mercoledì 23 dicembre 2009

La produzione di auto in Italia salirà a un milione di auto

Il braccio di ferro sulla chiusura o riconversione degli impianti italiani non ferma il piano Fiat. Nel biennio 2010-2011 arriveranno 11 nuovi modelli, tra cui il nuovo Doblò, la Giulietta, la nuova Panda e la nuova Y. Questo l’annuncio dell’ad Sergio Marchionne nel corso dell’incontro di ieri pomeriggio a Palazzo Chigi con i sindacati. La mappa delle produzioni, sulla carta, è già disegnata. Dagli impianti della ex-Bertone, acquisiti di recente dalla Fiat, usciranno auto Chrysler. La Nuova Y sarà prodotta in Polonia e la Small in Serbia dal 2011. A Mirafiori vengono confermati nel biennio i modelli attuali (Punto, Idea, Multipla, Mito, Musa e Thesis). A Cassino, nel 2010, a Croma, Brava e Delta si aggiungerà la produzione della Giulietta. Melfi, ha spiegato il manager, «sta lavorando bene» e saranno dunque mantenuti i modelli già presenti (Grande Punto e Punto Evo). Quanto a Pomigliano, ha detto Marchionne, che attualmente sforna le Alfa 147, Gt, 159, 159 Spider, 159 Sportwagon e la Bravo, l’ipotesi è quella di affidargli la Nuova Panda. Ma tutto è ancora da verificare. «È l’impianto più penalizzato per l’assenza di incentivi», ha detto Marchionne, aggiungendo che «così lo stabilimento non può reggere».
In ogni caso, l’obiettivo del Lingotto è quello di incrementare la produzione complessiva in Italia. «Vogliamo aumentare i livelli», ha spiegato Marchionne, «dalle 650mila vetture di oggi ad un range compreso tra 800mila e un milione di unità entro tre anni, con un target di 900mila vetture l’anno». A questi volumi si somma poi la produzione di veicoli commerciali leggeri, che potrà raggiungere circa 220mila unità rispetto alle 150mila di quest’anno.
Per tagliare il traguardo del milione di auto la Fiat metterà sul piatto una robusta dose di risorse aggiuntive. Nei prossimi due anni gli investimenti previsti in Italia ammontano a circa 8 miliardi. Ma il raggiungimento dei target dipenderà, ovviamente, anche dall’andamento del mercato. Secondo il manager in Europa nel 2010 le immatricolazioni di auto saranno circa 12 milioni, 1,5 milioni in meno rispetto al 2009. Per quanto riguarda l’Italia, le vendite a fine anno dovrebbero attestarsi a circa 2,1 milioni di unità, in leggero calo sul 2008. Ma senza incentivi, ha voluto ricordare Marchionne, che è in attessa del decreto che dovrebbe prorogare gli aiuti, il prossimo anno «è ragionevole pensare il mercato precipiti verso la soglia di 1,7 milioni di unità». Più pesante la situazione per i veicoli commerciali leggeri, il cui mercato ha registrato un calo del 10-11% nel 2008 e «quest’anno ha fatto ancora peggio».

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L’atomo sotto casa conviene: 15 milioni l’anno ai comuni ospiti

Almeno 15 milioni l’anno per i sindaci che sceglieranno di ospitare l’atomo. Più altri soldi da spartire tra la provincia e i comuni limitrofi. È questo il business del nucleare per gli enti locali così come stabilito nel decreto legislativo approvato ieri in via preliminare dal Consiglio dei ministri sui criteri per la localizzazione dei siti. Il provvedimento contiene infatti disposizioni ben precise per le cosiddette compensazioni. Quattrini che per il 60% finiranno in tasca ai cittadini e alle imprese residenti nella zona attraverso riduzioni delle bollette, delle addizionali Irpef e Irpeg e dell’Ici. Ma per il 40% andranno nelle casse di Comuni e Province. A pagare il conto saranno le imprese impegnate nella costruzione e nello sfruttamento degli impianti. Nel dettaglio, è previsto «un beneficio economico onnicomprensivo annuale commisurato alla potenze elettrica dell’impianto nella fase di cantiere, pari a 3mila euro per megaWatt». Considerata una centrale tipo di 1600 MW si tratta di circa 24 milioni per i cinque anni necessari alla costruzione. Successivamente, l’onere per il gestore dell’impianto sarà di 0,4 euro per ogni MWh di elettricità prodotta. Tradotto in cifre sono circa 5,1 milioni l’anno. Somma cui bisogna aggiungere i 13 milioni l’anno che la centrale pagherà di Ici. Questi ultime risorse andranno interamente al Comune che ospiterà il sito nucleare. Il resto sarà invece diviso tra la Provincia (10%) il Comune di residenza (55%) e gli enti locali entro 20 chilometri dalla centrale. Altre compensazioni arriveranno da chi sfrutterà il combustibile nucleare. Ed altri benefici, da quantificare, sono previsti per chi ospiterà gli impianti per lo smaltimento delle scorie.
Per il resto, il decreto stabilisce i criteri con cui l’Agenzia per la sicurezza nucleare individuerà i siti su cui costruire le centrali. Cinque, secondo le indiscrezioni, i candidati: Rovigo, Caorso, Trino Vercellese, Termoli e Montalto di Castro, il cui sindaco del Pd Salvatore Carai, ha detto però di non volerne sapere.
Con buona pace di Carai, il governo sembra intenzionato a premere sull’acceleratore. Entro tre mesi dall’approvazione definitiva del decreto il Consiglio dei ministri adotterà il piano di «strategia nucleare» con cui saranno delineati gli obiettivi strategici. Successivamente, gli operatori interessati, «in un’ottica di libero mercato, formalizzeranno le proposte per la realizzazione degli impianti». Tra questi, ovviamente, l’Enel, che ha già creato un consorzio con Edf per la realizzazione dei primi 4 impianti. L’ad Fulvio Conti ha definito le misure approvate ieri «una pietra miliare nel percorso per il ritorno dell’Italia al nucleare e per avviare un rinascimento industriale e tecnico del sistema produttivo e scientifico del Paese». Ora, ha proseguito il numero uno dell’Enel, «il Paese ha bisogno di ricostruire una cultura». Serve una grande campagna di informazione per spiegare «che il nucleare è sicuro, è un’alternativa reale alle fonti fossili ed è in difesa dell’ambiente».

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martedì 22 dicembre 2009

Mediaset si fa in Cuatro. Sfida europea a Sky

La campagna iberica di Mediaset è andata a segno. Telecinco, la controllata spagnola del Biscione, ha raggiunto un accordo con il gruppo editoriale Prisa per l’acquisizione del canale in chiaro Cuatro e di una quota di Digital plus. La notizia era attesa da quando alla Borsa di Madrid i titoli delle due società erano stati sospesi dalle negoziazioni dopo una serie di forti rialzi. L’accordo valorizza le tv 1,05 miliardi di euro. Nel dettaglio, l’operazione prevede che il gruppo spagnolo che controlla anche El Pais, avrà una quota del 18,3% della controllata di Mediaset, un pacchetto valutato circa 550 milioni di euro. Per la cessione di Cuatro e del 22% di Digital Plus riceverà poi 500 milioni di euro in contanti. Telecinco dal canto suo procederà a un aumento di capitale da 500 milioni di euro, al quale l’azionista Mediaset aderirà per la quota spettante (252,5 milioni). La sottoscrizione dell’operazione è già garantita da un sindacato di banche guidato dagli advisor Mediobanca e Jp Morgan e nel quale partecipano anche Bbva e Banca Imi.
La fusione dà vita alla principale holding radiotelevisiva spagnole, con una gestione congiunta degli asset, anche se le due catene televisive, Telecinco e Cuatro, manterranno i rispettivi marchi commerciali. La nuova holding dovrebbe essere presieduta da Alejandro Echevarria, presidente di Telecinco, e avrebbe due consiglieri delegati: Paolo Vasile, attuale consigliere delegato di Telecinco, e Giuseppe Tringali, massimo responsabile della pubblicità della stessa catena.
Con l’operazione spagnola Mediaset inizia a mostrare muscoli robusti sul campo internazionale. Il controllo delle tv iberiche si va infatti ad aggiungere alle numerose partecipazioni già detenute dal gruppo del Biscione all’estero.
Il colosso di Segrate ha un pacchetto di controllo di Caribevision TV Network LLC, rete televisiva di che trasmette a New York, Miami e Porto Rico rivolta ad un pubblico ispanofono, una serie di accordi con China Global Media, titolare del canale sportivo in chiaro China Sport Network, distribuito in 7 Province della Repubblica Popolare Cinese con una copertura di circa 400 milioni di persone e recentemente ha raggiunto un accordo per acquisire il 25% di Nessma Tv, canale satellitare del Gruppo Karoui&Karoui World con sede a Tunisi, molto diffuso nel Nord Africa.
Ma è soprattutto in Europa, dove il Biscione già controlla il 33% di Endemol (prima società di produzione televisiva del continente), che si concentra adesso una potenza di fuoco che permetterà a Mediaset di lanciare la sfida a Rupert Murdoch anche fuori dai confini italiani, dove i due gruppi si contendono da anni il mercato. Non è un caso che sul gruppo Prisa, l’anno scorso, avesse cercato di mettere le mani anche BSkyB, la potente pay-tv britannica che fa capo al tycoon dei media proprietario di Sky.

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venerdì 18 dicembre 2009

Mediaset compra il nemico País. DeAgostini raddoppia in Spagna

Può sembrare bizzarro, ma il gruppo Mediaset sta per diventare socio del Pais. Sì, lo stesso giornale che qualche mese fa decise di pubblicare le foto delle feste berlusconiane a Villa Certosa. Immagini censurate in Italia in base alla legge sulla privacy. In realtà, la mossa di Segrate altro non è che un tassello di di un’operazione più vasta. Che si sta configurando come una vera e propria colonizzazione dell’informazione spagnola da parte dell’Italia, considerato che il gruppo Rcs controlla già la testata El Mundo e Mediaset ha la proprietà del canale Telecinco.
Secondo la stampa iberica ieri è stata una giornata di intense trattative. Con le maggiori tv private del Paese vicine ad accordi strategici. In pista ci sarebbe anche la DeAgostini, che attraverso la controllata al 50% Antena3, ha messo nel mirino il canale La Sexta per una possibile fusione. Le manovre di Mediaset si indirizzerebbero invece verso il gruppo Prisa, di cui fa parte anche El Pais. Secondo il quotidiano spagnolo Abc, l’azienda presieduta da Fedele Confalonieri potrebbe rendere noto già oggi o lunedì l’accordo raggiunto con il gruppo editoriale iberico per l’acquisto dell’80% del canale in chiaro Cuatro e del 22% del canale via satellite Canal+, di cui è azionista anche Telefonica con il 20%. Il quotidiano, che cita fonti vicine all’operazione, assicura che la fusione si realizzerebbe con un aumento di capitale di Telecinco, del cui azionariato entrerebbe a far parte anche Prisa in posizione minoritaria. Il controllo editoriale delle due catene passerebbe secondo Abc a Mediaset, ed i due canali avranno gestione unica, anche se opereranno nel mercato conservando i loro marchi. Mediaset pagherebbe circa 500 milioni di euro, dando a Prisa il modo per alleggerire il debito con le banche di circa 5 miliardi di euro.
Le due società hanno mandato ieri mattina un comunicato alla Cnmv (la Consob spagnola) nel quale riconoscono genericamente conversazioni ma dicono di non essere ancora arrivate ad un accordo. Un comunicato analogo è stato inviato anche dalle altre due catene in odore di fusione: Antena 3 ha riconosciuto contatti con La Sexta, con la quale non avrebbe però raggiunto un accordo.
In ogni caso, il Paese di Zapatero si conferma una buona occasione di business per le società italiane. E non solo per l’editoria. Basti pensare ad esempio alla grande operazione con cui l’Enel ha assunto il controllo del colosso spagnolo delle rinnovabili Endesa. Non altrettanto buona, invece, appare la fortuna delle aziende iberiche in territorio italiano. Lo schiaffo più sonoro è stato quello ricevuto dal Bbva nel 2006, quando fu stoppato bruscamente il tentativo di conquistare la Bnl (poi andata ai francesi di Bnp). Anche il Santander ha fatto in Italia soltanto una fugace apparizione con Antonveneta, poi finita in pancia ad Mps (seppure in cambio di una lauta plusvalenza). La presenza più stabile resta, allo stato, Telefonica. Ma quel suo 42,3% di Telco (la controllante di Telecom) ha iniziato negli ultimi mesi ad essere bersagliato da attacchi provenienti dal mondo della finanza e della politica che fanno pensare ad una prosecuzione non troppo duratura dell’alleanza.

