non tanto l’invito del Quirinale sulla necessità di portare avanti una seria politica industriale, che campeggia sulle prime pagine dei giornali, quanto l’affaire Pomigliano e la Fabbrica di Sergio Marchionne. Già, perché l’allarme del governatore proprio lì va a parare, sul deficit di produttività e competitività che non permette al sistema Italia di stare sul mercato. È questo il tema, al di là del polverone sui tre operai di Melfi, posto dall’ad della Fiat, ed è questo il tema sollevato da Draghi.
Partecipando, in qualità di presidente del Financial stability board a un incontro con il governo della Corea del Sud, dove si terrà il G20 di novembre, il governatore ha parlato di una «ripresa che c’è, ma è debole» e su cui è giusto esprimere «un cautissimo ottimismo». Draghi, vede un’economia in Eurolandia che ha Berlino per protagonista, «con i Paesi del Sud più lenti di quelli del Nord», e con l’Italia cui può giovare una sola ricetta: per crescere di più «deve diventare produttiva e competitiva come la Germania». In altre parole, deve seguire la strada delle riforme volute dal Cancelliere Angela Merkel in materia di lavoro e fisco. Riforme che hanno dato la spinta alla ripresa economica tornata a crescere a gran ritmo nell’ultimo trimestre. Perché, spiega il governatore, se è vero che i Paesi dell’area dell’euro beneficiano «della domanda mondiale» e la ripresa «comincia a essere sostenuta dalla crescita dei consumi e degli investimenti in Germania», la congiuntura è però ancora «fragile» e siamo di fronte a «una crescita che nel resto di Eurolandia non è sostenuta ed equilibrata».
Non è la prima volta che il governatore punta il dito sulla farraginosità dell’industria italiana. Basta guardare l’ultima relazione annuale di Bankitalia per trovare la tabella Eurostat che certifica non solo il calo della produttività italiana per ore di lavoro nel 2009 al di sotto dei livelli del 2000, ma soprattutto l’impietoso confronto con l’Europa. Nel periodo di crescita pre-crisi, si legge nel documento di Via Nazionale, la produttività del lavoro dell’Italia è salita solo dell’1% contro il 10% della Francia e il 12% della Germania. Anche considerando alcuni fattori come l’economia sommersa o la delocalizzazione all’estero di parte della produzione, spiega Bankitalia, «la performance di crescita dell’Italia rimane peggiore di quella della maggior parte dei principali paesi sviluppati». Fra i provvedimenti necessari per invertire la tendenza e allinearsi ai principali paesi europei, l’istituto centrale indica «il rafforzamento del processo di ristrutturazione del sistema produttivo e la riallocazione delle risorse verso settori e imprese con maggior potenziale di espansione».
L’appello di Draghi è stato accolto con grande entusiasmo a Cernobbio. «Per stare tutti nell’euro siamo tutti costretti a diventare più simili alla Germania, è una strada obbligata», ha spiegato il direttore generale di Viale dell’Astronomia, Giampaolo Galli. Anche il vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, condivide l’invito lanciato dal governatore. «La Germania», ha detto, «ha recuperato bene, ha continuato a investire in ricerca e sviluppo, ha sfornato prodotti innovativi e ha incrementato le esportazioni». Si tratta della «medicina che ogni Paese prenderebbe, solo che noi stiamo qui a litigare sulla medicina mentre loro già beneficiano degli effetti».
E la ricetta trova sostenitori anche tra banchieri come il ceo di Intesa, Corrado Passera, o manager come il presidente di Telecom, Gabriele Galateri. Mentre per il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, «l’Italia ha fatto molto contro la crisi ed è stato il paese più prossimo alla Germania dal punto di vista della disciplina di bilancio». 

