Il treno riparte e l’Italia rischia di restare a terra. È questo il dato che emerge dall’ultimo rapporto Excelsior realizzato in tandem da Unioncamere e dal ministero del Lavoro. I numeri complessivi parlano di un’occupazione che dà segnali di risveglio. Malgrado il saldo finale resti ancora negativo (-178mila unità), nel 2010 le imprese prevedono di assumere 20mila persone in più dell’anno passato. Uno scatto dovuto principalmente alle medie aziende più innovative e a quelle proiettate verso i mercati esteri. «La vitalità del sistema produttivo», di cui ha parlato ieri il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello, si scontra però con la scarsa competitività del mercato del lavoro. Sul totale delle assunzioni previste (802mila), ben 147mila (il 26,7%) rischiano di andare a vuoto per la mancanza di personale con le qualifiche e la professionalità necessarie. «Sono questi i dati che ci preoccupano», ha detto Maurizio Sacconi intervenendo alla presentazione del rapporto, «perché dimostrano che non abbiamo le competenze per agganciare la ripresa».
I numeri, in effetti, sono impressionanti. Tra gli addetti al marketing, gli infermieri e i farmacisti, la percentuale di offerta lavorativa che resterà senza risposta arriva addirittura al 50%, mentre si aggira intorno al 40% la quota di assunzioni “difficili” nel campo dell’informatica, degli agenti di vendita e degli addetti alla logistica. Ma in generale la carenza riguarda tutte le figure professionali qualificate. Proprio quelle di cui hanno bisogno le imprese per rimettersi sui binari. «Il rapporto», ha proseguito il ministro del Welfare, «ci dice che il ritardo italiano può frenare l’internazionalizzazione e ostacolare l’attrazione dei consumatori emergenti». Nasce anche da qui, l’idea del ministro di intensificare la frequenza del rapporto Excelsior, che diventerà da subito semestrale e, successivamente, trimestrale, e di allargare il campione da 100 a 200mila imprese. «Si tratta», ha detto Sacconi, «di uno strumento essenziale per mettere orientare le politiche sul lavoro e mettere in linea domanda e offerta. Le informazioni saranno anche pubblicate su un portale Internet per dare la possibilità alle famiglie di fare le migliori scelte educative per i figli». L’obiettivo è quello di evitare che per colpa di «convenzioni sociali e scarsa conoscenza» si ingrossi l’esercito di «quei giovani-vecchi, con alle spalle carriere scolastiche tutt’altro che brillanti, che entrano tardi e male nel mondo del lavoro e sono destinati ad essere disadattati sociali».
Tornando al rapporto, le cose vanno un pochino meglio nel Nord-Est e al Centro, mentre la situazione resta difficile nel Mezzogiorno. Sicilia e in Sardegna sono le due regioni dove la riduzione degli occupati sarà più marcata (-2,3 e -2,4%).
La carta vincente per chi ha ingranato la marcia resta ancora una volta la flessibilità. Non soltanto quella contrattuale (i rapporti a tempo determinato sono cresciuti del 10% portandosi al 42,3% delle assunzioni complessive), quanto di impostazione del lavoro. «In sostanza», ha spiegato Dardanello, «la disponibilità dei lavoratori ad accrescere le proprie conoscenze, ad alimentare la propria creatività, ad affrontare e risolvere problemi».
Continuano ad annaspare, infine, le micro-imprese. Dal miglioramento generalizzato dei saldi sono escluse le aziende con meno di 10 dipendenti che nel 2010 saranno costrette a tagliare circa 85mila posti di lavoro, il 2,5% della propria base occupazionale.
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Al principio fu creato l'universo. Questo fatto ha sconcertato non poche persone ed è stato considerato dai più come una cattiva mossa. (Douglas Adams)
sabato 31 luglio 2010
Ci sono 150mila posti di lavoro, ma i candidati non si presentano
Per Enel 400 milioni di utili al mese
Enel cavalca la ripresa e alza i target per il 2010. Fulvio Conti parla di «piani di efficienza» e «ottimizzazione degli investimenti». Ma la realtà è che l’ad del gruppo ha fiutato i segnali di risveglio dell’economia, che passano in primo luogo per la ripresa dei consumi energetici. Dopo mesi di stagnazione, il sistema produttivo ha iniziato di nuovo a far girare i contatori. E l’Enel è, ovviamente, in prima fila.
Di qui la fiducia di Conti, che chiude i sei mesi prevedendo «per l’intero 2010 un margine operativo lordo superiore a quello già annunciato al mercato». Non solo sopra i 16 miliardi, ma probabilmente, ha aggiunto, «più vicino ai 17». Di conseguenza, pure l’utile netto ordinario dovrebbe attestarsi a fine anno sopra la soglia dei 4 miliardi fissata nel piano strategico.
Anche con i venti di crisi, del resto, l’Enel non si è fermata. Il gruppo ha archiviato il semestre con ricavi in crescita del 22,3% a 34,8 miliardi, rispetto ai 28,4 del 2009. mentre l’ebitda (il margine operativo lordo) è a quota 8,8 miliardi, in progressione dell’11,8% sullo stesso periodo dell’anno passato. Bene anche il risultato operativo, cresciuto del 9% a 6,08 miliardi.
L’esercizio anticipato dell’opzione di vendita concessa alla spagnola Acciona sul 25% di Endesa e le conseguenti plusvalenze per il gruppo guidato da Conti hanno fatto scivolare l’utile del 31,2%, ma al netto delle partite straordinarie i profitti sono saliti del 10,8% a 2,42 miliardi.
A sgambettare l’Enel sul fronte del debito è stata invece la flessione dell’euro provocata dalla sfiducia dei mercati sulla capacità del Vecchio Continente di resistere ai colpi della crisi. Le impennate del biglietto verde scatenate dal terremoto greco hanno pesato sulle obbligazioni in dollari del gruppo facendo schizzare l’indebitamento a 53,89 miliardi nei sei mesi. «Al netto degli effetti di cambio», ha spiegato Conti, «la cifra sarebbe di 51,5 miliardi». Le oscillazioni valutarie, non solo della moneta statunitense, sono ampiamente compensate e coperte da contratti derivati. Ma l’ad punta più che altro al massiccio programma di dismissioni che potrebbe portare nelle casse del gruppo fino a 6 miliardi. Di questi, 1,5 sono già arrivati attraverso la cessione della rete elettrica ad alta tensione di Endesa, il cui contratto è chiuso e firmato.
Dalla vendita di altri asset in Spagna, Grecia e Bulgaria dovrebbe uscire fuori un ulteriore miliardo. Il grosso, però, è atteso dal collocamento di Enel Green Power previsto per la prima settimana di ottobre. Sulla cessione della quota di minoranza della controllata attiva nelle rinnovabili (che ha chiuso il semestre con una crescita del 10,5% dei ricavi, a 1,039 miliardi, e del 13,4% degli utili, a 253 milioni) rimangono ancora aperte sia la strada della vendita diretta sia quella, preferita, della quotazione.
In ogni caso, dall’operazione dovrebbe arrivare una cifra che oscilla tra i 3 e i 4 miliardi. Anche perché l’amministratore delegato ha assicurato che il gruppo non è sotto pressioni da un punto di vista finanziario e quindi non farà sconti sul prezzo.
Fatti tutti i conti, il target previsto dal piano sembra a portata di mano. «Sono molto fiducioso», ha detto Conti, «di poter centrare l’obiettivo fissato per la fine del 2010 di un debito di 45 miliardi di euro, al netto delle variazioni dei tassi di cambio». Alla riduzione dell’indebitamento andrà pure l’eccesso del flusso di cassa, che il manager prevede possa arrivare, nei 12 mesi, a 500 milioni.
Le buone prospettive sui conti di fine anno dovrebbero garantire una cedola robusta. L’ad ha infatti confermato la politica dei dividendi, che prevede la distribuzione del 60% dell’utile ordinario. L’importo preciso sarà individuato solo alla chiusura dell’esercizio, ma il cda si riunirà il prossimo 29 settembre per deliberare l’entità dell’acconto che sarà pagato a partire dal 25 novembre.
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Di qui la fiducia di Conti, che chiude i sei mesi prevedendo «per l’intero 2010 un margine operativo lordo superiore a quello già annunciato al mercato». Non solo sopra i 16 miliardi, ma probabilmente, ha aggiunto, «più vicino ai 17». Di conseguenza, pure l’utile netto ordinario dovrebbe attestarsi a fine anno sopra la soglia dei 4 miliardi fissata nel piano strategico.
Anche con i venti di crisi, del resto, l’Enel non si è fermata. Il gruppo ha archiviato il semestre con ricavi in crescita del 22,3% a 34,8 miliardi, rispetto ai 28,4 del 2009. mentre l’ebitda (il margine operativo lordo) è a quota 8,8 miliardi, in progressione dell’11,8% sullo stesso periodo dell’anno passato. Bene anche il risultato operativo, cresciuto del 9% a 6,08 miliardi.
L’esercizio anticipato dell’opzione di vendita concessa alla spagnola Acciona sul 25% di Endesa e le conseguenti plusvalenze per il gruppo guidato da Conti hanno fatto scivolare l’utile del 31,2%, ma al netto delle partite straordinarie i profitti sono saliti del 10,8% a 2,42 miliardi.
A sgambettare l’Enel sul fronte del debito è stata invece la flessione dell’euro provocata dalla sfiducia dei mercati sulla capacità del Vecchio Continente di resistere ai colpi della crisi. Le impennate del biglietto verde scatenate dal terremoto greco hanno pesato sulle obbligazioni in dollari del gruppo facendo schizzare l’indebitamento a 53,89 miliardi nei sei mesi. «Al netto degli effetti di cambio», ha spiegato Conti, «la cifra sarebbe di 51,5 miliardi». Le oscillazioni valutarie, non solo della moneta statunitense, sono ampiamente compensate e coperte da contratti derivati. Ma l’ad punta più che altro al massiccio programma di dismissioni che potrebbe portare nelle casse del gruppo fino a 6 miliardi. Di questi, 1,5 sono già arrivati attraverso la cessione della rete elettrica ad alta tensione di Endesa, il cui contratto è chiuso e firmato.
Dalla vendita di altri asset in Spagna, Grecia e Bulgaria dovrebbe uscire fuori un ulteriore miliardo. Il grosso, però, è atteso dal collocamento di Enel Green Power previsto per la prima settimana di ottobre. Sulla cessione della quota di minoranza della controllata attiva nelle rinnovabili (che ha chiuso il semestre con una crescita del 10,5% dei ricavi, a 1,039 miliardi, e del 13,4% degli utili, a 253 milioni) rimangono ancora aperte sia la strada della vendita diretta sia quella, preferita, della quotazione.
In ogni caso, dall’operazione dovrebbe arrivare una cifra che oscilla tra i 3 e i 4 miliardi. Anche perché l’amministratore delegato ha assicurato che il gruppo non è sotto pressioni da un punto di vista finanziario e quindi non farà sconti sul prezzo.
Fatti tutti i conti, il target previsto dal piano sembra a portata di mano. «Sono molto fiducioso», ha detto Conti, «di poter centrare l’obiettivo fissato per la fine del 2010 di un debito di 45 miliardi di euro, al netto delle variazioni dei tassi di cambio». Alla riduzione dell’indebitamento andrà pure l’eccesso del flusso di cassa, che il manager prevede possa arrivare, nei 12 mesi, a 500 milioni.
Le buone prospettive sui conti di fine anno dovrebbero garantire una cedola robusta. L’ad ha infatti confermato la politica dei dividendi, che prevede la distribuzione del 60% dell’utile ordinario. L’importo preciso sarà individuato solo alla chiusura dell’esercizio, ma il cda si riunirà il prossimo 29 settembre per deliberare l’entità dell’acconto che sarà pagato a partire dal 25 novembre.
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giovedì 29 luglio 2010
L’Eni continua a correre. Anche la Cdp festeggia
La barca continua a procedere spedita, malgrado il mare in burrasca. Con grande soddisfazione della Cassa depositi e prestiti, che si appresta a diventare il principale azionista dell’Eni dopo il riassetto delle partecipazioni del Tesoro. Paolo Scaroni lo aveva annunciato e promesso chiudendo il primo trimestre dell’anno. «In un 2010 ancora incerto», aveva detto lo scorso aprile, «Eni continuerà a generare risultati al top del settore». Parole più che confermate dalla semestrale diffusa ieri, con l’utile operativo balzato del 47,9% a 4,05 miliardi (+29,5% a 3,45 miliardi quello adjusted) e quello operativo adjusted cresciuto del 34,2% a 8,46 miliardi. Bene anche la produzione di greggio, salita nel secondo trimestre dell’1% a 1,57 milioni di barili al giorno.
Numeri che diventano addirittura migliori considerando solo il secondo trimestre dell’anno. Periodo in cui l’utile operativo adjusted è salito del 61,9% a 4,13 miliardi e quello netto è più che raddoppiato, attestandosi a 1,82 miliardi (+119,2%). Il cash flow è a quota 4,59 miliardi di euro nel trimestre e 9,14 miliardi nel semestre.
Risultati, si legge in una nota, «sostenuti dalla crescita organica registrata in particolare in Nigeria e Congo». Per il 2010, «in uno scenario energetico ancora caratterizzato da elevata volatilità, Eni prevede una leggera ripresa dei consumi mondiali di petrolio ed un prezzo medio del marker Brent di 76 dollari al barile». Per quanto riguarda la domanda europea ed italiana di gas, dopo la rilevante flessione dei consumi industriali e termoelettrici registrata nel 2009, il management ha rivisto al rialzo lestime di crescita per il 2010.
Ma la notizia che più ha interessato gli azionisti ieri riguarda la politica dei dividendi. Scaroni ha annunciato che non si prevedono cambiamenti rispetto all’anno passato. Di qui la decisione di distribuire un acconto di 0,50 euro a settembre per arrivare poi ad un euro con la chiusura dell’esercizio, esattamente come nel 2009. Una cedola che si preannuncia particolarmente succulenta per la Cdp se il passaggio delle quote dal Tesoro dovesse concretizzarsi entro l’anno. Nel 2009, infatti, la Cassa controllata al 70% dall’Economia e al 30% dalle Fondazioni bancarie ha incassato circa 400 milioni grazie al suo 9,9% di capitale detenuto nel Cane a sei zampe. Se, come previsto dalla delibera di fine giugno, la Cassa riceverà azioni Eni in cambio delle quote in Enel, Poste ed Stm, la partecipazione potrebbe crescere di più del doppio e così il dividendo.
Ma le antenne dei vertici di Cdp, Franco Bassanini e Giovanni Gorno Tempini, si sono drizzate anche di fronte all’annuncio di Scaroni sul piano di dismissioni. L’ad ha spiegato che per migliorare la leva finanziaria il gruppo ha in cantiere cessioni per 3 miliardi entro il 2010. Circa 700 milioni potrebbero riguardare la vendita del gasdotto Tag, che in seguito alle pressioni di Bruxelles l’Eni dovrebbe cedere proprio alla Cdp. Le parole del manager sembrano lasciare intendere che il nodo del prezzo, che finora ha bloccato l’operazione, possa finalmente essersi sciolto.
Per quanto riguarda eventuali acquisizioni da Bp, che ha annunciato cessioni per 30 miliardi di dollari, il direttore Claudio Descalzi ha spiegato che il gruppo è interessato solo ad asset detenuti in comune, situati in Egitto e Indonesia. Sempre ieri, infine, Eni ha annunciato l’avvio della produzione del giacimento Arcadia in Egitto, scoperto solo 45 giorni fa.
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Numeri che diventano addirittura migliori considerando solo il secondo trimestre dell’anno. Periodo in cui l’utile operativo adjusted è salito del 61,9% a 4,13 miliardi e quello netto è più che raddoppiato, attestandosi a 1,82 miliardi (+119,2%). Il cash flow è a quota 4,59 miliardi di euro nel trimestre e 9,14 miliardi nel semestre.
Risultati, si legge in una nota, «sostenuti dalla crescita organica registrata in particolare in Nigeria e Congo». Per il 2010, «in uno scenario energetico ancora caratterizzato da elevata volatilità, Eni prevede una leggera ripresa dei consumi mondiali di petrolio ed un prezzo medio del marker Brent di 76 dollari al barile». Per quanto riguarda la domanda europea ed italiana di gas, dopo la rilevante flessione dei consumi industriali e termoelettrici registrata nel 2009, il management ha rivisto al rialzo lestime di crescita per il 2010.
Ma la notizia che più ha interessato gli azionisti ieri riguarda la politica dei dividendi. Scaroni ha annunciato che non si prevedono cambiamenti rispetto all’anno passato. Di qui la decisione di distribuire un acconto di 0,50 euro a settembre per arrivare poi ad un euro con la chiusura dell’esercizio, esattamente come nel 2009. Una cedola che si preannuncia particolarmente succulenta per la Cdp se il passaggio delle quote dal Tesoro dovesse concretizzarsi entro l’anno. Nel 2009, infatti, la Cassa controllata al 70% dall’Economia e al 30% dalle Fondazioni bancarie ha incassato circa 400 milioni grazie al suo 9,9% di capitale detenuto nel Cane a sei zampe. Se, come previsto dalla delibera di fine giugno, la Cassa riceverà azioni Eni in cambio delle quote in Enel, Poste ed Stm, la partecipazione potrebbe crescere di più del doppio e così il dividendo.
Ma le antenne dei vertici di Cdp, Franco Bassanini e Giovanni Gorno Tempini, si sono drizzate anche di fronte all’annuncio di Scaroni sul piano di dismissioni. L’ad ha spiegato che per migliorare la leva finanziaria il gruppo ha in cantiere cessioni per 3 miliardi entro il 2010. Circa 700 milioni potrebbero riguardare la vendita del gasdotto Tag, che in seguito alle pressioni di Bruxelles l’Eni dovrebbe cedere proprio alla Cdp. Le parole del manager sembrano lasciare intendere che il nodo del prezzo, che finora ha bloccato l’operazione, possa finalmente essersi sciolto.
Per quanto riguarda eventuali acquisizioni da Bp, che ha annunciato cessioni per 30 miliardi di dollari, il direttore Claudio Descalzi ha spiegato che il gruppo è interessato solo ad asset detenuti in comune, situati in Egitto e Indonesia. Sempre ieri, infine, Eni ha annunciato l’avvio della produzione del giacimento Arcadia in Egitto, scoperto solo 45 giorni fa.
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Guarguaglini resta in sella. Il calo dell’utile non cambia i piani di Finmeccanica
Pierfrancesco Guarguaglini tranquillizza i mercati e i “gufi”. A quest’ultimi, in particolare, l’ad di Finmeccanica ha voluto annunciare che non sono previsti cambiamenti ai vertici. «Il cda», ha spiegato, «scadrà nel 2011 con gli attuali consiglieri». Quanto ai conti, il gruppo ha chiuso il semestre il linea con le attese. L’utile netto scende del 19,8% a 194 milioni, l’ebita adjusted del 3,1% a 586 milioni. I ricavi invece crescono dell’1,5% a 8,65 miliardi mentre gli ordini calano del 3,3% a 8,05 miliardi. L’indebitamento finanziario netto è di 4,62 miliardi, in linea con quello del primo semestre 2009. «Le principali voci che hanno contribuito» alla flessione dell’utile netto, si legge in una nota, sono riconducibili al peggioramento dell’ebit (32 milioni) e degli oneri finanziari (31 milioni), parzialmente assorbito dalla riduzione delle imposte (-15 milioni). I risultati sono comunque «in linea con le previsioni e consentono il rispetto delle guidance per l’anno 2010». Sulle notizie relative alle vicende giudiziarie coperte dal segreto ma pubblicate dai giornali, infine, la società ha deciso di mettere in campo gli avvocati per evitare «il ripetersi di episodi che hanno assunto una frequenza preoccupante».