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Nessun “miracolo Obama”, la Cina boccia il summit

Il bluff di Obama, il no della Cina. Prosegue all’insegna del fallimento il vertice sul clima di Copenaghen. Ieri è arrivato il prevedibile stop di Pechino. Un funzionario della Repubblica popolare ha detto a chiare lettere di non vedere la possibilità di poter raggiungere un accordo per la riduzione delle emissioni di biossido di carbonio. La Cina punta invece a «una breve dichiarazione politica di qualche tipo». Non è chiaro il contenuto. Qualcosa sembra invece muoversi dagli Stati Uniti, che avrebbero messo sul piatto la disponibilità a contribuire (non si sa con che quota) a un fondo dei Paesi più sviluppati da 100 miliardi di dollari all’anno fino a 2020 per aiutare le nazioni in via di sviluppo. Il segretario di Stato, Hillary Clinton, ha però spiegato che il contributo si realizzerebbe solo nel caso «di un forte accordo» tra tutte le più importanti economie per mitigare gli effetti dei «gas serra». La realtà, ha spiegato il direttore generale del ministero dell’Ambiente, Corrado Clini, è che dagli Usa non potranno arrivare impegni concreti. Non finché «il Senato Usa non discuterà la legge che stabilisce un tetto alle emissioni di anidride carbonica entro il 2020 che le ridurrebbe del 17% rispetto al 2005». In mancanza del voto, «il presidente non ha alcuna legittimità per dire qui a Copenaghen che gli Stati uniti si impegnano a raggiungere quell’obiettivo, che pure se minimo sarebbe un primo passo». È la stessa situazione che abbiamo avuto nel ’97 quando Al Gore portò a Kyoto l’adesione degli Usa al protocollo, ma poi il Senato votò all’unanimità contro la ratifica perché la considerava lesiva dell’indipendenza degli Stati Uniti».
Sta di fatto che anche il primo ministro danese, Lars Lokke Rasmussen, subentrato al ministro dell’Ambiente, ha rinunciato a presentare una bozza di accordo. I negoziati proseguiranno dunque solo su due documenti: il Kyoto track e il Long term commitment actions. Il primo, che non riguarda gli Usa, si propone di prolungare il Protocollo di Kyoto con tutti gli impegni di riduzione dei livelli di emissioni di CO2; il secondo include le iniziative per l’adattamento e il mitigamento climatico, la lotta alla deforestazione, gli interventi per l’agricoltura e la questione chiave dei finanziamenti, sia immediati che a medio lungo termine per i Paesi più poveri.

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giovedì 17 dicembre 2009

Draghi dice che gli italiani sono più poveri. Ma per Natale gli alberghi fanno il pienone

Le famiglie sono più povere. Ma le vacanze non si toccano. È il curioso paradosso che scaturisce dal confronto di due studi diffusi ieri sui soldi e le abitudini degli italiani.
I primi dati arrivano da Bankitalia, dalla cui analisi, abbastanza scoraggiante, emerge che la ricchezza della famiglie è sostanzialmente tornata ai livelli di circa dieci anni fa. Secondo il supplemento al bollettino statistico di Bankitalia, nel biennio 2007-2008 il calo registrato è stato dell’1,9% (161 miliardi, a prezzi correnti). A pesare la forte riduzione delle attività finanziarie come depositi, titoli o azioni (-8,2%) e un aumento dei debiti (+3%). Positivo, invece, l’andamento delle attività reali (case o terreni), benché meno sostenute degli anni precedenti.
A prezzi costanti (considerando, cioè, anche l’aumento dei prezzi per l’inflazione), la riduzione rispetto al 2007 è stata pari al 5 per cento (circa 433 miliardi). Pesa sulla variazione, come si diceva, l’andamento negativo per circa 521 miliardi dei capital gain nel 2008. Sempre tra il 2007 e il 2008 la ricchezza netta per famiglia è diminuita del 3,5% a prezzi correnti, mentre a prezzi costanti il valore della ricchezza netta per famiglia si è ridotto del 6,5%, tornando sui livelli di inizio decennio. La ricchezza netta procapite nel 2008 ammontava a circa 138mila euro, a prezzi correnti è diminuita del 2,6% sul 2007; a prezzi costanti si è ridotta del 5,6% sull’anno precedente. Secondo stime preliminari, inoltre, nel primo semestre del 2009 la ricchezza netta delle famiglie sarebbe rimasta sostanzialmente invariata in termini nominali.
Saranno pure più poveri, ma gli italiani non hanno alcuna intenzione di restarsene a casa per le vacanze. Il numero complessivo di chi passerà fuori le feste di Natale e Capodanno balza infatti da 8,2 fino a quasi 10 milioni, con un incremento del 20%. È quanto emerge dall’indagine previsionale di Federalberghi-Confturismo, presentata ieri in vista dell’imminente periodo festivo. Il giro d’affari determinato da questo movimento turistico assommerà a circa 5,3 miliardi di euro (rispetto ai 4,8 miliardi del 2008), pur diminuendo la spesa media pro-capite sia a Natale sia a Capodanno. Nel dettaglio, per Natale, saranno 4,8 milioni gli italiani maggiorenni (rispetto ai 4 milioni del 2008) che si muoveranno dalla propria città, dormendo almeno una notte fuori casa, per un incremento di circa il 20%. Di essi l’85% (rispetto al 79% del 2008) resterà in Italia, mentre il 15% (rispetto al 21% del 2008) andrà all’estero.
Crisi sparita? Non proprio. Se in molti non rinunceranno alla vacanza, altrettanti lasceranno le valigie in soffitta. Anzi, aumentano pure questi. La recessione, sempre secondo Federalberghi, tratterrà a casa 17 milioni di persone rispetto ai 15 dell’anno scorso (+13%). Dati schizofrenici, che non sono piaciuti al presidente della Federalberghi, Benabò Bocca: «Gli aumenti a due cifre di italiani in vacanza a Natale e Capodanno ed il parallelo incremento di italiani che sempre nel medesimo periodo non faranno nemmeno un pernottamento fuori casa per motivi economici, rappresenta un segnale che guardiamo con preoccupazione».

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Il vertice verde perde i pezzi: si dimette il capo

Secondo il responsabile Onu della conferenza sul clima Yvo de Boer le prossime ore saranno decisive per il raggiungimento di un accordo sulla riduzione delle emissioni di CO2. La realtà è che a Copenaghen nessuno riesce più a capire se la situazione sia più caotica all’esterno del vertice o al suo interno, dove persino il presidente venezuelano Ugo Chavez, dopo aver accusato l’Occidente di aiutare le banche ma non il mondo, può permettersi di denunciare l’atmosfera di «dittatura imperiale» che avvolge i lavori.
Sta di fatto che mentre nelle strade le forze dell’ordine non sanno più come contenere la protesta dei no global, dentro il Bella Center la situazione è precipitata al punto che anche il ministro danese del Clima, presidente del vertice, ha deciso di gettare la spugna. Connie Hedegaard ha resistito finché ha potuto. Poi, ieri mattina, dopo aver presieduto l’ennesimo meeting, aver constatato che l’accordo è ancora lontano anni luce e aver incassato la dose quotidiana di critiche dai Paesi in via di sviluppo, ha rassegnato le dimissioni. Al suo posto è prontamente arrivato il primo ministro Lars Loekke Rasmussen, ma il destino del tanto atteso vertice sembra ormai appeso a un filo. Come avevano del resto pronosticato molti esperti della materia, frettolosamente accusati di pessimismo anti-ambientalista.
La sostanza è che a due giorni dalla conclusione della Conferenza, i leader politici dovrebbero fare un miracolo per trovare uno straccio di accordo. Obiettivo che finora i tecnici e i ministri dell’Ambiente sono stati ben lontani dal raggiungere. Oggi arriveranno tutti i leader europei, e anche il segretario di Stato americano Hillary Clinton, che precederà il presidente Usa Barack Obama atteso per domani, parteciperà a sorpresa ad alcuni incontri di lavoro. Già ieri, una quarantina di leader sono sbarcati nella capitale danese, tra cui il premier britannico Gordon Brown, il presidente Chavez, il premier cinese Wen Jiabao.
Il commissario Ue all’Ambiente Stavros Dimas è convinto che la presenza dei capi di stato e di governo sia in sè una garanzia di successo: «È impossibile che i leader mondiali ripartano a mani vuote mentre tutto il mondo si aspetta un risultato». Ma il suo ottimismo non appare molto condiviso.
Il premier britannico Gordon Brown ha detto chiaramente che sarà «molto difficile» trovare un accordo, mentre la presidenza svedese di turno della Ue, che aveva ipotizzato per oggi un vertice straordinario dei leader europei in margine alla conferenza, ha deciso per ora di non farne nulla: «Non ci sono fatti nuovi tali da giustificare una nuova riunione». Più speranzoso il presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Durao Barroso, che non si dice né pessimista né ottimista, ma non esclude un accordo all’ultimo minuto. I riflettori sono tutti puntati su Usa e Cina. «Abbiamo già un mandato chiaro, deciso dal vertice Ue di ottobre. Ciò che ci manca è una risposta globale da parte di altri partner», ha spiegato il premier svedese e presidente di turno Fredrik Reinfeldt. Anche per il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, i due Paesi «sono responsabili della metà delle emissioni globali, ma anche del blocco dei negoziati. Le loro rigidità non permettono una conclusione».
Il risultato, al di là delle responsabilità, è lo stallo totale delle trattative e la mancanza di qualsiasi bozza di compromesso. Dopo settimane di entusiasmi e proclami, si torna a parlare di un negoziato che potrebbe al massimo scaturire in un vago accordino «politico» per poi rivedere il tutto il prossimo anno. Nella tarda serata di ieri il presidente americano Obama ha lanciato un messaggio di fiducia: «Spero che la mia presenza a Copenaghen sia utile per giungere ad un accordo sul clima». Per ora l’unico risultato certo ed evidente della Conferenza sul clima resta, purtroppo, il disastro organizzativo.

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Vince Tremonti: passa la mini-manovra

Fra polemiche e scontri, con il voto di fiducia di ieri, è arrivato il via libera della Camera all’ultima Finanziaria. Sempre ieri, infatti, il Senato ha approvato in via definitiva la riforma della legge di bilancio. Dal prossimo anno al posto della tradizionale manovra ci sarà la legge di stabilità, mentre il Documento di programmazione economica e finanziaria sarà sostituito dal Dpf, decisione di finanza pubblica.
Manovra light
Nel passaggio alla Camera il provvedimento è lievitato fino a 9,2 miliardi, di cui però solo 5,6 miliardi di saldo netto da finanziare in base ai criteri contabili previsti da Bruxelles. Una manovra light evidentemente ispirata al rigore. La versione definitiva è stata integrata con il dl che taglia gli acconti Irpef, la banca per il Sud, il codice delle autonomie e il patto per la salute. Le coperture arriveranno per 3,1 miliardi dal fondo in cui viene depositato il Tfr dei lavoratori dipendenti e per 3,9 da una prima distribuzione del gettito in arrivo dallo scudo fiscale. Il resto da alcuni tagli alla spesa.
La doppia fiducia
Al centro delle polemiche, più che i contenuti sono state le modalità di approvazione. Maggioranza e governo hanno infatti posto una sorta di fiducia in commissione Bilancio, con la presentazione di un maxi-emendamento a firma del relatore, non modificabile, che ha recepito tutte le modifiche proposte dall’esecutivo. Poi su quel testo è arrivata la fiducia vera e propria in Aula.
Una procedura che pur rispettando le indicazioni iniziali del presidente della Camera, alla fine ha spinto Gianfranco Fini a parlare di scelta «deprecabile». L’iter avrebbe infatti impedito il dibattito sulle proposte delle opposizioni. Al di là del pacchetto di emendamenti ispirato dal senatore Mario Baldassarri sul taglio delle tasse per imprese e famiglie e sulla cedolare secca degli affitti, presentato anche alla Camera più per mantenere una posizione di bandiera che per modificare realmente la Finanziaria, da Pdl e Lega non erano arrivate proposte particolari per ridisegnare la manovra.
Le “spese” del Pd
Diverso ovviamente il caso del centrosinistra, che in commissione aveva presentato centinaia di emendamenti poi ridotti ad una cinquantina per consentire il confronto in Aula. Ma quali erano queste proposte finite sotto la scure della fiducia? A riassumerle ci ha pensato il capogruppo del Pd, Dario Franceschini, durante le dichiarazioni di voto.
Sinteticamente: 3,4 miliardi per aumentare le detrazioni fiscali ai lavoratori dipendenti e ai pensionati con redditi fino a 55mila euro, 600 milioni per aumentare le detrazioni fiscali per i figli, 500 milioni per il fondo di garanzia per il credito alle Pmi, 500 milioni per il rifinanziamento del credito di imposta per gli investimenti nel Sud e per la ricerca, 200 milioni per il rifinanziamento della detrazione del 55% per la riqualificazione degli edifici, 800 milioni per compensare i Comuni del minor gettito derivante dalla soppressione dell’Ici sulla prima casa, 1 miliardo per consentire alle amministrazioni locali di pagare parte dei debiti con le imprese, estensione della cassa integrazione a 104 settimane, assegno una tantum per i lavoratori precari che perdono il lavoro e l’estensione dei benefici con innalzamento dal 30 al 60% rispetto al reddito percepito nell’anno precedente.
Condivisibile o meno, si tratta chiaramente di un lungo elenco di voci di spesa, di cui Franceschini si è ben guardato dall’indicare le relative coperture. Ed è questo, probabilmente, il punto. Perché le misure chieste dall’opposizione non avrebbero potuto sostituire in toto gli interventi decisi da Giulio Tremonti. Che comprendono finanziamenti inderogabili alle missioni internazionali, alle forze dell’ordine, alla scuola e alla sanità. La spesa chiesta dal Pd si sarebbe dunque aggiunta a quella già calcolata col bilancino dal ministro dell’Economia per mantenere in sicurezza i conti pubblici ed avere la possibilità, come chiesto dalle agenzie di rating internazionli, di procedere con rapiditià nel 2010 all’abbattimento del debito e al rientro dal deficit.
Niente Irap
Questo non toglie che, forse, sin dalla discussione in commissione Bilancio si potesse ragionare su una rimodulazione delle pochissime risorse disponibili per fare piccoli passi verso una riduzione della pressione fiscale per famiglie e imprese. Verso misure in grado di favorire un rilancio dei consumi e dell’economia per cavalcare con più decisione i timidi venti di ripresa che sono iniziati a spirare nel Paese. Passi che il Tesoro ha però ritenuto prematuri.
Ieri in serata, comunque, si è conclusa alla Camera la seduta dedicata alle votazioni sugli ordini del giorno, nella quale il governo è stato battuto due volte (sulle risorse per la banda larga e la giustizia). Sono rimasti da votare due testi il cui esame è rinviato a questa mattina. Sempre oggi, a mezzogiorno, è previsto il voto finale sulla manovra. I testi passeranno poi all’esame del Senato per il via libera definitivo, previsto per martedì 22 dicembre.

