giovedì 29 ottobre 2009

Il PdL va in pressing per tagliare l’Irap. Giulio non ci sente

Quando Andrea Augello è stato avvistato a Via XX Settembre, il tam-tam è scattato immediatamente: è andato a trattare i tagli all’Irap con Giulio Tremonti. Del resto sono proprio a firma del senatore, insieme all’economista Mario Baldassarri, gli emendamenti sulla cosiddetta “contromanovra” dei finiani. Augello, in realtà, ha incontrato il ministro solo per discutere degli emendamenti alla finanziaria su Roma Capitale. Ma la trattativa sulle tasse, all’indomani della tregua tra Berlusconi e Tremonti, si è comunque aperta. L’ipotesi, come anticipato ieri da Libero, è ancora quella di rimodulare ed ammorbidire il pacchetto Augello-Baldassarri attraverso un emendamento del relatore o dello stesso governo.
La soluzione cui stanno lavorando in commissione Bilancio del Senato è quella di un taglio dell’Irap circoscritto solo alle piccole e medie imprese (sotto i 50 dipendenti) che comporterebbe per il bilancio un costo dai 2 ai 4 miliardi. La proposta non è ancora stata messa nero su bianco ma l’obiettivo è di raggiungere, spiega il relatore Maurizio Saia, «una sintesi con le proposte sullo stesso tema avanzate dalla Lega e dall’opposizione». Il fronte, insomma, si starebbe allargando. Anche per questo il governo, per bocca di Giuseppe Vegas, ha cercato di mettere le mani avanti. «È un’ipotesi interessante», dice il vice ministro all’Economia, «ma va valutata bene soprattutto per quanto riguarda le coperture». Sulla questione ogni proposta risolve in modo diverso: il pacchetto a firma del presidente della commissione Finanze del Senato, Baldassarri, punta tutto sui tagli alla spesa, la Lega invece attinge dai Fas mentre il Pd, chiede di aumentare la Robin tax. Difficile che già oggi possa arrivare qualche novità. Ma in mattinata, prima di iniziare le votazioni sugli emendamenti, ci sarà comunque un riunione della maggioranza in commissione Bilancio con il governo.
Non è detto che alla fine si arrivi a quella sintesi invocata da Zaia ed è chiaro che da Palazzo Madama non uscirà una manovra da 40 miliardi, ma di sicuro, spiega Augello, «alla fine il governo dovrà prendere una posizione conclusiva. Può decidere di rinviare la questione alla Camera, di chiedere versioni ancora più soft, ma di sicuro non può evitare che si affronti la questione». «Siamo in attesa di un segnale di disponibilità da parte di Palazzo Chigi», gli fa eco Baldassarri, «Non vogliamo tutto e subito. Ma discutiamo».
Di certo sull’Irap, per ora, c’è soltanto che l’Agenzia delle Entrate ha mandato in soffitta il contestato clik day. Dopo aver ascoltato le categorie e gli ordini professionali, il fisco ha stabilito nuovi criteri che daranno priorità ai rimborsi che partiranno dal 2004, per poi procedere con le scadenze più vicine.

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Aiuti e sgravi per parrucchieri e ortaggi. L’assalto alla diligenza non va in crisi