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martedì 27 luglio 2010
Telecom riduce gli esuberi, ma l’accordo non si trova
Esuberi e banda larga. Il governo non molla la presa su Telecom. Ieri il viceministro dello Sviluppo, Paolo Romani, ha passato tutta la giornata ad occuparsi dell’ex monopolista dei telefoni. Ma dal doppio tavolo non sono ancora uscite soluzioni definitive. Sul fronte degli esuberi l’esecutivo si è per ora limitato a incalzare le controparti per tentare di arrivare ad un accordo entro il 30 luglio, quando scadrà il congelamento dei 3.700 licenziamenti annunciati dall’azienda. Qualche giorno fa il ministro del Welfare Maurizio Sacconi aveva spiegato che la data non è un ultimatum, ma ieri l’ad Franco Bernabé ha continuato a parlare della fine del mese come di «una scadenza seria» entro la quale bisognerà «verificare quali sono le condizioni dell’accordo». Le posizioni, però, sembrano ancora distanti. Così almeno la pensano i sindacati, che ieri hanno definito «complicata» la trattativa e hanno puntato l’indice anche contro il governo che dovrebbe, secondo il segretario della Slc-Cgil, «fare la sua parte approntando gli strumenti che ha promesso» e valutando «la posizione rigida dell’azienda».
L’incontro si è concluso con un nulla di fatto, malgrado le aperture della Telecom che ha dato garanzia di non procedere a esternalizzazioni attraverso la dismissione di rami d’azienda o la creazione di nuove società fino alla fine del 2012. Il gruppo avrebbe anche diminuito gli esuberi complessivi del piano 2010-2012 da 6.800 a 5.700. le proposte saranno valutate in un nuovo incontro previsto per il 27 luglio.
Complicata appare anche la questione della banda larga, al centro del secondo tavolo presieduto da Romani. Anche qui il governo si è dovuto scontrare con le rigidità del gruppo, che sembra intenzionato a proseguire da solo sulla rete di nuova generazione. «L’obiettivo», ha spiegato il viceministro, «è di avere un disegno unitario dopo di che ci sono tutti i distinguo e le differenze possibili. Il governo vuole che il Paese abbia in tempi ravvicinati una grande infrastruttura di rete Ngn per almeno il 50% del Paese».
Ma Telecom nelle 13 città principali d’Italia, ha spiegato, «ritiene che ci sia un livello di concorrenza tale per cui non c’è bisogno di mettere a fattore comune un progetto». Da parte di Telecom, ha detto lo stesso Bernabè, c’è «disponibilità a trovare forme di cooperazione anche societarie» con gli altri attori sulle infrastrutture, ma solo nelle aree grigie dove non può esserci più di un operatore.
Romani spera comunque di chiudere entro gli inizi di settembre. «Abbiamo fatto molti passi avanti», ha detto.
A confondere un po’ le acque ci hanno pensato i leghisti, con un’interrogazione al governo in cui si chiede se esiste «un nesso tra le richieste di incremento dei canoni di concessione e le attuali linee di politica industriale dell’azienda».
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L’incontro si è concluso con un nulla di fatto, malgrado le aperture della Telecom che ha dato garanzia di non procedere a esternalizzazioni attraverso la dismissione di rami d’azienda o la creazione di nuove società fino alla fine del 2012. Il gruppo avrebbe anche diminuito gli esuberi complessivi del piano 2010-2012 da 6.800 a 5.700. le proposte saranno valutate in un nuovo incontro previsto per il 27 luglio.
Complicata appare anche la questione della banda larga, al centro del secondo tavolo presieduto da Romani. Anche qui il governo si è dovuto scontrare con le rigidità del gruppo, che sembra intenzionato a proseguire da solo sulla rete di nuova generazione. «L’obiettivo», ha spiegato il viceministro, «è di avere un disegno unitario dopo di che ci sono tutti i distinguo e le differenze possibili. Il governo vuole che il Paese abbia in tempi ravvicinati una grande infrastruttura di rete Ngn per almeno il 50% del Paese».
Ma Telecom nelle 13 città principali d’Italia, ha spiegato, «ritiene che ci sia un livello di concorrenza tale per cui non c’è bisogno di mettere a fattore comune un progetto». Da parte di Telecom, ha detto lo stesso Bernabè, c’è «disponibilità a trovare forme di cooperazione anche societarie» con gli altri attori sulle infrastrutture, ma solo nelle aree grigie dove non può esserci più di un operatore.
Romani spera comunque di chiudere entro gli inizi di settembre. «Abbiamo fatto molti passi avanti», ha detto.
A confondere un po’ le acque ci hanno pensato i leghisti, con un’interrogazione al governo in cui si chiede se esiste «un nesso tra le richieste di incremento dei canoni di concessione e le attuali linee di politica industriale dell’azienda».
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Passa il costo standard. Stop ai soldi facili per i Comuni spreconi
I Comuni saranno autonomi. Finché faranno i bravi. È un federalismo ancora zoppicante quello che sta uscendo a spezzoni dalle stanze di Palazzo Chigi. La bozza del secondo decreto attuativo che ha ricevuto ieri il primo via libera dal Consiglio dei ministri contiene la grande rivoluzione sui criteri per valutare il fabbisogno degli enti locali. Il calcolo non sarà più ancorato solo alla spesa storica, ma anche ad altri parametri, tra i quali sono stati inseriti, su iniziativa del ministro Renato Brunetta, l’efficienza, l’efficacia e la qualità dei servizi resi a cittadini e imprese. Si tratta, si legge in una nota della Funzione Pubblica, di «un capovolgimento di ottica che consentirà di abbandonare gli effetti distorsivi e poco responsabilizzanti generati dal modello attuale».
Il vizio storico
«Sul versante della spesa», ha spiegato il ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, «si interrompe il vizio del nostro paese, che fino a oggi ha trasferito tutte le risorse, non in base alle esigenze, ma in base alla spesa storica. Questo ha fatto si che chi più spendeva, e probabilmente male amministrava, riceveva di più dallo Stato».
Dalla polizia locale agli asili nido, dalla sanità all’edilizia, dai trasporti alla gestione del territorio. Sono moltissime le funzioni individuate nel decreto per la determinazione dei costi standard, che verranno ricalcolati ogni tre anni. Per questo la pratica è stata affidata alla Sose, che già gestisce la complicatissima macchina degli studi di settore. La società dell’Agenzia delle entrate si occuperà di individuare i costi «attraverso dei questionari e dei filtri».
I rubinetti si chiudono
E qui entra in gioco il ruolo del governo centrale. I comuni e le province che non risponderanno alla Sose entro il termine stabilito di 60 giorni saranno pesantemente puniti. In che modo, la mancata restituzione «è sanzionata con il blocco, sino all’adempimento dell’obbligo di invio dei questionari, dei trasferimenti a qualunque titolo erogati al Comune o alla Provincia». Insomma, niente dati, niente soldi. Ma la cosa che in questo momento più preoccupa i Comuni è la definizione dell’autonomia impositiva. Sembra tramontata, per ora, l’ipotesi della supertassa unica, Imu. Una torta da 15 miliardi su cui gli enti locali speravano di mettere le mani. La prospettiva resta, ma il percorso sarà lungo e accidentato. Saranno i Comuni a decidere, con referendum, se vorranno unificare i 24 tributi locali. «Non c’è stata», ha spiegato il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, «nessuna retromarcia ideologica, per noi l’ideale è la massima concentrazione possibile, ma saranno i referendum a decidere i menù fiscali». Il tutto dovrebbe essere definito nel decreto sull’autonomia fiscale che Tremonti ha assicurato arriverà entro la fine del mese, «nel rispetto dell’accordo firmato con i Comuni».
La stangata ai Comuni
Il presidente dell’Anci, Sergio Chiamparino, resta scettico. Entro il 31 luglio bisogna portare in Cdm il dl che dispone «il trasferimento di una serie di imposte che adesso sono dello Stato. Ad ora non sappiamo nulla di questo».
Sanno benissimo, però, i sindaci quanto costerà la manovra finanziaria. Secondo uno studio realizzato dall’Ifel, fondazione dell’Anci, «oltre un terzo dei Comuni dovrà realizzare nel 2011 un taglio della spesa superiore al 10% o, in altri termini, dovrà chiedere ai cittadini un contributo superiore ai 100 euro». I numeri si traducono nella bocciatura della manovra arrivata ieri all’unisono da Regioni, Province e Comuni nel corso della Conferenza unificata.
Tremonti ha liquidato il verdetto con una battuta rivolta ai governatori: «Le regioni scenderanno dai grattaceli, verranno al tavolo. Il clima è buono». «Scenderemo dai nostri grattacieli simbolo di efficienza e andremo in quei palazzi romani che il nostro popolo identifica con gli sprechi. Ma il governo apra veramente il dialogo con noi, perché così com’è la manovra è insostenibile», ha replicato il presidente della regione Lombardia, Roberto Formigoni.
© Libero
Il vizio storico
«Sul versante della spesa», ha spiegato il ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, «si interrompe il vizio del nostro paese, che fino a oggi ha trasferito tutte le risorse, non in base alle esigenze, ma in base alla spesa storica. Questo ha fatto si che chi più spendeva, e probabilmente male amministrava, riceveva di più dallo Stato».
Dalla polizia locale agli asili nido, dalla sanità all’edilizia, dai trasporti alla gestione del territorio. Sono moltissime le funzioni individuate nel decreto per la determinazione dei costi standard, che verranno ricalcolati ogni tre anni. Per questo la pratica è stata affidata alla Sose, che già gestisce la complicatissima macchina degli studi di settore. La società dell’Agenzia delle entrate si occuperà di individuare i costi «attraverso dei questionari e dei filtri».
I rubinetti si chiudono
E qui entra in gioco il ruolo del governo centrale. I comuni e le province che non risponderanno alla Sose entro il termine stabilito di 60 giorni saranno pesantemente puniti. In che modo, la mancata restituzione «è sanzionata con il blocco, sino all’adempimento dell’obbligo di invio dei questionari, dei trasferimenti a qualunque titolo erogati al Comune o alla Provincia». Insomma, niente dati, niente soldi. Ma la cosa che in questo momento più preoccupa i Comuni è la definizione dell’autonomia impositiva. Sembra tramontata, per ora, l’ipotesi della supertassa unica, Imu. Una torta da 15 miliardi su cui gli enti locali speravano di mettere le mani. La prospettiva resta, ma il percorso sarà lungo e accidentato. Saranno i Comuni a decidere, con referendum, se vorranno unificare i 24 tributi locali. «Non c’è stata», ha spiegato il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, «nessuna retromarcia ideologica, per noi l’ideale è la massima concentrazione possibile, ma saranno i referendum a decidere i menù fiscali». Il tutto dovrebbe essere definito nel decreto sull’autonomia fiscale che Tremonti ha assicurato arriverà entro la fine del mese, «nel rispetto dell’accordo firmato con i Comuni».
La stangata ai Comuni
Il presidente dell’Anci, Sergio Chiamparino, resta scettico. Entro il 31 luglio bisogna portare in Cdm il dl che dispone «il trasferimento di una serie di imposte che adesso sono dello Stato. Ad ora non sappiamo nulla di questo».
Sanno benissimo, però, i sindaci quanto costerà la manovra finanziaria. Secondo uno studio realizzato dall’Ifel, fondazione dell’Anci, «oltre un terzo dei Comuni dovrà realizzare nel 2011 un taglio della spesa superiore al 10% o, in altri termini, dovrà chiedere ai cittadini un contributo superiore ai 100 euro». I numeri si traducono nella bocciatura della manovra arrivata ieri all’unisono da Regioni, Province e Comuni nel corso della Conferenza unificata.
Tremonti ha liquidato il verdetto con una battuta rivolta ai governatori: «Le regioni scenderanno dai grattaceli, verranno al tavolo. Il clima è buono». «Scenderemo dai nostri grattacieli simbolo di efficienza e andremo in quei palazzi romani che il nostro popolo identifica con gli sprechi. Ma il governo apra veramente il dialogo con noi, perché così com’è la manovra è insostenibile», ha replicato il presidente della regione Lombardia, Roberto Formigoni.
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giovedì 22 luglio 2010
Santa alleanza fra Farnesina e Tesoro per attirare i fondi sovrani
Infrastrutture, grandi opere, turismo. Per cavalcare i primi segnali di ripresa il governo gioca la carta dei fondi sovrani. Entro il prossimo 5 agosto, ha spiegato ieri Franco Frattini dal Salone di Farnborough (Londra), si riunirà il Comitato strategico per valutare la presenza e l’interesse di investitori arabi e asiatici, in particolare cinesi, nel nostro Paese. L’organismo coordinato dal ministero degli Esteri e da quello dell’Economia, Giulio Tremonti, è nato due anni fa più per arginare eventuali assalti ai gioielli italiani messi in difficoltà dalla crisi che per favorire occasioni di business dall’estero. Ora, però, il Tesoro e la Farnesina vogliono trasformare l’insidia in opportunità.
Il comitato presieduto da Enrico Vitali ha del resto già individuato le aree di intervento. Principalmente made in Italy e Pmi, dove l’investimento, è consigliabile e non presenta rischi. Più garanzie servono invece nel settore bancario e in quello delle comunicazioni, dove l’ingresso è possibile (poche settimane fa il fondo di Abu Dhabi è entrato con il 5% in Unicredit, affiancandosi ai libici già presenti nel capitale dell’istituto di credito) solo a fronte di garanzie. Vi sono ovviamente settori, come ha ribadito ieri Frattini, esclusi in partenza dal raggio d’azione dei fondi sovrani. Tra questi c’è quello della difesa. Finmeccanica, insomma, non si tocca. Anzi, il ministro degli Esteri ci ha tenuto a sottolineare che «è compito del Governo riaffermare la fiducia e il sostegno ad un gruppo di interesse strategico nazionale» come quello guidato da Pierfrancesco Guarguaglini. Frattini ha poi escluso che ci siano complotti, ma ha anche spiegato che non «ci sono molti gruppi al mondo come Finmeccanica, che sappiano fare altrettanto». E quando è difficile combattere sul terreno della concorrenza, ha proseguito, «forse si cerca di dare qualche colpo sotto la cintura. Noi a questo dobbiamo reagire con forza». Sul piano industriale, intanto, Finmeccanica reagisce con i numeri. Ieri la controllata Alenia Aeronautica ha messo a segno un nuovo contratto per i Superjet che costruisce con la russa Sukhoi: la società di leasing Pearl Aircraft Corporation ha acquisto 30 velivoli per un valore di mercato che supera i 900 milioni di dollari.
© Libero
Il comitato presieduto da Enrico Vitali ha del resto già individuato le aree di intervento. Principalmente made in Italy e Pmi, dove l’investimento, è consigliabile e non presenta rischi. Più garanzie servono invece nel settore bancario e in quello delle comunicazioni, dove l’ingresso è possibile (poche settimane fa il fondo di Abu Dhabi è entrato con il 5% in Unicredit, affiancandosi ai libici già presenti nel capitale dell’istituto di credito) solo a fronte di garanzie. Vi sono ovviamente settori, come ha ribadito ieri Frattini, esclusi in partenza dal raggio d’azione dei fondi sovrani. Tra questi c’è quello della difesa. Finmeccanica, insomma, non si tocca. Anzi, il ministro degli Esteri ci ha tenuto a sottolineare che «è compito del Governo riaffermare la fiducia e il sostegno ad un gruppo di interesse strategico nazionale» come quello guidato da Pierfrancesco Guarguaglini. Frattini ha poi escluso che ci siano complotti, ma ha anche spiegato che non «ci sono molti gruppi al mondo come Finmeccanica, che sappiano fare altrettanto». E quando è difficile combattere sul terreno della concorrenza, ha proseguito, «forse si cerca di dare qualche colpo sotto la cintura. Noi a questo dobbiamo reagire con forza». Sul piano industriale, intanto, Finmeccanica reagisce con i numeri. Ieri la controllata Alenia Aeronautica ha messo a segno un nuovo contratto per i Superjet che costruisce con la russa Sukhoi: la società di leasing Pearl Aircraft Corporation ha acquisto 30 velivoli per un valore di mercato che supera i 900 milioni di dollari.
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Guarguaglini incassa la fiducia del governo, Finmeccanica 3 miliardi di ordini
Pierfrancesco Guarguaglini incassa la fiducia del governo e un pacchetto di commesse attraverso le società controllate da Finmeccanica che arriva a sfiorare i 3 miliardi di dollari. L’unica nota stonata della giornata di ieri al Salone di Farnborough (Londra) è arrivata per bocca di Ignazio La Russa, che ha annunciato una riduzione di 25 unità sulla commessa degli Eurofighter. Il risparmio per lo Stato sarà di circa 2 miliardi. Accanto ai tagli, il ministro ha però confermato la piena fiducia nell’operato dell’ad di Finmeccanica, smentendo i rumor su un possibile avvicendamento con Flavio Cattaneo. Parole di «stima» sono arrivate anche dal ministro dell’Istruzione, Maria Stella Gelmini. Accanto alla solidarietà, ieri Guarguaglini ha portato a casa ottimi contratti. Il bottino più grosso arriva da Atr, joint venture italo-francese cui Finmeccanica partecipa attraverso Alenia, che ha ricevuto ordini per 1,5 miliardi di dollari. Altri 600 milioni di dollari riguardano tre ordini firmati da Avio, partecipato da Finmeccanica. E sempre ieri la partecipata Sukhoi, ha firmato una lettera di intenti per 12 velivoli per un valore totale di 720 milioni di euro.
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Mugnato (Digint): «Cola mi fu presentato dai Servizi»
«Fummo noi a chiedere che fosse garantito l’anonimato alla nostra società, ma i dettagli tecnici furono organizzati dalla Ernst & Young». Nel giorno in cui il pm di Roma Giancarlo Capaldo fa rotta verso la Svizzera per fare luce sulle disponibilità di Lorenzo Cola, il direttore generale della Digint, Nicola Mugnato, ricostruisce dal Salone di Farnborough le dinamiche finite nel mirino dei magistrati. «Ho fondato la Ikon (società cui faceva capo il software poi confluito in Digint, ndr) insieme a Ghioni (Fabio, il capo del tiger team Telecom, ndr.) intorno al 2000, ci occupavamo di intercettazioni informatiche su input delle forze dell’ordine per operazioni di contrasto al terrorismo islamico e alla pedopornografia». Ghioni se ne va nel 2003, ma alla fine del 2006, quando esplose lo scandalo Telecom la società venne comunque travolta dal fango dell’inchiesta. «Avevamo difficoltà a lavorare, a quel punto procure e servizi si interessarono al destino della nostra azienda, non volevamo buttare sette anni della nostra vita». Fu allora, per il tramite del capocentro Sismi di Milano, Pozzi, che spuntò l’ipotesi Finmeccanica. «Furono i servizi a presentarci Cola, che si qualificò come consulente di Finmeccanica, mi sono fidato», spiega Mugnato. L’imprenditore si fidò anche di Ernst & Young, alla quale chiese di garantire la sua privacy per motivi di “sicurezza personale”, vista la precedente attività di contrasto alla criminalità. Di lì l’idea, poco felice, di creare la lussemburghese Financial Lincoln e, come controllata, la Digint. Mai conosciuto Mokbel? «Assolutamente no», risponde Mugnato.
