giovedì 23 luglio 2009

Sì al pacchetto che farà ripartire l’industria

Scudo fiscale, mini riforma delle pensioni con innalzamento dell’età per le statali e misure per le imprese, compreso il via libera alla moratoria dei crediti delle banche. Per quest’ultime, ha spiegato Giulio Tremonti, le agevolazioni “compensative” arriveranno solo ad accordo fatto. Le commissioni Bilancio e Finanze della Camera, con un po’ di ritardo e una buona dose di schermaglie parlamentari, hanno licenziato il testo “corretto” del decreto anti-crisi che sarà da oggi all’esame dell’aula di Montecitorio. Un testo su cui il governo dovrebbe chiedere la fiducia senza sorprese dell’ultim’ora. Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha infatti già annunciato che stopperà qualsiasi tentativo di sostituire il provvedimento con un maximendamento governativo.

Non sono mancati invece i colpi di scena durante le votazioni, con il Pd che ha abbandonato i lavori, l’Udc che non ha partecipato alle votazioni e l’Mpa, che fa parte della coalizione di governo, che ha espresso parere negativo. Passo falso, infine, su un emendamento riguardante i costi di trasmissione e i relativi controlli da parte dell’Authority per l’energia, passato in commissione malgrado il parere contrario dell’esecutivo.

Riguardano le Pmi le principali novità del provvedimento. Dopo l’emendamento che prevede sgravi del 3% sull’aumento di capitale delle imprese fino a 500mila euro, arriva anche la moratoria annunciata nei giorni scorsi dal ministro dell’Economia. Per sostenere le Pmi, si legge nel testo, il tesoro è autorizzato a stipulare entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto una apposita convenzione con l’Abi per favorire l’attenuazione degli oneri finanziari sui prestiti anche in relazione ai tempi di pagamento. Piccola stretta invece sugli incentivi previsti con la Tremonti-ter, che saranno «revocati se i beni oggetto degli investimenti sono ceduti a soggetti aventi stabile organizzazione in Paesi non aderenti allo spazio economico europeo».

Tra le modifiche è stata poi approvato un mini-condono per le multe fino al 2004, comprese quelle per le quali sia già stata emessa l’ingiunzione di pagamento, che potranno essere sanate senza il pagamento degli interessi ma con un tasso del 4% per l’agente riscossione a titolo di rimborso.

Altre modifiche riguardano la Corte dei Conti. Oltre ai paletti alla verifica sul danno erariale da parte delle Corte dei conti per i procedimenti a venire, prevedendo una mini-sanatoria per quelli in attesa di sentenza anche non definitiva, il testo prevede anche che i budget annuali della magistratura contabile saranno sottoposti a controlli parlamentari. La Corte dovrà dettagliare le spese legate alle sue funzioni di organo ausiliario del Parlamento, distinguendole da quelle obbligatorie e d’ordine.

Molte, infine, le tensioni intergovernative. La più infuriata è Stefania Prestigiacomo. L’articolo 4 del dl anticrisi sopprime, infatti, il ruolo del ministero dell’Ambiente nell’iter autorizzativo per la realizzazione di centrali di produzione (quindi anche i futuri impianti nucleari) e per le reti di distribuzione di energia, ed esautora ogni ruolo degli enti locali. Si tratta, secondo il ministro dell’Ambiente, «di un provvedimento di inaudita gravità, inaccettabile per chi, in questa legislatura, ha sbloccato nel rispetto della normativa ambientale, in pochi mesi, centinaia di pratiche Via che paralizzavano la realizzazione di importanti opere».

Intenzionato a bloccare la norma sui 40 anni di contributi (anche figurativi) per mandare in pensione i dipendenti statali è invece Maurizio Sacconi. Il ministro del Welfare sostiene che aver escluso dalla norma, oltre a professori universitari e magistrati, i primari configurerebbe una violazione costituzionale nei confronti dei medici.

Soddisfatto Tremonti, che durante l’audizione in Senato sul Dpef ha sottolineato l’importanza delle misure per le imprese e della mini-riforma delle pensioni, definita «strutturale». «Con tutti gli interventi fatti più la moratoria sul credito», ha detto, «siamo di fronte ad interventi positivi per la tenuta dell’apparato produttivo». Il ministro ha poi ribadito che le entrate «tengono» e che i conti pubblici sono «in linea con gli impegni internazionali». Un po’ diversa la versione di Mario Draghi, che lancia l’allarme sul calo delle entrate e sull’aumento della spesa, annunciando che nel 2009 ci sarà il primo disavanzo primario da 18 anni. L’invito del governatore di Bankitalia è intervenire al più presto con «programmi che abbiano effetti strutturali di medio-lungo periodo» per evitare di restare soffocati dal debito pubblico.

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martedì 21 luglio 2009

Le piccole imprese mollano la sinistra

Quando c’è da battere cassa e incalzare il governo non si tirano certo indietro. «C’è necessità ed urgenza di avere una politica dedicata alle Pmi», si leggeva solo qualche giorno fa in una lettera a Silvio Berlusconi firmata dalle cinque grandi associazioni di categoria: Confartigianato, Confcommercio, Cna, Casartigiani e Confesercenti. Una missiva arrivata proprio mentre il ministro Giulio Tremonti sta discutendo con le banche la moratoria dei crediti verso le imprese. Poi c’è lo scudo fiscale in arrivo, la detassazione degli utili reinvestiti, lo sblocco dei debiti della Pa e diversi interventi coordinati dallo Sviluppo economico. Aiuti e sostegni che, secondo le Pmi, non sono ancora sufficienti a proteggere il tessuto produttivo italiano (i piccoli rappresentano il 95% della nostra impresa) dai contraccolpi devastanti della crisi. Eppure, malgrado le critiche e i malumori, le insofferenze e le insoddisfazioni, il mondo della piccola impresa ha le idee chiare sul governo. E pure sull’opposizione.A rivelarlo è un’indagine della Fondazione Nord Est realizzata per il Sole 24 Ore che fotografa gli orientamenti politici della galassia imprenditoriale. Ebbene, tra i piccoli che pungolano regolarmente il governo chiedendo maggiore attenzione soltanto il 14,4% gradirebbe avere un altro interlocutore. È questa, infatti, la percentuale delle Pmi che si autocolloca nell’area di centrosinistra a fronte di un 52,9% che dichiara invece di votare o apprezzare il centrodestra. Troppo facile, direte voi. Con un esecutivo che si appresta a reggere le sorti del Paese e dell’economia per altri quattro anni chi non si schiererebbe con Palazzo Chigi? In realtà, leggere i dati come il classico fenomeno di bandwagoning (salire sul carro del vincitore) sarebbe sbagliato. E i numeri dimostrano infatti che il fenomeno è dovuto più ad una fuga che ad una rincorsa. La perdita di consensi del centrosinistra è infatti iniziata tre anni fa e sembra direttamente collegata alle performance del governo Prodi e delle successive kermesse messe in scena dal centrosinistra con la nascita del Partito democratico e il cambio della guardia Veltroni-Franceschini.Basti pensare che le Pmi “di sinistra” erano il 21,9% nel 2006 (quando il professore alimentò sogni e speranze), il 20,3 nel 2007 e il 16,9 un anno fa. Nel frattempo il centrodestra è passato dal 41,6 al 52,9%. Ed ancora più impietosa è l’analisi di Daniele Marini, della Fondazione Nord est: «Oggi il 60% dei piccoli imprenditori è un ex lavoratore dipendente e un ex operaio. Questo spiega quanta mobilità sociale sia passata in questa area, un dinamismo che è sfuggito al centro-sinistra che ha continuato a trasmettere una visione marxista di divario tra capitale e lavoro che non esiste».Il risultato è che tra gli operai il Pdl ha doppiato il Pd con un 43% di consensi contro il 22%, mentre nel lavoro autonomo è stato rilevato un distacco abissale di 42 punti percentuali. Cifre che vanno ben al di là della storica incapacità della sinistra di parlare al mondo dell’impresa e del lavoro non dipendente.E che spiegano anche il picco negativo di consensi nel periodo della crisi. Mentre le Pmi sono soffocate dalla recessione e dalla mancanza di credito, il Pd sembra infatti più interessato a parlare di sicurezza, di aborto o delle feste del premier. «Per noi», tuona un manager di Bergamo, «nessuno del partito è in grado di fare una proposta».Non è un caso che il programma di Dario Franceschini per la candidatura alle primarie del Pd sia incentrato, oltre che sui precari, sulle piccole e medie imprese. Il tentativo è quello di cancellare anni passati a trattare le Pmi esclusivamente sotto il profilo tributario, come sacche di evasione fiscale da spremere per far tornare i conti dello Stato. Un compito quasi impossibile anche per l’altro candidato Pierluigi Bersani, che di imprese se ne intende, ma che fu, guarda caso, ministro dell’Industria proprio negli anni in cui le Pmi utilizzavano le tessere del partito per alimentare i camini nelle giornate più fredde.