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mercoledì 16 dicembre 2009

Scoppia il caso spaghettopoli

Certo, ci sono i costi della distribuzione, gli effetti della crisi, il problema della filiera, le oscillazioni dei mercati. E anche l’invasione delle cavallette. Ma capire come si arriva dai 18 centesimi al chilo del prezzo del grano duro agli 1,4 euro al chilo della pasta, con un ricarico del 400%, è cosa che sfiora i limiti dell’umana comprensione. I risvolti surreali del maccherone-gate non sono sfuggiti all’Antitrust, che dopo due anni di indagini lo scorso febbraio ha comminato multe per 12,5 milioni di euro (sanzioni recentemente confermate dal Tar del Lazio).
Ma non sono sfuggiti neanche alla Procura di Roma, che sta tenendo sott’occhio il prezzo della pasta da un bel po’. Per svelare il segreto dello spaghetto a peso d’oro, ieri sono scese in campo le Fiamme Gialle, con una massiccia operazione svolta contemporaneamente in tutta Italia. I militari della Guardia di Finanza sono andati a bussare alle sedi della Barilla a Parma, della De Cecco a Pescara e Roma, del pastificio Garofalo a Gragnano, in provincia di Napoli, del pastificio Amato a Salerno, della Divella a Bari e dell’Unione pastai italiani a Roma. In tutti gli uffici sono state effettuate perquisizioni a caccia di documenti e materiale utile alle indagini.
Al centro dell’inchiesta, come si diceva, c’è l’aumento ingiustificato dal 2007 ad oggi di circa il 50 per cento del prezzo della pasta. L’attività investigativa è coordinata dal procuratore aggiunto Nello Rossi e dal sostituto Stefano Pesci. Il sospetto alla base dell’apertura del fascicolo è la creazione di un «cartello» organizzato dai maggiori produttori per far lievitare i prezzi neutralizzando la concorrenza. La procura procede per l’ipotesi di reato prevista dall’articolo 501 bis del codice penale, vale a dire manovra speculativa sul prezzo delle merci. Secondo quanto si è appreso per ora vi sarebbe solo una persona iscritta sul registro degli indagati, ma ben presto i nomi potrebbero aumentare. Il nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Roma ha sequestrato documenti e verbali, anche redatti in sede di riunioni dell’associazione di categoria, che potrebbero rappresentare la prova della manovra speculativa e la formazione del «cartello».
Il reato prevede una pena fino a tre anni di reclusione. L’indagine era stata avviata nell’ottobre del 2007 proprio in seguito all’iniziativa dell’Antitrust, che aveva messo sotto inchiesta ventinove tra i principali marchi della pasta italiana, tra cui Barilla, De Cecco, Di Vella, gli stessi finiti nel mirino delle Fiamme Gialle. Un’istruttoria che aveva fatto scattare la denuncia di Adoc, Adusbef, Federconsumatori e Codacons all’autorità giudiziaria.
Le cose, per i pastai, sembrano mettersi male. Sul maccherone-gate si erano già espressi chiaramente i giudici amministrativi del Lazio. Le imprese del settore della pasta accusate di aver creato un cartello, si legge nella sentenza del Tar dello scorso 29 ottobre, «risultano aver concordato forme di reciproca collaborazione preordinate alla pratica sostituzione del meccanismo concorrenziale con una prassi di concertazione delle politiche di prezzo». Ed è difficile trovare attenuanti, considerato che la pasta è il piatto preferito degli italiani. Con un consumo, secondo i dati di Coldiretti, che si aggira sui 26 chili a persona, tre volte superiore a quello di uno statunitense, di un greco o di un francese, cinque volte superiore a quello di un tedesco o di uno spagnolo. Malgrado i superprezzi l’anno scorso gli italiani hanno mangiato oltre 1,5 milioni di tonnellate di maccheroni. Per un controvalore, tutt’altro che trascurabile, di 2,8 miliardi di euro.

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Bolli e tariffe bloccati per un altro anno

Blocco degli aumenti tariffari della Pa per un altro anno, rinvio degli studi di settore per i liberi professionisti e gli autonomi e altri quattro mesi di tempo per le popolazioni colpite dal terremoto in Abruzzo prima di iniziare a pagare le tasse. Sono queste le principali novità del decreto legge Milleproroghe che dovrebbe approdare sul tavolo del Consiglio dei ministri di domani.
Nella bozza del provvedimento, che comprende una raffica di slittamenti delle scadenze su svariati argomenti, non rientrano al momento né la riapertura dei termini dello scudo fiscale (che dovrebbe però quasi certamente arrivare e concedere nuovo tempo fino ad aprile) né gli incentivi alla rottamazione auto e moto (che potrebbero trovare spazio in un decreto ad hoc annunciato dal ministro Claudio Scajola per gennaio).
Sulle tariffe, si darebbe un anno in più di efficacia a quanto stabilito dal decreto anti-crisi del 2008, che non riguarda luce, gas e autostrade, ma tutti gli altri balzelli previsti dalla Pa per adempimenti, pratiche, concessioni e autorizzazioni. All’articolo 3 si prevede infatti che «al fine di contenere gli oneri finanziari a carico dei cittadini e delle imprese è sospesa l’efficacia delle norme statali che, obbligano o autorizzano organi dello Stato ad emanare atti aventi ad oggetto l’adeguamento di diritti, contributi o tariffe a carico di persone fisiche o persone giuridiche in relazione al tasso di inflazione ovvero ad altri meccanismi automatici, fatta eccezione per i provvedimenti volti al recupero dei soli maggiori oneri effettivamente sostenuti e per le tariffe relative al servizio idrico».
Per quanto riguarda la revisione degli studi di settore (lo strumento con cui i lavoratori autonomi pagano il fisco) per gli anni 2009 e 2010 viene concesso più tempo per la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Arriva anche la proroga per le concessioni demaniali marittime con «finalità turistico ricreative», cioè gli stabilimenti balneari. Le concessioni che erano in scadenza a fine anno, si legge nella bozza, sono prorogate di 6 anni fino al 31 dicembre 2015. E sul fronte fiscale, nell’ambito dell’operazione scudo, si sposta al 30 aprile 2010 la scadenza per i transfrontalieri che devono regolarizzare le proprie dichiarazioni dei redditi.
Un anno in più, dal primo gennaio 2010 al 1 gennaio 2011, per la nuova carta di identità che contiene i dati biometrici personali (le impronte) e altri 12 mesi anche per la conclusione dei procedimenti di rilascio delle concessioni aeroportuali richieste prima dell’entrata in vigore del dlgs del 2005 di revisione della parte aeronautica del Codice di navigazione.
Proroga per il 2009 e il 2010 anche della deduzione forfetaria per i redditi di impresa dei gestori di impianti di carburanti. Si posticipa poi dal 31 gennaio 2010 al 31 dicembre 2011 l’entrata in vigore degli adempimenti che consentono ai medici del Ssn di esercitare la libera professione intramuraria. Il decreto proroga anche a tutto il 2010 la richiesta alle Questure per aprire esercizi pubblici dotati di collegamenti internet. Ennesimo rinvio per il prelievo sui rifiuti da parte dei Comuni, congelato il passaggio dalla tassa alla tariffa. Infine, le norme per la sicurezza stradale, introdotte con il nuovo codice della strada, per evitare l’uso di vetture potenti ai neo-patentati slitteranno ulteriormente l primo gennaio 2011. I limiti fissati, che individuavano un rapporto tra potenza e peso delle vetture (pari a 50 kw/t), avrebbero infatti consentito di guidare alcune vetture troppo veloci ai neo patentati.

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Lo scudo fa il pieno. Ma c’è già la proroga

Un tesoretto extra. Che potrebbe crescere ulteriormente grazie ad una provvidenziale proroga. È questa la voce che circola con insistenza a Via XX Settembre e tra i banchi della maggioranza. Il monitoraggio dell’andamento dello scudo fiscale starebbe infatti confermando l’ottimismo delle ultime settimane. La somma complessiva dei capitali “nascosti” all’estero che hanno ripreso la via di casa potrebbe arrivare a quota 115 miliardi. E non si escludono ulteriori sorprese dell’ultim’ora, visto che, come già accaduto nelle due precedenti edizioni dello scudo, in zona Cesarini si sarebbe verificato il classico affollamento dei clienti alle filiali delle banche. Cosa che sta provocando anche difficoltà tecniche nelle operazioni.
Se il quadro finale dovesse attestarsi su queste cifre il governo, considerata l’aliquota al 5%, si troverebbe con quasi 6 miliardi di gettito aggiuntivo in cassa. Il che significa oltre 2 miliardi in più rispetto ai 3,7 già stanziati per la copertura di una parte delle voci di spesa contenute in Finanziaria. E il gruzzolo sembra destinato ad ampliarsi. Se l’esito finale dell’operazione rimpatrio è tutto da verificare, sembra invece quasi certo, secondo quanto sostengono fonti del Tesoro, il prolungamento della sanatoria. Una mossa giustificata anche dalla prevedibile impossibilità di soddisfare entro oggi tutte le richieste che si sono accumulate negli ultimi giorni.
Il provvedimento più gettonato per inserire la riapertura dei termini è sicuramente il decreto milleproroghe che il governo dovrebbe varare alla fine dell’anno per prolungare il sistema degli incentivi ad auto ed elettrodomestici. Ma il via libera potrebbe arrivare anche prima, al prossimo Consiglio dei ministri. I tecnici di Giulio Tremonti sono già al lavoro sul testo. Lo spostamento della scadenza sarebbe prevedibilmente associato ad un leggero aumento dell’aliquota, tra il 6 e il 7%. Secondo alcune stime la proroga, si parla di fine aprile 2010, potrebbe raccogliere ulteriori capitali per circa 30 miliardi di euro, in prevalenza quote di società e non più fondi liquidi.
Una quota del tesoretto aggiuntivo, tra i 500 milioni e il miliardo, sarebbe già prenotata dalla copertura del decreto incentivi. Il resto potrebbe essere utilizzato per finanziare alcune misure accantonate in Finanziaria, a partire dalla cedolare secca al 20% per gli affitti fino ad una limatura della pressione fiscale per famiglie e imprese. Ma da recuperare ci sono anche le agevolazioni per le banche che hanno aderito alla moratoria con le Pmi e i rimborsi per gli obbligazionisti Alitalia.
Ad ammorbidire la linea del “rigore” fin qui seguita potrebbero contribuire anche gli ultimi dati arrivati sul fronte delle entrate. Ad ottobre, secondo il bollettino di Bankitalia, si è registrato il primo cambio di marcia del gettito da diversi mesi a questa parte con una leggera crescita rispetto a settembre (28,4 miliardi contro 20,1). Nei dieci mesi, però, il gettito complessivo (299,55 miliardi) è ancora inferiore del 3,17% rispetto a quello dello scorso anno. Così come resta molto pesante la situazione del debito, che ad ottobre ha raggiunto la cifra record di 1.801 miliardi, in crescita rispetto ai 1.786 di settembre.