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Finmeccanica riparte da Agusta. Guarguaglini: «Non mi muovo»
Un nuovo gioiello della scuderia AgustaWestland, ordini in crescita e grosse opportunità di business nei Paesi emergenti. Pierfrancesco Guarguaglini risponde così ai colpi della crisi e ai veleni delle inchieste giudiziarie. Nessun passo indietro, né sul fronte industriale né su quello personale. «Se l’azionista non ha fiducia in me meglio andare via, per ora ho la fiducia dell’azionista e resto dove sto», dice l’ad di Finmeccanica dal Salone dell’aerospazio di Farnborough (Londra). Il manager aveva promesso di non parlare del caso Digint, ma alla fine, pressato dai giornalisti, ha speso qualche parole per spiegare che la società finita nel mirino della procura di Roma per i collegamenti con la cricca di Mokbel sviluppa un software per la sicurezza dei sistemi informatici di altissimo livello che tutte le società del gruppo stanno adottando e che anche la statunitense Drs sta valutando. Di sicuro, ha però ammesso riferendosi alla Financial Lincoln che detiene il 51% di Digint, «col senno di poi sarebbe stato meglio non creare la società lussemburghese» che ha permesso a Mokbel e ai suoi di mettere un piede dentro l’operazione. In ogni caso, ha concluso, «noi siamo testimoni e non imputati».
Ma la kermesse londinese è stata dedicata principalmente ai risultati ottenuti dal gruppo. Cifre che spingono Guarguaglini all’ottimismo. «Bisogna essere cauti, ma penso che alla fine del 2010 i conti saranno in linea con quanto fatto finora». Certo, la crisi si è fatta sentire. Soprattutto sui budget destinati dai governi europei alla difesa. Ma i tagli che preoccupano tutta l’industria del Vecchio continente, ha spiegato l’ad, «avranno un impatto relativo su Finmeccanica».
L’asso nella manica di Guarguaglini si chiama internazionalizzazione. Una strategia che nel 2009 ha portato il gruppo a produrre solo il 22% del fatturato in Italia. La percentuale dovrebbe scendere al 19% nel 2011, a tutto vantaggio dell’estero, dove escludendo Gran Bretagna (8%) e Usa (22%), si dovrebbe concentrare il 51% dei ricavi. Nel mirino dell’azienda ci sono principalmente i Paesi emergenti, che stanno «investendo molto sulle infrastrutture e sulla sicurezza». In particolare Turchia, India e Brasile, dove i budget della difesa di qui al 2012 cresceranno rispettivamente del 13, 19 e 20 per cento. Contesti in cui sono determinanti gli accordi bilaterali tra i governi. Da questo punto di vista, ha detto Guarguaglini, «il supporto di Palazzo Chigi non è mai mancato». Ed è anche grazie all’intervento dell’esecutivo che dovrebbe andare in porto la mega commessa per i sistemi di sicurezza del canale di Panama.
Il manager ha detto di aspettarsi «buone notizie a metà agosto». È su questi fattori che l’ad di Finmeccanica punta per portare il monte ordini nel 2011 oltre i 22 miliardi con cui si dovrebbe chiudere l’esercizio in corso (rispetto ai 21 del 2009). A trainare i ricavi c’è anche il mercato inglese, dove la collaborazione tra il governo e la controllata AgustaWestland sta diventando sempre più stretta. Molte attese sono concentrate sul nuovo elicottero presentato ieri al Salone di Londra, l’AW 169, un bimotore medio multiruolo da 4,5 tonnellate e 10 passeggeri. L’ad di Agusta, Giuseppe Orsi, prevede di vendere mille macchine in 20 anni, ma il primo target è il mercato parapubblico britannico, sul quale l’azienda vuole sfidare la leadership della franco-tedesca Eurocopter. Non è un caso che il modello sia stato presentato con la “divisa” giallo-nera della polizia inglese. A rafforzare l’ottimismo di Guarguaglini, infine, ieri è arrivato il maxi ordine dalla compagnia indonesiana Kartika per 30 nuovi Superjet 100 per un valore di 951 milioni di dollari. Il velivolo regionale di ultima generazione è realizzato dalla Scac, Sukhoi Civil Aircraft, nella quale Alenia Aeronautica, azienda di Finmeccanica, detiene il 25% delle azioni.
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Ma la kermesse londinese è stata dedicata principalmente ai risultati ottenuti dal gruppo. Cifre che spingono Guarguaglini all’ottimismo. «Bisogna essere cauti, ma penso che alla fine del 2010 i conti saranno in linea con quanto fatto finora». Certo, la crisi si è fatta sentire. Soprattutto sui budget destinati dai governi europei alla difesa. Ma i tagli che preoccupano tutta l’industria del Vecchio continente, ha spiegato l’ad, «avranno un impatto relativo su Finmeccanica».
L’asso nella manica di Guarguaglini si chiama internazionalizzazione. Una strategia che nel 2009 ha portato il gruppo a produrre solo il 22% del fatturato in Italia. La percentuale dovrebbe scendere al 19% nel 2011, a tutto vantaggio dell’estero, dove escludendo Gran Bretagna (8%) e Usa (22%), si dovrebbe concentrare il 51% dei ricavi. Nel mirino dell’azienda ci sono principalmente i Paesi emergenti, che stanno «investendo molto sulle infrastrutture e sulla sicurezza». In particolare Turchia, India e Brasile, dove i budget della difesa di qui al 2012 cresceranno rispettivamente del 13, 19 e 20 per cento. Contesti in cui sono determinanti gli accordi bilaterali tra i governi. Da questo punto di vista, ha detto Guarguaglini, «il supporto di Palazzo Chigi non è mai mancato». Ed è anche grazie all’intervento dell’esecutivo che dovrebbe andare in porto la mega commessa per i sistemi di sicurezza del canale di Panama.
Il manager ha detto di aspettarsi «buone notizie a metà agosto». È su questi fattori che l’ad di Finmeccanica punta per portare il monte ordini nel 2011 oltre i 22 miliardi con cui si dovrebbe chiudere l’esercizio in corso (rispetto ai 21 del 2009). A trainare i ricavi c’è anche il mercato inglese, dove la collaborazione tra il governo e la controllata AgustaWestland sta diventando sempre più stretta. Molte attese sono concentrate sul nuovo elicottero presentato ieri al Salone di Londra, l’AW 169, un bimotore medio multiruolo da 4,5 tonnellate e 10 passeggeri. L’ad di Agusta, Giuseppe Orsi, prevede di vendere mille macchine in 20 anni, ma il primo target è il mercato parapubblico britannico, sul quale l’azienda vuole sfidare la leadership della franco-tedesca Eurocopter. Non è un caso che il modello sia stato presentato con la “divisa” giallo-nera della polizia inglese. A rafforzare l’ottimismo di Guarguaglini, infine, ieri è arrivato il maxi ordine dalla compagnia indonesiana Kartika per 30 nuovi Superjet 100 per un valore di 951 milioni di dollari. Il velivolo regionale di ultima generazione è realizzato dalla Scac, Sukhoi Civil Aircraft, nella quale Alenia Aeronautica, azienda di Finmeccanica, detiene il 25% delle azioni.
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giovedì 15 luglio 2010
Sulle quote latte vince la Lega. I governatori in disaccordo tra loro
Più tempo agli abruzzesi per restituire le tasse, via libera all’assunzione di 250 magistrati, ammorbidito il taglio ai patronati e ridisegnata la stangata sulle assicurazioni. Sono queste le principali novità contenute nel maxiemendamento su cui ieri il governo ha chiesto la fiducia. Per il resto, tra le conferme più rilevanti spicca la sanatoria sulle quote latte, che la Lega difende con i denti malgrado lo scetticismo della presidenza del Consiglio e l’opposizione durissima del ministro dell’Agricoltura, Giancarlo Galan. Immutati anche, come previsto, i tagli alle amministrazioni locali, su cui prosegue comunque il braccio di ferro tra governatori e Palazzo Chigi. La riunione della Conferenza delle Regioni di ieri proseguirà questa mattina. Il fronte fatica a trovare l’accordo su un documento di protesta unitario. La «discussione è complessa», ha detto il presidente del Lazio, Renata Polverini. I governatori leghisti di veneto e Piemonte, Zaia e Cota, hanno comunque ribadito il loro no all’ipotesi di restituzione delle deleghe.
Quanto al testo che sarà votato oggi dal Senato, ecco alcune delle principali modifiche. Abruzzo: i tributi sospesi in seguito al sisma in Abruzzo dovranno essere restituiti in 120 rate mensili che scatteranno dal primo gennaio 2011. Assicurazioni: la stangata sulle compagnie porterà nelle casse dello Stato 264 milioni l’anno a regime. Rispetto alla precedente relazione tecnica, in cui si stimava un gettito pari a 234 milioni, si registra un incremento. Tuttavia, secondo gli esperti del settore, il gettito in precedenza era stato sottostimato. Magistrati: via libera all’assunzione delle toghe che hanno già vinto il concorso alla data di entrata in vigore della manovra. Il ministero della Giustizia, «in aggiunta alle facoltà previste dalla normativa vigente per il 2010 è autorizzato ad assumere magistrati ordinari vincitori di concorso già concluso alla data di entrata in vigore del presente decreto». Il limite di spesa fissato è di 6,6 milioni per il 2010, che salgono a 16 milioni nel 2011, a 19,2 nel 2012 e a 19,5 milioni a decorrere dal 2013. Spese processi: aumentano le spese per le cause amministrative e civili, attraverso l’incremento del contributo unificato di iscrizione a ruolo, per ciascuno grado di giudizio. Inps: si riducono a due mesi i tempi di riscossione delle somme dovute all’Inps. L’esecuzione forzata viene sostituita da «espropriazione forzata, con i poteri, le facoltà e le modalità che disciplinano la riscossione a mezzo ruolo». Patronati: le strutture operative dei sindacati che offrono servizi subiranno una decurtazione di 30 milioni nel triennio 2011-2013. Prima erano 87 solo nel 2011. I risparmi ottenuti «concorrono alla compensazione degli effetti derivanti dall’aumento del contributo» contenuto nel protocollo sul Welfare del 2007. Libertà d’impresa: si allungano i tempi che l’amministrazione avrà a disposizione per effettuare i controlli sulle autocertificazioni per l’avvio dell’attività (Scia). E al tempo stesso vengono introdotti dei paletti che riguardano i vincoli paesaggistici e alcuni atti, come quelli relativi all’immigrazione. Le amministrazioni avranno a disposizione 60 giorni per vietare la prosecuzione dell’attività. Titoli sequestrati: accelerano i tempi per la vendita dei titoli sequestrati, tra cui i titoli al portatore i valori di bollo e conti correnti e libretti di deposito, il cui gettito è destinato al Fondo unico giustizia.
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Quanto al testo che sarà votato oggi dal Senato, ecco alcune delle principali modifiche. Abruzzo: i tributi sospesi in seguito al sisma in Abruzzo dovranno essere restituiti in 120 rate mensili che scatteranno dal primo gennaio 2011. Assicurazioni: la stangata sulle compagnie porterà nelle casse dello Stato 264 milioni l’anno a regime. Rispetto alla precedente relazione tecnica, in cui si stimava un gettito pari a 234 milioni, si registra un incremento. Tuttavia, secondo gli esperti del settore, il gettito in precedenza era stato sottostimato. Magistrati: via libera all’assunzione delle toghe che hanno già vinto il concorso alla data di entrata in vigore della manovra. Il ministero della Giustizia, «in aggiunta alle facoltà previste dalla normativa vigente per il 2010 è autorizzato ad assumere magistrati ordinari vincitori di concorso già concluso alla data di entrata in vigore del presente decreto». Il limite di spesa fissato è di 6,6 milioni per il 2010, che salgono a 16 milioni nel 2011, a 19,2 nel 2012 e a 19,5 milioni a decorrere dal 2013. Spese processi: aumentano le spese per le cause amministrative e civili, attraverso l’incremento del contributo unificato di iscrizione a ruolo, per ciascuno grado di giudizio. Inps: si riducono a due mesi i tempi di riscossione delle somme dovute all’Inps. L’esecuzione forzata viene sostituita da «espropriazione forzata, con i poteri, le facoltà e le modalità che disciplinano la riscossione a mezzo ruolo». Patronati: le strutture operative dei sindacati che offrono servizi subiranno una decurtazione di 30 milioni nel triennio 2011-2013. Prima erano 87 solo nel 2011. I risparmi ottenuti «concorrono alla compensazione degli effetti derivanti dall’aumento del contributo» contenuto nel protocollo sul Welfare del 2007. Libertà d’impresa: si allungano i tempi che l’amministrazione avrà a disposizione per effettuare i controlli sulle autocertificazioni per l’avvio dell’attività (Scia). E al tempo stesso vengono introdotti dei paletti che riguardano i vincoli paesaggistici e alcuni atti, come quelli relativi all’immigrazione. Le amministrazioni avranno a disposizione 60 giorni per vietare la prosecuzione dell’attività. Titoli sequestrati: accelerano i tempi per la vendita dei titoli sequestrati, tra cui i titoli al portatore i valori di bollo e conti correnti e libretti di deposito, il cui gettito è destinato al Fondo unico giustizia.
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Solare senza sole. La tecnologia Enel fa il bis in Sicilia
A pochi giorni dal taglio del nastro della prima centrale a idrogeno del mondo, a Fusina, Enel fa il bis. Questa volta l’eccellenza tencologica sbarca nel profondo Sud, a Priolo Gargallo, nel siracusano. Anche qui c’è un primato. La centrale solare Archimede inaugurata ieri è infatti la prima al mondo ad usare la tecnologia dei sali fusi integrata con un impianto a ciclo combinato capace di funzionare 24 ore al giorno anche in assenza di sole. «È la punta di diamante di un processo e di un progresso continuo nelle energie rinnovabili da parte dell’Enel», ha detto l’ad, Fulvio Conti. Realizzato con un investimento, ha sottolineato, «interamente dell’Enel di 60 milioni di euro, senza aiuti statali su progetto dell’Enea», l’impianto ha una capacità di circa 5 mega watt di energia elettrica con un risparmio all’anno di 2.100 tonnellate equivalenti di petrolio riducendo le emissioni di anidride carbonica di circa 3.250 tonnellate. Accanto alle nuove tecnologie, ha proseguito l’ad di Enel, «puntiamo sull’efficienza energetica, sulle reti intelligenti, sui contatori digitali, ma anche sul carbone pulito come a Civitavecchia e sul nucleare». Tesi condivisa dal ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, che ha annunciato un colpo di acceleratore sull’atomo. «A giorni», ha assicurato, arriveranno le nomine dell’Agenzia nucleare con «una guida forte e autorevole». Quanto al collocamento di Enel Green Power Conti ha spiegato che tutte le ipotesi restano aperte, sia quella che guarda alle offerte pubbliche sia quella che si rivolge a fondi privati.
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mercoledì 14 luglio 2010
Il manovratore Giulio trionfa in Europa e bacchetta Sacconi
In serata è Silvio Berlusconi, in una nota, a sottolineare che «il governo ha a cuore l’interesse dei cittadini e perciò intende portare a rapida approvazione la manovra che stabilizzerà il bilancio pubblico come ha chiesto l’Europa».
Ma, come aveva preannunciato lui stesso lunedì sera, ieri è stato il giorno di Giulio Tremonti, che dopo aver incassato il pieno sostegno di Bruxelles si è tolto anche qualche sassolino dalla scarpa. Come quello sul superamento del tetto a 40 anni dei contributi pensionistici. Altro che “refuso”, ha spiegato il ministro smentendo quello che per giorni è stato considerato una sorta di errore materiale del povero relatore Antonio Azzollini. Era semplicemente, ha detto Tremonti, «un tentativo di ulteriore rigore di bilancio». Tentativo su cui, evidentemente si è consumato uno dei tanti duelli interni alla maggioranza con la vittoria finale del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, che ha ottenuto la correzione della norma.
Complessivamente, comunque, il ministro ha assicurato che sulla finanziaria non c’è stato «nessun arretramento, né sui numeri, né sui contenuti». Anzi, nel corso delle settimane il testo «è migliorato». Il via libera dei colleghi europei è arrivato mentre al Senato è iniziata la discussione generale. Discussione che culminerà col voto di fiducia.
«È stato valutato come l’Italia abbia adottato misure efficaci ed adeguate, perfettamente in linea con gli impegni presi», ha detto il titolare di via XX settembre. Spiegando che la manovra è dettata dall’Europa «ma sarebbe stata comunque necessaria, visto che riflette la situazione dell’elevato debito pubblico e dei mercati».
Nel testo approvato dalla Ue (che ha dato l’ok anche a Francia, Germania, Regno Unito, Spagna e Portogallo) si sottolinea che «il governo italiano ha finora agito conformemente alle raccomandazioni». Insomma, la manovra targata Tremonti viene ritenuta credibile per poter portare, come previsto, il disavanzo dal 5,3% del 2009 al 2,7% nel 2012.
Quanto al debito, che stando ai dati di Bankitalia ha raggiunto un nuovo record a maggio (1.827 miliardi), Tremonti assicura che «il debito pubblico è di enorme rilevanza, ma non esclusiva». «Non farei a cambio», ha concluso, «con Paesi che hanno un debito pubblico più basso ma uno privato quattro volte più grande».
A Roma, intanto, si attende il maxiemendamento, che dovrebbe essere presentato questa mattina. Tra i nodi principali, oltre al braccio di ferro con le Regioni sui tagli, c’è la questione delle quote latte che ieri ha scatenato proteste bipartisan, ma soprattutto l’intervento di Gianfranco Fini, che ha definito la sospensione delle multe voluta dalla Lega «un esempio di malcostume e di cattiva politica». «Valuterò la questione al mio ritorno a Roma», ha tagliato corto Tremonti.
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Ma, come aveva preannunciato lui stesso lunedì sera, ieri è stato il giorno di Giulio Tremonti, che dopo aver incassato il pieno sostegno di Bruxelles si è tolto anche qualche sassolino dalla scarpa. Come quello sul superamento del tetto a 40 anni dei contributi pensionistici. Altro che “refuso”, ha spiegato il ministro smentendo quello che per giorni è stato considerato una sorta di errore materiale del povero relatore Antonio Azzollini. Era semplicemente, ha detto Tremonti, «un tentativo di ulteriore rigore di bilancio». Tentativo su cui, evidentemente si è consumato uno dei tanti duelli interni alla maggioranza con la vittoria finale del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, che ha ottenuto la correzione della norma.
Complessivamente, comunque, il ministro ha assicurato che sulla finanziaria non c’è stato «nessun arretramento, né sui numeri, né sui contenuti». Anzi, nel corso delle settimane il testo «è migliorato». Il via libera dei colleghi europei è arrivato mentre al Senato è iniziata la discussione generale. Discussione che culminerà col voto di fiducia.