L’assalto, bisogna riconoscerlo, non è quello a cui eravamo abituati. I saldi bloccati e la finanziaria tabellare introdotta dalla manovra triennale legata al Dpef hanno in qualche modo scoraggiato gli interventi più assurdi e pittoreschi. Ma le abitudini sono dure a morire. Così, seppure ridotto, l’elenco degli emendamenti alla Finanziaria che prevedono piccole voci di spesa per il collegio o per la categoria di riferimento è ancora abbastanza robusto.
Tra i più stravaganti ci sono sicuramente quelli a favore di parrucchieri e finocchi (senza ovviamente alcun riferimento sessuale, che in questa stagione rischia di essere fatale).
Il primo è a firma Rosario Costa e prevede la «riduzione dell’aliquota IVA dal 20% al 10% applicabile alle prestazione di servizi di acconciatore o di carattere medico/sanitario/curativo per i capelli». Il secondo è stato presentato in commissione Bilancio da un gruppo di senatori del Sud (Esposito Bevilacqua, Gentili, Speziali, Caligiuli, Valentino) e prevede un doveroso stanziamento di «10 milioni di euro per il 2009 a favore delle imprese locali della Calabria produttrici di finocchi che hanno subito danni nel 2007 a causa dell’escursione termica invernale».
Ci sono poi gli emendamenti “sostenibili”. In particolare quello a doppia firma Alicata, Ferrara, che chiede la discreta sommetta di 90 milioni di euro per ciascun anno del triennio 2010-2012 per il Fondo per la mobilità sostenibile. Gli stessi due senatori si occupano anche di sviluppo sostenibile. Per questo Fondo la richiesta è però soltanto di «25 milioni di euro per ciascun anno del triennio 2010-2012». I due, evidentemente molto attenti all’ambiente, chiedono anche in un altro emendamento «20 milioni di euro per ciascun anno del triennio 2010-2012 per programmi annuali di difesa del mare nonché per l’attuazione dei Protocolli addizionali della Convenzione di Barcellona per la protezione del mare.
Quanto agli emendamenti “geograficamente corretti”, c’è ne sono un po’ a firma Valditara, Colli, che partono con la richiesta di «28 milioni di euro per il 2010 a favore del Comune di Milano per la realizzazione e la gestione del Centro internazionale della fotografia». Poi ci sono «10 milioni di euro per l’anno 2010 a favore del Comune di Milano per la valorizzazione/creazione di aree boschive urbane» e «55 milioni di euro per il 2010 a favore del Comune di Milano per la realizzazione e la gestione del collegamento stradale V.le Zara e Area Expo».
Più ad ampio raggio l’emendamento di Alessio Butti, che prevede «incentivi alle emittenti radiofoniche locali». Gli aiuti verrebbero aumentati nella misura di 70 milioni per il 2010, 90 milioni per il 2011 e 55 milioni di euro per il 2012».
C’è poi il senatore Stefano De Lillo, che vorrebbe dare al Coni altri 2 milioni di euro, oltre alle ingenti risorse già stanziate dalla Legge Finanziaria 2007, «a copertura delle spese sostenute per i conclusi Campionati mondiali di nuoto». Una sorta di rimborso, insomma.
Sempre De Lillo, in accoppiata con la Germontani, chiede una «proroga della Convenzione del Ministero dello Sviluppo Economico con il Centro di Produzione SpA». La copertura prevista sarebbe di 10 milioni di euro per ciascun anno del triennio 2010-2012.
Tutta dedicata al profondo Nord e all’alta quota l’attenzione del senatore Valter Zanetta. In prima istanza si chiede «l’aumento della sovvenzione annua di 600.000 euro a decorrere dal 2010 per la Società Subalpina di imprese ferroviarie Spa». In seconda istanza, senza mezzi termini, un «contributo di 2.800.000 euro per il 2010 per l’Ente italiano della Montagna». Poi, finalmente si arriva al sodo, con la proposta di agevolazioni sull’aliquota d’imposta «per le piccole distillerie di grappa (produzione annua tra i 50 litri e i 3 ettolitri di alcool)» allo scopo di incentivarne la produzione nei Comuni montani. Prosit.

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Finmeccanica vince a Bruxelles: «Sugli elicotteri nessun aiuto di Stato»

Si chiude, dopo sei anni di indagini e controindagini, il caso dei presunti aiuti di Stato agli elicotteri di Finmeccanica. Sotto accusa, per un possibile utlizzo anche nel settore civile, erano finiti gli AW139 e il convertiplano BA609, entrambi prodotti dalla controllata Agusta. La Commissione europea ha stabilito una volta per tutte che si tratta di programmi di ricerca prettamente militare che riguardano la sicurezza nazionale e che, in base all’articolo 296 del Trattato istitutivo della Ue, non rientrano nella normativa comunitaria in materia di concorrenza. La decisione non solo fa chiarezza sul punto, evidenziando che programmi di questo tipo sono portati avanti in Europa da numerosi paesi, ma riconosce anche l’assenza di parametri oggettivi che consentano di individuare la percentuale di ricerca in ambito militare suscettibile di trasferimento al settore civile. Di qui la proposta di studiare una soluzione applicabile a tutti i paesi della Ue che permetta di conciliare l’esigenza dei governi di erogare contributi per progetti di sicurezza nazionale con gli obblighi relativi al rispetto della concorrenza.