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L’Europa va verso la ripresa. Ma per le banche ancora aiuti

Il quadro resta incerto, ma la ripresa c’è. Ed è più forte del previsto. Nel secondo trimestre 2010 secondo l’Eurostat il pil della zona euro e dell’intera Ue ha fatto registrare un rimbalzo dell’1%. Un dato più che incoraggiante se confrontato con quello registrato negli Stati Uniti, che si sono fermati a +0,4%. Ed è proprio dagli States che arrivano segnali preoccupanti. Bruxelles non vede infatti alcun rischio di «doppia recessione» nel Vecchio Continente, ma guarda con sospetto all’incertezza della situazione economica d’Oltreoceano. «Non siamo isolati», ha spiegato il portavoce del commissario Ue agli affari economici e monetari, Olli Rehn, «e la nostra ripresa dipende anche da quella dei nostri principali partner».
Ad alimentare i timori europei ieri sono arrivati i dati sugli ordini industriali negli Usa, cresciuti solo dello 0,1% rispetto alle attese almeno di uno 0,2. Le cose non vanno molto meglio sul fronte immobiliare, dove la modesta crescita delle vendite di case del 5,2% registrata a luglio risulta ancora inferiore del 19,1% rispetto allo stesso mese del 2009. Nettamente migliore delle stime è invece il dato sulle richieste di sussidio di disoccupazione, scese la scorsa settimana di 6 mila unità a quota 472 mila. Le attese degli analisti erano di un dato in rialzo a 475 mila.
Per quanto ci riguarda, in ogni caso, le cifre di Eurostat fanno ben sperare. Numerosi Stati membri stanno facendo meglio del previsto, a partire dalla Germania, che è tornata a essere la locomotiva d’Europa, con un balzo del 2,2% nel secondo trimestre (dopo la crisi non era mai andata oltre lo 0,7%) e un +3,7% su base annua. Tra le altre grandi economie, il Regno Unito ha messo a segno un +1,2%, mentre la Francia è salita allo 0,6%. Più modesti in apparenza i dati dell’Italia, con il pil che nel secondo trimestre si ferma allo 0,4%, come nei primi tre mesi. Ma a Bruxelles si dicono comunque ottimisti. «L’andamento del pil italiano», sostiene il portavoce di Rehn, «mostra un trend positivo». Il balzo dal -4,7% del terzo trimestre 2009 all’1,1% del secondo trimestre di quest’anno, in effetti, è inequivocabile. «Una tendenza», prosegue il funzionario Ue, «che potrà proseguire se si registrerà un ulteriore miglioramento delle esportazioni e dei consumi privati». Segnali positivi sono arrivati ieri dall’Istat, che ha confermato la ripartenza dell’industria registrando a luglio un rialzo annuo dei prezzi della produzione del 3,9%, la crescita più alta dall’ottobre del 2008. Un dato che si scontra però con il -0,1% su base mensile, che rappresenta una leggera battuta d’arresto rispetto alle precedenti rilevazioni. Hanno rallentato la corsa anche le esportazioni extra Ue, che a luglio sono cresciute del 16,7% sul 2009 rispetto al 26,4% di giugno.
Tornando sul fronte europeo resta in recessione la Grecia (-1,5%), mentre la Spagna fa registrare uno striminzito +0,2%. Sebbene il periodo più nero della crisi economica sembri alle spalle,  Bruxelles insiste comunque sulla linea del rigore dei conti pubblici, per tagliare drasticamente deficit e debito, e sulla necessità di andare avanti sulle riforme strutturali, soprattutto quelle tese ad abbattere la spesa pubblica.
A discuterne saranno i ministri finanziari che si ritroveranno la prossima settimana a Bruxelles, dove martedì è programmata una riunione della task force per la riforma del Patto Ue di stabilità e di crescita, mentre mercoledì si riuniranno Ecofin ed Eurogruppo.
Sul tavolo dei responsabili europei delle finanze ci saranno anche i dossier sulla tassazione delle attività finanziarie e, soprattutto, sulla supervisione europea. Sul pacchetto di misure che danno vita alle autorità Ue di supervisione finanziaria su banche, assicurazioni, mercati e rischio sistemico ieri è stato finalmente trovato un accordo tra Parlamento europeo, Consiglio e Commissione Ue. L’intesa dovrà ora essere ufficialmente ratificata con il voto in plenaria a fine settembre dell’Europarlamento e dal Consiglio Ue.
Nell’attesa delle nuove regole la Bce ha deciso di prolungare fino a metà gennaio le misure straordinarie per sostenere la liquidità delle banche. Il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, che ieri ha lasciato i tassi invariati all’1%, ha assicurato che la decisione di prolungare il finanziamento illimitato e a tasso fisso (di favore) agli istituti di credito dell’Eurozona è di natura tecnica e non implica segnali di politica monetaria. Tuttavia è chiaro che per vedere una ripresa del processo di exit strategy bisognerà aspettare, al più presto, il primo trimestre dell’anno prossimo.
La Bce ha rivisto al rialzo le stime sul pil europeo del 2010 (dall’1 all’1,6%) e il 2011 (dall’1,2 all’1,4%), ma Trichet non si fida. Malgrado la crescita stia andando meglio del previsto, ha detto il numero uno dell’Eurotower, «è necessario restare cauti e prudenti, senza cantare ancora vittoria». Le banche ringraziano.