«È stato valutato come l’Italia abbia adottato misure efficaci ed adeguate, perfettamente in linea con gli impegni presi», ha detto il titolare di via XX settembre. Spiegando che la manovra è dettata dall’Europa «ma sarebbe stata comunque necessaria, visto che riflette la situazione dell’elevato debito pubblico e dei mercati».
Nel testo approvato dalla Ue (che ha dato l’ok anche a Francia, Germania, Regno Unito, Spagna e Portogallo) si sottolinea che «il governo italiano ha finora agito conformemente alle raccomandazioni». Insomma, la manovra targata Tremonti viene ritenuta credibile per poter portare, come previsto, il disavanzo dal 5,3% del 2009 al 2,7% nel 2012.
Quanto al debito, che stando ai dati di Bankitalia ha raggiunto un nuovo record a maggio (1.827 miliardi), Tremonti assicura che «il debito pubblico è di enorme rilevanza, ma non esclusiva». «Non farei a cambio», ha concluso, «con Paesi che hanno un debito pubblico più basso ma uno privato quattro volte più grande».
A Roma, intanto, si attende il maxiemendamento, che dovrebbe essere presentato questa mattina. Tra i nodi principali, oltre al braccio di ferro con le Regioni sui tagli, c’è la questione delle quote latte che ieri ha scatenato proteste bipartisan, ma soprattutto l’intervento di Gianfranco Fini, che ha definito la sospensione delle multe voluta dalla Lega «un esempio di malcostume e di cattiva politica». «Valuterò la questione al mio ritorno a Roma», ha tagliato corto Tremonti.
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Moody’s boccia il Portogallo. Le Borse se ne infischiano
Era attesa e prevista la mazzata di Moody’s sul Portogallo, ma il caso ha voluto che la bocciatura dell'agenzia di rating sia arrivata proprio nel giorno in cui Lisbona ha incassato la promozione della Ue. Una dimostrazione, l'ennesima, del tempismo assai curioso con cui si muovono i giudici dei debiti sovrani. Il declassamento, che segue quello già effettuati da Fitch e Standard and Poor's, ha portato il merito di credito del Portogallo ad A1 da Aa1. In altre parole, due gradini più in basso. La decisione è stata motivata dal deterioramento fiscale e dalla debolezza della crescita.
Praticamente i settori su cui intervengono le misure di austerity e di risanamento varate dal governo e apprezzate ieri dall'Ecofin. Il consiglio europeo dei ministri dell'Economia ha accordato piena fiducia a Lisbona, che a maggio ha già varato una manovra bis, sostenendo che il governo ha rispettato le raccomandazioni di Bruxelles di riportare il deficit sotto il 3% entro il 2012 e di assicurare un taglio medio annuale del disavanzo dell'1,25% nel periodo 2010-2013. Non è un caso che proprio ieri il governatore della Bce, Jean-Claude Trichet, sia tornato all'attacco criticando duramente «l'oligopolio globale» delle tre agenzie di rating, che amplificano le oscillazioni dei cicli economici comportandosi in maniera pro-ciclica. Il numero uno dell'Eurotower ha anche invitato gli investitori a non sottostimare l'economia europea. Suggerimento che non è caduto nel vuoto, visto che ieri le Borse europee hanno corso per tutta la seduta.
Ad entusiasmare i mercati, oltre alle buone notizie arrivate dagli Usa sulle trimestrali, anche il colpo di reni della Grecia. Il governo di Atene ieri ha collocato titoli di stato a 26 settimane per 1,625 miliardi. L'asta, che ha determinato un rendimento del 4,65%, in lieve rialzo dal 4,55% pagato ad aprile, ha suscitato forte interesse fra gli investitori, tanto che la domanda è stata pari a 3,6 miliardi di euro, un ammontare quasi tre volte superiore a quello che l'esecutivo di Atene mirava a raccogliere (1,25 miliardi). Il successo della tornata di emissioni ha dato immediato impulso all'euro, che negli scambi serali ha premuto il piede sull'acceleratore con un rapporto di parità con il dollaro fissato a 1,27 contro gli 1,26 della chiusura ufficiale e gli 1,25 dell'ultima rilevazione di lunedì. E il contraccolpo si è fatto sentire anche in Borsa. Al termine delle contrattazioni l'indice generale, guidato dal settore bancario, ha registrato un rialzo del 2,61%, superando per la prima volta da mesi il livello simbolico dei 1550 punti, a 1567.
Le cose sono comunque andate bene anche nel resto d'Europa, dove gli acquisti hanno caratterizzato la giornata di tutte le principali piazze finanziarie. Alla fine ha mantenuto il segno positivo in chiusura, seppur di misura, anche Lisbona (+0,10%), mentre l'indice paneuropeo Estx 50 ha segnato un progresso dell'1,92%. A guidare, in generale, l'ottimismo degli operatori sono stati anche i segnali positivi giunti nel primo giorno della nuova stagione di trimestrali, aperta negli Usa dal colosso dell'alluminio Alcoa i cui utili alimentano la fiducia sulla ripresa economica. Nel Vecchio Continente sono state però soprattutto le stime di Bmw, che ha previsto una crescita delle vendite del 10% quest'anno segnando in Borsa un balzo dell'8,3%, a far scattare gli acquisti sull'intero comparto dell'auto (+4,85% l'indice di settore Dj Stoxx). Su queste previsioni, Daimler è balzata del 5,4%, Peugeot del 5,3% e Volkswagen del 5,2% e anche l'italiana Fiat ha guadagnato il 3,5%. Piazza Affari ha chiuso la seduta con l'indice Ftse Mib in rialzo dell'1,63% e l'Ftse All Share in progresso dell'1,57%. Ancora meglio hanno fatto Londra (+2,01%), Parigi (+1,96%), Francoforte (+1,87%) e Madrid (+2,00%).
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Praticamente i settori su cui intervengono le misure di austerity e di risanamento varate dal governo e apprezzate ieri dall'Ecofin. Il consiglio europeo dei ministri dell'Economia ha accordato piena fiducia a Lisbona, che a maggio ha già varato una manovra bis, sostenendo che il governo ha rispettato le raccomandazioni di Bruxelles di riportare il deficit sotto il 3% entro il 2012 e di assicurare un taglio medio annuale del disavanzo dell'1,25% nel periodo 2010-2013. Non è un caso che proprio ieri il governatore della Bce, Jean-Claude Trichet, sia tornato all'attacco criticando duramente «l'oligopolio globale» delle tre agenzie di rating, che amplificano le oscillazioni dei cicli economici comportandosi in maniera pro-ciclica. Il numero uno dell'Eurotower ha anche invitato gli investitori a non sottostimare l'economia europea. Suggerimento che non è caduto nel vuoto, visto che ieri le Borse europee hanno corso per tutta la seduta.
Ad entusiasmare i mercati, oltre alle buone notizie arrivate dagli Usa sulle trimestrali, anche il colpo di reni della Grecia. Il governo di Atene ieri ha collocato titoli di stato a 26 settimane per 1,625 miliardi. L'asta, che ha determinato un rendimento del 4,65%, in lieve rialzo dal 4,55% pagato ad aprile, ha suscitato forte interesse fra gli investitori, tanto che la domanda è stata pari a 3,6 miliardi di euro, un ammontare quasi tre volte superiore a quello che l'esecutivo di Atene mirava a raccogliere (1,25 miliardi). Il successo della tornata di emissioni ha dato immediato impulso all'euro, che negli scambi serali ha premuto il piede sull'acceleratore con un rapporto di parità con il dollaro fissato a 1,27 contro gli 1,26 della chiusura ufficiale e gli 1,25 dell'ultima rilevazione di lunedì. E il contraccolpo si è fatto sentire anche in Borsa. Al termine delle contrattazioni l'indice generale, guidato dal settore bancario, ha registrato un rialzo del 2,61%, superando per la prima volta da mesi il livello simbolico dei 1550 punti, a 1567.
Le cose sono comunque andate bene anche nel resto d'Europa, dove gli acquisti hanno caratterizzato la giornata di tutte le principali piazze finanziarie. Alla fine ha mantenuto il segno positivo in chiusura, seppur di misura, anche Lisbona (+0,10%), mentre l'indice paneuropeo Estx 50 ha segnato un progresso dell'1,92%. A guidare, in generale, l'ottimismo degli operatori sono stati anche i segnali positivi giunti nel primo giorno della nuova stagione di trimestrali, aperta negli Usa dal colosso dell'alluminio Alcoa i cui utili alimentano la fiducia sulla ripresa economica. Nel Vecchio Continente sono state però soprattutto le stime di Bmw, che ha previsto una crescita delle vendite del 10% quest'anno segnando in Borsa un balzo dell'8,3%, a far scattare gli acquisti sull'intero comparto dell'auto (+4,85% l'indice di settore Dj Stoxx). Su queste previsioni, Daimler è balzata del 5,4%, Peugeot del 5,3% e Volkswagen del 5,2% e anche l'italiana Fiat ha guadagnato il 3,5%. Piazza Affari ha chiuso la seduta con l'indice Ftse Mib in rialzo dell'1,63% e l'Ftse All Share in progresso dell'1,57%. Ancora meglio hanno fatto Londra (+2,01%), Parigi (+1,96%), Francoforte (+1,87%) e Madrid (+2,00%).
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sabato 10 luglio 2010
Schiaffo alla Lega: zero sconti sulle quote latte
Per il relatore Antonio Azzollini è il terzo passo falso dopo le pensioni e le tredicesime. Ma a finire a gambe all’aria, questa volta, è la Lega Nord, che aveva ispirato e voluto l’emendamento sulle quote latte. Lo stop, secco ed inequivocabile, è arrivato via fax al dipartimento per i Rapporti col Parlamento e, per conoscenza, al Tesoro e all’Agricoltura. La presidenza del Consiglio «esprime parere contrario all’ulteriore corso» della proposta di modifica alla manovra che prevede lo slittamento del pagamento delle multe alla Ue sulle quote latte fino al 31 dicembre 2010. Ad uscire vittorioso dalla vicenda è il neoministro dell’Agricoltura, Giancarlo Galan, in forte polemica, su questo tema, con il suo predecessore del Carroccio, Luca Zaia.
L’attuale governatore del Veneto era infatti intervenuto più volte, anche in sede europea, per difendere i Cobas del latte, che rappresentano poche centinaia di allevatori su un totale di 40mila attivi in Italia. E lo stesso Umberto Bossi aveva promesso a Pontida che non li avrebbe abbandonati.
Sulla strada del Carroccio si è però posto con forza Galan, che non solo ha minacciato le dimissioni in caso di mancato ritiro dell’emendamento ma ieri ha anche sparato direttamente su Zaia sostenendo che la sua legge-sanatoria è servita a difendere solo 67 allevatori.
Per il resto, in attesa dell’incontro di oggi tra le Regioni e Silvio Berlusconi, ieri la commissione Bilancio ha dato il via libera al nuovo pacchetto fiscale per le imprese, alla rimodulazione dei tagli ai magistrati, alla correzione sui certificati verdi e all’anticipo della libertà d’impresa.
Una novità di rilievo è invece arrivata sulla copertura sia del fondo perequativo da 160 milioni per le forze armate e la polizia sia per i 50 milioni strappati in zona Cesarini da Gianni Alemanno per la Capitale. Entrambe le voci di spesa saranno finanziate con il maggiore gettito proveniente dalla stangata sulle assicurazioni.
Malgrado la secca opposizione dell’Ania, con il presidente Fabio Cerchiai, che ieri ha definito il nuovo balzello «assurdo e incoerente», la commissione Bilancio ha infatti dato il via libera al provvedimento che determina un incremento di tassazione di circa 234 milioni l’anno, con il primo pagamento già a novembre in occasione del secondo acconto Ires per il 2010.
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L’attuale governatore del Veneto era infatti intervenuto più volte, anche in sede europea, per difendere i Cobas del latte, che rappresentano poche centinaia di allevatori su un totale di 40mila attivi in Italia. E lo stesso Umberto Bossi aveva promesso a Pontida che non li avrebbe abbandonati.
Sulla strada del Carroccio si è però posto con forza Galan, che non solo ha minacciato le dimissioni in caso di mancato ritiro dell’emendamento ma ieri ha anche sparato direttamente su Zaia sostenendo che la sua legge-sanatoria è servita a difendere solo 67 allevatori.
Per il resto, in attesa dell’incontro di oggi tra le Regioni e Silvio Berlusconi, ieri la commissione Bilancio ha dato il via libera al nuovo pacchetto fiscale per le imprese, alla rimodulazione dei tagli ai magistrati, alla correzione sui certificati verdi e all’anticipo della libertà d’impresa.
Una novità di rilievo è invece arrivata sulla copertura sia del fondo perequativo da 160 milioni per le forze armate e la polizia sia per i 50 milioni strappati in zona Cesarini da Gianni Alemanno per la Capitale. Entrambe le voci di spesa saranno finanziate con il maggiore gettito proveniente dalla stangata sulle assicurazioni.
Malgrado la secca opposizione dell’Ania, con il presidente Fabio Cerchiai, che ieri ha definito il nuovo balzello «assurdo e incoerente», la commissione Bilancio ha infatti dato il via libera al provvedimento che determina un incremento di tassazione di circa 234 milioni l’anno, con il primo pagamento già a novembre in occasione del secondo acconto Ires per il 2010.
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Senza finti invalidi la polizza auto può calare del 60%
Al di là delle divergenze sull’andamento dei prezzi delle polizze per l’auto (scesi dell’11,8% negli ultimi 5 anni secondo le compagnie, saliti del 17,9% dal 2002 secondo l’authority) su una cosa il presidente dell’Ania, Fabio Cerchiai, e quello dell’Isvap, Giancarlo Giannini, sono d’accordo: in Italia ci sono troppi furbi.
A Crotone, Brindisi, Taranto, Foggia e Vibo Valentia, in base ai dati presentati ieri durante la relazione annuale dell’Ania, l’incidenza dei sinistri Rc auto con danni fisici va dal 44 al 36,7%. La media italiana è del 21,3%. Questo significa che su 100 incidenti avvenuti a Crotone, 44 comportano lesioni o addirittura invalidità alle persone. Lo stesso accade a livello nazionale per 21 sinistri su 100. Volete sapere qual è la media europea, tenendo conto che l’abilità di guida e il numero di vetture circolanti sono più o meno simili? Il 10%. Inevitabile pensare, come fa l’Ania, che in Italia vi sia «un diffusissimo fenomeno speculativo sui danni alla persona». Fenomeno che si concentra in alcune aree geografiche. «Le province critiche del Mezzogiorno», si legge nella relazione, «presentano sempre valori assolutamente fuori linea rispetto alla già elevata media nazionale», mentre le province più virtuose sono Verbania, Trento, Aosta, Belluno, Cuneo, Bolzano, Biella con un’incidenza tra il 12,8% e il 10,6%.
I dati si incrociano con quelli sulle frodi “scoperte”, che secondo l’Ania sono una minima parte di quelle realizzate. Le percentuali più aggiornate sono quelle diffuse ieri da Giannini durante un’audizione alla Camera. Secondo l’Isvap nel 2009, a livello nazionale, l’incidenza del fenomeno criminale sul totale dei sinistri è stata del 2,5%, con «una crescita dopo un quinquennio di lenta ma costante diminuzione». E quello che più preoccupa «è il forte sbilanciamento territoriale». Rispetto alla media, infatti, la Campania «si colloca all’8,7%, la Puglia al 5,3%, la Calabria al 3,9% e la Sicilia al 2,9%».
Cerchiai, che ieri ha ammesso la tendenza al rialzo dei prezzi delle polizze proprio per compensare l’eccesso di risarcimenti, sostiene da tempo che se i numeri italiani fossero in linea con quelli europei, le tariffe assicurative scenderebbero del 60%. Forse non è esattamente così. Ma di sicuro il costo delle truffe non lo pagano i truffatori.
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A Crotone, Brindisi, Taranto, Foggia e Vibo Valentia, in base ai dati presentati ieri durante la relazione annuale dell’Ania, l’incidenza dei sinistri Rc auto con danni fisici va dal 44 al 36,7%. La media italiana è del 21,3%. Questo significa che su 100 incidenti avvenuti a Crotone, 44 comportano lesioni o addirittura invalidità alle persone. Lo stesso accade a livello nazionale per 21 sinistri su 100. Volete sapere qual è la media europea, tenendo conto che l’abilità di guida e il numero di vetture circolanti sono più o meno simili? Il 10%. Inevitabile pensare, come fa l’Ania, che in Italia vi sia «un diffusissimo fenomeno speculativo sui danni alla persona». Fenomeno che si concentra in alcune aree geografiche. «Le province critiche del Mezzogiorno», si legge nella relazione, «presentano sempre valori assolutamente fuori linea rispetto alla già elevata media nazionale», mentre le province più virtuose sono Verbania, Trento, Aosta, Belluno, Cuneo, Bolzano, Biella con un’incidenza tra il 12,8% e il 10,6%.
I dati si incrociano con quelli sulle frodi “scoperte”, che secondo l’Ania sono una minima parte di quelle realizzate. Le percentuali più aggiornate sono quelle diffuse ieri da Giannini durante un’audizione alla Camera. Secondo l’Isvap nel 2009, a livello nazionale, l’incidenza del fenomeno criminale sul totale dei sinistri è stata del 2,5%, con «una crescita dopo un quinquennio di lenta ma costante diminuzione». E quello che più preoccupa «è il forte sbilanciamento territoriale». Rispetto alla media, infatti, la Campania «si colloca all’8,7%, la Puglia al 5,3%, la Calabria al 3,9% e la Sicilia al 2,9%».
Cerchiai, che ieri ha ammesso la tendenza al rialzo dei prezzi delle polizze proprio per compensare l’eccesso di risarcimenti, sostiene da tempo che se i numeri italiani fossero in linea con quelli europei, le tariffe assicurative scenderebbero del 60%. Forse non è esattamente così. Ma di sicuro il costo delle truffe non lo pagano i truffatori.
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giovedì 8 luglio 2010
Tremonti insiste: «Tagli necessari nessun dispetto»
«I saldi sono e saranno intangibili» e «i tagli alla Pa servono ad evitare il rischio Grecia». Questo probabilmente ribadirà Giulio Tremonti domani quando incontrerà insieme al premier Silvio Berlusconi i rappresentanti delle Regioni. L’annuncio dell’incontro è arrivato al termine di una giornata infuocata in cui i governatori hanno di nuovo minacciato la restituzione delle deleghe sulle competenze assicurando che la conferenza Stato-Regioni, inizialmente prevista per oggi con il ministro Raffaele Fitto, sarebbe stato disertata in mancanza di un confronto con il Cavaliere.
L’idea è che un faccia a faccia con Berlusconi possa mettere all’angolo il ministro dell’Economia. In realtà, il senso della nota congiunta con il premier e della presenza di Tremonti all’incontro di domani sembra far capire che non ci saranno molti margini di manovra. Anche l’annuncio della doppia fiducia in Senato e alla Camera va in questa direzione. Lo slittamento dei lavori, con la manovra che arriverà in aula solo martedì, salva la forma. Ma è difficile che dal vertice governo regioni possa scaturire qualche marcia indietro.
Nel dimostrare la necessità dei tagli nel lungo comunicato diffuso in serata il titolare di Via XX Settembre ha incollato la parte iniziale della sua Relazione alle Camere sul federalismo fiscale, depositata il 30 giugno.