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Mediobanca come Elkann: «Innaturale restare in Rcs»

Prima John Elkann, ora Renato Pagliaro. Il terreno sotto Rcs inizia ad essere bollente. Così come la poltrona di Ferruccio De Bortoli, che ultimamente dalle pagine del suo Corriere non ha risparmiato critiche e appunti ai soci forti del quotidiano. Ad aprire le danze era stato il vicepresidente Fiat. «Cosa ci restiamo a fare noi qui dentro?», aveva detto durante una infuocata riunione del cda del Lingotto dello scorso 14 ottobre. Ieri è stata la volta del potente direttore generale di Piazzetta Cuccia, che in occasione dell’assemblea ha addirittura definito «innaturale» la presenza di Mediobanca come primo azionista di Rcs Media Group.
All’orizzonte non ci sono colpi di mano. Un «eventuale ipotetico ridimensionamento della quota», ha spiegato Pagliaro, dovrebbe avvenire «alle condizioni di mercato migliori possibili e quindi non nel novembre del 2009». Ma il segnale è forte e chiaro. Ed indica che si sono aperte le grandi manovre per un riequilibrio dei poteri nel principale gruppo editoriale italiano. Del resto, l’asse che fa perno sulla Mediobanca di Cesare Geronzi (principale azionista Rcs con 13,7% delle quote) è il principale garante degli assetti interni di Rcs, del rapporto tra i soci e di quello tra il giornale e il mondo esterno. L’altra gamba è chiaramente quella rappresentata dalla Fiat (secondo azionista con il 10,3%). Resta da vedere cosa farà il terzo pilastro, rappresentato da Giovanni Bazoli, il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo che tra la banca (4,9%) e la finanziaria Mittel (1,2) gestisce il il 6,2% delle azioni Rcs. Per quanto riguarda Mediobanca, l’istituto ha riportato un utile netto per 200,6 milioni nel primo trimestre 2009-10, in calo del 35,3% rispetto ai 309,9 milioni del 30 settembre 2008, ma in forte rialzo dopo il risultato negativo dei tre precedenti trimestri. profitti che consentiranno di «ragionare» sull’entità del dividendo da distribuire ai soci. E mentre le partecipazioni riprendono quota in Borsa, il presidente Cesare Geronzi è tornato a smentire seccamente le voci secondo cui mirerebbe ad assumere, la prossima primavera, la presidenza delle Generali: «Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, non ho nessun interesse alla presidenza delle Generali, punto e basta». È chiaro, comunque, che la partita per il rinnovo del vertice del Leone resta aperta.

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mercoledì 28 ottobre 2009

Prove di modifica alla Finanziaria per ridurre il fisco a famiglie e imprese

Si parte. Si va dai 10 milioni per le imprese locali produttrici di finocchi, alla riduzione dell’Iva al 10% per gli acconciatori, fino ai 28 milioni per il Centro internazionale della fotografia di Milano e ai 2,8 milioni per l’Ente italiano della Montagna. Ma c’è anche chi vorrebbe dare altri 2 milioni al Coni per i mondiali di nuoto già realizzati.
Crisi o no, la Finanziaria è sempre la Finanziaria. E un tentativo di sfilare qualche milione dal gruzzolo non si nega a nessuno. Tra i numerosi emendamenti su cui è partita ieri la discussione in commissione Bilancio del Senato, però, ci sono anche quelli più tosti. A partire da quelli di cui si è parlato nei giorni scorsi firmati principalmente dai finiani Augello e Baldassarri. Ma ci sono anche quelli di Costa, che propone una proroga della deducibilità degli interessi passivi per le imprese e della Tremonti ter sulla detassazione degli investimenti, o quello di Fleres, che chiede l’allungamento dello scudo fiscale. Fino alla Bonfrisco, che propone la proroga della deduzione per l’ammortamento di immobili necessari all’esercizio delle professioni.
I margini di intervento, ha detto il viceministro all’Economia, Giuseppe Vegas, sono «stretti come il canale di Corinto». In italiano corrente significa che se modifiche alla manovra ci saranno non dovrebbero arrivare da Palazzo Madama, ma dalla Camera. L’ordine di scuderia, in effetti, è circolato. Ma l’aria in questi giorni cambia velocemente.
E le notizie che arrivano da Arcore su Tremonti incoraggiano l’entusiasmo. Tra i banchi del centrodestra assicurano comunque che tutto sarà fatto in sintonia col governo. «Non c’è assolutamente l’atmosfera del blitz», dice un esponente della commissione, che spiega anche quale potrebbe essere la via d’uscita per non lasciare il Senato a bocca asciutta. Il problema è quello di non ingigantire la vittoria dei finiani. Con tutta probabilità il relatore o lo stesso governo presenteranno emendamenti sostitutivi di quelli Baldassari-Augello, che però ricalcheranno, ammorbidite, le stesse proposte: riduzione del fisco per famiglie e imprese e tagli alla spesa. Non è chiaro fino a che punto ci si potrà spingere. In commissione c’è però chi non esclude che «alla fine si arrivi anche ad un primo intervento sull’Irap».
Di sicuro, ragiona un altro senatore, «se il percorso di modifica non inizia qui poi sarà più difficile farlo partire alla Camera». La commissione ha intanto chiuso l’esame del ddl bilancio. Dal cilindro sono usciti pure 4 milioni per le scuole non statali. In tutto, fa notare il relatore al provvedimento, Cosimo Latronico, con il ddl si sono «fatti tagli per 7,3 miliardi» che sono il risultato della «riduzione del saldo netto da finanziare che passa da 69,7 a 62,4 miliardi».