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Pensioni più leggere nel 2010, ma quelle degli statali continuano a crescere

Le pensioni saranno pure più leggere, a causa dei nuovi coefficienti di calcolo introdotti dalla riforma Maroni, fatto sta che la previdenza pesa ancora come un macigno sui conti dello Stato. All’indomani delle polemiche dei sindacati sulle simulazioni effettuate dal Sole24Ore per i trattamenti del prossimo anno, la Ragioneria dello Stato ha infatti diffuso i dati relativi alla spesa pensionistica dei dipendenti pubblici nel 2008. Ebbbene, lo stock complessivo di risorse erogate dall’Inpdap è aumentato del 4,8% rispetto all’anno precedente. Con un ritmo ancora più accelerato, visto che nel 2007 l’incremento rispetto al 2006 era del 4,7%. In salita anche il rapporto sul pil, che nel 2008 è arrivato al 3,38% (rispetto al 3,28% del 2007).
Percentuali che dovrebbero invitare alla cautela chi, come i sindacati, è insorto immediatamente contro il primo effetto concreto della riforma pensionistica varata da Dini e poi ridisegnata dai ministri del Welfare Maroni e Damiano.
Nel dettaglio, l’introduzione dei nuovi coefficienti di calcolo dei trattamenti di vecchiaia, che saranno ora applicati con il sistema misto o con quello interamente contributivo, comporterà una sforbiciata delle pensioni, da gennaio, che andrà da un minimo dello 0,8% ad un massimo del 3,7%. La revisione dei coefficienti, messa in programma con la riforma Dini del ’95, doveva scattare ogni 10 anni, per stare al passo con l’andamento della vita media. Il principio di buon senso era che, se si vive più a lungo, diventa più ampio anche il periodo in cui si beneficerà dell’assegno. Così per mantenere in equilibrio il sistema previdenziale è necessario ridurre le pensioni.
La scadenza del 2006 è poi saltata ed è stato stabilito di far partire i nuovi coefficienti dal 2010 e di aggiornarli ogni tre anni. Decisione che non ha mai ricevuto il consenso dei sindacati e in particolare della Cgil, che ora promette battaglia contro i tagli ai pensionati. Una sorta di difesa d’ufficio, visto che la categoria rappresenta circa la metà dei suoi poco meno di 5,7 milioni di iscritti. La sigla guidata da Guglielmo Epifani già a inizio dicembre aveva chiesto di modificare i criteri di calcolo dei coefficienti di trasformazione e di applicarli «pro quota» solo sul montante contributivo dal 2010 in poi, e non retroattivamente su tutti i contributi. Il modo in cui ha deciso di procedere il governo sarebbe invece «perverso e punitivo» e con esso si faranno «enormi risparmi a danno dei pensionati» attraverso un provvedimento che «anticostituzionale», ha spiegato il segretario confederale Morena Piccinini. Perplessità arrivano comunque anche dalle altre sigle, che chiedono un tavolo di confronto per verificare che il rendimento delle pensioni non scenda al di sotto di una certa soglia.
E sul fronte della previdenza ieri sono arrivate buone notizie dall’Enasarco, la cassa degli agenti e dei rappresentanti di commercio. L’ente ha presentato il preconsuntivo 2009 che registra un avanzo di circa 75 milioni e il progetto di mettere a segno le operazioni di vendita del patrimonio immobiliare, bloccate da tempo, a partire dall’estate del 2010. A questo proposito è stato varato il «Progetto Mercurio», «unisce gli obiettivi economico-gestionali con la tutela degli attuali affittuari».

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Il Tg1: c’è aria da anni di piombo. E Napolitano dà l’intervista al Tg2

Sarà un caso. Oppure una coincidenza. Fatto sta che per dare voce all’indignazione per l’atto di violenza e alla solidarietà nei confronti di Silvio Berlusconi il presidente della Repubblica ha scelto il Tg2. Un dettaglio, si dirà, che nulla toglie alle parole di condanna di Giorgio Napolitano verso un gesto che «deve allarmare tutti. E quando dico tutti intendo tutti gli italiani che credono nella democrazia e hanno a cuore che venga garantita la pacifica convivenza civile». Eppure non può sfuggire l’irritualità della decisione, la stranezza della preferenza accordata alla rispettabilissima testata della seconda rete guidata da Mario Orfeo rispetto all’ammiraglia del servizio pubblico. La rete istituzionale per eccellenza, quella dei grandi eventi e del concerto di capodanno, quella delle celebrazioni religiose e della parata del 2 giugno, questa volta non andava bene. E il sospetto è forte che il motivo sia un signore di nome Augusto Minzolini, che da quando ha assunto la direzione del Tg1 è stato sommerso dalle polemiche delle opposizioni per i suoi editoriali in cui, apriti cielo, si è permesso di esprimere opinioni. Così come ha fatto anche ieri sera, sostenendo che «con un clima di rispetto reciproco anche una stagione drammatica si può trasformare in un nuovo inizio» e che è necessario «trovare ed isolare chi trasforma quello attuale in un clima di odio».
Concetti condivisi, seppure su un’altra frequenza, dal capo dello Stato, che nell’intervista al Tg2 ha lanciato un appello per fermare la pericolosa esasperazione della polemica politica. «Non è la prima volta che lo dico», ha spiegato il capo dello Stato, «dobbiamo impedire che rinascano forme di violenza, che l’italia in un passato non lontano ha già conosciuto e duramente pagato».
Napolitano ha chiesto quindi a tutti i protagonisti della politica che «non si alimentino tensioni, si misurino le parole, dovunque si parli: nelle piazze, nei congressi di partito e in tv». Un appello, insomma «a un’imparzialità che ho sempre rispettato e sono deciso a rispettare. Ora non ha senso che gli uni diano le colpe agli altri per il clima che si è creato«, ciascuno faccia la sua parte «nei limiti fissati dalla Costituzione».

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sabato 12 dicembre 2009

La Marcegaglia assolve Tremonti: «Il danno sul Tfr risale al 2007»

Che la polemica sul Tfr abbia ormai assunto la fisionomia del boomerang appare chiaro anche a Guglielmo Epifani, che ieri si è limitato a rinverdire la protesta sostenendo che «qualcosa non quadra». Ma dalle parti di Viale della Astronomia non hanno alcune intenzione di lasciare cadere le accuse pesanti rivolte dal leader della Cgil in merito al colpevole silenzio degli industriali. «Abbiamo già detto in passato, nel 2007, quando il Tfr fu spostato dalle imprese all’Inps», ha ribadito Emma Marcegaglia, «che questo era negativo perché toglieva liquidità alle imprese. Oggi il governo sta spostando il Tfr dall’Inps a copertura delle spese correnti: non c’è un’ulteriore negatività per le imprese che non hanno già più il Tfr».
Insomma, la polemica «è datata» e il danno non è da attribuire al governo Berlusconi e al ministro Tremonti, ma a quello Prodi e al ministro Padoa Schioppa. Perché «togliere liquidità alle imprese in questo momento sarebbe sbagliato», ha insistito la presidente di Confindustria, «ma è già stato fatto nel 2007».
Detto questo la Marcegaglia non ha risparmiato una stoccata al governo, definendo comunque «discutibile» contabilizzare il Tfr presso l’Inps per la copertura della spesa corrente.
E alla Cgil risponde anche Maurizio Sacconi. «Il lavoratori», ha spiegato il ministro del Welfare, «sono garantiti al 100% e per loro non cambia nulla». In più, ha continuato, «la norma è di un governo che la Cgil ha sempre considerato molto amico, l’unico nostro torto è di averla conservata».
Ad animare la tensione sulla finanziaria ieri ci hanno pensato anche i sindaci, arrivati in 500 a Roma per protestare contro i tagli ai trasferimenti. Dopo aver incontrato il sottosegretario Gianni Letta, il ministro Roberto Calderoli e successivamente il presidente della Camera, Gianfranco Fini, alla fine hanno dichiarato la rottura dei rapporti con il governo e l’avvio di una campagna di informazione su tutto il territorio nazionale per spiegare ai cittadini le scelte «incondivisibili» dell’esecutivo. Anche Gianni Alemanno tra i rivoltosi. «I tagli contenuti in finanziaria», ha tuonato il sindaco di Roma nonché esponente del Pdl, «costituiscono un atto di prepotenza inaccettabile».
A Montecitorio, intanto, il viceministro Giuseppe Vegas ha chiuso la discussione generale sul testo. «Questa Finanziaria», ha spiegato, «non ha altra ambizione che rinsaldare i conti pubblici senza aumentare le tasse, nel solco di quanto fatto nell’ultimo anno, riuscendo a superare una crisi economica senza precedenti». Questa mattina si riparte con l’esame degli emendamenti.

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giovedì 10 dicembre 2009

Il Pd grida al golpe. Poi fa retromarcia: «Finanziaria ok»

Dopo aver martellato per tutto il giorno sulla questione del Tfr, sulla cosiddetta “blindatura” del testo in Commissione Bilancio - che altro non è stata che una bocciatura serrata, ma assolutamente legittima, di tutti gli emendamenti - definita dal segretario del Pd, Pierluigi Bersani «un cazzotto in faccia alla discussione» l’opposizione in serata ha tentato la mediazione per scongiurare il ricorso alla fiducia in aula. La trattativa si gioca sul numero degli emendamenti. Alla scadenza dei termini, alle 18 di ieri, i gruppi parlamentari hanno ripresentato la solita pioggia di emendamenti già visti in commissione. La promessa è quella di ritirarli in gran parte, fino a lasciarne complessivamente poco più di una novantina. L’attesa a questo punto è per la replica del governo, che dovrebbe arrivare fra stasera e domani, quando si concluderà la discussione generale congiunta sui ddl di Bilancio e Finanziaria. Ma per il verdetto definitivo sulla fiducia potrebbe anche arrivare martedì prossimo, quando l’esame della manovra entrerà nel vivo.
Di sicuro, al di là della proposta, l’atmosfera di ieri non era propriamente conciliante. Il fuoco di sbarramento è iniziato in mattinata con la polemica sul Tfr, rilanciata dalla pagine di Repubblica e dalle dichiarazioni infuocate dei sindacati.
La discussione
Poi, partita la discussione in aula alle 16, è iniziato lo scontro sul mancato dialogo in commissione. Il Pd si è rivolto direttamente a Gianfranco Fini. «Siamo in una condizione deprimente per il Parlamento», ha spiegato Bersani, «e ci aspettiamo che il presidente della Camera, oltre a spendere i propri buoni uffici, faccia valere sostanzialmente il ruolo del Parlamento». La tesi del segretario è che l’atteggiamento tenuto in commissione dal governo sarebbe stato una una sorta di fiducia sul maxi-emendamento del relatore.
Il ministro
A rispondere, in aula, c’era proprio Giulio Tremonti, il presunto responsabile della blindatura. Sui lavori della commissione, ha spiegato il ministro, «va riconosciuto il fatto che non c’è stato ostruzionismo, ma una discussione anche intensa e prolungata». E questo, ha tagliato corto, «credo che esaurisca il discorso sul metodo, su quanto è stato fatto in commissione, e quanto ora deve o può essere fatto in aula. Siamo qui non per discutere sul metodo ma per avviare la discussione in aula».
Identica la versione del presidente della Commissione Bilancio, Giancarlo Giorgetti, il quale ha ribadito che «le regole sono state rispettate» e ha precisato che «una cosa è chiedere che i propri emendamenti siano esaminati, altra è pretendere che siano approvati».
Accuse e cazzotti a parte, è lo stesso Bersani ad ammettere che «formalmente è stato tutto regolare». Dialettica politica, insomma, ma nessuna scorretteza. Messa così, appare chiaro, che l’accorato appello al presidente della Camera non potrà che cadere nel vuoto. Di qui, probabilmente, il tentativo di conciliazione con l’offerta sugli emendamenti. Pd, Udc e Idv hanno proposto un patto tra gentiluomini al governo: ridurranno al massimo gli emendamenti se la maggioranza non metterà la fiducia. Si tratterebbe, è il ragionamento del centrosinistra, di un modo per «difendere il Parlamento». Chiediamo al governo, ha detto in aula il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini, «di sottoscrivere un patto a difesa della centralità del Parlamento e a difesa anche della maggioranza che non può appiattirsi sul governo».
A smorzare i toni ci prova il relatore, Massimo Corsaro, sottolineando che «il mondo non finisce con questo provvedimento». In effetti, entro la fine dell’anno dovrebbe arrivare il classico decreto milleproroghe per sciogliere i nodi ancora irrisolti. Tra i principali c’è la questione del “diritto soggettivo” per l’editoria in luogo del “tetto” ai contributi inserito in Finanziaria. Tema sul quale Tremonti ha rassicurato ieri per telefono il presidente della Camera, Gianfranco Fini.
Milleproroghe
Altro capitolo è quello degli incentivi, su cui il governo sta decidendo se utilizzare il milleproroghe o un altro decreto legge ad hoc da varare a metà gennaio. Nel provvedimento, ha comunque assicurato nei giorni scorsi il ministro Claudio Scajola, entreranno sicuramente gli aiuti all’auto e un sistema di bonus per gli elettrodomestici. Risorse arriveranno anche per gli incentivi destinati al Conto Energia per il fotovoltaico, in scadenza alla fine del 2010. A dare l'annuncio è stato Stefano Saglia, Sottosegretario allo Sviluppo Economico: «Siamo pronti a firmare il rinnovo degli incentivi. Speravo di farcela entro fine anno, ma al più tardi a metà gennaio sarà pronto il provvedimento».
Da trovare saranno anche i quattrini per il rinnovo contrattuale del pubblico impiego. Ma «nel disegno di legge finanziaria per il 2010», ha assicurato il ministro Renato Brunetta, «è contenuto un preciso impegno del governo a individuare e a stanziare le ulteriori risorse»
Resta infine accesa la polemica con gli enti locali per il taglio dei trasferimenti. Il Consiglio nazionale dell’Anci si svolgerà oggi in forma aperta a tutti gli amministratori locali davanti a Montecitorio proprio per confrontarsi sulle norme inserite in Finanziaria.