La spesa consolidata, si legge nella nota, «è pari a 799 miliardi. La spesa statale non consolidata è pari a 459 miliardi. La spesa delle amministrazioni locali non consolidata è pari a 255 miliardi di euro». Ed ecco il punto: «Sugli oltre 170 miliardi di competenza delle Regioni, l’incidenza della manovra è pari al 3% circa. Percentuale che da un lato non può essere ridotta, dall’altro lato è recuperabile nella forma di possibili economie di bilancio».
È un problema di prospettiva, scrivono Tremonti e Berlusconi. Assumendo quella giusta, «è assolutamente evidente che l’incidenza complessiva della politica di rigore operata in questi anni è stata, è e sarà nell’insieme distribuita su tutte le voci che sono parte del bilancio dello Stato. Ciò considerando non solo questa manovra ma anche la legge finanziaria triennale che, a sua volta, si aggiunge agli altri interventi fatti nel passato». In conclusione, «ciò che viene rilevato ora come squilibrio a carico dei governi locali va valutato in base a ciò che è già stato operato a carico del governo centrale. Ciò rende oggettivamente impraticabile l’ipotesi di uno spostamento interno alla manovra, da una voce all’altra».
Detto questo, premier e ministro, si dicono disponibili a mettere «il massimo impegno nella nella possibile congiunta ricerca dei termini di effettività, realizzabilità, sostenibilità dei piani di rientro».
Secondo il governatore del Lazio, Renata Polverini, che ieri ha incontrato Tremonti e Berlusconi insieme al governatore della Calabria, Giuseppe Scopelliti, significa che il governo concederà «più tempo» alle cinque Regioni del Sud alle prese con gli enormi deficit sanitari.
Se il Mezzogiorno incassa la proroga, il battagliero presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, sembra per ora accontentarsi del vertice di domani: un «primo passo utile».
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L’idea è che un faccia a faccia con Berlusconi possa mettere all’angolo il ministro dell’Economia. In realtà, il senso della nota congiunta con il premier e della presenza di Tremonti all’incontro di domani sembra far capire che non ci saranno molti margini di manovra. Anche l’annuncio della doppia fiducia in Senato e alla Camera va in questa direzione. Lo slittamento dei lavori, con la manovra che arriverà in aula solo martedì, salva la forma. Ma è difficile che dal vertice governo regioni possa scaturire qualche marcia indietro.
Nel dimostrare la necessità dei tagli nel lungo comunicato diffuso in serata il titolare di Via XX Settembre ha incollato la parte iniziale della sua Relazione alle Camere sul federalismo fiscale, depositata il 30 giugno.
La spesa consolidata, si legge nella nota, «è pari a 799 miliardi. La spesa statale non consolidata è pari a 459 miliardi. La spesa delle amministrazioni locali non consolidata è pari a 255 miliardi di euro». Ed ecco il punto: «Sugli oltre 170 miliardi di competenza delle Regioni, l’incidenza della manovra è pari al 3% circa. Percentuale che da un lato non può essere ridotta, dall’altro lato è recuperabile nella forma di possibili economie di bilancio».
È un problema di prospettiva, scrivono Tremonti e Berlusconi. Assumendo quella giusta, «è assolutamente evidente che l’incidenza complessiva della politica di rigore operata in questi anni è stata, è e sarà nell’insieme distribuita su tutte le voci che sono parte del bilancio dello Stato. Ciò considerando non solo questa manovra ma anche la legge finanziaria triennale che, a sua volta, si aggiunge agli altri interventi fatti nel passato». In conclusione, «ciò che viene rilevato ora come squilibrio a carico dei governi locali va valutato in base a ciò che è già stato operato a carico del governo centrale. Ciò rende oggettivamente impraticabile l’ipotesi di uno spostamento interno alla manovra, da una voce all’altra».
Detto questo, premier e ministro, si dicono disponibili a mettere «il massimo impegno nella nella possibile congiunta ricerca dei termini di effettività, realizzabilità, sostenibilità dei piani di rientro».
Secondo il governatore del Lazio, Renata Polverini, che ieri ha incontrato Tremonti e Berlusconi insieme al governatore della Calabria, Giuseppe Scopelliti, significa che il governo concederà «più tempo» alle cinque Regioni del Sud alle prese con gli enormi deficit sanitari.
Se il Mezzogiorno incassa la proroga, il battagliero presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, sembra per ora accontentarsi del vertice di domani: un «primo passo utile».
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Salvi i pm. Niente stop agli scatti
Buone notizie per i magistrati, pessime per le compagnie di assicurazioni. Nel rush finale in commissione Bilancio al Senato gli emendamenti del relatore Antonio Azzollini (in accordo col governo) rivoltano come un calzino la manovra correttiva da 25 miliardi. I saldi, come imposto da Giulio Tremonti, restano invariati, ma il puzzle dei tagli è stato completamente ridisegnato. Tra le novità principali c’è l’emendamento, approvato dal Comitato intermagistrature, che ha ammorbidito decisamente il peso della finanziaria per le toghe. Per i magistrati di qualsiasi ordine e grado non sarà più applicato il blocco degli stipendi. Via libera dunque ad avanzamenti di carriera, promozioni e scatti automatici, con i conseguenti incrementi di retribuzione. In cambio, l’emendamento prevede un taglio dell’indennità (una voce dello stipendio uguale per tutti che ammonta a 13.390 euro annui) del 15% nel 2011, del 25% nel 2012 e del 32% per il 2013. La norma riguarderà 10.410 toghe, di cui 320 magistrati ordinari in tirocinio, che percepiscono solo il 50% dell’indennità. L’intenzione era quella di salvare i giovani servitori dello Stato, il risultato sembra però accontentare di più gli anziani, il cui taglio dell’indennità fissa in proporzione allo stipendio non sarà così drammatico.
Rimanendo nel settore, ieri sono state stralciate le norme che prevedevano la decurtazione delle tredicesime per magistrati, poliziotti e militari. Per tutto il comparto sicurezza e forze armate, su cui resta confermato il blocco degli stipendi, i ministri Ignazio La Russa e Roberto Maroni sono riusciti a strappare lo stanziamento di un fondo da 160 milioni per i prossimi due anni.
Molto peggio è andata alle assicurazioni. Qualche giorno fa Tremonti detto di essere disponibile a valutare proposte di nuova tasse per le compagnie, visto che negli ultimi anni il caro-polizze ha raggiunto livelli ineguagliati in Europa. La proposta, evidentemente, è arrivata, visto che ieri si è materializzato in commissione Bilancio un emendamento Azzollini-governo in base al quale la «variazione delle riserve tecniche obbligatorie relative al ramo vita concorre a formare il reddito dell’esercizio in misura pari al 90%». Questo significa che l’imponibile aumenta e, di conseguenza, il gettito. Tradotto in cifre si tratta di una stangata di circa 234 milioni di euro l’anno, che colpirà le compagnie già con a novembre con il primo acconto sull’Ires del 2010.
Le somme ricavate andranno a coprire la marcia indietro fatta dal governo sul capitolo fisco e imprese. Come annunciato da Emma Marcegaglia martedì, il relatore ha reintrodotto la possibilità per le aziende di compensare i crediti nei confronti della pubblica amministrazione con i ruoli della riscossione. E sarà soppressa anche la norma contestata da Confindustria e dalle Pmi che limitava a 150 (poi alzati a 300) i giorni di sospensiva giudiziale degli accertamenti. Ora, in caso di contenzioso col fisco le aziende pagheranno solo con la sentenza di primo grado.
Sempre rivolto alle imprese è l’emendamento che autorizza il governo a adottare uno o più regolamenti attuativi per l’autocertificazione di tutte le autorizzazione necessarie all’avvio di una attività, da emanare entro 12 mesi dall’entrata in vigore della manovra. Si tratta in sostanza di anticipare per via ordinaria il progetto di riforma costituzionale prevista dal governo sulla libertà d’impresa.
Via libera anche alle modifiche sui certificati verdi. È stato reintrodotto l’obbligo del Gse di riacquistare i certificati in eccesso, ma l’importo complessivo degli incentivi alle fonti rinnovabili dovrà essere ridotto del 30%. Dalla progressiva riduzione dei fondi per il Cip6 andranno poi risorse all’università e alla ricerca.
Tra le altre modifiche, la norma che introduce la figura dell’Ausiliario, che potrà sostituire il magistrato nelle cause civili per velocizzare i processi e l’aumento del 50% del contributo unificato per le impugnazioni davanti al tribunale e alla corte di appello. Mentre viene fissato in 500 euro il contributo per i ricorsi in Cassazione.
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Rimanendo nel settore, ieri sono state stralciate le norme che prevedevano la decurtazione delle tredicesime per magistrati, poliziotti e militari. Per tutto il comparto sicurezza e forze armate, su cui resta confermato il blocco degli stipendi, i ministri Ignazio La Russa e Roberto Maroni sono riusciti a strappare lo stanziamento di un fondo da 160 milioni per i prossimi due anni.
Molto peggio è andata alle assicurazioni. Qualche giorno fa Tremonti detto di essere disponibile a valutare proposte di nuova tasse per le compagnie, visto che negli ultimi anni il caro-polizze ha raggiunto livelli ineguagliati in Europa. La proposta, evidentemente, è arrivata, visto che ieri si è materializzato in commissione Bilancio un emendamento Azzollini-governo in base al quale la «variazione delle riserve tecniche obbligatorie relative al ramo vita concorre a formare il reddito dell’esercizio in misura pari al 90%». Questo significa che l’imponibile aumenta e, di conseguenza, il gettito. Tradotto in cifre si tratta di una stangata di circa 234 milioni di euro l’anno, che colpirà le compagnie già con a novembre con il primo acconto sull’Ires del 2010.
Le somme ricavate andranno a coprire la marcia indietro fatta dal governo sul capitolo fisco e imprese. Come annunciato da Emma Marcegaglia martedì, il relatore ha reintrodotto la possibilità per le aziende di compensare i crediti nei confronti della pubblica amministrazione con i ruoli della riscossione. E sarà soppressa anche la norma contestata da Confindustria e dalle Pmi che limitava a 150 (poi alzati a 300) i giorni di sospensiva giudiziale degli accertamenti. Ora, in caso di contenzioso col fisco le aziende pagheranno solo con la sentenza di primo grado.
Sempre rivolto alle imprese è l’emendamento che autorizza il governo a adottare uno o più regolamenti attuativi per l’autocertificazione di tutte le autorizzazione necessarie all’avvio di una attività, da emanare entro 12 mesi dall’entrata in vigore della manovra. Si tratta in sostanza di anticipare per via ordinaria il progetto di riforma costituzionale prevista dal governo sulla libertà d’impresa.
Via libera anche alle modifiche sui certificati verdi. È stato reintrodotto l’obbligo del Gse di riacquistare i certificati in eccesso, ma l’importo complessivo degli incentivi alle fonti rinnovabili dovrà essere ridotto del 30%. Dalla progressiva riduzione dei fondi per il Cip6 andranno poi risorse all’università e alla ricerca.
Tra le altre modifiche, la norma che introduce la figura dell’Ausiliario, che potrà sostituire il magistrato nelle cause civili per velocizzare i processi e l’aumento del 50% del contributo unificato per le impugnazioni davanti al tribunale e alla corte di appello. Mentre viene fissato in 500 euro il contributo per i ricorsi in Cassazione.
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Le banche tornano a prestarsi soldi
Ai possessori di un mutuo variabile la notizia non piacerà. Ma il segnale potrebbe invece essere positivo per l’andamento complessivo dell’economia. I tassi interbancari infatti continuano a crescere, confermando una tendenza in corso da alcuni giorni. Ieri l’euribor a tre mesi, base di riferimento per gran parte dei mutui a tasso variabile, è tornato sopra quota 0,80% assestandosi allo 0,802% da 0,797% di martedì. È un livello che non si raggiungeva da circa dieci mesi, ovvero dallo scorso settembre. In rialzo anche il contratto a 1 mese, salito a 0,523% da 0,518% e quello a sei mesi, assestatosi a 1,0650% da 1,0610%.
Secondo molti osservatori il trend al rialzo è strettamente collegato alla scadenza della scorsa settimana, quando le banche hanno dovuto restituire i 442 miliardi che avevano preso a prestito dalla Banca centrale europea un anno fa al tasso fisso dell’1%. A fronte della decisione dell’Eurotower di non riproporre un’asta a 12 mesi, le banche sono evidentemente tornate a rifornirsi di liquidità sul mercato interbancario. Di qui il rialzo dei tassi. In altre parole, il mercato della liquidità torna a non essere più completamente dipendente dalle emissioni della Banca centrale. Il che significa che la ripresa sta muovendo i suoi primi passi.
Il costo a cui le banche si prestano il denaro resta comunque su valori molto bassi rispetto alla media storica. E, soprattutto, molto lontani da quelli toccati all’inizio della crisi nel 2008. tanto per avere un’idea basti pensare che l’euribor nell’ottobre del 2008 aveva raggiunto la spaventosa soglia del 5,11%. Una percentuale che non si vedeva dal dicembre del 2000.
Per le famiglie che tutti i mesi devono fare i conti la rata del mutuo, insomma, non dovrebbe esserci troppo da allarmarsi. Il movimento dell’euribor sembra per ora molto lento e, soprattutto, finalizzato a riavvicinarsi al tasso ufficiale della Bce che è all’1%.
Del resto, stando all’ultimo rapporto mensile dell’Abi, il tasso medio sui prestiti in euro alle famiglie per l’acquisto di abitazioni ha raggiunto a maggio il minimo storico del 2,58%.
Il calcolo effettuato dall’associazione bancaria sintetizza l’andamento dei tassi fissi e variabili ed è influenzato anche dalla variazione della composizione fra le erogazioni in base alla tipologia di mutuo. Non si tratta dunque di un andamento solo legato al livello dell’euribor. Il risultato è comunque tranquillizante. A maggio ci sono infatti 2 punti base in meno rispetto al mese precedente e addirittura 117 punti base in meno rispetto a maggio 2009.
Malgrado i tassi ai minimi i mutui hanno subito pesantemente l’impatto della crisi. I prestiti per l’acquisto delle abitazioni in Italia sono ammontati nel 2009 a 32.992 milioni di euro contro i 41.732 milioni del 2008.
Anche l’Istat qualche tempo fa ha certificato la frenata dei prestiti registrando nel 2009 758.679 stipule complessive, con un calo del 2,7% rispetto all’anno precedente.
Qualcosa, però, sta cambiando. Nei primi quattro mesi del 2010, secondo i dati dell’Abi, i mutui sottoscritti dalle famiglie italiane hanno raggiunto i 12.261 milioni, in aumento rispetto al corrispondente periodo dello scorso anno, quando ammontavano a 10.791 milioni.
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Secondo molti osservatori il trend al rialzo è strettamente collegato alla scadenza della scorsa settimana, quando le banche hanno dovuto restituire i 442 miliardi che avevano preso a prestito dalla Banca centrale europea un anno fa al tasso fisso dell’1%. A fronte della decisione dell’Eurotower di non riproporre un’asta a 12 mesi, le banche sono evidentemente tornate a rifornirsi di liquidità sul mercato interbancario. Di qui il rialzo dei tassi. In altre parole, il mercato della liquidità torna a non essere più completamente dipendente dalle emissioni della Banca centrale. Il che significa che la ripresa sta muovendo i suoi primi passi.
Il costo a cui le banche si prestano il denaro resta comunque su valori molto bassi rispetto alla media storica. E, soprattutto, molto lontani da quelli toccati all’inizio della crisi nel 2008. tanto per avere un’idea basti pensare che l’euribor nell’ottobre del 2008 aveva raggiunto la spaventosa soglia del 5,11%. Una percentuale che non si vedeva dal dicembre del 2000.
Per le famiglie che tutti i mesi devono fare i conti la rata del mutuo, insomma, non dovrebbe esserci troppo da allarmarsi. Il movimento dell’euribor sembra per ora molto lento e, soprattutto, finalizzato a riavvicinarsi al tasso ufficiale della Bce che è all’1%.
Del resto, stando all’ultimo rapporto mensile dell’Abi, il tasso medio sui prestiti in euro alle famiglie per l’acquisto di abitazioni ha raggiunto a maggio il minimo storico del 2,58%.
Il calcolo effettuato dall’associazione bancaria sintetizza l’andamento dei tassi fissi e variabili ed è influenzato anche dalla variazione della composizione fra le erogazioni in base alla tipologia di mutuo. Non si tratta dunque di un andamento solo legato al livello dell’euribor. Il risultato è comunque tranquillizante. A maggio ci sono infatti 2 punti base in meno rispetto al mese precedente e addirittura 117 punti base in meno rispetto a maggio 2009.
Malgrado i tassi ai minimi i mutui hanno subito pesantemente l’impatto della crisi. I prestiti per l’acquisto delle abitazioni in Italia sono ammontati nel 2009 a 32.992 milioni di euro contro i 41.732 milioni del 2008.
Anche l’Istat qualche tempo fa ha certificato la frenata dei prestiti registrando nel 2009 758.679 stipule complessive, con un calo del 2,7% rispetto all’anno precedente.
Qualcosa, però, sta cambiando. Nei primi quattro mesi del 2010, secondo i dati dell’Abi, i mutui sottoscritti dalle famiglie italiane hanno raggiunto i 12.261 milioni, in aumento rispetto al corrispondente periodo dello scorso anno, quando ammontavano a 10.791 milioni.
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mercoledì 7 luglio 2010
Troppi cellulari sul web. La rete rischia il collasso
La rete mobile è vicina al collasso mentre quella in fibra ottica non riesce neppure a partire. L’unica buona notizia arrivata ieri dalla relazione annuale di Corrado Calabrò è che in 15 anni le tariffe sono scese del 31%. Con una dinamica che ci vede ai primi posti in Europa. In testa alle classifiche siamo anche, inutile dirlo, per il possesso di telefonini. In particolare per i nuovi smartphone, con cui è possibile navigare e scaricare dati dalla rete. Gli utenti in Italia hanno addirittura raggiunto i 15 milioni (+11% sul 2009), contro gli 11,1 del Regno Unito, i 9,9 della Spagna, gli 8,4 della Germania e i 7,1 della Francia. Risultato: la rete rischia di non farcela a gestire il volume di dati che ogni giorno partono e arrivano dai telefonini.
Ed ecco il paradosso, mentre l’Italia è il secondo Paese europeo per diffusione della banda larga mobile, quella fissa non vuole saperne di decollare. Secondo i dati diffusi ieri dal presidente dell’authority per le tlc siamo ben «sotto la media Ue». Per la precisione al diciassettesimo posto, con il 20,6% della popolazione raggiunta da collegamenti veloci al web rispetto al 24,8% del Vecchio continente. Non va affatto meglio per il numero di famiglie connesse a internet: qui l’Italia scende addirittura al ventiduesimo posto in Europa, con un 53% rispetto ad una media del 65 per cento.
Le uniche eccellenze citate dal presidente riguardano la Lombardia e la Provincia di Trento, dove la società Open Gate Italia sta realizzando insieme a Trentino Network una rete in fibra ottica di 750 chilometri. Ma i valori nazionali sono bassissimi anche per quello che riguarda «la diffusione degli acquisti online e il contributo dell’Ict al pil». In altre parole, il nostro Paese è il fanalino di coda nel commercio e nei servizi elettronici. La quota di esportazioni legate all’Ict è pari al 2,2%. Un valore «che relega l’Italia al penultimo posto in Europa».