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La tele del futuro si guarda con cinque telecomandi

Se volete continuare a vedere i vostri programmi preferiti armatevi di pazienza e di molti telecomandi, almeno 5. Per i decoder ve ne basteranno 4.Quando parte il digitale terrestre? Il caos è qui rappresentato dalla tempistica, con canali che scompaiono a scaglioni in base alla città in cui abitate. La Sardegna è già tutta digitale, mentre Valle d’Aosta, Trentino, Alto Adige, Piemonte occidentale hanno attivato lo switch over, cioé hanno spento il segnale analogico di Raidue e Retequattro, fase che è toccata dal 16 giugno al Lazio e dal 10 settembre alla Campania. Lo switch off, cioé lo spegnimento definitivo della tv analogica, scatterà in Valle d’Aosta tra il 14 e il 23 settembre, in Piemonte tra il 24 settembre e il 9 ottobre, in Trentino tra il 15 e il 30 ottobre, in Alto Adige tra il 26 ottobre e il 13 novembre, nel Lazio tra il 16 e il 30 novembre e in Campania tra l’1 e il 16 dicembre.Come vedere la nuova tv? Alla fine per vedere la tv sarà necessario o comprare un nuovo apparecchio televisivo (che avrà obbligatoriamente incorporato il sintonizzatore per il digitale terrestre) o dotarsi di un decoder (con relativo telecomando). Quello più economico, chiamato zapper, vi darà la possibilità (una volta collegato all’antenna tradizionale e alla tv con una presa scart) di vedere tutti i canali nazionali e alcuni aggiuntivi che le emittenti trasmetteranno in chiaro.E i canali a pagamento? Per le trasmissioni in pay-per-view sarà necessario comprare un decoder (o un nuovo televisore con la dotazione specifica) interattivo. In altre parole quello con la possibilità di inserire la scheda. A quel punto potrete acquistare un pacchetto (attualmente offerto da Mediaset e La7) per vedere canali di sport o di film e fiction.Quando serve il satellite? Un 10% di italiani non raggiunti dal digitale e chi vorrà vedere i canali offerti da Sky dovrà comunque dotarsi di un decoder satellitare (con relativo telecomando) da collegare ad una parabola e alla tv sempre tramite la scart. Qui le cose si complicano un po’. Molto probabilmente, infatti, sul decoder di Sky non si vedranno più i canali Rai, mentre già adesso anche quelli di Mediaset criptano il segnale di tanto in tanto per questioni di diritti internazionali. Morale della favola: per vedere la tv a pagamento di Sky dovrete acquistare il relativo pacchetto con decoder, mentre per vedere i canali nazionali sul satellite dovrete dotarvi di un altro apparecchio.Si può vedere tutto? Si tratta del nuovo decoder Tivù (sempre con il suo telecomando), che riunisce insieme il satellite e il digitale terrestre (quest’ultimo già incorporato nei nuovi televisori). Qui sarà possibile oltre alla visione di tutti i canali nazionali che vanno sul digitale terrestre anche inserire le schede a pagamento per la pay per view sia terrestre che satellitare, ma non quella di Sky.Senza antenna né parabola? Infine, per chi non vuole utilizzare né antenna, né parabola, c’è la possibilità dell’IPTV, la televisione via cavo. I decoder) vengono offerti in comodato d’uso dalle compagnie telefoniche insieme alla banda larga. Per ora il servizio è fornito da Fastweb, Telecom e Wind. Cosa si può vedere cambia da compagnia a compagnia.Due consigli per chiudere: se avete il decoder digitale terrestre avviate spesso la risintonizzazione automatica dei canali perché altrimenti vi spariranno alcune reti da un giorno all’altro; se, come la maggior parte degli italiani, siete nel pallone più totale provate a chiamare il numero verde del ministero dello Sviluppo 800.022.000. Male che va avrete qualcuno da insultare.

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Piccole imprese in marcia su Roma

Nessun fischietto, niente tamburi, niente striscioni offensivi né bandiere politiche. È un corteo curioso quello che sfilerà oggi per le strade di Roma. Un corteo silenzioso e insolito. A manifestare saranno micro-imprenditori, artigiani e partite Iva. Lavoratori senza tessere e senza etichette, riuniti sotto le insegne di un movimento spontaneo dal nome eloquente: “Imprese che resistono”. Che resistono alla crisi, ma anche ad un vuoto di rappresentanza. «Perché tutti parlano delle Pmi come il tessuto produttivo, la spina dorsale che manda avanti il Paese, tutti mettono le Pmi al centro delle ricette per la ripresa», spiega l’animatore del comitato, Luca Peotta, «ma se si arriva al punto di costringerci a scendere in piazza, significa che qualcosa non ha funzionato». Ed ecco allora che la marcia delle Pmi diventa automaticamente un dito puntato contro la disattenzione. Quella della politica, ma anche quella delle associazioni. Già, perché oggi in strada ci saranno imprenditori troppo grandi per essere ascoltati dalle mille sigle che rappresentano gli artigiani e i commercianti e troppo piccoli per ricevere il sostegno della grande industria. Sono abitanti della terra di mezzo, invisibili, anomalie che le statistiche non riescono a fotografare. Eppure tutti i giorni, nelle loro aziende, combattono la crisi, come la combattono milioni di lavoratori italiani e come la combattono i loro dipendenti. Alcuni dei quali oggi saranno lì, accanto ai “padroni”, a testimoniare le difficoltà della piccola economia, ad imbarazzare i sindacati che non ci sono più o non ci sono mai stati, a mettere in difficoltà quei partiti che hanno lasciato per strada le promesse e le battaglie.
È un punto di vista, quello dei piccoli, da cui il dibattito in corso tra governo e banche appare distante. Così come quello animato dalla Confindustria o dal Pd, che nella corsa per la segreteria sembra ora aver riscoperto il mondo dimenticato delle Pmi.
Ma in fondo chi marcerà oggi non vuole indicare colpevoli, né individuare nemici. «Siamo solo», spiega Peotta, «imprenditori che vogliono avere la possibilità di resistere». L’intenzione è, insomma, quella di dare una scossa, sia al mondo della politica che a quello della rappresentanza. Qualcuno lo ha già capito. Qualcuno lo sta capendo. Ai primi di luglio “Imprese che resistono” è scesa in piazza a Torino. Una partenza anche simbolica, nel mondo della Fiat e degli operai. Un migliaio allora. Ma le adesioni crescono. Il Nord Est, in primo luogo, ma il messaggio si sta diffondendo rapidamente, con il passaparola, ai distretti produttivi della Toscana e anche del Lazio. Alcune realtà si stanno muovendo anche in Campania. «Dove la situazione dei piccoli è ancora più disperata di quella del Nord», dice Peotta, che non chiude le porte a nessuno. «Sarei felice», spiega, «se accanto a noi sfilassero gli uomini della Cna, di Confartigianato o di Confesercenti, tanto per citarne alcune». E qualcuno, probabilmente, ci sarà. A macchia di leopardo. In occasione della marcia di Torino aderirono sia la Api-Torino sia quella del Piemonte. Non quella di Cuneo. «Ma l’importante», dice Peotta che non vuole fare polemiche, «è esserci e dare un segnale». La speranza per oggi è di raccogliere 2mila adesioni. Già sarebbe una vittoria, visto il caldo, l’estate e i costi della trasferta. L’altro obiettivo sembra un po’ più complicato. Il ministro Giulio Tremonti non sarà disponibile per un incontro. Forse ci sarà il tempo per un tavolo con alcuni parlamentari delle commissioni economiche. «Basta che si faccia in fretta», conclude Peotta, «perché la crisi c’è adesso, domani sarà già troppo tardi».

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venerdì 17 luglio 2009

Brunetta taglia le assenze. E i dipendenti

Assenze per malattia in calo del 38% e 14 milioni di giornate di lavoro in più. Piaccia o no, la cura Brunetta macina risultati. A fornire i dati di un anno di lotta all’assenteismo è stato ieri lo stesso ministro della Pa, che ritiene di essere riuscito a modificare «in maniera strutturale i comportamenti dei pubblici dipendenti». Non solo. Forse con un eccesso di ottimismo il ministro vede anche il «consolidamento di un comportamento di maggiore responsabilità ispirato a principi di correttezza professionale e riconoscimento del merito». Senza andare così lontano, i numeri parlano comunque di una reale inversione di tendenza. Solo a giugno la riduzione delle assenze per malattia è stata del 27,4% rispetto allo stesso mese del 2008. Le percentuali più rilevanti si sono avute negli enti di previdenza (-43,7%) e nelle amministrazioni provinciali (-37,5%), con differenze non troppo marcate dal punto di vista geografico. La forchetta va dal -32,3% del Nord Est al -24,9 del Mezzogiorno. Un ulteriore stimolo a lavorare, e a lavorare seriamente, è quello previsto per i dirigenti. Entro luglio saranno infatti on line retribuzioni, recapiti, assenze e curriculum di circa 190mila “capi” della Pa. In questo modo, ha spiegato Renato Brunetta, il dirigente esce dall’anonimato e «potrà essere messo alla berlina pubblicamente». Sono esclusi dall’operazione trasparenza, purtroppo, magistrati e professori universitari. Ma il ministro ha spiegato che sta studiando qualcosa anche per loro.
Guarda caso, però, si tratta delle stesse categorie, con l’aggiunta dei “medici responsabili di struttura complessa”, che saranno escluse dall’operazione “rottamazione” prevista da un emendamento approvato ieri al dl anticrisi. Brunetta aveva già introdotto la misura nel suo ddl, all’ultimo era però stato costretto a fare marcia indietro sotto il fuoco di fila di sindacati, opposizione e qualche componente delle maggioranza. Ora la norma ritorna. Il provvedimento, presentato in commissione Bilancio dal deputato del Pdl Remigio Ceroni ma sostanzialmente condiviso dal governo, fissa a 40 anni di contributi, di ogni tipo, anche figurativi, l’anzianità massima raggiungibile dagli statali. Dopo quella soglia, in altre parole, la Pa potrà «risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro e di contratto individuale, anche del personale dirigenziale, con preavviso di sei mesi». Si tratta di una misura temporanea, dal 2009 al 2011, che rientra, spiega Ceroni, «nell’operazione di snellimento e di taglio dei costi della Pa già avviata dal governo». Senza contare, aggiunge, «che la norma potrà servire anche a liberare posti per la regolarizzazione dei precari». È scettico sul principio l’economista del Pdl Giuliano Cazzola, che però condivide l’impostazione non strutturale del provvedimento in un’ottica di risanamento della pubblica amministrazione.