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Per rafforzare lo scudo il Fisco fa irruzione nelle banche svizzere

Con lo scudo non si scherza. La Svizzera non ha fatto in tempo a dichiarare la sua piena disponibilità a collaborare con le autorità italiane che si è vista piombare addosso un vero e proprio esercito di finanzieri e ispettori. Di ieri mattina, sul Sole24Ore, le parole del ministro delle Finanze e presidente della Confederazione elvetica Hans-Rudolf Merz. «Siamo pronti a collaborare con tutti i Paesi che lo desiderano. Spero che l’Italia e il ministro Giulio Tremonti, lo desiderino quanto noi». Delle stesse ore, in mezza Penisola, il maxi blitz in 76 filiali di banche svizzere e uffici bancari collegati a intermediari svizzeri o situati nei pressi di San Marino.
A passare al setaccio la finanza elvetica sono stati più di 150 ispettori sotto la direzione congiunta dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza. Obiettivo: verificare il rispetto degli obblighi di comunicazione dei dati dei propri clienti all’Archivio dei rapporti finanziari, cioè alla banca-dati utilizzata dal fisco per verificare con un click l’esistenza di conti correnti dei contribuenti sottoposti a verifica. Il database ad oggi censisce oltre 950 milioni di rapporti ed oltre 90 milioni di soggetti. A controllo finito, gli 007 fiscali sono tornati in ufficio con un cd contenente i dati dei clienti delle banche. «Piena collaborazione», ha assicurato l’Associazione Italiana banche estere. Più duro il commento dell’Associazione svizzera dei banchieri. «Le autorità italiane possono ovviamente procedere come intendono sul loro territorio ma è strano che procedano a questa azione così spettacolare», ha detto il portavoce, James Nason. La spiegazione, forse vicina al vero, arriva da San Marino. «L’operazione», ha detto il ministro delle Finanze Gabriele Gatti, «sembra una conseguenza del grande battage che si sta sviluppando, in Italia, sullo scudo fiscale». In effetti, da qualche mese a questa parte non passa giorno senza che Fiamme Gialle e amministrazione fiscale non annuncino grandi risultati nella lotta all’evasione o non divulghino i risultati di maxi-operazioni di accertamento fiscale. Anche ieri, dopo aver assaltato le filiali svizzere e sanmarinesi, l’Agenzia delle Entrate ha assicurato che «ulteriori campagne di controlli verranno sviluppate nei confronti di altre categorie di operatori finanziari».
Quanto alla stretta sugli intermediari, secondo il numero uno dell’accertamento dell’Agenzia delle Entrate, Luigi Magistro, rappresenta «la conferma che sul fronte dell’evasione internazionale c’è la più decisa intenzione di agire con tutte le forme di controllo che possiamo utilizzare». Se la minaccia non fosse abbastanza chiara, ci sono poi i numeri snocciolati dai finanzieri. «Da quando è stato introdotto lo strumento delle indagini finanziarie telematiche, e cioè da settembre 2006 ad oggi», ha spiegato il generale della Gdf, Giuseppe Vicanolo, «abbiamo eseguito circa 10.000 verifiche con indagini finanziarie, pari all’80% in più rispetto al triennio precedente». Ora i tecnici effettueranno il confronto tra i nomi dei clienti delle diverse filiali e quelli effettivamente comunicati al fisco. La multa, se dovessero risultare irregolarità, partire dai 2.065 euro per arrivare fino a 20.658 euro.