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Confindustria benedice l’«esproprio» del Tfr

I tecnici della Camera hanno confermato l’impatto light della Finanziaria sull’indebitamento. I dati si discostano un po’ da quelli già diffusi dalla Ragioneria dello Stato, ma la sostanza non cambia. Il maxiemendamento che incamera gran parte della manovra, secondo il servizio studi di Montecitorio, vale 9,2 miliardi di euro in termini di saldo netto da finanziare (erano 8,8 secondo la precedente tabella). Mentre ai fini dell’indebitamento netto la cifra scende considerevolmente, fino a 5,6 miliardi (erano 5,2 nel calcolo della Ragioneria). È quest’ultimo, dunque il valore sostanziale della manovra sul 2010, quello che sarà utilizzato dalla Commissione Europea per valutare il rispetto dei parametri di Maastricht sul rapporto deficit/pil.
Ma il dato su cui tutti i riflettori ieri erano puntati era quello della distribuzione delle coperture. E cioè su quelli che saranno i due pilastri della finanziaria. Il grosso arriverà infatti dai 3,9 miliardi dello scudo fiscale (42,5%) e dai 3,1 miliardi raccolti dal fondo del Tfr (33,5%) gestito dall’Inps. Su quest’ultimo punto ieri si è concentrata la furia dei sindacati e, a seguire, di tutta l’opposizione che ha subito gridato al «furto» delle liquidazioni. Suscitando anche un allarme assolutamente ingiustificato, perché i soldi ai lavoratori nessuno li toglie.
Più mirata la critica del segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, secondo il quale mettere queste risorse a spesa corrente «è un’occasione persa» perché «quando fu fatto le imprese chiesero che fosse destinato alle infrastrutture e allo sviluppo delle aziende». Insomma, se si vuole usare il Tfr «bisogna usarlo per sostenere l’economia». Ma il leader sindacale se la prende anche con Confindustria, «forte con certi governi e molto debole con altri», che perde di «autonomia» e «credibilità » perché, «dopo aver gridato allo scippo del Tfr con il governo Prodi, ora non dice nulla». Pronta la replica di Viale dell'Astronomia che etichetta le dichiarazioni di Epifani come «parole fuori luogo». La misura decisa in questi giorni dal governo, ha puntualizza Alberto Bombassei, «ha natura del tutto diversa da quella che fu attuata nel 2007. Allora alle imprese sopra i 50 addetti fu imposto di versare il Tfr all’Inps, nel caso il lavoratore scegliesse di non versarlo in un fondo pensione. La misura ebbe quindi un impatto diretto e rilevante sulla liquidità delle imprese. Oggi si utilizzano quei fondi per mantenere invariati i saldi di bilancio. Questa nuova misura non ha dunque alcun impatto sulle imprese nè sui lavoratori».
Più o meno simile, essendo in effetti vicina alla realtà, la spiegazione di Maurizio Sacconi.
«Nessuna novità sostanziale, nessun problema per i lavoratori», ha spiegato il ministro del Welfare, perché queste «risorse non sono destinate a coprire spese aggiuntive ma, per la parte eccedente le erogazioni, trovano solo una più corretta iscrizione contabile. Tutto qui».
Tra i rilievi del centro studi ci sono invece le misure che consentono di vendere i beni confiscati alla mafia e i 200 milioni aggiuntivi del credito di imposta per le imprese che investono in ricerca e sviluppo. Su entrambi i tecnici di Montecitorio chiedono ulteriori chiarimenti.

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Finanziaria ultraleggera. Passa la linea Tremonti

La finanziaria, in qualche modo, torna light. Dagli 8,9 miliardi previsti l’impatto sul deficit per i prossimi tre anni scende a 7,7 miliardi. Di cui soltanto 5,2 andranno a pesare sul 2010. Un trucco? Nient’affatto. Una magia, semmai, dei criteri contabili. A mettere a dieta la manovra di bilancio sono stati i tecnici della Ragioneria dello Stato che ieri, dopo il via libera dei maxiemendamenti in commissione Bilancio, hanno ricalcolato tutte le coperture previste per le voci di spesa sulla base delle direttive europee. Quelle, per intendersi, con cui Bruxelles compila la lista dei buoni e dei cattivi relativamente al rispetto dei parametri di Maastricht sul rapporto deficit/pil. Tecnicamente, si tratta di utilizzare il criterio di competenza, che tiene conto dell’anno in cui vengono contabilizzati i movimenti di denaro, invece di quello di cassa, che registra pagamenti e incassi nel momento reale in cui si verificano. L’alleggerimento dei conti seguendo il metodo europeo non è trascurabile. Nel 2010 l’impatto sull’indebitamento netto è di 5.284 milioni. Cifra che secondo il viceministro dell’Economia, Giuseppe Vegas, rappresenta il «valore sostanziale» della manovra. Ben inferiore al saldo da finanziare che invece resta fermo agli 8.884 milioni di cui si è parlato nei giorni scorsi. E le differenze sono notevoli anche per gli anni successivi. Secondo la Ragioneria dello Stato si parla di 1.416 milioni per il 2011 rispetto al dato di cassa ben più pesante di 4.516 milioni. Mentre sul 2012 il criterio di competenza fornisce una somma piuttosto tranquillizzante di 1.048 milioni rispetto ai 3.548 del saldo da finanziare previsto all’articolo 1 della manovra.
coperture
L’alleggerimento “europeo” delle coperture non è comunque bastato a smorzare le polemiche dell’opposizione, infuriate per quella che è stata definita una “blindatura” del testo. L’ok della commissione Bilancio è arrivato con il solo voto della maggioranza. Il centrosinistra, dopo oltre dodici ore di lavori a singhiozzo, hanno infatti deciso di abbandonare la seduta denunciando uno stravolgimento della prassi parlamentare che non avrebbe lasciato spiragli alle proposte di modifica dei partiti di minoranza. Accuse che questa volta non sono state condivise dal presidente della Camera. La scorsa settimana Gianfranco Fini aveva accolto le proteste dell’opposizione, allungando i tempi della discussione. Ma ieri, ha spiegato il numero uno di Montecitorio, «le regole sono state rispettate». La linea scelta dal Pd, dall’Idv e dall’Udc, gli ha fatto eco il presidente della commissione Bilancio, Giancarlo Giorgetti, nasce da «una valutazione politica, perché a livello parlamentare sono stati garantiti tutti i diritti a tutti». Le proteste nascerebbero dal fatto che nell’arco di pochi minuti i deputati del Pdl e della Lega avrebbero bocciato a raffica circa 150 emendamenti dell’opposizione. Nessun colpo di mano, ha spiegato il relatore Massimo Corsaro, «la volontà di non accogliere alcuna proposta dell'opposizione, è una nostra scelta». Ora l’attenzione è tutta rivolta all’esame dell’aula, che inizierà domani e si preannuncia rovente. «La situazione che si è venuta a creare», ha detto il capogruppo dei Democratici in commissione Bilancio Pier Paolo Baretta, «è molto seria e queste tensioni si riverseranno tutte nell’aula». L’ipotesi della fiducia, a questo punto, sembra molto concreta. «Non è scontata», ha detto Vegas, «ma se ci saranno molti emendamenti dell’opposizione è probabile».
Micro-interventi
Nell’attesa, le polemiche si concentrano sul pacchetto di micro-interventi passati insieme alle misure principali. Forse l’ultimo assaggio di assalto alla diligenza, in vista dell’approvazione definitiva da parte del Senato delle riforma della legge di bilancio. I mini finanziamenti contestati sono contenuti nei 350 milioni del triennio 2010-2012 finalizzati alle misure sociali. Nell’ambito dei fondi per le polizze assicurative contro i danni del maltempo in agricoltura c’è ad esempio un comparto di 60 milioni nel triennio nell’ambito dell’organizzazione comune dei mercati del settore vino. C’è poi la proroga fino al 2010 dell’attuazione degli obblighi inerenti al fondo europeo della pesca. Ma anche i fondi per l’Unione italiana ciechi, per i progetti a favore degli esuli giuliano-dalmati, per l’Istituto mediterraneo di ematologia, per il museo tattile Omero di Ancona e per il terremoto del Belice, che risale al 1968. Sotto accusa da parte dell’opposizione anche i 50 milioni aggiunti alla Camera al fondo per la tutela dell’ambiente e la promozione dello sviluppo del territorio e finalizzati a “interventi sul rispettivo territorio di appartenenza” dei parlamentari.
Grande soddisfazione è stata invece espressa da Luca Zaia per l’attenzione al settore agricolo. «Complessivamente», ha detto il ministro, «sono stati stanziati per il triennio 2010-2012, circa 1 miliardo e 115 milioni».
Molte, infine, le misure comparse e poi sparite dalla manovra. Dai finanziamenti ai comuni per le ronde, ai rimborsi per obbligazionisti e azionisti Alitalia, dallo scontrini “gratta e vinci” agli sgravi fiscali per le banche che aderiscono alla moratoria dei crediti nei confronti delle Pmi. Per quest’ultimo capitolo si prevede però un recupero, insieme al pacchetto di aiuti per il settore dell’auto e degli elettrodomestici. Il sistema delle agevolazioni e degli incentivi dovrebbe trovare spazio in un decreto legge ad hoc che sarà varato dal governo a gennaio.

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Atmosfera subito insostenibile. Nasce il fronte anti-Obama