Arriva lo scudo, senza sanatoria

Ci sono volute diverse bozze, due formulazioni ufficiali e la solita, robusta dose di polemiche, ma alla fine lo scudo fiscale è arrivato. Niente Abruzzo e nessuna sanatoria, l’emendamento al dl anti-crisi presentato ieri dai relatori Chiara Moroni (Pdl) e Maurizio Fugatti (Lega) nelle commissioni Bilancio e Finanze prevede soltanto un’aliquota complessiva del 5% per i capitali rimpatriati o regolarizzati. Per quest’ultima opzione è necessario che i soldi nascosti all’Agenzia delle entrate siano detenuti in Paesi dell’Unione europea. Lo scudo è applicabile alle attività finanziarie e patrimoniali detenute almeno alla data del 31 dicembre 2008 o rimpatriate e regolarizzate a partire dal 15 ottobre e fino al 15 aprile 2010. Il gettito previsto è stato per ora fissato a un euro. Non si tratta di una presa un giro, ma di una cifra fittizia dovuta, si legge nella relazione tecnica, alla «assoluta imprevedibilità» delle risorse che verranno recuperate attraverso l’operazione. Il governo si aspetta comunque un ritorno per l’erario di 3-3,5 miliardi, che saranno inseriti in una contabilità speciale e potranno essere utilizzati a partire dal 2010.Il parto della norma non è stato semplicissimo. La prima formulazione del testo, presentata alla Camera nel corso della mattinata, ha scatenato la furiosa reazione dell’opposizione. Nell’emendamento non erano infatti chiaramente indicati quali reati fossero esclusi dalla copertura dello scudo. Immediata l’insurrezione di Pd e Idv , favorita anche dallo scivolone di Tremonti che ha mandato al diavolo un cronista che chiedeva lumi sulla vicenda. Sotto accusa, in particolare, la possibilità di sfuggire a fattispecie come la bancarotta, il falso in bilancio e il riciclaggio.Nel pomeriggio è arrivata la seconda formulazione, che continua a prevedere l’impossibilità da parte del fisco di utilizzare il rimpatrio come “elemento a sfavore del contribuente, in ogni sede, amministrativa o giudiziaria, in via autonoma o addizionale”. Ma sembra escludere (anche se il testo non è chiarissimo) dal campo di applicazione dello scudo tutti i reati, ad eccezione di quelli tributari relativi alla dichiarazione infedele e all’omessa dichiarazione. Il testo ricalca di fatto le disposizioni contenute nella sanatoria del 2001. L’emendamento prevede anche l’aumento delle sanzioni per l’omessa dichiarazione di detenzione di investimenti e attività all’estero: potrà variare dal 10 al 50% (rispetto al 5 e 25%) ma senza possibilità di confisca. Ora non resta che aspettare il via libera della Ue, che però ha gia fatto sapere che in assenza di elementi discriminatori o di violazioni alla libera circolazione dei capitalia non ci sarà alcun ostacolo.

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mercoledì 15 luglio 2009

L’Ama salva i lavoratori Alitalia. Ma ora chi paga?

Per 34 cassaintegrati della vecchia Alitalia arriverà presto una buona notizia. L’Ama ha infatti deciso che sceglierà i suoi nuovi meccanici tra i circa 4.500 lavoratori rimasti appiedati (seppure con 7 anni di stipendio all’80% garantito) dall’operazione Fenice. La selezione, in particolare, sarà effettuata tra quei 300 che hanno le competenze necessarie per il nuovo impiego. Per loro è previsto un contratto full time a tempo indeterminato. Il che significa gettarsi alle spalle la brutta esperienza vissuta lo scorso autunno durante la trattativa con la Cai e tornare a lavorare con prospettive di crescita professionale, di guadagni e di sicurezza economica. Comprensibile la soddisfazione con cui ieri il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, l’ad dell’Ama, Franco Panzironi, e i sindacati hanno annunciato la firma del protocollo che strapperà 34 persone alla cassa integrazione. Un entusiasmo che dovrebbe proseguire visto che il sindaco ha annunciato che l’iniziativa «sarà estesa a tutte le altre municipalizzate capitoline». I motivi per festeggiare, insomma, non mancano. Eppure, un piccolo dubbio resta: chi paga?Certo, ci sono gli sgravi fiscali previsti per chi assume cassaintegrati e, come ha ricordato il sindaco, si tratta «di professionalità che mancavano». Questo non toglie, però, che la municipalizzata romana (interamente controllata dal Campidoglio) abbia chiuso l’ultimo bilancio (2008) con una perdita di 256 milioni. E che il Comune da diverso tempo tiene in piedi i conti a colpi di anticipazioni di cassa: 100 milioni a gennaio 2008, 50 ad agosto, 60 a novembre (per pagare gli stipendi), altri 250 pochi mesi fa. Ora si va verso il nuovo piano industriale e il recupero degli ingenti crediti, ma la verità è che la società paga ancora circa 35 milioni l’anno solo per interessi sui debiti. Il rischio, in altre parole, è che il costo dei cassaintegrati Alitalia passi dallo Stato al Comune. Sempre di collettività si tratta, ma ai romani chi glielo dice?

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L'Onu torna all'attacco dei respingimenti

Ci risiamo. L’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite (Unhcr) torna all’attacco dell’Italia. Ad accendere la miccia sono ancora i cosiddetti “respingimenti” con cui il governo italiano sta cercando di contenere i flussi migratori di clandestini che tentano di raggiungere le nostre coste. Solo che questa volta, oltre all’accusa di non accettare richieste di asilo, l’Italia sarebbe anche colpevole di maltrattamenti ai danni degli immigrati. «L’Unhcr si vergogni e chieda scusa», è stata l’immediata risposta del governo per bocca dei ministri della Difesa e delle Politiche comunitarie, Ignazio La Russa e Andrea Ronchi. Al centro delle polemiche c’è un’operazione di respingimento verso la Libia avvenuta il primo luglio. Secondo l’Alto commissariato le autorità italiane non avrebbero «cercato di stabilire la nazionalità delle persone coinvolte», né tantomeno «le motivazioni che le hanno spinte a fuggire dai propri Paesi». E fin qui è la solita tesi per cui ogni clandestino che sale su un barcone assume automaticamente lo status di potenziale rifugiato. Ma nel corso dei colloqui con le 86 persone (in gran parte di nazionalità eritrea) intercettate dalla Marina a largo di Lampedusa, l’Unhcr avrebbe «raccolto testimonianze riguardo l’uso della forza da parte dei militari italiani» che avrebbero provocato la necessità di cure mediche per sei eritrei. Non solo, prima del trasbordo sulla motovedetta libica a molti sarebbero stati confiscati documenti «di vitale importanza», mentre altri avrebbero riferito di «aver trascorso quattro giorni in mare prima dell’intercettazione e di non avere ricevuto cibo dai militari italiani durante l’operazione durata circa 12 ore».Furioso il ministro La Russa, che tempo fa ingaggiò un duro confronto con la portavoce italiana dell’Unhcr, Laura Boldrini. «Non è ammissibile», ha detto, «la faciloneria con cui questo organismo internazionale accusi i marinai italiani di essere ladri, affamatori e violenti, mentre il loro comportamento è stato assolutamente corretto essendo intervenuti ancora una volta a tutela di questi disperati da quattro giorni in mezzo al mare». «Come ministro della Difesa», ha proseguito, «non posso accettare che i militari italiani vengano dipinti come negrieri». Il ministro ha poi spiegato di aver ricevuto una dettagliata informativa sul respingimento cui fa riferimento l’Unhcr e di aver fatto tutti i necessari accertamenti: «Le risultanze contrastano nettamente con quanto riferito dall’Alto commissariato che, per sua stessa ammissione, ha riportato soltanto la versione delle persone incontrate successivamente nei campi libici, senza interpellare le autorità italiane».Sullo stesso punto ha insistito Ronchi. «La cosa che lascia maggiormente perplessi», ha detto, «è che l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati abbia diramato un comunicato e lo abbia fatto senza procedere ad alcuna preventiva verifica con le autorità italiane delle versioni raccolte». Si tratta, per il ministro, «di accuse false, demagogiche, offensive e ripugnanti che offendono le nostre Forze armate che nel mondo dimostrano ogni giorno la loro moralità, la loro dedizione, umanità, competenza e sacrificio». Di qui la richiesta di scuse immediate all’Italia: «L’Unhcr si vergogni».E mentre il Pd non ha perso occasione per mettere subito in discussione la politica italiana sull’immigrazione, schierandosi al fianco dell’organismo Onu, La Russa ha spiegato nel dettaglio come sono andate le cose, rivelando che alcuni degli eritrei hanno «tentato azioni di forza» e che «nessuno di essi si era dichiarato rifugiato». Quanto ai documenti sottratti, il ministro ha ricordato che «tutto è stato messo in sacchetti individuali consegnati alla Guardia di Finanza che si trovava a bordo della motovedetta libica».

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martedì 14 luglio 2009

Che scudo è senza sanatoria?

Malgrado il polverone alzato dall’opposizione, Giulio Tremonti non sembra intenzionato a mollare l’osso. La diffusione di una bozza d’iniziativa parlamentare sullo scudo fiscale, con la previsione di una sanatoria per reati come la bancarotta e il falso in bilancio, ha intorbidito le acque. Il Pd, e soprattutto l’Idv di Antonio Di Pietro, hanno denunciato a gran voce il tentativo di porre in essere un riciclaggio di Stato. In realtà, la misura allo studio dei tecnici del Tesoro è da mesi oggetto di dibattito nelle sedi internazionali ed è la diretta conseguenza dell’accordo trovato ad aprile al G20 di Londra sulla lotta coordinata ai paradisi fiscali. Un accordo che ha prodotto l’immediata classificazione da parte dell’Ocse degli Stati in diverse liste in base al grado di aderenza agli standard internazionali in materia di trasparenza bancaria e scambio di informazione.
Strada obbligata
Della questione si è discusso anche nel corso dell’ultimo G8 e l’idea che per colpire i paradisi fiscali e l’evasione sia necessario anche utilizzare lo strumento del condono è condivisa da molti Paesi (tra cui Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Polonia e Ungheria), che hanno già messo in atto varie forme di scudo fiscale e di sanatorie per favorire il rientro dei capitali dall’estero. È chiaro, infatti, che alle aliquote agevolate per la regolarizzazione delle somme nascoste al fisco bisognerà affiancare anche una qualche garanzia per le imprese (soprattutto quelle piccole) che altrimenti avrebbero solo da perdere dal rientro dei capitali. Resta da capire quale formula utilizzare e quanto esteso sarà il perimetro della sanatoria, che non dovrebbe comunque comprendere i reati cui faceva riferimento la bozza parlamentare.
Un fondo per l’aquila
L’altro problema su cui stanno lavorando i tecnici del Tesoro è quello relativo all’utilizzo dell’extra gettito per la ricostruzione dell’Abruzzo. Attualmente le ipotesi circolate parlano di due aliquote. La prima al 5% per chi deciderà di investire le somme in titoli di Stato o buoni postali emessi dalla cassa depositi e prestiti destinati all’aiuto per la popolazione colpita dal terremoto. Per tutti gli altri il costo del rientro sarebbe invece del 7-8% sulla somma da regolarizzare. L’idea di Tremonti è quella di creare un fondo ad hoc ben remunerato e costituito per circa 3 miliardi dal gettito proveniente dallo scudo e per altri 3 da privati, che investirebbero (con rendimenti elevati) direttamente i capitali riportati in Italia. Si tratterebbe di 5-6 miliardi che andrebbero a coprire buona parte dei costi per l’Abruzzo stimati in 8 miliardi. La norma, però, sarebbe in contrasto con le direttive Ue sulla libera circolazione dei capitali, secondo le quali le misure anti evasione non possono introdurre un principio di discriminazione. Sulla questione l’Italia ha già avviato i contatti con la Commissione Europea per il confronto sul provvedimento. Lo ha rivelato ieri il ministro per le Politiche Comunitarie, Andrea Ronchi, durante un incontro a Strasburgo con i 72 europarlamentari italiani. Se la soluzione non si trovasse, il governo potrà comunque utilizzare lo scudo per l’Abruzzo.
Il piano b
La norma è già in vigore ed è contenuta nella legge 77 del 2009, che ha convertito il decreto di aprile sugli “interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella Regione Abruzzo”. All’art.14, comma 4, si legge che “le maggiori entrate rivenienti dalla lotta all’evasione fiscale, anche internazionale, derivanti da futuri provvedimenti legislativi, affluiscono ad un apposito Fondo istituito nello stato di previsione della spesa del Ministero dell’Economia destinato all’attuazione delle misure di cui al presente decreto e alla solidarietà”. Questa passaggio offre copertura allo scudo e permette di appigliarsi all’articolo 100 del Trattato Ue che consente agli Stati di ricorrere a strumenti eccezionali in caso di emergenze.
Maggiori dettagli non si avranno probabilmente prima di domani, quando il governo dovrebbe alzare il velo sulle modifiche al dl fiscale, che saranno contenute in un maximendamento. Tra le oltre 1.100 proposte presentate ieri alle commissioni Bilancio e Finanze della Camera non compare infatti nessuno dei correttivi strategici, tranne quello presentato dai deputati del PdL Cazzola e Della Vedova sull’innalzamento dell’età pensionabile delle statali. Su cui però non c’è ancora l’accordo nel governo.