Il problema è antico, ma la soluzione non sembra essere neanche all’orizzonte. Anzi, la guerra che negli ultimi mesi si è scatenata tra l’ex monopolista Telecom e gli operatori alternativi sulla rete di nuova generazione (Ngn) potrebbe addirittura allontanare ulteriormente l’obiettivo. È questo il principale allarme lanciato da Calabrò, che ha invitato le società non solo a passare dai progetti ai fatti, «serve concretezza», ma soprattutto ad evitare inutili «duplicazioni». Allo stato attuale, ha infatti denunciato il presidente dell’authority, «c’è una parziale sovrapposizione delle aree geografiche d’intervento, senza coordinamento delle opere di posa». Tutt’altra dovrebbe essere la strada per non perdere di vista il traguardo europeo del 50% della popolazione raggiunta dalla banda larga entro il 2020. Bisogna puntare a un «progetto Italia» che «eviti costose duplicazioni delle infrastrutture civili e faccia fare al Paese il salto di qualità di cui ha bisogno». Per il cambio di passo, ha proseguito Calabrò, serve un’agenda digitale «su misura». Un piano in cui ognuno dovrà rimboccarsi le maniche. L’Autorità farà la sua parte con le regole per l’accesso, ma è necessario anche un «organico disegno legislativo che componga ed essenzializzi molteplici misure». Insomma, come ha spiegato il presidente della Camera, Gianfranco Fini, manca un «progetto Paese».
Gli operatori alternativi (Vodafone, Wind, Fastweb e Tiscali) hanno risposto subito all’appello. «Siamo pronti a partire non appena governo e Agcom ci metteranno in condizione di farlo», ha detto l’ad di Wind, Luigi Gubitosi. Anche per l’ad di Vodafone Italia, Paolo Bertoluzzo, occorrono regole certe. Ma il concetto importante, secondo il manager, è quello richiamato con forza da Calabro di “fiber nation”: «È fondamentale unire le forze». Nessun problema, a quanto pare, per Franco Bernabé: «Siamo assolutamente disponibili ad una sinergia sulle infrastrutture». Anche se, replica l’ad di Telecom, «il nostro piano è coerente con l’agenda europa».
La bontà delle intenzioni si verificherà molto presto. Il viceministro alle Comunicazioni, Paolo Romani, ha convocato un nuovo tavolo sulla rete Ngn con tutti gli operatori per il 19 luglio. Quella potrebbe essere l’occasione per trasformare le parole in fatti.
© Libero
Ed ecco il paradosso, mentre l’Italia è il secondo Paese europeo per diffusione della banda larga mobile, quella fissa non vuole saperne di decollare. Secondo i dati diffusi ieri dal presidente dell’authority per le tlc siamo ben «sotto la media Ue». Per la precisione al diciassettesimo posto, con il 20,6% della popolazione raggiunta da collegamenti veloci al web rispetto al 24,8% del Vecchio continente. Non va affatto meglio per il numero di famiglie connesse a internet: qui l’Italia scende addirittura al ventiduesimo posto in Europa, con un 53% rispetto ad una media del 65 per cento.
Le uniche eccellenze citate dal presidente riguardano la Lombardia e la Provincia di Trento, dove la società Open Gate Italia sta realizzando insieme a Trentino Network una rete in fibra ottica di 750 chilometri. Ma i valori nazionali sono bassissimi anche per quello che riguarda «la diffusione degli acquisti online e il contributo dell’Ict al pil». In altre parole, il nostro Paese è il fanalino di coda nel commercio e nei servizi elettronici. La quota di esportazioni legate all’Ict è pari al 2,2%. Un valore «che relega l’Italia al penultimo posto in Europa».
Il problema è antico, ma la soluzione non sembra essere neanche all’orizzonte. Anzi, la guerra che negli ultimi mesi si è scatenata tra l’ex monopolista Telecom e gli operatori alternativi sulla rete di nuova generazione (Ngn) potrebbe addirittura allontanare ulteriormente l’obiettivo. È questo il principale allarme lanciato da Calabrò, che ha invitato le società non solo a passare dai progetti ai fatti, «serve concretezza», ma soprattutto ad evitare inutili «duplicazioni». Allo stato attuale, ha infatti denunciato il presidente dell’authority, «c’è una parziale sovrapposizione delle aree geografiche d’intervento, senza coordinamento delle opere di posa». Tutt’altra dovrebbe essere la strada per non perdere di vista il traguardo europeo del 50% della popolazione raggiunta dalla banda larga entro il 2020. Bisogna puntare a un «progetto Italia» che «eviti costose duplicazioni delle infrastrutture civili e faccia fare al Paese il salto di qualità di cui ha bisogno». Per il cambio di passo, ha proseguito Calabrò, serve un’agenda digitale «su misura». Un piano in cui ognuno dovrà rimboccarsi le maniche. L’Autorità farà la sua parte con le regole per l’accesso, ma è necessario anche un «organico disegno legislativo che componga ed essenzializzi molteplici misure». Insomma, come ha spiegato il presidente della Camera, Gianfranco Fini, manca un «progetto Paese».
Gli operatori alternativi (Vodafone, Wind, Fastweb e Tiscali) hanno risposto subito all’appello. «Siamo pronti a partire non appena governo e Agcom ci metteranno in condizione di farlo», ha detto l’ad di Wind, Luigi Gubitosi. Anche per l’ad di Vodafone Italia, Paolo Bertoluzzo, occorrono regole certe. Ma il concetto importante, secondo il manager, è quello richiamato con forza da Calabro di “fiber nation”: «È fondamentale unire le forze». Nessun problema, a quanto pare, per Franco Bernabé: «Siamo assolutamente disponibili ad una sinergia sulle infrastrutture». Anche se, replica l’ad di Telecom, «il nostro piano è coerente con l’agenda europa».
La bontà delle intenzioni si verificherà molto presto. Il viceministro alle Comunicazioni, Paolo Romani, ha convocato un nuovo tavolo sulla rete Ngn con tutti gli operatori per il 19 luglio. Quella potrebbe essere l’occasione per trasformare le parole in fatti.
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Tlc, l’incubo di Calabrò a Roma è già realtà
Per recuperare il ritardo italiano nella banda larga e puntare a raggiungere gli obiettivi posti dall’Agenda europea sul digitale servono «piani operativi» per la nuova rete di telefonia da parte degli operatori che dovrebbero evitare «costose duplicazioni» e dar vita ad un Progetto Italia.
Ieri, dopo la bacchettata lanciato da Corrado Calabrò durante la presentazione della relazione annuale dell’authority per le Tlc, tutte le società si sono affrettate a dichiarare la propria disponibilità a collaborare. Anche l’ad di Telecom, Franco Bernabé, ha assicurato che sulla banda larga ultraveloce ci può essere sinergia.
Eppure, solo qualche settimana fa l’ex monopolista e gli operatori alternativi (Vodafone, Wind, Fastweb e Tsicali) si contendevano Roma quartiere per quartiere in una gara a chi cablava più famiglie con la fibra ottica.
Telecom aveva annunciato l’avvio di un piano per collegare 15mila abitazioni in Prati, per poi passare entro la fine dell’anno ad 80mila, coinvolgendo le zone Belle Arti, Appia e Pontelungo.
Mentre Fastweb, Wind e Vodafone rispondevano con una sperimentazione nell’area di Collina Fleming con l’obiettivo di collegare 7.400 abitazioni alla Ngn (rete di nuova generazione) entro luglio.
Non sappiamo se gli abitanti dei quartieri finiti nel mirino abbiano effettivamente a casa la banda larga. Di sicuro, però, quello che è successo nella Capitale è esattamente quello che ieri ha denunciato Calabrò come uno degli ostacoli al progetto per realizzare la nuova rete in Italia. E cioè «la parziale sovrapposizione delle aree geografiche d’intervento, senza coordinamento delle opere di posa».
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Ieri, dopo la bacchettata lanciato da Corrado Calabrò durante la presentazione della relazione annuale dell’authority per le Tlc, tutte le società si sono affrettate a dichiarare la propria disponibilità a collaborare. Anche l’ad di Telecom, Franco Bernabé, ha assicurato che sulla banda larga ultraveloce ci può essere sinergia.
Eppure, solo qualche settimana fa l’ex monopolista e gli operatori alternativi (Vodafone, Wind, Fastweb e Tsicali) si contendevano Roma quartiere per quartiere in una gara a chi cablava più famiglie con la fibra ottica.
Telecom aveva annunciato l’avvio di un piano per collegare 15mila abitazioni in Prati, per poi passare entro la fine dell’anno ad 80mila, coinvolgendo le zone Belle Arti, Appia e Pontelungo.
Mentre Fastweb, Wind e Vodafone rispondevano con una sperimentazione nell’area di Collina Fleming con l’obiettivo di collegare 7.400 abitazioni alla Ngn (rete di nuova generazione) entro luglio.
Non sappiamo se gli abitanti dei quartieri finiti nel mirino abbiano effettivamente a casa la banda larga. Di sicuro, però, quello che è successo nella Capitale è esattamente quello che ieri ha denunciato Calabrò come uno degli ostacoli al progetto per realizzare la nuova rete in Italia. E cioè «la parziale sovrapposizione delle aree geografiche d’intervento, senza coordinamento delle opere di posa».
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martedì 6 luglio 2010
Un volo da 10 miliardi per Alitalia
Se è vero, come ha detto Roberto Colaninno qualche tempo fa, che «la vera partita si giocherà nel 2011», l’accordo firmato ieri potrebbe essere un tassello importante nel destino di Alitalia. La ex compagnia di bandiera ha infatti ufficializzato l’ingresso nella joint venture transatlantica insieme ad Air France-Klm e a Delta Air Lines. Lanciata nel 2009, l’alleanza potrà ora contare sul controllo del 26% circa dell’intera capacità aerea transatlantica, con ricavi annui stimati per oltre 10 miliardi di dollari. Le quattro compagnie partner condivideranno, almeno fino al 31 marzo del 2022, costi e ricavi delle proprie rotte attraverso l’Oceano. Per Alitalia, ha spiegato l’ad Rocco Sabelli, significa un impatto positivo sui conti, «nell’arco dei prossimi 2-3 anni, di 50 milioni in termini di reddito operativo».
Network integrato
Per i passeggeri significa un accesso privilegiato al più grande network transatlantico al mondo con quasi 250 voli e 55 mila posti offerti al giorno, che oggi comprendono 20 voli giornalieri tra 5 scali negli Stati Uniti e gli aeroporti di Fiumicino e di Malpensa. Roma si unisce ad Amsterdam, Atlanta, Detroit, Minneapolis, New York Jfk, Parigi Charles De Gaulle, quale hub principale della joint venture, con ulteriori collegamenti transatlantici da Cincinnati, Milano Malpensa, Memphis e Salt Lake City. Dovunque, i diritti di traffico lo consentano, le compagnie offriranno collegamenti in code share tra gli Usa e l’Unione, e in molti casi ci saranno collegamenti tra gli scali europei e statunitensi perfettamente integrati tra le quattro aerolinee.
Il perimetro geografico della joint venture include tutti i voli tra il Nord America e l’Europa, tra Amsterdam e l’India e tra il Nord America e Tahiti. Come ha detto Sabelli, l’alleanza rappresenta il «modello più evoluto di cooperazione tra compagnie nel mondo che va oltre il modello di Skyteam».
Malgrado la grandiosità del progetto, che Sabelli definisce «uno dei pliastri strategici del piano Fenice», l’accordo non sarà ovviamente sufficiente a risolvere tutti i problemi di Alitalia.
Niente aumento
La strada verso il risanamento della compagnia è ancora lunga e non priva di insidie. Qualche settimana fa è stato lo stesso presidente Colaninno a paventare il rischio di un’ulteriore iniezione di risorse fresche da parte dei soci se le cose non dovessero andare bene. L’obiettivo iniziale era infatti il pareggio operativo nel 2010. Il traguardo è stato spostato nel 2011 anche per colpa della crisi internazionale che ha portato difficoltà inattese. Ma la tolleranza di un anno era prevista dal piano ed è quindi, ha detto Colaninno, «tollerabile». Ma se così non fosse, ha aggiunto, «dopo la perdita di 320 milioni accusata nel 2009, Alitalia avrà bisogno di soldi».
La prospettiva non è comunque ancora all’orizzonte. La compagnia ha chiuso il primo trimestre con ricavi a 639 milioni, in crescita rispetto ai 515 milioni del primo trimestre 2009. Anche il risultato operativo (-125 milioni) è migliorato rispetto allo scorso anno (-210 milioni). Al 31 marzo la disponibilità liquida totale risultava di 390 milioni. Su quest’ultimo fronte le cose sono leggermente migliorate. «Al 30 giugno abbiamo 500 milioni di disponibilità finanziarie tra cassa e linee di credito disponibili», ha precisato l’amministratore delegato. Il che vuol dire che, per ora, «non sono previsti aumenti di capitale» e che «i target del piano, aggiornato il 12 maggio scorso, sono raggiungibili». In ogni caso, ha proseguito, «se azionisti importanti, come Colaninno e Benetton che insieme fanno il 13 o 14% del capitale, si dicono pronti a mettere altri soldi nel caso ve ne fosse bisogno, dov’è il problema? Per me è un segnale di fiducia, una cosa positiva».
La fusione non si fa
Nel secondo trimestre dell’anno, complice anche la nube dell’impronunciabile vulcano islandese, le cose sono andate un po’ meno bene. Nei primi tre mesi il numero di passeggeri era cresciuto del 7% mentre il load factor (coefficiente di riempimento degli aerei) era aumentato di 12,5 punti percentuali, da 52% a 64,5 per cento.
Complessivamente nel semestre le percentuali hanno subito una leggera frenata. L’aumento dei passeggeri si è attestato al 3%, mentre il fattore di riempimento è cresciuto del 9%. In leggera flessione rispetto al primo trimestre anche l’aumento del traffico intercontinentale (+30%) e quello internazionale (14%). Si tratta, in ogni caso, di valori crescenti sul 2009, che dovrebbero far ben sperare e che Sabelli giudica «molto soddisfacenti».
Quanto alle conseguenze dell’accordo, l’ad ha escluso che l’alleanza costituisca una prima tappa verso la fusione con Air France-Klm, già azionista di maggioranza della nuova Alitalia. L’operazione non è «nei nostri piani né nelle nostre prospettive», ha detto Sabelli, cui ha fatto eco il presidente e ad della compagnia franco-olandese Pierre Henri Gourgeon: «Il nostro obiettivo era questo. Ora siamo nella piena collaborazione come era stato programmato».
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Network integrato
Per i passeggeri significa un accesso privilegiato al più grande network transatlantico al mondo con quasi 250 voli e 55 mila posti offerti al giorno, che oggi comprendono 20 voli giornalieri tra 5 scali negli Stati Uniti e gli aeroporti di Fiumicino e di Malpensa. Roma si unisce ad Amsterdam, Atlanta, Detroit, Minneapolis, New York Jfk, Parigi Charles De Gaulle, quale hub principale della joint venture, con ulteriori collegamenti transatlantici da Cincinnati, Milano Malpensa, Memphis e Salt Lake City. Dovunque, i diritti di traffico lo consentano, le compagnie offriranno collegamenti in code share tra gli Usa e l’Unione, e in molti casi ci saranno collegamenti tra gli scali europei e statunitensi perfettamente integrati tra le quattro aerolinee.
Il perimetro geografico della joint venture include tutti i voli tra il Nord America e l’Europa, tra Amsterdam e l’India e tra il Nord America e Tahiti. Come ha detto Sabelli, l’alleanza rappresenta il «modello più evoluto di cooperazione tra compagnie nel mondo che va oltre il modello di Skyteam».
Malgrado la grandiosità del progetto, che Sabelli definisce «uno dei pliastri strategici del piano Fenice», l’accordo non sarà ovviamente sufficiente a risolvere tutti i problemi di Alitalia.
Niente aumento
La strada verso il risanamento della compagnia è ancora lunga e non priva di insidie. Qualche settimana fa è stato lo stesso presidente Colaninno a paventare il rischio di un’ulteriore iniezione di risorse fresche da parte dei soci se le cose non dovessero andare bene. L’obiettivo iniziale era infatti il pareggio operativo nel 2010. Il traguardo è stato spostato nel 2011 anche per colpa della crisi internazionale che ha portato difficoltà inattese. Ma la tolleranza di un anno era prevista dal piano ed è quindi, ha detto Colaninno, «tollerabile». Ma se così non fosse, ha aggiunto, «dopo la perdita di 320 milioni accusata nel 2009, Alitalia avrà bisogno di soldi».
La prospettiva non è comunque ancora all’orizzonte. La compagnia ha chiuso il primo trimestre con ricavi a 639 milioni, in crescita rispetto ai 515 milioni del primo trimestre 2009. Anche il risultato operativo (-125 milioni) è migliorato rispetto allo scorso anno (-210 milioni). Al 31 marzo la disponibilità liquida totale risultava di 390 milioni. Su quest’ultimo fronte le cose sono leggermente migliorate. «Al 30 giugno abbiamo 500 milioni di disponibilità finanziarie tra cassa e linee di credito disponibili», ha precisato l’amministratore delegato. Il che vuol dire che, per ora, «non sono previsti aumenti di capitale» e che «i target del piano, aggiornato il 12 maggio scorso, sono raggiungibili». In ogni caso, ha proseguito, «se azionisti importanti, come Colaninno e Benetton che insieme fanno il 13 o 14% del capitale, si dicono pronti a mettere altri soldi nel caso ve ne fosse bisogno, dov’è il problema? Per me è un segnale di fiducia, una cosa positiva».
La fusione non si fa
Nel secondo trimestre dell’anno, complice anche la nube dell’impronunciabile vulcano islandese, le cose sono andate un po’ meno bene. Nei primi tre mesi il numero di passeggeri era cresciuto del 7% mentre il load factor (coefficiente di riempimento degli aerei) era aumentato di 12,5 punti percentuali, da 52% a 64,5 per cento.
Complessivamente nel semestre le percentuali hanno subito una leggera frenata. L’aumento dei passeggeri si è attestato al 3%, mentre il fattore di riempimento è cresciuto del 9%. In leggera flessione rispetto al primo trimestre anche l’aumento del traffico intercontinentale (+30%) e quello internazionale (14%). Si tratta, in ogni caso, di valori crescenti sul 2009, che dovrebbero far ben sperare e che Sabelli giudica «molto soddisfacenti».
Quanto alle conseguenze dell’accordo, l’ad ha escluso che l’alleanza costituisca una prima tappa verso la fusione con Air France-Klm, già azionista di maggioranza della nuova Alitalia. L’operazione non è «nei nostri piani né nelle nostre prospettive», ha detto Sabelli, cui ha fatto eco il presidente e ad della compagnia franco-olandese Pierre Henri Gourgeon: «Il nostro obiettivo era questo. Ora siamo nella piena collaborazione come era stato programmato».
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La marea nera di Bp intossica anche i titoli. I mercati fanno il tifo per l’intervento di Gheddafi
Potrebbe essere Muammar Gheddafi a salvare i mercati internazionali da un secondo caso Lehman. Fantafinanza? Non proprio. La notizia è che il fondo sovrano libico (Lybian Investment Authority) potrebbe entrare nell’azionariato di British Petrolium. A lasciar trapelare l’indiscrezione è stato il presidente della società petrolifera statale Shokri Ghanem. «Con il prezzo delle azioni dimezzato, Bp è diventata interessante», ha detto al Dow Jones, aggiungendo che il Paese nordarficano ha ancora «fiducia nell’azienda».