Al di là del folclore, della grandiosità della kermesse, dei dati fasulli sul riscaldamento globale e degli allarmismi dei militanti verdi, la verità è che a «Copenhagen non si firmerà alcun accordo». A riportare sul terreno della concretezza le aspettative sul vertice mondiale partito ieri è il superesperto del ministero dell’Ambiente, Corrado Clini. «Non ci sarà alcun impegno degli Stati per una riduzione delle emissioni di Co2 dopo il 2020», ha spiegato il direttore generale del dicastero guidato da Stefania Prestigiacomo, «perché la Cina non è pronta e neanche gli Stati Uniti lo sono». Ieri un po’ di pressing è arrivato dall’Agenzia Usa per la protezione dell’ambiente, che ha lanciato l’allarme sulla pericolosità dei gas serra, lasciando intendere di essere pronta ad intervenire anche senza l’autorizzazione del Congresso. Ma la realtà è che il Senato deve ancora esaminare la legge che introduce l’abbattimento del 17% entro il 2020 rispetto al livello raggiunto nel 2005 (se si calcolasse il 1990 sarebbe del 3%).
Insomma, «l’appuntamento di Copenhagen è stato caricato di molte aspettative improprie». Detto questo, l’annuncio di Barack Obama di partecipare alla fase finale del summit è un segnale importante. La speranza è che il presidente degli Stati Uniti possa favorire l’accordo su una dichiarazione politica, non troppo vaga, che stabilisca «obiettivi concreti per arrivare alla preparazione di un Trattato entro il 2010». Una tappa importante sarà quella del Consiglio europeo di giovedì, quando la Ue dovrà decidere se andare avanti da sola o no. L’obiettivo è arrivare ad un accordo internazionale condiviso. Altrimenti, ha tagliato corto Clini, «è inutile farlo». «Non possiamo accettare intese che siano vincolanti per qualcuno e un optional per altri», ha ribadito il ministro degli Esteri, Franco Frattini. Così come il ministro Prestigiacomo, che ha parlato di «vittoria storica» se, «a differenza di Kyoto, si arrivasse ad uno sforzo globale».
Uno tra i principali nodi da sciogliere riguarda l’impegno dei Paesi sviluppati a sostenere economicamente i Paesi in via di sviluppo per consentirgli di fissare un picco massimo oltre il quale le emissioni inizieranno a scendere. Secondo il Financial Times Deutschland la Ue è pronta ad offrire «tra 1 e 3 miliardi di euro» di aiuti immediati nei prossimi tre anni. Un’inezia considerato che il Brasile ha chiesto ai Paesi ricchi e industrializzati circa 300 miliardi di dollari. E che la Cina ha detto chiaramente che «i poveri non devono pagare al di là delle loro capacità» Qualche briciola di ottimismo, però, serpeggia. Gli Stati “ribelli”, (India, Cina e Brasile in testa), avrebbero infatti raggiunto un’intesa di massima per operare insieme nel negoziato di Copenaghen. A rivelarlo è stato il ministro per l’Ambiente indiano, Jairam Ramesh, che ha anche annunciato un progetto di riduzione volontaria del 20-25% delle emissioni entro il 2020. Una disponibilità che potrebbe sbloccare le trattative, visto che anche il Sudafrica si è detto pronto a rallentare la Co2 del 34% entro il 2020 e del 42% entro il 2025.
Al successo del summit, che è iniziato con un video choc interpretato da bambini e si concluderà tra due settimane, lavoreranno i rappresentanti di 192 Paesi e moltissimi capi di Stato e di governo. «Ad oggi sono 110 ad avere annunciato il loro arrivo a Copenaghen per partecipare agli ultimi giorni dei lavori. È una mobilitazione politica senza precedenti», ha detto il primo ministro danese, Lars Loekke Rusmussen, che presiede i lavori e dovrà dirigere i negoziati, alla cerimonia di apertura della 15esima conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici.
Resta tutto da verificare, in ogni caso, il teorema di base. Per il fronte degli scettici non c’è alcuna prova che siano le emissioni a riscaldare il pianeta e comunque i costi della loro riduzione sono superiori agli investimenti per l’adattamento climatico. Sul fronte opposto, gli scienziati dell’Onu prevedono per il 2100 un aumento delle temperature che a seconda delle politiche perseguite, potrebbe essere di 1,6 gradi ma anche di 6, con effetti che gli stessi definiscono catastrofici per il pianeta. Per ora a rischiare l’insostenibilità ambientale è il Bella Center, sede del vertice, che è stato preso d’assalto dai delegati: erano previsti 15mila, ne sono arrivati 34mila.

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lunedì 7 dicembre 2009

Niente sgravi per le banche. Ma spunta il decreto bonus

Alla fine anche le banche restano a bocca asciutta. Nell’ultima versione del maxiemendamento alla Finanziaria presentato in commissione Bilancio dal relatore Massimo Corsaro sono scomparse, tra le altre cose, le agevolazioni agli istituti di credito che aderiscono alla moratoria per le Pmi. Una sforbiciata che non comporta grandi risparmi per il Tesoro. Gli sgravi, secondo la relazione tecnica al vecchio emendamento del governo, non avrebbero prodotto effetti di cassa sul 2009. Mentre le stime di minori imposte sul 2010 erano di 17,4 milioni e quelle sul 2011 di 32,1. In tutto meno di 50 milioni. Poca roba se si pensa che complessivamente col nuovo testo la manovra è salita di circa 1 miliardo, a 8,9 miliardi. Risorse che arriveranno principalmente dallo scudo fiscale (3,9 miliardi), ma anche dalla vendita di beni demaniali (250 milioni), che potrà essere a trattativa privata per gli immobili sotto i 400mila euro; dall’accordo con le province di Trento e Bolzano (1 miliardo), che prevede più autonomia in cambio di minori trasferimenti; dai tagli agli enti locali (229 milioni), che dovrebbero essere recuperati con la riduzione di consiglieri e assessori; dal fondo Tfr inoptato; dai fondi Fas (200); dalla rivalutazione dei terreni (350); dal tetto ai contributi per l’editoria.

Dove finisce lo scudo
Per quanto riguarda le spese, confermata la distribuzione di 400 milioni al 5 per mille, di 103 milioni ai libri scolastici, di 100 milioni al fondo di solidarietà per l’agricoltura, di 400 milioni all’università. Alle scuole private vanno 130 milioni mentre per l’autotrasporto arrivano 400 milioni. Altri 571 vanno alla stipula di convenzioni con i comuni per la stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili e agli enti locali danneggiati dal sisma in Abruzzo. Questa voce dovrà però essere meglio specificata nella tabella che ripartisce le risorse dello scudo. «La riformulazione», spiega il presidente della commissione Bilancio, Giancarlo Giorgetti, deve «adeguarsi ai criteri di ammissibilità precisati di intesa con il presidente della Camera».

Più soldi alle authority
Sempre sul fronte delle uscite arriva la cedolare secca al 20% sugli affitti, ma solo per L’Aquila e in via sperimentale. Insieme alle risorse per il ponte sullo stretto di Messina, per il turn-over al 100% di polizia e vigili del fuoco, e per Roma capitale (600 milioni) da reperire attraverso la dismissione degli immobili della difesa. E un po’ di quattrini sono spuntati anche per le authority indipendenti. In particolare, all’Antitrust andranno 23,6 milioni l’anno per un triennio, al Garante della privacy 12 milioni l’anno sempre per un triennio, mentre la dote per la commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici è di poco meno di 2 milioni all’anno. Confermati i 500 milioni per la costruzione di nuove carceri e i 750 milioni per le missioni internazionali. Così come è rimasta nel maximendamento la nascita dei fondi comuni per le Pmi, che lo Stato potrà sottoscrivere fino a un massimo di 500mila euro. Aumenta di 200 milioni (rispetto ai 650 già stanziati) il credito d’imposta per le imprese che investono nella ricerca. Per il patto sulla salute si prevede un incremento degli stanziamenti di 584 milioni per il 2010 e 419 milioni nel 2011. Per le regioni in rosso è previsto un incremento dell’addizionale Irpef (+0,3%) e Irap (+0,15%)

Rimborso Ici per i comuni
I comuni incassano il rimborso Ici, a compensazione dell’abolizione dell’imposta sulla prima casa. In tutto 916 milioni in due anni (156 milioni residui del 2008 e 760 milioni per il 2009). Ma alla fine è saltata la misura che prevedeva una boccata d’ossigeno per i sindaci che si trovano a fare i conti con municipalizzate in rosso a causa della restituzione degli aiuti di Stato imposta dalla Ue. Inizialmente erano previsti fondi nel 2010 per circa 200-300 milioni. Eliminata anche la controversa misura sui rimborsi ai comuni per le ronde, mentre sono sparite le risorse per il termovalorizzatore di Acerra e quelle previste (3 milioni) per l’Agenzia sulla sicurezza nucleare. Niente proroga, infine, per i risarcimenti di azionisti e obbligazionisti di Alitalia. Per chi prende l’aereo arriva però l’aumento delle tariffe aeroportuali fino a 3 euro a passeggero che le compagnie scaricheranno sui biglietti.

Acconto Irpef più leggero
Come più volte annunciato entra in Finanziaria la riduzione del 20% dell’acconto Irpef. La norma che sposta parte del pagamento dell’imposta al prossimo anno in sede di conguaglio è stata infatti inserita nel maxiemendamento. Oltre a fornire un po’ di liquidità per le spese natalizie l’intervento consente anche di superare l’ostacolo legato a problemi di cassa e competenza dello scudo fiscale, che copre momentaneamente il mancato gettito. La sanatoria, infatti, chiudendo il 15 dicembre 2009 non consentirebbe di utilizzare le maggiori entrate sul 2010. Sul testo, comunque, si procede a rilento. Ieri, dopo un ulteriore slittamento, si è deciso di riprendere oggi alle 16. Le votazioni sono previste per le 20, ma non sono esclusi ulteriori ritardi. Intanto, spunta l’ipotesi di un decreto legge da varare a gennaio che contenga le misure che non sono rientrate in Finanziaria: gli sgravi per le banche, ma anche il rinnovo degli incentivi auto e un bonus per l’acquisto dei pc. Allo studio anche interventi per altri settori come quelli degli elettrodomestici, del mobile, delle macchine utensili.

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venerdì 4 dicembre 2009

Parte il supertreno, l’Italia si accorcia

La “metropolitana d’Italia” è pronta per la partenza. Con l’apertura delle nuove linee Milano-Novara e Firenze-Bologna entra infatti a pieno regime il primo grande blocco dell’alta velocità delle Ferrovie dello Stato. Certo, ne è passato di tempo da quando, nel 1977, fu inaugurato in Italia il tratto iniziale della cosiddetta Direttissima Roma-Firenze. I primi 138 km in tutta Europa dove il treno poteva finalmente spingere sull’acceleratore. Poi, come spesso accade, il nostro Paese fu superato in corsa da Francia, Germania e Spagna.
Ora però, è il caso di dirlo, l’Italia torna ad accorciare le distanze e a recuperare il tempo perduto. Oggi l’inaugurazione delle tratte finali, il 13 l’apertura ai viaggiatori: mille chilometri di linee veloci uniranno la Penisola, da Torino a Salerno. Con riduzioni dei tempi di percorrenza che potrebbero rivoluzionare la vita economica e sociale del Paese.
Qualche esempio? Per andare da Roma a Milano serviranno 3 ore, per arrivare fino a Napoli basterà aggiungere un’ora e dieci. Tra Bologna e Firenze, da una parte all’altra dell’Appennino, non ci sarà neanche il tempo di sfogliare un quotidiano: 35 minuti, mentre tra Torino e Milano il tempo di percorrenza è un’ora esatta.
Il confronto con gli altri mezzi di trasporto, inutile dirlo, diventa impietoso. Neanche da prendere in considerazione l’auto, dove i tempi necessari a coprire le stesse distanze sono spesso più del doppio (senza contare la possibilità di spiacevoli incontri con autovelox, etilometri, tutor e tutto ciò che può alleggerire il portafoglio ed assottigliare i punti della patente). Ma anche con l’aereo non si scherza. Tenendo conto dei tempi di trasferimento e di imbarco e sbarco, si scopre infatti che i minuti complessivi necessari per raggiungere gli stessi luoghi sono sempre più elevati di quelli ormai praticabili utilizzando il Frecciarossa delle Fs.
Le conseguenze sono ovviamente immaginabili. Basta vedere quello che è successo in Europa sulle distanze medio lunghe. Nella tratta Madrid-Siviglia (470 km) prima dell’alta velocità il 39% dei viaggiatori preferiva utilizzare l’aereo, il 42% l’auto o il pullman, solo il 19% sceglieva il treno. Dopo, il binario è stato preso letteralmente d’assalto dal 53% dei viaggiatori, con l’aereo precipitato al 12%. E lo stesso è accaduto sulla Parigi-Lione e la Parigi-Bruxelles. Aumentando la velocità il treno raddoppia i passeggeri. Del resto, anche in Italia sulla Roma-Milano, nell’arco di pochi mesi, il rapporto tra aereo e ferrovia si è quasi ribaltato, passando dal 48% contro il 38% a favore dell’aria a un 50% contro il 34% a tutto vantaggio del binario. Tradotto in cifre per le Fs si tratterebbe di intercettare un mercato di 9 milioni di passeggeri per km che secondo le previsioni continuerà ad aumentare nei prossimi anni fino a raddoppiare nel 2015. Un business di tutto rispetto che non finirà ovviamente tutto in cassa. Ci sono infatti da ammortizzare gli ingenti costi necessari ad ammodernare l’infrastruttura. Da qui al 2020 l’Italia ha previsto finanziamenti che si aggirano sui 60 miliardi, più o meno in linea con quelli della Spagna e un po’ superiori a quelli di Franci e Germania dove per l’alta velocità si è già speso molto negli anni passati. Di sicuro, però, sarà una bella boccata d’ossigeno per l’ad delle Fs, Mauro Moretti, che negli ultimi due anni ha comunque lavorato duramente per contenere le voragini di bilancio ereditate dalla vecchia gestione e riportare in relativo pareggio i conti del gruppo.
Sempre sul fronte del business, l’alta velocità farà sicuramente la gioia dei produttori di locomotive. Il mercato dei supertreni ha un valore di circa 2 miliardi l’anno ed è in continua crescita. A contendersi la torta sono tre grandi operatori come Bombardier, Alstom e Siemens, ma una quota robusta porta il marchio italiano dell’Ansaldo Breda, la controllata di Finmeccanica specializzata sui treni ad alta velocità. La società vanta un’esperiena pluriennale grazie soprattutto all’Etr500 (il Frecciarossa), fornito proprio alle Fs. Ed ora, insieme a Bombardier, conta di fare la sua parte nella nuova gara lanciata da Moretti per 50 treni veloci. Una maxi commessa del valore complessivo di 1,2 miliardi.
Ma il sistema Av dovrebbe avere effetti positivi anche sul resto del sistema ferroviario. Oltre alla riduzione dei tempi di percorrenza fra i principali centri metropolitani, il treno veloce decongestionerà la rete convenzionale liberandola da flussi di traffico e lasciandola a disposizione del trasporto regionale e locale. Il progetto è quello dell’alta capacità, che prevede la creazione di un sistema fortemente integrato tra rete convenzionale e nuova rete. Ma per questo bisognerà ancora aspettare. Speriamo non troppo. Da subito, invece, si potrà viaggiare sulla direttrice Torino-Salerno, con nuove tariffe studiate per ammorbidire gli aumenti dei treni veloci. Tre le categorie di biglietto: flessibile, base e promo. Quest’ultimo permetterà ai clienti in grado di programmare per tempo il proprio viaggio di risparmiare fino al 30%.