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Il G8 sdogana il condono fiscale e scioglie le briglie a Tremonti

I dettagli sono ancora tutti da definire, ma dopo il G8 la strada per lo scudo fiscale è chiaramente in discesa. «Diversi Paesi stanno attuando strategie per favorire il rimpatrio dei patrimoni detenuti in giurisdizioni non cooperative», si legge nel documento finale del summit aquilano che si è concluso venerdì. Di fatto, i grandi del pianeta hanno legittimato l’utilizzo dello strumento come arma per contrastare l’evasione e per riportare entro i confini nazionali preziosa liquidità per il sistema bancario e produttivo. Giulio Tremonti, ovviamente, lo aveva previsto. E non è un caso che poco più di una settimana fa il ministro dell’Economia aveva risposto con un plateale «boh» a chi gli chiedeva lumi sull’operazione.
Del resto, dopo le numerose accuse piovute sul suo capo a causa delle sanatorie varate durante il suo precedente mandato, il ministro aveva giurato a più riprese che la stagione dei condoni era un capitolo chiuso e che misure del genere non sarebbero state riproposte. Per questo Tremonti ha cercato prima il consenso dell’Europa, poi quello delle principali economie del mondo. Arrivati entrambi, il percorso ora dovrebbe essere agevole. Tanto più che il ministro è riuscito ad ottenere dal G8 anche un secondo e prezioso aiuto, rappresentato dall’avere messo in cima alle priorità anticrisi la lotta senza quartiere ai paradisi fiscali. Promettere battaglia contro i Paesi che ospitano i capitali sottratti all’erario (e nel dl anticrisi ci sono già norme a riguardo) porterà evidentemente a moltiplicare le risorse destinate al rientro. Questo significa che dal provvedimento Tremonti potrà ricavare anche più di quei 4-5 miliardi di gettito stimati finora. Soldi necessari non solo a finanziare la ricostruzione in Abruzzo, ma anche a coprire il buco delle entrate provocato dalla crisi.
Legato a doppio filo allo scudo c’è poi il discorso banche, visto che il bottino rimpatriato finirà poi nelle mani delle loro società di gestione. Tutto è dunque appeso alla tregua che sembra essere scoppiata tra Tremonti e gli istituti di credito. In cambio di aiuti alle imprese, il ministro potrebbe mettere sul piatto, oltre alle agevolazioni fiscali, anche il rientro dei capitali.
Quanto ai tempi, le indiscrezioni parlano di un possibile inserimento della norma già all’inizio della prossima settimana attraverso un emendamento al dl fiscale. Ma non è escluso che Tremonti voglia sincronizzare lo scudo con i Paesi della Ue, in quel caso il provvedimento potrebbe slittare. Le ipotesi a cui si lavora per ora sono quelle della doppia aliquota e del doppio condono. Sul primo punto si parla di un’aliquota al 5% per chi deciderà di investire le somme in titoli di Stato destinati alla ricostruzione abruzzese. Per gli altri il costo del rientro sarebbe del 7-8%. Accanto allo scudo per le persone fisiche è poi allo studio anche una sanatoria per imprese e autonomi per azzerare i contenziosi con il fisco, come fu fatto nel 2001-2002. Ma dall’operazione verrebbe esclusa l’Iva, sul cui precedente condono è già arrivata una sonora bocciatura da parte della Ue. Con le due misure combinate le stime del Tesoro puntanto ad un rientro di circa 100 miliardi di capitali e un gettito che potrebbe raggiungere i 10 miliardi.

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sabato 11 luglio 2009

Dal cilindro del G8 date e scadenze. Non accadeva da anni

Doveva essere il G8 delle polemiche, degli imbarazzi, del Noemi-gate. È stato il G8 dei risultati, degli impegni concreti, degli accordi allargati. Sarà stato “merito” della crisi economica, sarà stata la nuova amministrazione americana, fatto sta che nella tre giorni aquilana Silvio Berlusconi è riuscito ad ottenere quello che da alcuni anni a questa parte dal cilindro dei summit internazionali non era mai uscito. Dal G8 giapponese di Hokkaido, lo scorso anno, i grandi avevano sudato sette camicie per presentarsi alla conferenza stampa finale con uno straccio di accordo: un impegno condiviso sul clima che, per accontentare tutti, alla fine non andava al di là di un «nel futuro saremo più attenti all’ambiente». Accanto a questo c’era poi una bella tirata d’orecchie ai petrolieri, con la minaccia che se non avessero smesso di speculare sul greggio si sarebbero attirati l’esecrazione mondiale. Lo stesso era, più o meno, accaduto l’anno prima in Germania e quello ancora prima in Russia. Della maggior parte dei G8, tutt’al più si ricordano gli scontri coi no global e le mise delle first lady.
Silvio Berlusconi ha rivelato in conferenza stampa di avere ricevuto «complimenti imbarazzanti». Qualcuno, ha raccontato, «mi ha detto che è stato il miglior G8 al quale ha mai partecipato». Senza spingersi così in là, bisogna ammettere che il Cavaliere è riuscito a prendere la palla al balzo. Da una parte la crisi, che ha favorito la convergenza su molte questioni (a partire dal Doha round) anche dei Paesi emergenti e che ha permesso all’Italia di ottenere il consenso sul protocollo “tremontiano” con le nuove regole per l’economia e la finanza. Dall’altra mister Obama, che ha consentito al premier di sparigliare il tavolo su temi cruciali come il clima, l’allargamento del G8 e le armi nucleari. Ad oliare il tutto c’è stato poi il consolidamento dell’asse con la Russia di Putin, che ha trasformato Berlusconi in una pedina preziosa per gli equilibri geopolitici tra Europa e Stati Uniti. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Nell’ultima giornata di lavori il G8 ha prodotto un innalzamento dei fondi stanziati per la sicurezza alimentare in Africa da 15 a 20 miliardi in tre anni. Ma è soltanto l’ultimo degli obiettivi centrati dal vertice che si è concluso ieri. Tra i principali c’è, ovviamente, lo sforzo congiunto sulle ricette anti-crisi, sulle nuove regole per la finanza globale e sulla lotta ai paradisi fiscali. Tutti punti su cui ha lavorato negli ultimi mesi il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Il traguardo più plateale è però quello raggiunto sul clima, dove per la prima volta i Paesi emergenti si sono impegnati insieme agli Stati Uniti a mettere nero su bianco un programma concreto di riduzione delle emissioni di anidride carbonica in vista del summit di Copenaghen a dicembre. Un percorso che finora sia la Cina sia l’amministrazione Usa si erano sempre rifiutate di intraprendere. E più che concreta è l’intesa raggiunta sul Doha round. I negoziati per la liberalizzazione del commercio internazionale vanno avanti senza alcun risultato da ben 8 anni. In tre giorni all’Aquila i grandi del G14 più i tre Paesi del Mef hanno deciso di darsi una scadenza effettiva (il 2010) e di dare mandato al segretario generale del Wto, Pascal Lamy, di convocare tutti i ministri del Commercio e degli Esteri per raggiungere un compromesso da presentare già al prossimo G20 di Pittsburgh della fine di settembre.
Un’altra data è quella sul vertice internazionale per ridiscutere del trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari, che dovrà tenersi nella primavera del 2010. Prima dell’Aquila non si era infine mai riusciti a tracciare un percorso di allargamento del G8 agli altri Paesi che dominano la scena mondiale dell’economia. Dalla caserma di Coppito esce invece un’indicazione precisa per arrivare al G14 come formula standard per il tavolo dei grandi. Se i prossimi vertici andranno male come questo, c’è da essere soddisfatti.