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Il ciclone Marchionne abbatte i miti classici di Detroit. Va in pensione la potente Dodge Viper e arriva la 500

La fine di un’era. La Chrysler manderà in pensione i miti a quattro ruote che hanno fatto sognare l’America. È l’effetto Marchionne, che il 4 novembre annuncerà la scomparsa della storica Dodge Viper, l’auto sportiva a stelle e strisce per eccellenza, e delle principali mega Jeep che accompagnano da decenni il marchio di Detroit. In cambio, per gli americani sono pronte delle 500 fiammanti e l’Alfa Mito oppure, per chi vorrà ancora viaggiare su qualcosa di familiare, la nuova ammiraglia Lancia, che sarà realizzata sulla base della Chrysler 300c. Nel dettaglio, nel 2010 uscirà di scena il Jeep Commander, mentre nel 2011 si dovrà dire addio ai Dodge Viper e Dakota e alla Chrysler Sebring. L’anno seguente, quando l’alleanza con Fiat decollerà con lo sbarco dell’Alfa Romeo negli Usa, Chrysler manderà in pensione i Jeep Compass e Patriot e i Dodge Caliber e Avenger, ma anche il Chrysler PT Cruiser. Nell’arco dei prossimi anni, inoltre, Chrysler prevede di far uscire dal mercato anche il Grand Caravan, lasciando così solo il Chrylser Town and Country come l’unico minivan della società. I modelli del rilancio, come si diceva, saranno tutti targati Italia. Nel 2011 è previsto l’esordio sul territorio americano della Fiat 500 prodotta in Messico. Nel 2012, dopo anni di assenza, sarà reintrodotta sul mercato statunitense l’Alfa Romeo: il primo modello ad a essere lanciato sarà la MiTo, seguita all’inizio del 2013 da una berlina midsize e dall’Alfa Milano. Secondo il New York Times, l’Alfa Romeo produrrà negli Usa anche un suv basato sulla piattaforma del Jeep Grand Cherokee. Per celebrare il funerale delle auto statunitensa il mamanger italiano si prenderà tutto il tempo necessario. Il tempo stimato dalla presentazione del nuovo piano industriale della casa automobilistica statunitense è stimato in sei ore.

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«Troppi tagli alla scuola». Cattolici contro il ministro

Ci mancavano solo i cattolici. E dire che Tremonti negli ultimi mesi ce l’aveva messa tutta nel denunciare, in sintonia col Vaticano, che i guai del mondo sono frutto di dell’avidità (dei banchieri) e della mancanza di etica. Che i valori della solidarietà e della giustizia, in sintonia con la dottrina sociale cattolica, devono ispirare l’economia. Dalla teoria alla pratica, però, le cose cambiano. E al di là delle belle parole, quella stessa Compagnia delle Opere che al Meeting di Rimini lo aveva osannato e applaudito si è accorta adesso che nella manovra economica è spuntata una bella sforbiciata ai fondi delle scuole private. «Apprendiamo con grande sconcerto che, ancora una volta, nella legge finanziaria e nella legge di bilancio dello stato per il 2010 attualmente in discussione al senato, alla voce “istruzione non statale” risulta un pesante taglio per le scuole paritarie». Firmato CdO Opere educative, Fidae (Federazione che associa la quasi totalità delle scuole cattoliche italiane) e Agesc (Associazione Genitori Scuole Cattoliche).
L’accusa è, ovviamente, argomentata. Non con considerazioni, ma con una serie di ordini del giorno approvati nel corso dell’anno (spesso con voti bipartisan) che impegnavano il governo a prevedere “una effettiva libertà di scelta della scuola da parte delle famiglie”; a reintegrare il fondo per le scuole non statali e “garantire almeno lo stesso livello di finanziamento per i successivi anni”; a “garantire la certezza dei finanziamenti e dei tempi di erogazione delle risorse per le scuole paritarie”, nonché a “realizzare tali condizioni incrementando significativamente, fin dal disegno di legge finanziaria per il 2010, le risorse destinate al sistema paritario, elevandole almeno a 600 milioni di euro, con un aumento del 10 per cento rispetto al 2008”.
Ora, con molta probabilità, toccherà alla Gelmini togliere le castagne dal fuoco al collega dell’Economia. Solo qualche settimana fa il ministro dell’Istruzione si era impegnata a garantire il diritto di scelta anche attraverso un un bonus per chi vuole frequentare le scuole paritarie. Difficile che ora non si mobiliti per evitare i tagli ai finanziamenti.