La realtà è che il colosso petrolifero è diventato un boccono ghiotto. Dal giorno dell’incidente nel Golfo del Messico, a fine aprile, le azioni del gruppo petrolifero hanno perso circa la metà del loro valore, qualcosa come 100 miliardi del loro valore. Mentre gli sforzi per arginare la marea nera, secondo quanto si legge in una nota diffusa ieri dalla società britannica, sono costati 3,12 miliardi di dollari. Per ora.
Il rischio è che la macchia di petrolio si allarghi e la voragine nei conti di Bp anche. Non è un caso che nei giorni scorsi il colosso petrolifero abbia fatto circolare l’intenzione di aprire il capitale, cedendo una quota del 5-10%, a nuovi investitori. Per Gheddafi si tratta di un buon investimento. Che rientrebbe nella strategia messa in atto negli ultimi mesi di fare acquisti a prezzi scontati tra le società europee.
Per i mercati mondiali, però, l’operazione potrebbe essere una vera e propria ancora di salvezza. Si è finora sottovalutata, infatti, la quantità di liquidità del mondo finanziario globale che dipende dalla solvibilità della Bp. Al centro della questione ci sono i soliti derivati. La società britannica, come quasi tutte le grandi compagnie petrolifere, ha un peso smisurato sul mercato dei prodotti strutturati. La Bp può infatti emettere derivati, fornendo garanzie molto più affidabili di quelle che possono vantare le grandi banche, beni reali, gas e barili di petrolio contenuti nei giacimenti sottosuolo della multinazionale sparsi in tutto il mondo.
Ora, se British petroleum dovesse perdere la sua reputazione di buon pagatore o, nella peggiore delle ipotesi, avviarsi verso il fallimento, tutto il sistema di derivati a lungo termine legati al greggio e ai gas naturali rischierebbe di esplodere con violenza inaudita. Per avere un’idea della deflagrazione basti pensare che a metà del 2009, secondo i dati diffusi recentemente dalla banca dei regolamenti internazionali, il mercato dei prodotti Otc (over the counter, non quotati) ha raggiunto complessivamente la mostruosa cifra di 615mila miliardi di dollari.
Ben venga dunque Gheddafi e il suo fondo sovrano. Bp ha già accantonato (sotto forma di prestiti bancari) 9 miliardi di dollari per fare fronte ai costi e alle passività associate all’incidente. Ma l’oro libico, se le riserve non dovessero bastare, potrebbe essere determinante. L’ipotesi, non a caso, è stata festeggiata dai mercati, che ieri hanno spinto il titolo in Borsa su del 3,5%, con oscillazioni nel corso della seduta fino al 10%.
© Libero
La realtà è che il colosso petrolifero è diventato un boccono ghiotto. Dal giorno dell’incidente nel Golfo del Messico, a fine aprile, le azioni del gruppo petrolifero hanno perso circa la metà del loro valore, qualcosa come 100 miliardi del loro valore. Mentre gli sforzi per arginare la marea nera, secondo quanto si legge in una nota diffusa ieri dalla società britannica, sono costati 3,12 miliardi di dollari. Per ora.
Il rischio è che la macchia di petrolio si allarghi e la voragine nei conti di Bp anche. Non è un caso che nei giorni scorsi il colosso petrolifero abbia fatto circolare l’intenzione di aprire il capitale, cedendo una quota del 5-10%, a nuovi investitori. Per Gheddafi si tratta di un buon investimento. Che rientrebbe nella strategia messa in atto negli ultimi mesi di fare acquisti a prezzi scontati tra le società europee.
Per i mercati mondiali, però, l’operazione potrebbe essere una vera e propria ancora di salvezza. Si è finora sottovalutata, infatti, la quantità di liquidità del mondo finanziario globale che dipende dalla solvibilità della Bp. Al centro della questione ci sono i soliti derivati. La società britannica, come quasi tutte le grandi compagnie petrolifere, ha un peso smisurato sul mercato dei prodotti strutturati. La Bp può infatti emettere derivati, fornendo garanzie molto più affidabili di quelle che possono vantare le grandi banche, beni reali, gas e barili di petrolio contenuti nei giacimenti sottosuolo della multinazionale sparsi in tutto il mondo.
Ora, se British petroleum dovesse perdere la sua reputazione di buon pagatore o, nella peggiore delle ipotesi, avviarsi verso il fallimento, tutto il sistema di derivati a lungo termine legati al greggio e ai gas naturali rischierebbe di esplodere con violenza inaudita. Per avere un’idea della deflagrazione basti pensare che a metà del 2009, secondo i dati diffusi recentemente dalla banca dei regolamenti internazionali, il mercato dei prodotti Otc (over the counter, non quotati) ha raggiunto complessivamente la mostruosa cifra di 615mila miliardi di dollari.
Ben venga dunque Gheddafi e il suo fondo sovrano. Bp ha già accantonato (sotto forma di prestiti bancari) 9 miliardi di dollari per fare fronte ai costi e alle passività associate all’incidente. Ma l’oro libico, se le riserve non dovessero bastare, potrebbe essere determinante. L’ipotesi, non a caso, è stata festeggiata dai mercati, che ieri hanno spinto il titolo in Borsa su del 3,5%, con oscillazioni nel corso della seduta fino al 10%.
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lunedì 5 luglio 2010
Tutti contro Azzollini, re degli emendamenti gaffe
La vicenda è finita in tempo reale anche su Wikipedia. Nelle ultime righe della sua biografia si legge: «Nel 2010 ha depositato in commissione Bilancio al Senato un emendamento che prevede la riduzione delle tredicesime per le forze di polizia, i vigili del fuoco, i magistrati, i professori e i diplomatici». Un’informazione aggiunta in fretta, venerdì sera, ancor prima che il povero Antonio Azzollini fosse letteralmente sommerso dai rimbrotti e dalle critiche di opposizione, sindacati, categorie e di tutto lo stato maggiore del PdL, compreso Silvio Berlusconi: «Non ci sarà alcuna norma sulle tredicesime». Per il presidente della commissione Bilancio è il secondo scivolone in poche ore, o meglio il secondo “refuso”, come ormai tutti lo definiscono dopo la frettolosa correzione dell’emendamento sulle pensioni. Ma lui, in fondo, non si scompone più di tanto. «Era un’opzione», ha spiegato serafico, «se non ci sarà, non ci sarà». Del resto, Azzollini non è tipo da lasciarsi scoraggiare. Ne ha viste troppe nella sua Molfetta per farsi turbare da qualche polemica. Quando nel 1992, dopo aver militato nel Pdup, nei Verdi e, infine, nel Pci-Pds, salì sul carro della giunta di “unità” guidata dall’ex Dc Annalisa Altomare, il partito lo cacciò su due piedi. Lui si giustificò con l’emergenza della situazione: il precedente sindaco era stato tragicamente ucciso a fucilate per aver negato l’autorizzazione ad un concerto di Nino D’Angelo. Da allora, quella di Azzollini è una carriera in continua ascesa. Si mette in mostra negli ambienti cattolici della città, finché, nel 1994, non si schiera con il Cavaliere. La sfida elettorale con Giuseppe Ayala finisce male, ma Azzollini approda comunque al Senato con i “resti” della quota proporzionale. Le cronache narrano che a chi gli contesta il passato da comunista, risponde: «... non potevo rimanere ucciso ideologicamente sotto le macerie del muro». Dal ’96 siede a Palazzo Madama, ma da diversi anni si divide tra il Senato e Molfetta, dove è sindaco. Qualcuno lo critica per non aver lasciato la guida di una città con più di 60mila abitanti. Ma lui sostiene di riuscire a fare tranquillamente il senatore, il sindaco e pure il presidente della Bilancio. Gli scivoloni e le stranezze sono il suo “pane”. Cui Azzollini ama aggiungere la crema di gianduia, al punto che nella campagna elettorale del 2008 tra le promesse c’era quella di un Nutella party per i bambini. Rieletto sindaco, il Tar minaccia di sciogliere la giunta per la mancanza di donne nell’esecutivo. Un problema? Macché. Dopo un paio di ricorsi persi e un anno di attesa, la donna arriva. Bastava chiedere.
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A Piazza Affari bruciati 90 miliardi in sei mesi
Novanta miliardi di euro. È questo il bottino della crisi a Piazza Affari. Soldi che le imprese quotate hanno bruciato in soli sei mesi di contrattazioni borsistiche. A cedere sotto i colpi del mercato sono state principalmente le società più grandi. Dall’inizio dell’anno l’Ftse Mib, l’indice dei titoli a maggiore capitalizzazione, ha perso il 19%. Ma la bufera ha travolto anche le medie e piccole. L’Ftse All Share, che raccoglie tutte le società presenti a Piazza Affari, ha lasciato sul terreno il 17 per cento.
Percentuali che, tradotte in euro, danno appunto il conto salato dei 90 miliardi. Il valore delle società quotate a Piazza Affari è infatti passato dai 480 miliardi di euro di gennaio, agli attuali 393 miliardi. Con un perdita di circa un quinto della capitalizzazione complessiva.
I sei mesi turbolenti, segnati dall’assalto degli speculatori, dal panico degli investitori e dalle difficoltà dei governi nel rimettere in sesto i conti pubblici, hanno pesato complessivamente su tutta l’Europa. L’indice delle principali società del Vecchio Continente (il Dj Stoxx 600) ha infatti chiuso il semestre in flessione dell’8%. E gli effetti della bufera economico-finanziaria si sono fatti sentire anche Oltreoceano, con Wall Street che nell’ultimo trimestre è scivolata del 10 per cento. Ma il calo vistoso di Piazza Affari resta una delle peggiori performance anche confrontandola con l’andamento dei listini di Paesi considerati molto più a rischio del nostro come Lisbona (-17,7%) e Dublino (-8,2%).
Peggio di Milano in Europa hanno fatto solo Madrid (-23,8%) ed Atene (-38,7%), che hanno registrato crolli pesantissimi. Per il resto, Parigi ha chiuso i sei mesi a -16,5%, mentre Londra ha perso il 12%. L’unica che ha tenuto è la piazza di Francoforte. La maggiore solidità dell’economia tedesca si è riflessa anche sull’andamento del Dax (il principale indice borsistico), che tra gennaio e luglio ha perso soltanto il 3,5 per cento.
La flessione media del listino di Piazza Affari nasconde, chiaramente, singoli ribassi ben più significativi. Tra le società più grandi la maglia nera spetta ad Italcementi, che nei sei mesi ha perso il 38,6%, seguita da Unipol (-37,2) e Fondiaria-Sai (-32,7%). Male anche le banche, a partire da Intesa (-31,9) e la Popolare di Milano (-31,3).
Ma i veri record si trovano tra i titoli a minore capitalizzazione, dove alcune società hanno registrato nei sei mesi perdite vertiginose. Telecom Italia media, ad esempio, ha bruciato in Borsa addirittura il 68% del suo valore, mentre Stefanel si è fermata ad un meno 57,8%. Che la situazione non sia stata facile per nessuno lo dimostra però la lista dei migliori dell’Ftse Mib, dove in settima posizione troviamo Exor, che ha comunque perso nei sei mesi lo 0,07 per cento.
Pur con il mare in burrasca c’è chi ha voluto lo stesso avviare la navigazione. A sfidare le intemperie dei mercati, mentre altre società come Moby o Kos facevano marcia indietro, è stata la piccola Tesmec, società fondata dalla famiglia Caccia Dominioni nel 1951, che si occupa di soluzioni per la costruzione e la manutenzione di reti elettriche aeree e interrate e tubi (pipeline).
Il presidente e amministratore delegato, Ambrogio Caccia Dominioni, ha affrontato l’avventura con coraggio: «Il fatto che siamo soli ad andare avanti potrebbe essere un’opportunità». L’ottimismo finora non è bastato. Lo sbarco a Piazza Affari di giovedì scorso è partito con una sospensione del titolo per eccesso di ribasso. Nel corso della seduta il titolo è riuscito a fare prezzo lasciando però sul terreno il 6,6%. Venerdì le cose non sono andate meglio (-7,2%), ma potrebbero farlo domani alla riapertura delle Borse.
Non a tutti, del resto, è andata male. Soprattutto tra i piccoli, i cui titoli oscillano maggiormente, c’è chi non si può davvero lamentare. Gli azionisti di Ternienergia e Marcolin ad esempio hanno potuto festeggiare la chiusura del semestre con rialzi mostruosi rispettivamente del 98,9% e 89,9 per cento.
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Percentuali che, tradotte in euro, danno appunto il conto salato dei 90 miliardi. Il valore delle società quotate a Piazza Affari è infatti passato dai 480 miliardi di euro di gennaio, agli attuali 393 miliardi. Con un perdita di circa un quinto della capitalizzazione complessiva.
I sei mesi turbolenti, segnati dall’assalto degli speculatori, dal panico degli investitori e dalle difficoltà dei governi nel rimettere in sesto i conti pubblici, hanno pesato complessivamente su tutta l’Europa. L’indice delle principali società del Vecchio Continente (il Dj Stoxx 600) ha infatti chiuso il semestre in flessione dell’8%. E gli effetti della bufera economico-finanziaria si sono fatti sentire anche Oltreoceano, con Wall Street che nell’ultimo trimestre è scivolata del 10 per cento. Ma il calo vistoso di Piazza Affari resta una delle peggiori performance anche confrontandola con l’andamento dei listini di Paesi considerati molto più a rischio del nostro come Lisbona (-17,7%) e Dublino (-8,2%).
Peggio di Milano in Europa hanno fatto solo Madrid (-23,8%) ed Atene (-38,7%), che hanno registrato crolli pesantissimi. Per il resto, Parigi ha chiuso i sei mesi a -16,5%, mentre Londra ha perso il 12%. L’unica che ha tenuto è la piazza di Francoforte. La maggiore solidità dell’economia tedesca si è riflessa anche sull’andamento del Dax (il principale indice borsistico), che tra gennaio e luglio ha perso soltanto il 3,5 per cento.
La flessione media del listino di Piazza Affari nasconde, chiaramente, singoli ribassi ben più significativi. Tra le società più grandi la maglia nera spetta ad Italcementi, che nei sei mesi ha perso il 38,6%, seguita da Unipol (-37,2) e Fondiaria-Sai (-32,7%). Male anche le banche, a partire da Intesa (-31,9) e la Popolare di Milano (-31,3).
Ma i veri record si trovano tra i titoli a minore capitalizzazione, dove alcune società hanno registrato nei sei mesi perdite vertiginose. Telecom Italia media, ad esempio, ha bruciato in Borsa addirittura il 68% del suo valore, mentre Stefanel si è fermata ad un meno 57,8%. Che la situazione non sia stata facile per nessuno lo dimostra però la lista dei migliori dell’Ftse Mib, dove in settima posizione troviamo Exor, che ha comunque perso nei sei mesi lo 0,07 per cento.
Pur con il mare in burrasca c’è chi ha voluto lo stesso avviare la navigazione. A sfidare le intemperie dei mercati, mentre altre società come Moby o Kos facevano marcia indietro, è stata la piccola Tesmec, società fondata dalla famiglia Caccia Dominioni nel 1951, che si occupa di soluzioni per la costruzione e la manutenzione di reti elettriche aeree e interrate e tubi (pipeline).
Il presidente e amministratore delegato, Ambrogio Caccia Dominioni, ha affrontato l’avventura con coraggio: «Il fatto che siamo soli ad andare avanti potrebbe essere un’opportunità». L’ottimismo finora non è bastato. Lo sbarco a Piazza Affari di giovedì scorso è partito con una sospensione del titolo per eccesso di ribasso. Nel corso della seduta il titolo è riuscito a fare prezzo lasciando però sul terreno il 6,6%. Venerdì le cose non sono andate meglio (-7,2%), ma potrebbero farlo domani alla riapertura delle Borse.
Non a tutti, del resto, è andata male. Soprattutto tra i piccoli, i cui titoli oscillano maggiormente, c’è chi non si può davvero lamentare. Gli azionisti di Ternienergia e Marcolin ad esempio hanno potuto festeggiare la chiusura del semestre con rialzi mostruosi rispettivamente del 98,9% e 89,9 per cento.
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sabato 3 luglio 2010
Tagli alle tredicesime di poliziotti e pm
Forse non è l’emendamento annunciato un paio di giorni fa da Giulio Tremonti. Certo è che per i magistrati, a poche ore dalla conclusione dello sciopero, una sorpresa è arrivata. Una sopresa natalizia, malgrado il calo torrido, visto che in ballo ci sono le tredicesime. A prevedere la sforbiciata sulla mensilità aggiuntiva della retribuzione è un emendamento presentato ieri sera dal relatore della manovra Antonio Azzollini. Pm e giudici non saranno da soli. Accanto a loro c’è l’intero comparto della sicurezza (poliziotti, militari, vigili del fuoco), nonché i professori universitari, i ricercatori e i diplomatici. Per tutti il testo prevede la possibilità di una riduzione delle tredicesime al fine di «assicurare risparmi di spesa».
Una beffa? Non del tutto. La proposta è infatti collegata, nel rispetto del principio tremontiano dei “saldi e dei soldi invariati”, ad una rimodulazione del congelamento degli stipendi della Pa. Le retribuzioni dei pubblici dipendenti nel 2011, 2012 e 2013 non potranno superare quelli del 2010. Un emendamento di Azzollini apre però una piccola finestra: il blocco sarà «al netto degli effetti derivanti da eventi straordinari della dinamica retributiva, ivi incluse le variazioni dipendenti da eventuali arretrati, conseguimento di funzioni diverse in corso d’anno, fermo in ogni caso quanto previsto dal comma 21, terzo e quarto periodo, per le progressioni di carriera comunque denominate, maternità, malattia, missioni svolte all’estero, effettiva presenza in servizio».
In altre parole, chi riceve una promozione o è in attesa di una gratifica arretrata, potrà derogare al blocco. A pagare per lo sforamento di spesa conseguente sarà il personale «di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001 numero 165», ovvero, tra gli altri, magistrati ordinari, amministrativi e contabili, avvocati e procuratori dello Stato, personale militare e delle Forze di polizia, personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia. La tredicesima mensilità spettante a queste categorie, si legge nel testo, «può essere ridotta con decreti non regolamentari su proposta dei ministri competenti di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanze; con decreti è fissata la percentuale di riduzione necessaria ai fini del conseguimento del predetto risparmio di spesa».
L’unica eccezione, manco a dirlo, sarà proprio per le toghe. Per i magistrati, infatti, il decreto che stabilirà l’entità dei tagli sarà emanato «su conforme delibera degli organi di autogoverno». Vale a dire che senza il placet del Csm nessuno potrà tagliare niente.