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Il G8 rianima il catatonico Doha round

Un colpo di manovella, lo aveva definito mercoledì Giulio Tremonti. Nel secondo giorno di lavori del G8 presieduto da Silvio Berlusconi la spinta si intensifica e la convergenza si allarga. Al punto da aprire uno spiraglio perfino sull'intramontabile Doha round, l’accordo sul commercio internazionale bloccato da circa 8 anni. A sottoscrivere gli impegni degli Otto grandi ieri si sono aggiunti i Paesi del G5 (Cina, India, Messico, Sud Africa, Brasile), più l’Egitto, ospite della presidenza italiana, e la Svezia, presidente di turno della Ue. I quindici capi di Stato e di governo (ma la sigla resta G14) più i tre rappresentanti del Mef (Indonesia, Australia e Corea del Sud) hanno praticamente condiviso tutta “l’agenda globale” del G8, tranne il capitolo clima, su cui c'è stata comunque una significativa apertura dei Paesi in via di sviluppo, favorita anche dal nuovo corso di Barack Obama e dall’asse Italia-Stati Uniti. Tra i punti principali su cui è giunto l’ok anche degli “emergenti” ci sono la volontà di uscire con politiche condivise dalla crisi economica, le nuove regole della finanza (il legal standard) e il sostegno alle politiche di inclusione sociale. È necessario, si sottolinea nella dichiarazione congiunta del G14, sostenere una ripresa «forte» dell’economia e «un tale contesto richiederà la riabilitazione dei settori bancari in alcuni Paesi e la ripresa del credito su una base sana». Nel frattempo, si cominceranno «anche a preparare le strategie di uscita dalle misure straordinarie adottate per rispondere alla crisi». A confermare l’importanza degli accordi «allargati» è stato anche il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria, secondo il quale sui «paradisi fiscali si sono fatti più progressi in 3 mesi che negli ultimi 13 anni». Stesso ottimismo sulle nuove regole globali, anche se in questo caso Gurria ha ammesso che il cammino è ancora lungo.
Ma i riflettori ieri erano tutti puntati su commercio e clima. Sul primo fronte Berlusconi ha incassato l'impegno dei 17 Paesi a chiudere il negoziato entro il 2010. Un impegno che sembra andare al di là della semplice dichiarazione d'intenti. Il premier ha infatti spiegato che il G14 (più tre) ha dato mandato «al direttore dell’Organizzazione mondiale per il commercio, Pascal Lamy, di convocare i ministri competenti di tutti i Paesi che hanno sottoscrittto l’accordo nei primi giorni di settembre in modo da poter presentare una relazione conclusiva al G20 di Pittsburgh». Credo, ha proseguito il premier, che «questo sia un successo di questo vertice. Per combattere la crisi, la cosa più importante è che i paesi in via di sviluppo e i paesi poveri possano commerciare i loro prodotti sul mercato mondiale».
Più complicata la situazione sul clima, dove però sembra che i negoziati abbiano subìto una forte accelerazione. La mediazione raggiunta in sede di G14 ha limitato l'intesa alla necessità di non aumentare il riscaldamento globale di più di 2 gradi rispetto alla media dell'epoca preindustriale. La Cina si è però opposta al taglio delle emissioni dei gas serra nella misura dell’80% di quelli attuali per i Paesi più industrializzati e del 50% per gli altri Paesi entro il 2050. Ma il nuovo asse “climatico” Berlusconi-Obama sembra ottimista. «Da qui a Copenaghen (dove si terrà a dicembre il vertice mondiale sul clima ndr)», ha detto il presidente Usa, «negozieremo con i Paesi emergenti per raggiungere un obiettivo concreto anche per loro. Sono stati fatti importanti passi avanti». Mentre il premier ha sottolineato che «l’atteggiamento di India e Cina è stato molto positivo» e «addirittura ci ha sorpreso».
Massima convergenza, infine, si è registrata sulla questione delle testate nucleari. Obama, ha spiegato il premier, «ha proposto di mettere in agenda un vertice da svolgersi nel maggio del 2010 con tutti i Paesi detentori di armi nucleari per andare verso un mondo più sicuro».

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Vince Giulio: regole italiane contro la crisi

L’Italia la spunta sul “Global legal standard”, ma la cosa che più ha dato soddisfazione a Silvio Berlusconi è stato il sostegno del G8 alla linea dell’ottimismo tanto contestata in Italia. Dal G8 «intendiamo mandare un messaggio di fiducia», ha detto il premier durante una conferenza stampa in serata, «la crisi, per la sua parte più dura, è alle nostre spalle». E stavolta non sarebbe solo il Cavaliere a vedere rosa, ma tutti gli Otto grandi, concordi, ha spiegato Berlusconi, nel vedere «ovunque solo segnali di miglioramento». Al punto da condividere l’invito lanciato dal Fondo monetario internazionale di iniziare a ragionare seriamente sulle vie d’uscita (le exit strategy) dalla crisi. Anche se la situazione «rimane incerta e rimangono rischi significativi per la stabilizzazione economica e finanziaria», si legge nel documento approvato ieri, «ci sono segni di stabilizzazione». Ma al di là delle previsioni ottimistiche, è sulle nuove regole della finanza mondiale il risultato più importante incassato dal governo italiano e dal ministro Giulio Tremonti, che dell’iniziativa è ispiratore e che ieri si è addirittura presentato al G8 “fuori sacco” per sottolineare l’evento. Per carità, la discussione è ancora bloccata ai principi e alle linee guida, ma la sintonia ottenuta ieri non era affatto scontata. Alla vigilia del vertice lo stesso Berlusconi si mostrava scettico sulla possibilità di uscire dal G8 con in mano un pacchetto di punti condivisi da discutere poi nel concreto al prossimo summit di Pittsburgh, previsto nell’autunno.L’accelerazione di ieri, invece, fa ben sperare. Gli Otto grandi hanno infatti rinnovato l’impegno all’applicazione di norme e principi comuni, si legge nella bozza di dichiarazione finale, di «correttezza, integrità e trasparenza» coinvolgendo il G20 nella strategia definita dal cosiddetto “Lecce Framework”, il quadro di regole promosso appunto dalla presidenza italiana. Il G8 si impegna anche a stabilire norme più stringenti fra cui il controllo sugli hedge fund e i tetti agli stipendi dei manager. Per «assicurare una ripresa economica durevole» è necessario «risanare il settore finanziario anche stabilizzando i mercati finanziari e regolamentando l’attività bancaria». Piena convergenza, infine, sui paradisi fiscali e sulla lotta all’evasione.«Non possiamo continuare a tollerare - dicono i Grandi - grossi capitali nascosti per evadere il fisco». Ruolo fondamentale è affidato all’Ocse, che ha già stilato le black list sui paradisi, a cui si chiede di «proporre ulteriori passi» in vista del prossimo G20 finanziario. Raggiante Tremonti, che si è recato fino a Coppito per sottolineare che il «documento è assolutamente un’iniziativa dell’Italia» ed è nato dalla constatazione dell’attuale «sfasatura» tra regole locali che governano la finanza ed effetti globali. Le nuove regole, ha spiegato, «sono un’utopia, un sogno che si realizza.Il fatto che sia difficile realizzarle non significa che siano inutili, anzi». A dimostrazione di ciò, ha concluso, sta il fatto che «sono state approvate da tutti, anche da quanti non ci aspettavamo». Molto più complicata appare la strada sul clima, dove Cina e India sono pronte a puntare i piedi. I Paesi del G8, si legge nella dichiarazione finale, si impegnano a limitare «l’aumento globale della temperatura media a due gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali». Ma non solo. Gli Otto grandi sottolineano anche la «volontà di condividere con tutti i Paesi l’obiettivo di raggiungere una riduzione di almeno il 50% delle emissioni globali entro il 2050» e riaffermano il sostegno «all’obiettivo dei Paesi sviluppati di ridurre insieme le emissioni di gas serra dell’80% entro il 2050, prendendo il 1990 o anni più recenti» come punto di riferimento. Ma la posizione comune, ha spiegato Berlusconi, andrà discussa con i Paesi emergenti. Bisogna verificare «se sia possibile un’intesa con India e Cina». In serata, raggiunta una posizione comune sull’Iran: approvato una condanna al negazionismo più volte propagandato da Teheran.

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Crisi e finanza: al G8 c’è già uno scoglio

Tutto è pronto. Dalle «dichiarazioni più importanti», come ha detto Silvio Berlusconi ieri durante una conferenza stampa, ai menù di pranzi e cene, tutti rigorosamente made in Abruzzo, con un trionfo di specialità enogastronomiche locali. Ma il piatto forte della prima “colazione di lavoro” del G8 sarà la crisi economica e le nuove regole per la finanza ribattezzate dal ministro Giulio Tremonti “global legal standard”. Uno dei temi più ostici del vertice, su cui la convergenza è grande finché si resta ai principi, ma lo è molto meno quando si scende nei dettagli. Ad ammettere le difficoltà dell’operazione su cui il titolare dell’Economia sta lavorando da mesi è stato lo stesso premier che ha addirittura ipotizzato uno slittamento rispetto al G20 di Pittsburgh (che si terrà il prossimo 24-25 settembre). Appuntamento che si pensava decisivo ma che invece, secondo il premier, «non sarà definitivo per la riscrittura delle regole della finanza mondiale». Per avere un accordo di tutti, ha detto Berlusconi, «servirà un percorso non breve e piuttosto lungo». Tra gli altri temi principali su cui invece ci sarebbero già «dichiarazioni generalmente condivise» ci sono le questioni più strettamente politiche, la non proliferazione nucleare, la lotta al terrorismo, il futuro sostenibile, l’acqua per l’Africa e la sicurezza alimentare per cui sarebbe previsto uno stanziamento complessivo di 15 miliardi di dollari.Per quanto riguarda gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo, nella bozza finale gli otto grandi si impegnano a raddoppiarne l’entità entro il 2010 (rispetto al 2004) destinandone «la metà all’Africa» e a garantire «una maggiore efficacia d’azione del G8» attraverso «uno strumento di rendicontazione per fare il punto e lo stato di attuazione sugli impegni presi». Tutti sarebbero poi d’accordo sulla necessità di «una ripresa immediata dei negoziati» in Medio Oriente a partire dalla «soluzione dei due Stati» per due popoli, dalla fine «di ogni forma di violenza» e dal «congelamento degli insediamenti». «Intesa», si legge nel documento, anche sulla proposta russa di tenere una conferenza internazionale sul Medio Oriente a Mosca nel 2009.Sul clima l’impegno sarebbe quello di ridurre le emissioni globali di gas serra di «almeno il 50%» entro il 2050 e taglio drastico dell’80% entro lo stesso anno da parte degli otto grandi. Nel documento, i G8 si impegnano inoltre ad «obiettivi di riduzione di medio termine significativi e comparabili tra di loro» e avanzano «una richiesta esplicita alle economie emergenti di attuare azioni di riduzione delle emissioni». Il testo cita inoltre «l’importanza di limitare l’aumento globale delle temperature a 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali», ma è chiaro che gli occhi sono tutti puntati sul nuovo corso di Barack Obama in tema di ambiente.Il primo giorno di incontri vedrà riuniti i leader del gruppo degli 8 - Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, Russia, Canada e Giappone - più il presidente della Commissione Europea, Josè Manuel Barroso, e il presidente di turno della comunità europea, lo svedese Fredrik Reinfeldt. Dalle 13 alle 15 ci sarà la colazione di lavoro in cui, come si diceva, si discuterà sui segnali di fine recessione, regolamentazioni finanziarie e il round di Doha sul commercio globale. Nel pomeriggio è prevista la sessione di lavoro sui temi globali: cambiamenti climatici, aiuti e sviluppo. La cena sarà invece dedicata ai temi politici internazionali con particolare attenzione a Medio Oriente, Iran, Corea del Nord, pirati somali, terrorismo e proliferazione nucleare.