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Telecom fuma il bond della pace. E Telefonica accelera sul Brasile

Le aspettative del D-Day, da qualche settimana, si sono un po’ sgonfiate. Con tutta probabilità domani nessuno dei soci di Telco farà il fatidico passo indietro. Questo non significa che l’atmosfera ai piani di alti di Telecom sia serena e distesa. In primo piano resta, ovviamente, l’affaire Telefonica. Ma in agenda ci sono anche le strategie future, le contromosse rispetto alle offensive della concorrenza nonché la verifica del management. Non ultimo il bilancio, di cui ieri Mediobanca ha certificato ancora una volta le difficoltà: con i suoi 39,7 di buco il colosso delle tlc è al secondo posto (dopo l’Enel) delle società più indebitate d’Italia.
Ad aumentare un po’ la tensione ci ha pensato anche la Consob, che ieri ha avviato una serie di accertamenti sull’andamento anomalo registrato dal titolo in avvio di seduta in Borsa. La Commissione ha individuato consistenti ordini di vendita da parte di alcuni operatori. Da quanto è finora emerso si sarebbero verificate stop loss (ordini di vendita a un determinato prezzo predefinito) che avrebbero mandato Telecom in asta di volatilità a causa di una momentanea illiquidità del titolo. Sulla vicenda sono scesi in campo anche i piccoli azionisti riuniti nell’associazione Asati, che ha chiesto all’authority guidata da Lamberto Cardia di verificare «se sono in corso operazioni speculative non trasparenti». Il titolo è comunque andato a picco, con una chiusura in calo del 3,19% a 1,12 euro.
Ma sotto i riflettori resta comunque l’assetto societario. Allo studio Chiomenti i legali sono ancora al lavoro sugli ultimi dettagli, ma la versione definitiva del patto che lega Mediobanca, Generali, Intesa, i Benetton e Telefonica in Telco (la holding che controlla il 24,5% di Telecom) dovrebbe ormai essere pronta. Il nuovo accordo ricalca quello in scadenza ad aprile 2010 con una durata triennale, ma con una possibilità di recesso in una finestra che dovrebbe aprirsi dopo 18 mesi. Ma nel governo e nella comunità finanziaria si continua a discutere del socio scomodo. Malgrado il pressing di Palazzo Chigi e di Marco Fossati (che controlla il 5% di Telecom ma è fuori da Telco) Cesar Alierta non sembra intenzionato a mollare. Anche nell’ultimo incontro con gli investitori l’ad di Telefonica ha ribadito che il gruppo è «completamente impegnato» nell’alleanza con Telecom. Ad aumentare i malumori c’è anche l’attivismo in Brasile, dove Telefonica sta spingendo sull’acceleratore per conquistare Gvt, il quarto operatore nazionale di tlc. Per l’offerta da 2,55 miliardi Alierta ha sguinzagliato, come advisor, JPMorgan e Banco Santander, incurante del rischio di riaprireun contenzioso con l’Antitrust locale, che ha già costretto Telecom a cedere la propria quota in Brasil Telecom. Sul fronte del debito, c’è infine la questione legata al rifinanziamento di Telco, gravata da 3,5 miliardi di buco. È molto probabile che venga emesso un bond (si parla di 2,6 miliardi) visto che non tutti gli azionisti (in particolare i Benetton) sono disponibili a partecipare a un aumento di capitale.
Nell’attesa, Telecom, nell’ambito del protocollo di intesa col ministero dell'Istruzione ha lanciato “lo studio con Tim”, la prima iniziativa di questo genere in Italia volta alla diffusione dell’Ict nelle scuole e tra gli studenti.