Novità in vista anche per il settore farmaceutico. I tagli per il settore previsti dalla manovra saranno spalmati su tutta la filiera e non riguarderanno solo le farmacie e i grossisti ma anche le aziende. L’emendamento presentato da Azzollini prevede anche l’adeguamento a partire dal 2011 del prezzo dei farmaci equivalenti alla media dei prezzi europea che è più bassa rispetto a quella italiana. Viene inoltre prevista l’apertura di un tavolo di confronto tra il ministero della Salute, dell’Economia, dell’Aifa e delle associazioni di categoria per introdurre una remunerazione fissa per tutti i tipi di farmaci e non più proporzionale al loro costo come avviene attualmente. In particolare, l’emendamento del relatore stabilisce che «la quota minima spettante per i farmaci di classe A (tutti i farmaci gratuiti per i cittadini) scende dal 6,65% al 3% per i grossisti, mentre aumenta dal 26,7% al 30,35% per i farmacisti. Entro 60 giorni dall’approvazione della legge, poi, dovrà partire un tavolo tecnico per la revisione dei criteri di remunerazione della spesa farmaceutica secondo questi criteri: «Estensione delle modalità di tracciabilità e controllo a tutte le forme di distribuzione dei farmaci; possibilità di introduzione di una remunerazione della farmacia basata su una prestazione fissa in aggiunta a una ridotta percentuale sul prezzo di riferimento del farmaco, che, stante la prospettata evoluzione del mercato farmaceutico, garantisca una riduzione della spesa per il Servizio sanitario nazionale».
Infine, entra in manovra la mini-naja. Un altro emendamento del relatore prevede l’introduzione per i giovani di corsi brevi, non superiori a tre settimane da svolgersi presso «reparti delle Forze armate». Si tratta di una novità introdotta «in via sperimentale per un triennio». I corsi sono «intesi a fornire», si legge nell’emendamento, «le conoscenze di base riguardanti il dovere costituzionale di difesa della Patria, le attività prioritarie delle Forze armate, in particolare delle missioni di pace a salvaguardia degli interessi nazionali».
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Una beffa? Non del tutto. La proposta è infatti collegata, nel rispetto del principio tremontiano dei “saldi e dei soldi invariati”, ad una rimodulazione del congelamento degli stipendi della Pa. Le retribuzioni dei pubblici dipendenti nel 2011, 2012 e 2013 non potranno superare quelli del 2010. Un emendamento di Azzollini apre però una piccola finestra: il blocco sarà «al netto degli effetti derivanti da eventi straordinari della dinamica retributiva, ivi incluse le variazioni dipendenti da eventuali arretrati, conseguimento di funzioni diverse in corso d’anno, fermo in ogni caso quanto previsto dal comma 21, terzo e quarto periodo, per le progressioni di carriera comunque denominate, maternità, malattia, missioni svolte all’estero, effettiva presenza in servizio».
In altre parole, chi riceve una promozione o è in attesa di una gratifica arretrata, potrà derogare al blocco. A pagare per lo sforamento di spesa conseguente sarà il personale «di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001 numero 165», ovvero, tra gli altri, magistrati ordinari, amministrativi e contabili, avvocati e procuratori dello Stato, personale militare e delle Forze di polizia, personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia. La tredicesima mensilità spettante a queste categorie, si legge nel testo, «può essere ridotta con decreti non regolamentari su proposta dei ministri competenti di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanze; con decreti è fissata la percentuale di riduzione necessaria ai fini del conseguimento del predetto risparmio di spesa».
L’unica eccezione, manco a dirlo, sarà proprio per le toghe. Per i magistrati, infatti, il decreto che stabilirà l’entità dei tagli sarà emanato «su conforme delibera degli organi di autogoverno». Vale a dire che senza il placet del Csm nessuno potrà tagliare niente.
Novità in vista anche per il settore farmaceutico. I tagli per il settore previsti dalla manovra saranno spalmati su tutta la filiera e non riguarderanno solo le farmacie e i grossisti ma anche le aziende. L’emendamento presentato da Azzollini prevede anche l’adeguamento a partire dal 2011 del prezzo dei farmaci equivalenti alla media dei prezzi europea che è più bassa rispetto a quella italiana. Viene inoltre prevista l’apertura di un tavolo di confronto tra il ministero della Salute, dell’Economia, dell’Aifa e delle associazioni di categoria per introdurre una remunerazione fissa per tutti i tipi di farmaci e non più proporzionale al loro costo come avviene attualmente. In particolare, l’emendamento del relatore stabilisce che «la quota minima spettante per i farmaci di classe A (tutti i farmaci gratuiti per i cittadini) scende dal 6,65% al 3% per i grossisti, mentre aumenta dal 26,7% al 30,35% per i farmacisti. Entro 60 giorni dall’approvazione della legge, poi, dovrà partire un tavolo tecnico per la revisione dei criteri di remunerazione della spesa farmaceutica secondo questi criteri: «Estensione delle modalità di tracciabilità e controllo a tutte le forme di distribuzione dei farmaci; possibilità di introduzione di una remunerazione della farmacia basata su una prestazione fissa in aggiunta a una ridotta percentuale sul prezzo di riferimento del farmaco, che, stante la prospettata evoluzione del mercato farmaceutico, garantisca una riduzione della spesa per il Servizio sanitario nazionale».
Infine, entra in manovra la mini-naja. Un altro emendamento del relatore prevede l’introduzione per i giovani di corsi brevi, non superiori a tre settimane da svolgersi presso «reparti delle Forze armate». Si tratta di una novità introdotta «in via sperimentale per un triennio». I corsi sono «intesi a fornire», si legge nell’emendamento, «le conoscenze di base riguardanti il dovere costituzionale di difesa della Patria, le attività prioritarie delle Forze armate, in particolare delle missioni di pace a salvaguardia degli interessi nazionali».
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venerdì 2 luglio 2010
Il controllo dell’Eni passa alla Cdp
Nei prossimi mesi a Via XX Settembre balleranno circa 10 miliardi. Con la conseguenza imprevista che il controllo dell'Eni passerà alla Cassa depositi e prestiti. È la partita di giro con cui Giulio Tremonti ha messo la parola fine al lungo braccio di ferro con l'Antitrust. Un contenzioso partito nel 2005 e reso via via più pressante dalle sentenze del Tar prima e del Consiglio di Stato poi.
Oggetto del contendere, la compresenza in pancia alla Cdp (controllata al 70% dal Tesoro e al 30% da 65 Fondazioni bancarie) di pacchetti azionari di Terna (il 29,9%) e di Enel (il 17,3%). Una convivenza inopportuna secondo l'Autorità guidata da Antonio Catricalà, che l'anno scorso considerata la situazione difficile dei mercati aveva concesso a Via XX Settembre 12 mesi di proroga.
L'attesa non è però stata vana. Il ministro dell'Economia ha infatti spiazzato tutti con un'operazione ben più ampia del previsto. Ci si aspettava una cessione di una quota sufficiente a far scendere la partecipazione dell'Enel sotto la soglia di quella di Terna. Invece, il cda della Cassa presieduto da Franco Bassanini ha deliberato ieri mattina (ultimo giorno utile per non incappare nelle ire dell'Antitrust) la vendita non solo dell'intero pacchetto di azioni del colosso energetico, ma anche delle partecipazioni detenute in Poste Italiane (il 35%) e di StMicroeletronics (il 13,7% controllato attraverso il 50% di Stm Holding).
In un colpo solo la spa guidata dal neo ad di fede "bazoliana" voluto da Tremonti, Giovanni Gorno Tempini, ha fatto piazza pulita di tre delle cinque principali partecipazioni azionarie. Tradotto in cifre, secondo il valore iscritto a bilancio dalla Cdp, si tratta complessivamente di circa 9,7 miliardi. Quote che nel 2009 hanno portato nelle casse della spa pubblica 405 milioni di dividendi.
Cifre che dovrebbero rientrare in tempi ragionevoli attraverso quello che in gergo tecnico viene definito "swap" con azioni dell'Eni. L'entità dello scambio sarà oggetto di valutazione nei prossimi mesi. La Cdp ha infatti annunciato la nomina di un advisor indipendente che si occuperà della questione.
Facendo due calcoli a spanne e considerando che l'attuale quota del 9,9% dell'Eni detenuta dalla cassa è iscritta a bilancio per 7,1 miliardi è facile ipotizzare che la percentuale si aggirerà tra il 12-15% del Cane a sei zampe. Il che significa che al Tesoro rimarrà una mini-partecipazione tra il 5 e l'8%, mentre la Cassa diventerà il vero azionista di controllo con una quota che potrebbe sfiorare il 25 per cento.
Dalla spa guidata da Bassanini e Gorno Tempini fanno sapere che è stata colta l'occasione dell'obbligo Antitrust per dare il via ad una razionalizzazione complessiva delle partecipazione con l'obiettivo di mantenere e rafforzare quelle più vicine alla mission della Cdp, ovvero gli investimenti in reti e in infrastrutture. Ma l'operazione studiata dal Tesoro sembra andare ben oltre il semplice riassetto del portafoglio.
Per quanto riguarda l'Eni si tratta di un passaggio significativo. Il controllo di una delle principali aziende strategiche italiane finisce infatti per la prima volta in mano ad un soggetto misto pubblico-privato, con le Fondazioni guidate dal battagliero presidente dell'Acri nonchéè grande azionista di Intesa Sanpaolo (attraverso la Fondazione Cariplo), Giuseppe Guzzetti, che potrebbero voler dire la loro sulle operazioni rilevanti e sugli indirizzi industriali.
Non solo. Il trasferimento di quote potrebbe anche creare problemi all'annunciata cessione da parte dell'Eni del gasdotto europeo Tag proprio alla Cdp. Una cessione imposta dall'Antitrust Ue per garantire il rispetto della concorrenza tra i vari operatori che utilizzano il metanodotto che dalla Russia, attraverso l'Austria, arriva fino in Italia. Si accontenterà Bruxelles di un'operazione in cui venditore e acquirente praticamente coincidono? Senza contare la questione della definizione del prezzo (circa 800 milioni), finora considerato da Bassanini il vero nodo da sciogliere per dare il via all'operazione. Chi sarà ora a stabilirlo?
Non meno implicazioni si nascondono dietro la cessione di Poste.
Va infatti ricordato che la Cdp, oltre al 35% del capitale, possiede una convenzione con la società guidata da Massimo Sarmi per la distribuzione dei buoni fruttiferi e dei libretti postali. Un business enorme, con una raccolta che nel 2009 ha sfiorato complessivamente i 190 miliardi, finito più volte nel mirino della Ue per violazioni delle norme sugli aiuti di Stato. Ora le Poste, proprio alle porte della liberalizzazione del settore prevista per il 2011, torneranno interamente in mano pubblica.
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Oggetto del contendere, la compresenza in pancia alla Cdp (controllata al 70% dal Tesoro e al 30% da 65 Fondazioni bancarie) di pacchetti azionari di Terna (il 29,9%) e di Enel (il 17,3%). Una convivenza inopportuna secondo l'Autorità guidata da Antonio Catricalà, che l'anno scorso considerata la situazione difficile dei mercati aveva concesso a Via XX Settembre 12 mesi di proroga.
L'attesa non è però stata vana. Il ministro dell'Economia ha infatti spiazzato tutti con un'operazione ben più ampia del previsto. Ci si aspettava una cessione di una quota sufficiente a far scendere la partecipazione dell'Enel sotto la soglia di quella di Terna. Invece, il cda della Cassa presieduto da Franco Bassanini ha deliberato ieri mattina (ultimo giorno utile per non incappare nelle ire dell'Antitrust) la vendita non solo dell'intero pacchetto di azioni del colosso energetico, ma anche delle partecipazioni detenute in Poste Italiane (il 35%) e di StMicroeletronics (il 13,7% controllato attraverso il 50% di Stm Holding).
In un colpo solo la spa guidata dal neo ad di fede "bazoliana" voluto da Tremonti, Giovanni Gorno Tempini, ha fatto piazza pulita di tre delle cinque principali partecipazioni azionarie. Tradotto in cifre, secondo il valore iscritto a bilancio dalla Cdp, si tratta complessivamente di circa 9,7 miliardi. Quote che nel 2009 hanno portato nelle casse della spa pubblica 405 milioni di dividendi.
Cifre che dovrebbero rientrare in tempi ragionevoli attraverso quello che in gergo tecnico viene definito "swap" con azioni dell'Eni. L'entità dello scambio sarà oggetto di valutazione nei prossimi mesi. La Cdp ha infatti annunciato la nomina di un advisor indipendente che si occuperà della questione.
Facendo due calcoli a spanne e considerando che l'attuale quota del 9,9% dell'Eni detenuta dalla cassa è iscritta a bilancio per 7,1 miliardi è facile ipotizzare che la percentuale si aggirerà tra il 12-15% del Cane a sei zampe. Il che significa che al Tesoro rimarrà una mini-partecipazione tra il 5 e l'8%, mentre la Cassa diventerà il vero azionista di controllo con una quota che potrebbe sfiorare il 25 per cento.
Dalla spa guidata da Bassanini e Gorno Tempini fanno sapere che è stata colta l'occasione dell'obbligo Antitrust per dare il via ad una razionalizzazione complessiva delle partecipazione con l'obiettivo di mantenere e rafforzare quelle più vicine alla mission della Cdp, ovvero gli investimenti in reti e in infrastrutture. Ma l'operazione studiata dal Tesoro sembra andare ben oltre il semplice riassetto del portafoglio.
Per quanto riguarda l'Eni si tratta di un passaggio significativo. Il controllo di una delle principali aziende strategiche italiane finisce infatti per la prima volta in mano ad un soggetto misto pubblico-privato, con le Fondazioni guidate dal battagliero presidente dell'Acri nonchéè grande azionista di Intesa Sanpaolo (attraverso la Fondazione Cariplo), Giuseppe Guzzetti, che potrebbero voler dire la loro sulle operazioni rilevanti e sugli indirizzi industriali.
Non solo. Il trasferimento di quote potrebbe anche creare problemi all'annunciata cessione da parte dell'Eni del gasdotto europeo Tag proprio alla Cdp. Una cessione imposta dall'Antitrust Ue per garantire il rispetto della concorrenza tra i vari operatori che utilizzano il metanodotto che dalla Russia, attraverso l'Austria, arriva fino in Italia. Si accontenterà Bruxelles di un'operazione in cui venditore e acquirente praticamente coincidono? Senza contare la questione della definizione del prezzo (circa 800 milioni), finora considerato da Bassanini il vero nodo da sciogliere per dare il via all'operazione. Chi sarà ora a stabilirlo?
Non meno implicazioni si nascondono dietro la cessione di Poste.
Va infatti ricordato che la Cdp, oltre al 35% del capitale, possiede una convenzione con la società guidata da Massimo Sarmi per la distribuzione dei buoni fruttiferi e dei libretti postali. Un business enorme, con una raccolta che nel 2009 ha sfiorato complessivamente i 190 miliardi, finito più volte nel mirino della Ue per violazioni delle norme sugli aiuti di Stato. Ora le Poste, proprio alle porte della liberalizzazione del settore prevista per il 2011, torneranno interamente in mano pubblica.
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I governatori: «La manovra è peggiorata»
Questa volta, niente assalti alla diligenza. La manovra non sarà ancora oggetto di negoziazione in Parlamento. «Il Paese può stare tranquillo», ha assicurato Giulio Tremonti durante l’incontro a Palazzo Madama con i senatori del Pdl, la finanziaria uscirà dalle Camere «a soldi e saldi invariati».
La notizia è piaciuta poco ai governatori che non hanno neanche apprezzato il compromesso tentato in commissione dal relatore Antonio Azzollini con l’emendamento che concede più autonomia agli enti territoriali sulla distribuzione dei tagli. «La proposta di modifica è una pezza peggiore del buco», tuona Roberto Formigoni, che resta convinto di dover interloquire direttamente con il premier. «C’è una persona che vale di più di un sottosegretario e di un ministro e confidiamo in quello che ha detto realmente questa persona», spiega il governatore della Lombardia riferendosi a Silvio Berlusconi. E un incontro col premier viene invocato anche dal presidente della conferenza delle Regioni, Vasco Errani, e da quello dell’Anci, Sergio Chiamparino. Persino i cinque governatori del Sud che continuano a sostenere la linea del dialogo ammettono, come fa il presidente del Lazio Renata Polverini, che l’emendamento forse non è peggiorativo, «ma di certo non aiuta».
E a Umberto Bossi, che in serata ha parlato di «pace scoppiata» tra il ministro dell’Economia e le regioni, risponde per le rime Errani: «La pace vera arriverà solo nel momento in cui il governo si renderà disponibile a rivedere i tagli».
Tutt’altra, per ora, l’intenzione di Tremonti, che invece sta studiando modi per recuperare risorse aggiuntive. Il ministro ha confermato che sulle banche non ci saranno tasse, ma si è detto disponibile a valutare idee per un eventuale intervento sulle assicurazioni. Il titolare di Via XX Settembre ha parlato delle asimmetrie delle tariffe tra Italia ed Europa, aggiungendo che «se c’è una proposta sulle assicurazioni sono disposto a prenderla in esame». Qualsiasi risorsa andrebbe comunque ad aggiungersi ai risparmi e non a finanziare nuove misure. Il ministro ha poi ribadito l’intenzione di andare avanti sulla semplificazione delle procedure che gravano sulle piccole imprese, ma non ha sciolto il nodo sul tipo di strumento legislativo da adoperare. In serata Tremonti è tornato sui tagli alle regioni. A modo suo: «Pensiamo che ci sia un buon emendamento nella manovra, pensiamo che ci sia spazio per la discussione responsabile e seria».
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La notizia è piaciuta poco ai governatori che non hanno neanche apprezzato il compromesso tentato in commissione dal relatore Antonio Azzollini con l’emendamento che concede più autonomia agli enti territoriali sulla distribuzione dei tagli. «La proposta di modifica è una pezza peggiore del buco», tuona Roberto Formigoni, che resta convinto di dover interloquire direttamente con il premier. «C’è una persona che vale di più di un sottosegretario e di un ministro e confidiamo in quello che ha detto realmente questa persona», spiega il governatore della Lombardia riferendosi a Silvio Berlusconi. E un incontro col premier viene invocato anche dal presidente della conferenza delle Regioni, Vasco Errani, e da quello dell’Anci, Sergio Chiamparino. Persino i cinque governatori del Sud che continuano a sostenere la linea del dialogo ammettono, come fa il presidente del Lazio Renata Polverini, che l’emendamento forse non è peggiorativo, «ma di certo non aiuta».
E a Umberto Bossi, che in serata ha parlato di «pace scoppiata» tra il ministro dell’Economia e le regioni, risponde per le rime Errani: «La pace vera arriverà solo nel momento in cui il governo si renderà disponibile a rivedere i tagli».
Tutt’altra, per ora, l’intenzione di Tremonti, che invece sta studiando modi per recuperare risorse aggiuntive. Il ministro ha confermato che sulle banche non ci saranno tasse, ma si è detto disponibile a valutare idee per un eventuale intervento sulle assicurazioni. Il titolare di Via XX Settembre ha parlato delle asimmetrie delle tariffe tra Italia ed Europa, aggiungendo che «se c’è una proposta sulle assicurazioni sono disposto a prenderla in esame». Qualsiasi risorsa andrebbe comunque ad aggiungersi ai risparmi e non a finanziare nuove misure. Il ministro ha poi ribadito l’intenzione di andare avanti sulla semplificazione delle procedure che gravano sulle piccole imprese, ma non ha sciolto il nodo sul tipo di strumento legislativo da adoperare. In serata Tremonti è tornato sui tagli alle regioni. A modo suo: «Pensiamo che ci sia un buon emendamento nella manovra, pensiamo che ci sia spazio per la discussione responsabile e seria».
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