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martedì 7 luglio 2009

I cassaintegrati sono la metà del previsto

Un fuoco di paglia? Non proprio. Complessivamente nei primi cinque mesi dell’anno gli interventi di cassa integrazione ordinaria e straordinaria sono stati il 256% in più rispetto a quelli dello stesso periodo del 2008. La crisi, insomma, c’è. E morde ancora. Ma chi dice che il peggio sia passato e che la situazione sia meno drammatica del previsto non è poi così lontano dal vero. I dati che dimostrano il miglioramento della situazione sono contenuti in un dossier dell’Inps consegnato alcuni giorni fa a Silvio Berlusconi e ai ministri dell’Economia e del Welfare. L’istituto di previdenza mette in fila le rilevazioni effettuate dall’inizio dell’anno sui trattamenti di cassa integrazione. E il quadro che ne esce è tutt’altro che catastrofico. Anzi, è la conferma che la recessione sta iniziando a frenare.
Il dossier riservato
Basta guardare quello che sta succedendo sul fronte della cassa integrazione straordinaria per l’industria, che dopo un aumento del 33,76% tra febbraio e marzo e uno del 21,39% tra marzo e aprile, a maggio a addirittura invertito la rotta facendo registrare una diminuzione dell’1,14%. Più contenuto il fenomeno per quello che riguarda la cassa integrazione ordinaria e quella del settore edile, che comunque compiono robuste frenate. Il dato complessivo è chiaro. Da un aumento mese su mese a marzo del 38,17% si passa ad un 27,82% di aprile fino ad un ben più magro 15,82% di maggio. Una percentuale che dimostra chiaramente lo sgonfiamento dei picchi raggiunti tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, quando il sistema produttivo ha sofferto maggiormente l’impatto della crisi. Stessa frenata è stata registrata per le domande di disoccupazione. «Non si può ancora dire che la recessione sia finita e che il sole sia tornato», spiega il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua a Libero, «ma i segnali che arrivano dal forte rallentamento della cassa integrazione sono realisticamente ottimistici».
La Cig dimezzata
La conferma arriva anche dai numeri più sensibili, quelli relativi ai soldi spesi dallo Stato per sostenere il reddito dei lavoratori in crisi. Ebbene, qui il dato è ancora più impressionante perché le proiezioni elaborate dall’Inps indicano che alla fine dell’anno le risorse utilizzate potrebbero essere addirittura meno della metà di quelle previste prudenzialmente dal governo. In altre parole, ci troveremmo di fronte ad un numero di cassaintegrati dimezzato rispetto alle stime fatte dagli esperti durante la prima fase della crisi. Nel dettaglio, nei primi cinque mesi del 2009 le aziende hanno chiesto e ottenuto 293 milioni di ore di cassa integrazione. Considerato che ogni ora costa complessivamente (tra contributi figurativi e retribuzione del lavoratore) circa 9 euro l’impegno complessivo delle casse pubbliche è stato di 2,8 miliardi di euro. Se il trend non dovesse cambiare nella seconda metà dell’anno si arriverebbe alla fine del 2009 con una cifra di circa 7 miliardi. Ora, tenendo conto che il governo ha stanziato 4 miliardi per la cassa integrazione straordinaria e 12 per quella ordinaria, è facile calcolare che l’impegno finale sarebbe meno della metà.
Il ciclo riparte
E non è detto che non sia anche inferiore. Per completare il quadro manca infatti quello che il presidente e commissario straordinario dell’Inps considera il dato più significativo (non a caso è stato lui ad introdurre questo tipo di monitoraggio) per interpretare l’andamento del sistema economico. Si tratta del cosiddetto “tiraggio”, un termine difficile per un meccanismo semplicissimo. In pratica è la differenza tra le ore di cassa integrazione richieste e ottenute dalle aziende e le ore effettivamente utilizzate. Ebbene, nei primi quattro mesi del 2008, quando i venti di crisi non avevano neanche iniziato a spirare, la percentuale era all’80%, che è quella per così dire fisiologica allo strumento. Nei primi quattro mesi del 2009 lo scarto tra i trattamenti di Cig autorizzati dal minsitero del Welfare e quelli di cui poi le imprese hanno usufruito è sceso al 59%. Questo significa in parte che le imprese, un po’ per paura, un po’ per l’impossibilità di prevedere fino in fondo entità e durata della recessione, hanno abbondato nella richiesta per evitare di trovarsi poi in difficoltà. Ma vuol dire soprattutto, spiega Mastrapasqua, «che la situazione è cambiata e che è ripreso il ciclo produttivo e che quindi le aziende non hanno più avuto bisogno di utilizzare quelle ore di cassaintegrazione». Del resto, continua il presidente dell’Inps, «il crollo verticale dei consumi non c’è stato e i magazzini, seppure più lentamente, hanno continuato a svuotarsi, così ora c’è bisogno di tornare a produrre. Il mondo non si è fermato come qualcuno pensava». Se anche il trend del “tiraggio” fosse confermato l’Istituto di previdenza calcola che l’impegno complessivo dello Stato sarebbe di 4,1 miliardi. La metà della metà di quanto stanziato. Alla faccia dei corvi.

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Il Cavaliere contagia pure la Marcegaglia: "Il peggio è passato"

Altro che Istat. «Il peggio è passato e la situazione sta migliorando». Malgrado i dati poco incoraggianti che l’Istituto di statistica continua a snocciolare, Silvio Berlusconi non perde l’ottimismo. Anzi, è proprio per sgonfiare l’effetto panico di quelle analisi (che peraltro non modificano un andamento complessivo che ci vede più in forma di molti Paesi europei) che ieri è tornato a ribadire la sua fiducia nella capacità del sistema produttivo di sostenere l’impatto della recessione e del governo di tenere i conti in ordine. Perché il momento non è facile, ma il vero problema è «che c’è la crisi e c’è la paura della crisi». Ed è quest’ultima a fare più danni, perché frena i consumi e soffoca la domanda. È per questo che, secondo il premier, bisogna ingaggiare una vera e propria «guerra contro la paura». Tanto più, ha detto che «ci sono 14 milioni di lavoratori privati che non hanno avuto una diminuzione dei loro introiti e non hanno paura di perdere il posto». Infatti, ha sottolineato, «il 99 e qualcosa per cento delle aziende private ha dichiarato che mai rinuncerà al proprio principale fattore di ricchezza, che è il capitale umano».Piuttosto, ha aggiunto Berlusconi, «a rischio sul mercato restano soltanto i lavoratori autonomi, che però hanno una loro intima forza di ottimismo, di fiducia nel futuro, che chiudono aziende ma le riaprono». E comunque, ha precisato, «il saldo fra le aziende che chiudono e quelle che aprono è ancora oggi positivo».Anche dal fronte internazionale non dovrebbero più arrivare grandi minacce: «Ciò che doveva accadere è accaduto, chi doveva fallire è fallito, chi si doveva togliere dal mercato si è tolto». Oggi, ha spiegato, «non mi pare ci siano altre situazioni che dobbiamo temere». Ma allora, si è chiesto il premier, «perché tanti cittadini hanno cambiato le loro abitudini d’acquisto?».La ricetta, insomma, è quella di «guardare avanti per un futuro migliore». E non perché bisogna vivere nelle favole, ma perché solo in questo modo si riuscirà ad evitare che le conseguenze del dissesto dell’economia durino troppo a lungo. Del resto, per quanto impressionanti, le cifre fornite di recente dall’Istat sono assolutamente in linea con le previsioni fornite a fine giugno dall’Ocse, che piazzano l’Italia in posizione medio-alta della classifica delle economie europee. E, come ha detto lo stesso premier, sono molti gli indicatori, da quelli che arrivano dall’Inps sul rallentamento della cassa integrazione a quelli di Unioncamere sulla tenuta del sistema delle Pmi, che lasciano intravedere concreti segnali di ripresa del ciclo produttivo. Anche da Confindustria ieri sono arrivati segnali di ottimismo. «Non c’è più la percezione di essere sull’orlo del precipizio», ha detto la presidente Emma Marcegaglia, «probabilmente il peggio lo abbiamo alle spalle, c’è qualche segnale di miglioramento ma non bisogna abbassare la guardia».Ottimismo e buon senso che non sono affatto bastati a rassicurare un’opposizione che, tra una polemica sul Noemi-gate e un’indignazione per il lodo Alfano, non ha perso l’occasione di utilizzare i dati diffusi nei giorni scorsi dall’Istat per denunciare l’inerzia di Berlusconi di fronte alla crisi. Il governo nega la realtà «voltando la faccia dall’altra parte», ha tuonato Dario Franceschini. Le parole del premier secondo il leader del Pd, sarebbero «uno schiaffo inaccettabile alle famiglie e alle imprese». Mentre per l’Italia dei Valori l’ottimismo del premier rappresenta addirittura il primo passo verso il «regime».Più cauto il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che ritiene un po’ prematuro dire che il peggio è passato, ma invita tutti «a remare dalla stessa parte».