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Baldassarri incalza Tremonti: «Se non abbassi le tasse sei come Visco»

Tremonti resta, il problema pure. «Se non riduciamo subito la pressione fiscale e non abbattiamo la spesa, quale sarebbe la differenza tra noi e il governo Visco-Prodi?», si chiede Mario Baldassarri, presidente della commissione Finanze del Senato, economista vicino a Gianfranco Fini e primo firmatario della “contromanovra” taglia-tasse contenuta in un emendamento alla Finanziaria. Ma la blindatura leghista del ministro dell’Economia e la rinnovata fiducia del premier non scoraggiano il professore, anzi. «Si è aperto il dibattito», spiega, «e credo che si sia aperta anche la strada ad una valutazione seria delle proposte che abbiamo presentato in Senato».
Dunque pensa che Tremonti esca indebolito dalla vicenda?
«Penso che la posizione interlocutoria uscita dal vertice di ieri abbia spostato il baricentro dalle persone al metodo. Il problema non riguarda più Tremonti, ma il governo, che deve decidere se vuole realizzare pezzi di programma che sono nel codice genetico del Pdl e permetterebbero al Paese di sopravvivere al dopo crisi».
Finora, però, la decisione è stata quella di contenere il deficit...
«Sulla linea del rigore siamo tutti d’accordo, ma il controllo dei conti pubblici e il rispetto dell’equilibrio finanziario non implicano che non si debba fare nulla. Ed ora è il momento di agire, altrimenti non usciremo più dal pozzo della recessione. Non solo, se nei prossimi mesi risaliranno i tassi di interesse e l’euro non si fermerà, andremo ancora più a fondo».
Il ministro dell’Economia sostiene di aver previsto la crisi e di sapere come uscirne...
«Se è per questo anche io in un libro scritto cinque anni fa avevo previsto la crisi. Ma non è questo il punto. Quando ci si prende una malattia, prevista o meno, non si aspetta che passi, ma ci si cura per farla passare».
La cura potrebbe arrivare, secondo lei, dalla proposta sull’Irap illustrata ieri da Calderoli ai “piccoli” di Confindustria?
«Il ministro parla di una deduzione del costo del lavoro e degli interessi passivi che costerebbe 19 miliardi di gettito, la mia proposta, che riguarda solo il monte-salari, si fermerebbe a 12».
Si tratta sempre di una bella cifra. Si potranno utilizzare i proventi dello scudo fiscale?
«Da un po’ di tempo sullo scudo fiscale si aggirano in tanti, come avvoltoi pronti ad accaparrarsi pezzi di carcasse, ma non ci sarà molto da spartirsi. Le entrate aggiuntive provenienti dal rientro dei capitali all’estero non supereranno i 3-5 miliardi, lo 0,3% del Pil, e rappresentano un’una tantum che non potrà essere utilizzata per coprire una manovra fiscale. Quei soldi dovranno essere destinati agli investimenti nelle infrastrutture».
E allora?
«Si deve intervenire sugli sprechi, la malagestione e le illegalità che caratterizzano l’utilizzo delle risorse pubbliche. Riportando la dotazione della Pa per i consumi intermedi ai livelli del 2002 si risparmierebbero 20 miliardi. Tagliando i trasferimenti alle imprese, tranne le Fs, altri 17. In tutto sarebbero oltre due punti di Pil da destinare alla riduzione delle tasse per famiglie e imprese. In questo modo si tornerebbe ai livelli di occupazione e di Pil pre crisi con 2 anni di anticipo rispetto ai 7 previsti».
Non si può intervenire anche sulle pensioni?
«La questione è fuori dalle proposte presentate in Senato perché non è argomento da Finanziaria. Ma si dovrà procedere sicuramente ad un innalzamento dell’età pensionabile per reperire le risorse necessarie all’allargamento degli ammortizzatori sociali e alla tenuta complessiva del sistema».