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giovedì 2 settembre 2010

Fastweb sulle spine per l’Opa di Swisscom

Speculazione o fuga dalla Borsa? La versione ufficiale è che dietro la corsa delle azioni Fastweb ci siano solo acquisti tecnici. Ma molti a Piazza Affari sono convinti che ci voglia ben altro per giustificare un’impennata che farebbe impallidire anche Valentino Rossi. Le azioni ieri sono state sospese al rialzo a metà giornata, segnando un prezzo a 12,48 euro, in crescita del 10,83% rispetto alla vigilia. Alla fine della seduta, con la riapertura delle contrattazioni, il balzo è diventato addirittura del 18,12% con un valore salito a 13,3 euro.
Di sicuro l’assalto ai titoli è stato favorito da un agosto deludente, che ha visto il titolo cedere circa il 15%. Con una quotazione che il 20 del mese scorso è crollata a 10,6 euro, il minimo dell’anno. Ma gli analisti fanno notare che la flessione delle scorse settimane non basta a spiegare la frenesia delle contrattazioni e i volumi record, con 590mila azioni passate di mano contro una media quotidiana dell’ultimo mese di 68 mila pezzi. A metà seduta i contratti scambiati erano già 931, per un controvalore di oltre 3,8 milioni, rispetto ai 311 di martedi (715mila euro).
La realtà, secondo indiscrezioni non confermate, è che dalle parti di Berna si è tornati a parlare di delisting. Non è la prima volta, intendiamoci. Il dossier dell’Opa totalitaria della controllante Swisscom su Fastweb è aperto sin dai mesi immediatamente successivi all’acquisizione, nel maggio del 2007. Non poteva essere altrimenti, del resto, con una partecipazione dell’82% e un flottante ridotto all’osso. La società non nascondeva di ragionare sull’ipotesi già verso l’inizio del 2008, con le azioni scese a 23 euro rispetto ai 47 pagati ai soci Fastweb. «In effetti», spiegava l’ad di Swisscom Carsten Schloter, «avremmo interesse ad acquistare il resto e dunque togliere Fastweb dalla Borsa. Ma da un altro punto di vista si può dire che abbiamo già l’82% e che con questa quota possiamo già in pieno usufruire dei vantaggi dell’acquisto. Sono due punti di vista entrambi giusti. Perciò si annullano e noi non abbiamo deciso, preferiamo tenere aperte le opzioni».
In attesa della decisione, la pratica è rimasta congelata fino alla bufera giudiziaria dello scorso inverno, che ha rimescolato le carte in tavola.
Il terremoto scatenato a marzo dall’inchiesta sulla mega-truffa fiscale che ha portato all’arresto del fondatore e di alcuni ex manager Fastweb ha immediatamente riacceso i riflettori sul delisting. Allora l’azienda, per bocca del portavoce di Swisscom Josef Hubert, si limitò a sostenere che il ritiro dell’azienda di tlc dalla Borsa «non è al momento una priorità». Di sicuro, però, l’opzione è sul tavolo. L’operazione costerebbe non più di 1,1-1,2 miliardi di euro, contando un premio del 15%-20% rispetto ai prezzi attuali. Cifra che per un gruppo che ha fatturato solo nel primo semestre dell’anno 5,95 miliardi di franchi svizzeri (circa 4,5 miliardi di euro) potrebbe anche essere un prezzo accettabile da pagare per lasciarsi alle spalle il fango arrivato dalla vicenda Telecom Sparkle.

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