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La paura fa 9,3%

Che la situazione non fosse delle migliori era chiaro. Tutti i principali indicatori segnalano da tempo il cattivo stato di salute della nostra economia colpita, come gran parte dei Paesi del pianeta, dagli effetti della crisi. Ma quel deficit/pil nel primo trimestre al 9,3%, pur con tutte le cautele del caso, un po’ di apprensione in più la mette. Non fosse altro perché all’Istat, da quando gli esperti si mettono lì ogni tre mesi a calcolare numeri e percentuali, nessuno lo aveva mai visto. Il dato è infatti il più negativo dal 1999, ma solo perché quello è l’anno in cui sono cominciate le serie storiche. Detto questo, bisogna ricordare che il primo trimestre è sempre il più difficile, quello dove le cifre schizzano, per poi assestarsi durante l’arco dei dodici mesi. Cosa che accade da diversi anni a questa parte, compreso l’ultimo dove la situazione non è stata così rosea (rispetto a 5,7% la chiusura del 2008 è stata al 2,7%). Certo, preoccupano i dati sulla spesa pubblica che sale (+4,6%), sul saldo primario che scende (-4,6%) e sulle entrate che frenano (-2,8%). Ma in fondo lo scenario complessivo non sembra tanto diverso da quello su cui si ragionava l’altroieri, prima di essere gelati dai dati dell’Istat. Il governo, al di là delle polemiche su ottimisti e pessimisti e sulla validità delle stime, sa perfettamente che per uscire dalla crisi il Paese non ha bisogno soltanto di sopravvivere alla tempesta, ma di cambiare il passo prima che gli altri tornino a correre. E per fare questo servono riforme strutturali. Un po’ di tempo c’è ancora. Il quadro, infatti, è quello tracciato un paio di settimane fa dall’Ocse che vedeva l’Europa più o meno nella stessa situazione, se non peggio, dell’Italia.Non a caso ieri il presidente della Bce, Jean Claude Trichet, (che ha lasciato i tassi invariati all’1%) ha spiegato che alla riduzione del deficit ci si penserà nel 2011, tra due anni. Nel frattempo, con la ripresina che dovrebbe arrivare nella metà del 2010, bisognerà attendere gli effetti dei «piani di stimolo» pubblici sull’economia. Quando il ciclo ripartirà, si risolveranno anche i problemi legati alla bassa inflazione. Perché una crescita della domanda porterà ad una graduale ripresa dei prezzi e quindi del sistema produttivo. Solo allora «si dovranno avviare i necessari sforzi per consolidare i bilanci». Resta inteso che tutti dovranno farsi trovare preparati. Soprattutto chi, come noi, ha un deficit elevato. Per questi Paesi, ha spiegato il numero uno della Banca centrale europea, «sarà necessario un aggiustamento strutturale del deficit pubblico almeno dell’1% l’anno».In questo senso, la buona notizia arriva dal decreto fiscale. Nella relazione tecnica della Ragioneria dello Stato del dl, che inizia martedì il suo iter alla Camera, si legge che il miglioramento del saldo netto da finanziare è di circa 1.396 milioni nel triennio 2009-2011 e di 500 milioni l’anno nel 2009 e 2010 del fabbisogno. È invece nullo in tutti e tre gli anni l’effetto sull’indebitamento. «Una quota delle maggiori entrate e delle minori spese derivanti dal decreto e non utilizzate a copertura», si legge nella relazione, «è destinata a incrementare la dotazione del fondo per interventi strutturali di politica economica e integralmente destinate all’attuazione della manovra di bilancio per il 2010 e gli anni successivi».La cattiva notizia arriva invece dall’Europa, dove il tasso di disoccupazione a maggio si è attestato al 9,5% contro il 9,3 di aprile. Nel 2008 era al 7,4%. È il peggior dato dal maggio 1999.

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sabato 4 luglio 2009

Gli operai Fincantieri contro la Cgil

Altro che comportamento antisindacale. Sarà difficile per la Fiom dimostrare in tribunale che l’accordo integrativo di Fincantieri, non firmato dai metalmeccanici della Cgil, rappresenta una violazione dei diritti dei lavoratori da parte dell’azienda. Forse sarà più facile per Fincantieri portare avanti la causa di risarcimento (si è parlato di 20 milioni) contro la Fiom per aver bloccato a più riprese la produzione con scioperi ed iniziative di protesta. Quegli stessi lavoratori, infatti, non sembrano affatto così entusiasti della guerriglia ingaggiata ormai da moltissimo tempo contro il colosso cantieristico italiano. Anzi, interpellati in merito all’accordo integrativo firmato lo scorso primo aprile si sono dichiarati in maggioranza favorevoli. Alla faccia di quelle percentuali bulgare che stando alla versione della Fiom starebbero appoggiando la richiesta di mandare tutto all’aria.

Quando qualche mese fa Cisl e Uil proposero di dare la possibilità a chi non aveva firmato il nuovo contratto di rinunciare all’aumento previsto, l’iniziativa fu subito denunciata come una sfacciata provocazione. In realtà, forse si sarebbe saputo in anticipo quello che è stato il risultato della consultazione effettuata tra i lavoratori. Sessantasei Rsu su 129 elette all’interno del gruppo si sono infatti espresse a favore dell’accordo e, se i numeri non ingannano, si tratta, seppure di misura, della maggioranza della forza lavoro aziendale. Piaccia o non piaccia le Rsu sono rappresentanze sindacali unitarie che vengono elette da tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato.

«Come Fim e Uilm», si legge in una nota diffusa dalle segreterie nazionali, «abbiamo ritenuto doveroso, pur ritenendo che l’accordo da noi sottoscritto il primo aprile con Fincantieri sia valido a tutti gli effetti sia economici che normativi, verificare coerentemente con le indicazioni positive avute nelle assemblee svolte in tutti i siti di Fincantieri, il grado di apprezzamento di tutte le Rsu di Fincantieri e delle Società controllate».

Il risultato è, evidentemente, una doccia gelata per i duri della Fiom, che fino a qualche giorno fa parlavano di «grande mobilitazione» e di «inevitabile riapertura delle trattative». Una sicurezza che ha spinto il sindacato guidato da Rinaldini e Cremaschi ha tentare addirittura l’affondo in tribunale contro Fincantieri per comportamento antisindacale. Secondo i metalmeccanici di Cisl e Uil, chi in questi giorni ha parlato «di maggioranze delle Rsu, di maggioranze dei lavoratori e di adesioni al 90% degli scioperi indetti dalla Fiom contro l’accordo in questione di fatto sta sostenendo falsità oltre a dare informazioni prive di fondamento».

Dopo la consultazione, è chiaro che la Fiom dovrà abbassare i toni. Considerato anche che a favore dell’accordo hanno votato anche i lavoratori della Failms e dell’Ugl. Detto questo, la quota di chi non ha gradito il nuovo contratto integrativo è comunque consistente. E tutte le sigle nazionali dovranno farci i conti. Per la Fiom, però, l’episodio rappresenta qualcosa di più. È l’ennesima battuta d’arresto, dopo le contestazioni arrivate dalla base negli ultimi mesi, di un sindacato che rischia di non riuscire più a dialogare né con le aziende né con i lavoratori.

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giovedì 2 luglio 2009

Il massimo grado della magistratura col massimo di stipendi e privilegi

Non è la prima volta che la Consulta finisce al centro delle polemiche. Una delle più vibranti fu quella innescata da Marco Pannella, che a metà degli anni 90 la definì «una cupola partitocratica» per le ripetute bocciature dei referendum sponsorizzati dai radicali. Ma ai giudici costituzionali i nemici non sono davvero mancati. Una volta c’è in gioco la legge elettorale, un’altra i diritti civili, un’altra ancora le tasse, fino alla televisione o, come in questo caso, le prerogative dei vertici istituzionali. C’è sempre qualcuno pronto a puntare il dito, ad accusare, a denunciare.Un curioso destino per quella che dovrebbe essere la massima fonte di diritto italiano e il più autorevole garante del rispetto delle regole e delle leggi fondamentali dello Stato.La Corte costituzionale è un organo previsto dalla Costituzione. Il suo compito, in base all’art. 134, è quello di giudicare sulla «legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle regioni»; sui «conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra Stato e Regioni»; sulle «accuse promosse contro il presidente della Repubblica»; «sull’ammissibilità del referendum abrogativo». Il presunto equilibrio della Corte, regolarmente contestato da chi resta insoddisfatto delle sue decisioni, dovrebbe derivare dalla sua composizione, stabilita dall’art. 135 della Carta. Formano la Corte quindici giudici nominati per un terzo dal Parlamento, per un terzo dal capo dello Stato e per un terzo dalle supreme magistrature ordinarie ed amministrative. L’elezione da parte del Parlamento avviene a scrutinio segreto e con la maggioranza dei due terzi. Procedura che ha spesso provocato assurde paralisi a causa del braccio di ferro tra maggioranza e opposizione, al punto che nel 2002 la Corte fu costretta a rinviare una decisione per la mancanza del numero legale (11 giudici). I membri della Consulta (scelti fra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio) restano in carica nove anni, senza possibilità di proroga né di un secondo mandato. Il presidente viene eletto tra i componenti e resta in carica per 3 anni, rinnovabili, e solitamente viene scelto tra i giudici che stanno concludendo il mandato. Le decisioni della Corte costituzionale possono essere sentenze (decisioni di merito), ordinanze (decisioni processuali), decreti (decisioni procedurali). In sostanza, le pronunce della Corte si possano distinguere in due categorie: le sentenze di accoglimento e le decisioni di rigetto (siano esse di merito o processuali).Non tutti, però, possono ricorrere alla Corte. Sono soltanto due le vie di accesso al giudizio della Consulta. La prima, in via incidentale, prevede che la questione di legittimità costituzionale venga sollevata dal giudice nel corso di un giudizio davanti ad un tribunale. Il secondo metodo, in via di azione principale, prevede invece che Stato e Regioni possano presentare direttamente un ricorso di incostituzionalità.Diverso il caso dei referendum, dove in seguito al giudizio della Corte di Cassazione sulla legittimità, è previsto che la Consulta giudichi l’ammissibilità del quesito. Il vincolo principale riguarda l’impossibilità di riferire l’oggetto del quesito referendario su questioni relative a leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.Sono molte le proposte, mai portate fino in fondo, di modifica della Corte. In particolare quelle relative alla nomina dei componenti e alla cosiddetta opinione dissenziente, ovvero la possibilità di rendere palesi i voti di minoranza nelle varie sentenze.Per consolare i giudici continuamente bersagliati la legge ha, infine, stabilito generosi trattamenti economici. Lo stipendio di un componente e di 416mila euro l’anno, quello del presidente sale a 500mila. Tutto hanno diritto a una segreteria di tre persone più tre assistenti di studio, un appartamento privato al quinto piano della Consulta, ferrovie e autostrade gratis, così come il cellulare e il telefono (anche privato), rimborsi per aerei e taxi, macchina di servizio, che per i presidenti emeriti (si fanno chiamare così gli ex) resta anche in pensione.Al momento di lasciare l’incarico arriva la superliquidazione calcolata sulla base dell’ultimo stipendio moltiplicato per il numero degli anni di lavoro. Compresi quelli precedenti all’incarico. Uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo.