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Montezemolo e Toto in carrozza. I privati pronti a sfidare le Fs

Oggi i riflettori saranno tutti puntati su Mauro Moretti. Ma le Fs non resteranno da sole a lungo sui binari superveloci. Dal prossimo anno la rete della Rfi sarà infatti a disposizione di chi ha voglia e risorse per gettarsi sul ricco business. In pole position c’è ovviamente Luca Cordero di Montezemolo, che sta preparando da tempo il suo debutto, previsto per l’inizio del 2011. La sfida con l’attuale monopolista non sarà semplice, ma la compagnia del presidente della Fiat si presenta all’appuntamento con una compagine societario che sembra in grado di mostrare i muscoli. A partire dalla corazzata Intesa San Paolo, presente col 20%, fino al colosso pubblico dei binari francesi, Sncf, anch’esso nel capitale di Nuovo trasporto viaggiatori con una quota del 20%. Partecipazione, quest’ultima, che non ha mancato di suscitare polemiche. Fino ad ora infatti i cugini d’Oltralpe hanno sempre cercato di tenere gli stranieri fuori dalle loro ferrovie. Comprese le nostre Fs, che hanno più volte bussato alla porta dei francesi, ma ancora senza risultati. Ma nella compagnia ci sono anche Diego Della Valle, Gianni Punzo, e l’ex direttore del servizio passeggeri di Trenitalia, ora imprenditore ferroviario, Giuseppe Sciarrone. I servizi previsti da Ntv andranno naturalmente a gareggiare con Moretti sulle tratte più redditizie. In pratica quelle che oggi verranno inaugurate: la dorsale Milano-Roma-Napoli con prolungamento su Torino-Salerno e la Roma-Venezia. In un secondo momento Montezemolo dovrebbe sbarcare anche sulla Roma-Bari, con servizi che dovrebbero essere effttuati anche sulle linee tradizionali. Per competere con le Fs la società privata si è già aggiudicata, con una spesa di 650 milioni, un pacchetto di 25 treni Agv (Automotrice grande vitesse) che saranno realizzati dalla francese Alstom e dovrebbero essere consegnati nel corso del prossimo anno.
Ma l’ex presidente di Confindustria non dovrebbe restare l’unico privato molto a lungo. A scaldare i motori ci sono anche altri contendenti. Sull’alta velocità vorrebbe sbarcare anche Carlo Toto. L’imprenditore abruzzese fondatore della AirOne (ormai fusa con Alitalia) ha già costituito una compagnia ad hoc, dall’inevitabile nome RailOne. Anche lui dovrebbe operare sulla Napoli-Milano, con fermate intermedie a Roma, Firenze e Bologna. Si concentrerà invece sui servizi regionali e sugli intercity la ArenaWays (guidata da Giuseppe Arena) che punta sulla tratta Torino-Asti-Alessandria-Milano-Novara-Vercelli.

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Telecom rinvia i dossier scottanti e accelera sul Brasile

«Un cda assolutamente ordinario», ha minimizzato il presidente di Telecom, Gabriele Galateri. «È andato tutto benissimo», gli ha fatto eco l’ad Franco Bernabè, assicurando che si è parlato solo di scenari. In realtà, sul tavolo del consiglio di ieri sono finiti anche i nodi spinosi di cui si è dibattuto negli ultimi mesi. A partire dalla questione dei soci spagnoli e del pressing del governo (anche ieri il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, ha definito Telefonica «un partner ingombrante») per mettere sotto “tutela” la rete. Fino al delicato dossier dell’uscita dall’Argentina, contestata sia dai piccoli azionisti sia dalla famiglia Fossati. I temi sono stati affrontati sia nella presentazione di Bernabè che nelle due relazioni dei manager incaricati di seguire la rete e le strategie.
Su tutte le questioni, però, il cda ha deciso di prendere tempo. Non è arrivata, insomma, quella scossa che alcuni si aspettavano, anche riguardo al ruolo di Bernabè. Segno che il momento della resa dei conti non è ancora all’ordine del giorno. Quanto alle strategie, l’ad ha spiegato che è stato fatto un passo avanti nell’acquisizione di Intelig da parte di Tim Participacoes. Si tratta di un’operazione da 300 milioni di dollari con cui la controllata di Telecom dovrebbe rilevare entro l’anno l’operatore brasiliano di telefonia a lunga distanza. «Questo vuol dire», ha detto Bernabé, «che non facciamo solo dismissioni ma anche acquisizioni strategiche».Dei conti, che verranno approvati nel cda del 25 febbraio, non si è parlato. Mentre è arrivato il via libera ad Andrea Mangoni come dirigente responsabile dei documenti contabili, in sostituzione di Patuano.

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mercoledì 2 dicembre 2009

Gli operai di Alcoa salvi con le nostre bollette

Col posto di lavoro non si scherza. Quando poi in ballo ce ne sono 2mila, come nel caso dello stabilimento Alcoa di Portovesme, la faccenda diventa ancora più complicata. Bene dunque ha fatto il governo, di fronte alla decisione del colosso Usa di avviare la procedura per la cassa integrazione, a scendere in campo e a prendere in mano la trattativa.

Detto questo, qualcuno dovrebbe spiegare con esattezza quale sia la vera posta in gioco. E quali siano i costi sociali di una possibile soluzione della vertenza. Perché se è importante garantire i posti di lavoro, lo è altrettanto sapere chi paga. A maggior ragione in questo caso, dove la crisi non c’entra e il rischio è che a sborsare i quattrini siano direttamente tutti gli italiani, attraverso la bolletta della luce.

Ma andiamo con ordine. La lavorazione dell’alluminio richiede una grande quantità di energia. Per questo l’Alcoa nel 1995 aveva concluso un contatto con l’Enel che gli permetteva di usufruire di elettricità a tariffe fisse per i successivi dieci anni. Alla scadenza del contratto, però, l’azienda ha continuato lo stesso a beneficiare di tariffe privilegiate. Solo che invece dell’azienda elettrica i costi sono finiti sulle spalle degli utenti. Gli sconti sulle forniture di energia sono infatti finanziati da un meccanismo di incentivi pubblici studiati appositamente per le cosiddette aziende “energivore”.

Chi paga? Noi. Il peso degli incentivi viene infatti scaricato in bolletta sotto la voce misteriosa che risponde al nome di “oneri di sistema” e che è la principale responsabile dell’aumento continuo del prezzo dell’elettricità, anche quando il petrolio scende.

Nel dettaglio, quando andate alla Posta a pagare il bollettino, solo il 65,8% è il costo della fornitura in senso stretto. Per il resto, il 13,2% riguarda i costi di trasporto, distribuzione e misure, il 13,7% sono imposte e il 7,3% sono i famigerati oneri generali di sistema. All’interno dell’ultima componente, oltre alle spese per la manutenzione della rete, per la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie, per i cosiddetti Cip6 (incentivi a chi utilizza fonti rinnovabili, ma ancora distribuiti a pioggia anche ad imprese che utilizzano solo il greggio), per lo smantellamento delle centrali nucleari (anche ora che stiamo riandando verso l’atomo), ci sono anche i soldi che finiscono alle industrie che consumano molta energia come l’Alcoa. La multinazionale americana non è l’unica, intendiamoci. Nel calderone ci sono circa 140 aziende energivore (con consumi pari al 13% del totale) tra cui grandi nomi come Thyssen, Riva, Lucchini. Ma l’Alcoa fa la parte del leone, con una quota di incentivi del 30% circa sul totale. Per essere più precisi, nel 2007 le agevolazioni concesse a queste società hanno pesato sulle nostre bollette per 570 milioni. Poco più di 200 sono finiti in tasca all’Alcoa. Considerato che lo stesso, euro più euro meno, accade ogni anno, è facile calcolare che dal 2006 al 2009 gli italiani hanno regalato alla multinazionale dell’alluminio qualcosa come 8-900 milioni di euro. E la cifra potrebbe essere ancora più alta, visto che la stessa Alcoa dichiara che senza incentivi pubblici perde circa 8 milioni di euro al mese.

È su questi soldi e non su altro che si è innescata la vertenza in Sardegna e in Veneto (stabilimento di Fusina). La Commissione europea, oltre a chiedere una restituzione parziale degli incentivi (circa 270 milioni), ha infatti detto basta al sistema delle agevolazioni. Di qui la minaccia dell’Alcoa di chiudere tutto, sostenendo che il prezzo dell’elettricità in Italia è troppo alto. Verissimo. Tutti sanno che a causa della scelta dissennata sul no al nucleare e alla conseguente dipendenza dall’estero per le fonti, l’energia in Italia costa più che in Europa.

Questo non significa che per adeguare i prezzi alla media Ue si debbano gonfiare le bollette degli utenti. Così come non si spiega perché mai l’Alcoa da noi voglia pagare 28 euro a megawattora mentre in Spagna ne paga 39. Ma la cosa importante da capire è cosa succederà in futuro. Il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola avrebbe individuato due strade. Una riguarda la possibilità per l’Alcoa di acquistare energia anche all’estero a prezzi più competitivi (interconnector), l’altra è una rimodulazione degli sconti ai cosiddetti interrompibili (aziende che accettano di essere scollegate dalla rete quando il sistema lo richiede). Difficile dire come si chiuderà la partita, ma la sensazione è che le mani finiranno di nuovo nelle nostre tasche.

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martedì 1 dicembre 2009

Alfano smentisce ancora i numeri delle toghe: «Il processo breve ferma solo l’1% delle cause»

«I numeri non hanno colore politico», sostiene Angelino Alfano. Eppure, è proprio lì che lo scontro sul processo breve continua ad incendiarsi. Ieri, davanti alla commissione Giustizia della Camera, l’ennesimo round.
Il Guardasigilli si è presentato a Montecitorio con tabelle e cifre messe nero su bianco. Dati ricavati da calcoli effettuati con scrupolosità dal direttore dell’ufficio di statistica (Fabio Bartolomeo) del ministero della Giustizia. Una volta approvato, ha spiegato Alfano, il disegno di legge sul processo breve, porterà a prescrizione l’1% degli oltre 3 milioni e trecentomila processi in corso. L’incidenza sarà del 9,2% sui 391.917 procedimenti in primo grado. «Queste», ha proseguito, «le cifre chiave che ho detto e che ribadisco. Voglio nuovamente riferire che nel quinquennio 2004-2008 si sono prescritti nel nostro Paese circa 850mila processi con una media di 170mila processi l’anno prescritti, con una media di 466 processi al giorno prescritti».
Numeri, statistiche? Macché, secondo il vicepresidente del Csm , Nicola Mancino, intervenuto nella stessa sede, «allo stato nessuno può dire con sufficiente certezza a quanto ammonti la percentuale dei processi che ricadrebbero nella sanzione di estinzione ipotizzata nel disegno di legge in discussione. Ciò che in questo momento è possibile ricostruire è la condizione delle diverse realtà giudiziarie del paese ed effettuare un conteggio non troppo approssimativo del numero dei processi a rischio». E tra questi, inutile dirlo, ci sarebbero procedimenti per reati di «sicuro rilievo sociale», come gli omicidi e le lesioni con colpa professionale, reati di natura economica e finanziaria o contro la Pa. Qui, secondo Mancino, le statistiche sono certezza: «Nessuno di tali reati riesce ad essere ultimato nel biennio».
E pochi dubbi, con buona pace degli esperti del ministero, ci sarebbero anche sui dati forniti dall’Anm, che il presidente Luca Palamara definisce caratterizzati da «un’attendibilità molto alta». Il magistrato, sempre davanti alla commissione Giustizia, ha introdotto il concetto di previsione «dinamica» contrapposta a quella banalmente «istantanea» come quella elaborata da Via Arenula con i dati rilevati su tutto il territorio nazionale. Col nuovo metodo si apprende allora che a Roma sarebbero a rischio tra il 45% e il 70% dei processi, a Bologna il 23 e a Verona il 25.
Ma anche dal Csm arrivano molti dati. I processi a rischio nel primo grado, secondo quanto riferito dal componente della stesa commissione, Ezio Macora, sarebbero il 40% a Napoli, il 40% a Roma e il 23% a Torino.
Risultati che secondo il vicepresidente dei senatori del Pdl, ci riportano a Mancino. «Di fronte a queste rilevazioni fai da te», ha detto Gaetano Quagliariello, «possiamo essere d’accordo col vicepresidente: non hanno sufficiente certezza per poter essere prese in considerazione».
Numeri a parte, Alfano ha ribadito che nessuno ritiene «che con il ddl sul processo breve si risolvano tutti i problemi di giustizia italiana», tuttavia si tratta di «una leva per portare tutto il sistema a piena funzionalità». Quanto ai reati di mafia, ha spiegato l’avvocato e parlamentare del Pdl, Niccolo Ghedini, in risposta alle polemiche dei giorni scorsi, «non c’è alcuna volontà di modifica il concorso esterno in associazione mafiosa e neanche di modificare la legge sui pentiti».