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Scudo fiscale e pensioni possono attendere

La manovra estiva è solo una «manutenzione» della Finanziaria. Lo scudo fiscale è allo studio, ma contro l’evasione basta la stretta sui paradisi e il federalismo. Il pil e le entrate tributarie sono in linea con le previsioni e con quelle degli altri Paesi. Se c’era bisogno di ottimismo, il ministro dell’Economia non si è davvero risparmiato. Illustrando nel dettaglio i contenuti del decreto anti-crisi varato dal governo venerdì scorso, Giulio Tremonti si è prodigato in affermazioni rassicuranti. A partire dalla manovra estiva, che è un «aggiustamento sul bilancio pubblico» dell’ordine di 1-1,5 miliardi nel 2009 e di 3-4 miliardi nel 2010. Si tratta, ha spiegato il ministro, «di una cifra oggettivamente piccola» che il Tesoro può tenere «sotto controllo» senza difficoltà. A fronte di questo, il decreto mette invece in azione un effetto leva «molto forte», con «volumi in atto di 30-40» miliardi. La voce principale riguarda le risorse sbloccate per estinguere i debiti della Pa nei confronti delle imprese. Si parla di 23 miliardi di liquidità che il governo è pronto ad immettere nel sistema produttivo. Soldi, ci ha tenuto a dire Tremonti, che ora le aziende ci chiedono ma che prima, quando non c’era la crisi, molti preferivano lasciare allo Stato visto che garantivano buoni interessi. Le imprese, ha detto, «si mettano d’accordo».Anche sul fisco il ministro mette le mani avanti. E a chi gli ha fatto notare che lo stesso premier Silvio Berlusconi ha paventato un crollo delle entrate, Tremonti ha risposto che la situazione «è in linea con le previsioni e le previsioni sono rispettose dei calcoli». E sul fronte fiscale il ministro si è soffermato molto sull’importanza di due strumenti anti-evasione. Il primo è contenuto nel dl e riguarda la stretta sui paradisi fiscali. Nel dettaglio è quello che in giuridichese si chiama inversione dell’onere della prova, uno dei meccanismi più discussi (e discutibili) del sistema tributario con cui il contribuente diventa automaticamente evasore a meno che non riesca a dimostrare il contrario. La norma rischia di mettere alla gogna il cittadino onesto, ma darà chiaramente all’Agenzia dell’Entrate un potere straordinario di contrasto ai furbetti che spostano i soldi all’estero. Il secondo strumento è quello del federalismo fiscale, che spingerà le autonomie locali a controllare di più il territorio. L’effetto combinato delle due riforme, secondo il ministro, sarà sufficiente a scoraggiare gli evasori. È per questo che Tremonti è apparso freddo sullo scudo fiscale. Il governo, ha spiegato, sta seguendo gli esempi di Stati Uniti e Gran Bretagna, ma alla domanda diretta se il meccanismo di rientro agevolato dei capitali sarà introdotto a breve ha risposto «boh». Fonti vicine a Via XX Settembre sostengono che dietro la ritrosia del ministro dell’Economia ci sia anche l’esigenza di non fare un regalo alle banche, che si troverebbero a gestire una massa di liquidità inaspettata proveniente dall’estero e che, forse, potrebbero anche usfruire loro stesse del provvedimento. Per ora la situazione è bloccata a quei 2 miliardi che secondo Tremonti la stretta sulle commissioni fara guadagnare alle famiglie. A spese, ovviamente, degli istituti di credito.Quanto alla riforma delle pensioni, il ministro ha di nuovo lanciato l’altolà. «Bisogna studiare bene, poi vediamo».

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Manager pubblici, fioccano gli incarichi ma stipendi più bassi

La trasparenza, solitamente, è cosa buona e giusta. Il mistero crea, nella migliore delle ipotesi, sospetti e malizie. Soprattutto quando a nascondersi è la classe dirigente, che già normalmente non è in cima ai cuori dell’opinione pubblica. Bene ha fatto dunque il ministro Renato Brunetta, che cammina spedito come un treno nella sua opera rivoluzionaria di modernizzazione della Pubblica amministrazione, a spiattellare sul sito Internet tutti gli stipendi dei manager pubblici. Del resto, un annetto fa abbiamo spiato nei 740 degli italiani e sono ormai all’ordine del giorno le classifiche dei paperoni che siedono nei cda delle società quotate (obbligate per legge a pubblicare bilanci e compensi). Perché non farlo anche per chi deve rispondere in ultima istanza ai cittadini del suo operato? Tanto più che le voci circolano e il passaparola è lo strumento migliore per alimentare leggende e favole sulle retribuzioni d’oro. Ecco, invece, che l’operazione trasparenza ci riporta alla realtà. Altro che ricconi, i manager romani, tutto sommato, mettono in tasca meno dei loro colleghi italiani. Stipendi robusti, intendiamoci, ma la media resta sui 100mila euro. Una cifra che snobberebbe la maggior parte degli assistenti personali di ministri e sottosegretari e che non è neanche paragonabile ai milioni che incassano annualmente i manager delle grandi imprese pubbliche come Eni, Enel e Finmeccanica o, manco a dirlo, dei banchieri che siedono nei cda dei principali istituti di crediti. Certo, ci sono le eccezioni, ma il quadro d’insieme (vedi tabella a pagina 14) appare comunque poco sfarzoso. A Roma tutti poveri? Non esageriamo. Il trucco, come spesso, accade, c’è. E si vede. Spulciando le tabelle con i dati scopriamo infatti che i nomi sono tanti, ma gli incarichi di più. Molti hanno ne hanno due, diversi tre. C’è poi chi ha deciso di strafare occupando contemporaneamente cinque, sei o addirittura nove poltrone. Una sorta di grande slam che alla fine dei giochi permette di recuperare il terreno perduto. Un po’ di qua e un po’ di là, ed ecco che la busta paga si gonfia, tornando a livelli accettabili. È tutto legittimo e perfettamente legale, per carità. E tutti, sicuramente, svolgono con dedizione il loro lavoro. L’importante, come si diceva, è saperlo.

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mercoledì 1 luglio 2009

Sepolto nei ministeri un tesoro da 23 mld

Decine di miliardi parcheggiati nei ministeri in attesa soltanto di essere spesi. È l’ultimo paradosso della burocrazia italiana, dove i soldi, si perdono, si spostano si trasferiscono e si bruciano. Tutto fuorché farli arrivare a destinazione. Alla faccia della crisi e dello sviluppo. A svelare il grottesco fenomeno è stata ieri la Corte dei Conti, che ha diffuso la relazione sulle gestione delle risorse dello Stato. In particolare su quelle già allocate in partite di spesa del bilancio pubblico. In altre parole, si tratta di risorse che tutti sanno dove devono andare e cosa devono finanziare. Lo sanno i ministeri, lo sanno i destinatari. Eppure, i miliardi rimangono per anni insabbiati nei libri contabili. La spesa monitorata dai magistrati contabili nel 2008, quella considerata a rischio, riguarda 19 miliardi in conto residui e 15 in conto competenza. Districarsi nei tecnicismi dell’analisi contabile della Corte non è facile, ma la sostanza è chiara come il sole. Di quei soldi, lo ricordiamo già stanziati da specifiche leggi dello Stato votate in Parlamento e pubblicate in Gazzetta ufficiale, ne sono stati effettivamente erogati soltanto 5 miliardi per i conti residui e 5 per quelli di competenza, con percentuali rispetto alla somma originaria del 28 e del 40%. In pratica, sono rimasti incagliati oltre 22 miliardi. Sono gli stessi miliardi di cui si parla tutti i giorni, in tv e nei convegni, in Parlamento e nei comizi di partito. Sono quei soldi che mancano per l’edilizia, per la sanità, per l’università, per le imprese. Nel dettaglio, c’è il fondo per la competitività e lo sviluppo: su quasi 4 miliardi stanziati ne sono stati erogati solo 271 milioni, il 7%. Oppure c’è il Fondo per le aeree sottoutilizzate, i famosi Fas di cui tanto si è parlato negli ultimi mesi. Ebbene, su circa 2 miliardi e 800 milioni volete sapere quanti ne ne sono usciti dal ministero dello Sviluppo economico? Zero. Poi ci sono le somme da erogare in metria di edilizia sanitaria pubblica, i fondi per la riqualificazione dei porti, quelli per le infrastrutture, fino al sostegno alla finanza d’impresa.Di fatto, scrive la Corte, «la massa spendibile viene sottratta, in tutto o in parte, alla naturale destinazione prevista dalle leggi e dai programmi di spesa che ne legittimano lo stanziamento».Il motivo? Ce ne sono a bizzeffe. Talvolta si tratta di «una insufficiente azione di governo», talvolta da «problemi relativi all’organizzazione amministrativa e contabile», in altri casi è colpa di «disfunzioni riconducibili anche ai soggetti destinatari dei finanziamenti». Alcune volte, infine, è colpa delle stesse leggi di bilancio, così complicate e contradditorie da renderne impossibile l’applicazione.Una cosa, però, è certa. La cosa fa comodo alle finanze pubbliche, che si ritrovano in cassa più soldi del dovuto. La Corte non esclude, infatti, che molte delle situazioni anomale nascondano «un consapevole utilizzo di questi ritardi ai fini del contenimento della spesa pubblica». Un modo, insomma, per far tornare sempre i conti.In realtà, si tratta di «consistenti patologie gestionali» e di «una legislazione ipertrofica» scarsamente «funzionale al raggiungimento degli scopi primari della stessa». Insomma, il giochino delle tre carte non conviene a nessuno, anche perché «il deficit di trasparenza contabile» e «la genericità e la eterogeneità delle denominazioni dei piani gestionali» non forniscono «informazioni finalizzate ad elevare il grado di razionalità economica nella gestione del settore pubblico e a comunicare ai vari interlocutori istituzionali ed economici i risultati dell’azione di governo». È per questo che la Corte auspica che si proceda in fretta «ai processi di modernizzazione della pubblica amministrazione, che sono in cima alle cure del nostro Legislatore». Lo speriamo tutti.

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