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Lo sceicco non paga, le Borse cadono

«Dubai World è del governo, ma non è garantita dal governo». E il panico riesplode, trascinando giù anche i mercati europei. Nei giorni scorsi, approfittando delle festività islamiche e del conseguente stop delle Borse dei paesi del Golfo, sia la Banca centrale degli Emirati arabi, sia il vicino Abu Dhabi, avevano tentato di gettare acqua sul fuoco, assicurando tutto il sostegno necessario per evitare che la crisi finanziaria di Dubai World si trasformi in un cataclisma. A riportare la tensione alle stelle ci ha pensato ieri il direttore generale del ministero delle Finanze dell’emirato, Abddulrahman al-Saleh, il quale ha spiegato con chiarezza la natura dei legami che uniscono la holding a rischio default al governo. «I creditori», ha spiegato durante una trasmissione televisiva, «dovranno assumersi la loro parte di responsabilità per la loro decisione di prestare soldi alle compagnie». Questo perché, ha aggiunto, «il governo è il proprietario della compagnia, ma fin dalla sua fondazione è stato stabilito che la compagnia non è garantita dal governo».
Risultato: listini in profondo rosso. A partire da quelli del Dubai, dove il crollo è stato del 7,3% (il maggopre dall’ottobre 2008), con tutti i gruppi bancari ed edilizi in picchiata. E le ripercussioni si sono fatte pesantemente sentire anche sulla borsa di Abu Dhabi, che ha registrato un calo dell’8,3% (il crollo più concistente da 8 anni). In perdita anche la borsa dell’Egitto (-6,86%) mentre quelle dell'Arabia Saudita e del Kuwait si sono salvate soltanto perché ancora chiuse. Più contenuto, seppure sensibile, il contraccolpo sulle piazze finanziarie europee. A Milanol’Ftse Mib ha ceduto l’1,25% e l’Ftse All Share l’1,21%. Anche gli altri listini principali del Vecchio continente hanno chiuso con perdite vicine al punto percentuale.
Paure ingiustificate? Ne è convinto il governatore della Banca centrale degli Emirati, Sultan Al-Suwaidi, che ieri, vista la situazione, è tornato ad usare parole rassicuranti sulla solidità degli istituti di credito dell’area, sostenendo che «le banche hanno un’ampia base di depositi stabili e sono in condizioni migliori, in termini di liquidità, di quanto fossero un anno fa».
Si tratterebbe invece di una reazione «gonfiata», anche per Dahi Khalfan, che dirige la Commissione per il bilancio governativo di Dubai per il 2010. «C’è confusione e ambiguità», ha detto, «tra l’indebitamento di alcune aziende locali e il debito del governo di Dubai, che è quasi trascurabile».
Per quanto riguarda il Dubai World, i tecnici di Deloitte, Rotshschild e Alix Partners sono al lavoro sulla ristrutturazione del debito e ci sarebbero diverse opzioni allo studio. La holding potrebbe ripagare, entro la scadenza del 14 dicembre, il “sukuk” (il bond islamico) da 3,52 miliardi di dollari emesso da Nakheel, l’operatore immobiliare famoso per aver realizzato le isole a forma di palma e riscadenzare il resto del debito. Un’altra soluzione potrebbe essere il rimborso dell’80% del valore del debito sia ai detentori dei bond che alle banche. Oppure Dubai World potrebbe proseguire nel progetto di chiedere una moratoria del debito già annunciato con un congelamento dei pagamenti fino al 30 maggio dell’anno prossimo.
Al di là dell’obbligazione in scadenza, resta da capire quale sia la situazione complessiva della holding statale alle prese con passività per 59 miliardi di dollari. C’è anche chi ipotizza scenari più drammatici di quelli finora usciti allo scoperto che costringerebbero il gruppo ad imbarcarsi in una liquidazione di asset in risposta a possibili azioni legali da parte dei creditori.

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Parte la gara di Moretti sull’alta velocità. Finmeccanica scalda i motori per i supertreni

Via libera alla gara per l’acquisto dei nuovi treni ad alta velocità. Trenitalia ha inviato ieri ai maggiori produttori internazionali del comparto le lettere di invito a presentare l’offerta per i nuovi convogli. Il gruppo guidato da Mauro Moretti intende acquistare 50 treni per un valore complessivo di circa 1,2 miliardi. Le aziende avranno ora circa tre mesi di tempo per presentare le proposte che dovranno giungere, secondo i termini indicati nelle lettere, entro la prima quindicina di marzo. Aperte le buste, le Fs valuteranno prima l’offerta tecnica e, quindi, quella economica. Tra i gruppi invitati a partecipare alla gara, ci sarebbero i big mondiali come Bombardier, Siemens, Alstom e anche il gruppo giapponese Kawasaki.
Ma a scaldare i motori sarà anche Finmeccanica con AnsaldoBreda. Da mesi il numero uno del gruppo, Pierfrancesco Guarguaglini, si dice pronto alla sfida. Forte anche dell’accordo sottoscritto con Bombardier nell’aprile del 2008 per lo sviluppo del nuovo treno per l’alta velocità. Ed è proprio un treno «assolutamente innovativo» il primo requisito chiesto dalle Fs. L’ad Moretti, del resto, era stato chiaro. Annunciando, a metà novembre, l’imminente gara aveva espresso l’auspicio che l’industria nazionale, oltre a partecipare, vinca pure, ovviamente, nella massima trasparenza delle procedure di gara.

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L’anomalia italiana: con la Cig aiuti dorati alle aziende e qualche spicciolo per i lavoratori

Lo scorso giugno Silvio Berlusconi assicurava che «non c’è nessuno che perdendo il lavoro non venga aiutato dallo Stato. C’è la cassa integrazione per i precari, così come per i lavoratori a progetto».
Sui precari il Cavaliere ha un po’ esagerato, visto che tranne qualche obolo una tantum l’esercito dei lavoratori a termine è ancora tagliato fuori dal sistema degli ammortizzatori sociali. Ma sul resto non è andato molto lontano dal vero. Complice la crisi economica l’Italia si avvia infatti a chiudere l’anno con una cifra di ore autorizzate di cassa integrazione che si avvicina ai 100 milioni. Solo ad ottobre, secondo i dati dell’Inps, sono state 94,7 milioni, con un incremento del 322% e picchi per la cig in deroga del 700% e di quella ordinaria del 419%. In totale dall’inizio dell’anno sono state già autorizzate 716,7 milioni di ore contro le 166,7 milioni dello stesso periodo 2008. Un’anomalia? Non proprio. Basti pensare che nel 1993 le ore autorizzate furono 549 milioni e nel 1984 addirittura 816. La vera anomalia è invece il sistema di welfare italiano, l’unico al mondo dove piuttosto che offrire al lavoratore un sostegno al reddito per il tempo necessario a trovare un altro impiego, si concede all’azienda in difficoltà la possibilità di puntellare i posti in eccesso per periodi che possono a volte superare i due anni, con risorse fornite in parte dallo Stato (dei cittadini) e in parte con la contribuzione sociale (sempre dei cittadini). In altre parole, si aiuta l’azienda a non guarire (troppi costi, pochi ricavi) sapendo perfettamente che prima o poi la malattia diventerà incurabile.
Ma, come diceva Berlusconi, non c’è nessuno che non venga aiutato. In effetti, in Italia non ci facciamo mancare nulla. Accanto alla cassa integrazione ordinaria, a quella straordinaria e a quella in deroga (fattispecie che hanno ampliato a dismisura la platea delle imprese che possono usufruire della stampella pubblica), ci sono infatti anche i più efficaci trattamenti di sostegno al reddito. È il caso ad esempio dell’indennità di disoccupazione e dell’indennità di mobilità, l’unico trattamento che prevede un percorso di reinserimento del lavoratore nel tessuto produttivo.
Aiuti a pioggia, ma solo per chi ha il posto fisso e per chi lavora in grandi aziende. Lo Stato, infatti, corre in soccorso solo di chi il lavoro ce l’ha già da un bel po’ (almeno due anni di assicurazione presso l’Inps) e ce l’ha in imprese che abbiano almeno 15 dipendenti. Per gli altri, che secondo un recente calcolo della Cgia di Mestre rappresentano circa il 50% dei lavoratori dipendenti, niente.
Il risultato è che complessivamente, a quasi parità di spesa con gli altri Paesi europei, in Italia la copertura degli ammortizzatori sociali arriva a malapena al 28% contro il 70-80% di Francia e Germania.
Se questi sono i dati, la sensazione è che i leghisti andrebbero presi sul serio. Non sugli immigrati, ma sui sei mesi di limite per la cassa integrazione. Ridurre il periodo di accesso al trattamento consentirebbe non solo di trovare le risorse per rimodulare il sostegno alle categorie più svantaggiate di lavoratori, ma permetterebbe anche di scoraggiare le aziende furbette che utilizzano la cassa integrazione come una voce di bilancio con cui far quadrare i conti a fine anno.

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La Lega vuole tagliare la cassa integrazione agli extracomunitari

Un tetto alla cassa integrazione per i cittadini extracomunitari. Tra la castrazione chimica per i violentatori, le gabbie salariali, le bandiere regionali e i dialetti in classe, alla fine dal sacco degli emendamenti-manifesto con cui la Lega ha deciso di condire anche quest’anno il dibattito sulla Finanziaria, è uscito pure quello sulla Cig distribuita in base alla carta d’identità. Prima agli italiani, poi agli stranieri. Questo il principio alla base del testo proposto dal capogruppo del Carroccio in commissione Finanze Maurizio Fugatti. Nell’emendamento si chiede un limite a «qualsiasi trattamento di sostegno al reddito» per i cittadini extracomunitari che lavorano in Italia. Nel dettaglio, «per i lavoratori residenti sul territorio nazionale non cittadini italiani ovvero comunitari destinatari di qualsiasi trattamento di sostegno al reddito, ai sensi della legislazione vigente in materia di ammortizzatori sociali, la durata del beneficio non può essere per l’anno 2010 superiore a sei mesi».
Se la crisi dovesse andare avanti, argomenta Fugatti, che definisce la proposta una sua iniziativa in linea con la Lega, «si creerà una contrapposizione tra disoccupati italiani e disoccupati extracomunitari e questo vuol dire che sulle strade, e in parte questo già accade in Padania, ci troveremo sia disoccupati italiani sia disoccupati extracomunitari. Quindi noi dobbiamo tutelare di più gli italiani».
Immediata la reazione del Pd. «La proposta della Lega di fissare un tetto massimo di sei mesi di Cassa Integrazione nel 2010 per i lavoratori residenti non cittadini italiani è semplicemente una follia», dichiara il capogruppo del Pd nella commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano. A seguire quella della Cgil, che per bocca del segretario confederale, Fulvio Fammoni, definisce la proposta «un’iniziativa xenofoba e una vera sciocchezza giuridica». Opinione condivisa anche da Cisl e Ugl.
Ma la proposta piace molto poco anche al PdL. «Immaginare di trattare diversamente gli italiani o gli stranieri che hanno perso il lavoro senza colpa sarebbe un’ingiustizia», dice il ministro della Difesa, Ignazio La Russa. Mentre il ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna, si limita a bollare come «provocatoria» la proposta, prevedendo che «non avrà alcun seguito in Parlamento».
Una bocciatura tecnica è invece quella che arriva dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, ricordando alla Lega «che gli ammortizzatori sociali ordinari corrispondono a diritti soggettivi dei lavoratori, sono sostenuti da contribuzioni dei lavoratori e degli imprenditori. Sono, nel caso della cassa integrazione e dei contratti di solidarietà, correlati alla continuità del rapporto di lavoro che costituisce il presupposto della conservazione del permesso di soggiorno».
Si attengono ai fatti anche Giuliano Cazzola e Benedetto Della Vedova, secondo i quali «sostenere che se non c’è lavoro per gli italiani non c’è per nessuno non è solo discriminatorio, ma in contrasto con la realtà. I dati del primo semestre 2009 dimostrano infatti che l’occupazione degli stranieri ha continuato a crescere anche mentre quella degli italiani scendeva».

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