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sabato 24 ottobre 2009

Della Vedova: «Berlusconi dica con chi sta su fisco, lavoro e pensioni»

«L’Irap è una tassa che dà il peggio di sé nelle fasi di recessione, per cui ben venga lavorare ad una riduzione». Non vuole fare letture dietrologiche Benedetto Della Vedova, ex radicale, riformatore liberale del Pdl, considerato molto vicino al presidente della Camera, Gianfranco Fini. La coincidenza dell’annuncio di Berlusconi con le turbolenze legate a Tremonti non sfugge, ma «la cosa importante», spiega, «è che la proposta non resti lettera morta». «Anzi», prosegue, «mi auguro che sia il segnale del fatto che la riduzione delle tasse torni ad essere la priorità del governo».
Secondo il documento “apocrifo” circolato in questi giorni dovrebbe esserlo.
«I documenti non ufficiali contano poco. Qui si tratta di capire se le posizioni del governo sono quelle espresse recentemente da Tremonti, che peraltro apprezzo per aver saputo mantenere la barra dritta sui conti pubblici, o sono i principi liberali e liberisti, più credibili, su cui si basava il programma del centrodestra».
Tremonti non sembra amare molto il liberismo....
Se il problema è quello delle definizioni, per il futuro possiamo disarmare lo scontro ideologico e io posso evitare di parlare di liberismo o di mercatismo. Ma nell’agenda di governo dobbiamo inserire la riforma delle pensioni, una riduzione complessiva della pressione fiscale, la riforma degli ammortizzatori sociali e anche un piano di privatizzazioni per abbattere il debito pubblico, che tra l’altro era un vecchio pallino del ministro dell’Economia».
E tutto questo è compatibile con l’elogio del posto fisso fatto da Tremonti e poi condiviso dal Cavaliere?
«Comprendo la necessità di Berlusconi di gestire le tensioni, ma la prospettiva deve tornare ad essere quella delle partite Iva, del rischio d’impresa, della dinamicità e dell’innovazione, non la retorica del posto fisso che appartiene ad un conservatorismo sociale che contrasta con la realtà del Paese».
Ai precari, però, cosa gli raccontiamo?
«Le distorsioni e le iniquità nel mondo del lavoro non sono causate dalla flessibilità, ma dalla rigidità dei contratti, dall’articolo 18 che scarica i costi sui più giovani. Piuttosto che invocare il posto fisso bisognerebbe tagliare la spesa pubblica e utilizzare le risorse per garantire sostegno al reddito anche alla categorie ora tenute fuori dagli ammortizzatori sociali».

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Scajola difende il documento anti-Tremonti: «Il ministro è spigoloso, noi poniamo temi veri»

«La vera bufala del documento anti-Tremonti consiste nel fatto che qualcuno abbia proposto a me o ad altri colleghi un documento il cui scopo sarebbe quello di attaccare il ministro dell’Economia». Ma sui contenuti Claudio Scajola non si nasconde. «Mi pare», spiega a Libero il ministro dello Sviluppo Economico, «che sia un collage di idee e proposte che circolano nel Pdl e nei gruppi parlamentari. Idee spesso condivisibili, di cui si discute anche con Tremonti alla luce del sole».
Ma allora ha ragione Gasparri quando dice che non c’è alcun complotto, ma solo insofferenza sulla gestione della politica economica?
«Che ci sia una dialettica vivace tra il ministro che deve tutelare i conti pubblici, e a volte lo fa forse con atteggiamenti un po’ spigolosi, e i ministri della spesa o i parlamentari non mi pare una grande novità. Quanto alla Finanziaria, la collegialità delle decisioni è un’esigenza che tutti avvertono, e che si attua in Consiglio dei ministri. Infatti in quella sede abbiamo definito, in pieno accordo con Tremonti, che quando conosceremo i proventi fiscali dello scudo e l’andamento dell’economia interverremo con nuove misure condivise anche con il Parlamento».
È vero quello che sostiene Fini che il blocco da parte del ministro dell’Economia su qualsiasi legge che preveda una copertura con le risorse pubbliche ha congelato l’attività legislativa?
«In tempi difficili come gli attuali la disponibilità di fondi pubblici per assicurare la copertura delle leggi di spesa è più ridotta e dunque ci sono maggiori difficoltà. Il problema posto dal Presidente della Camera esiste: bisognerebbe che tutti facessimo uno sforzo per immaginare riforme a costo zero e riforme che abbiano un immediato ritorno in termini di crescita economica e dunque di gettito fiscale aggiuntivo, come per esempio un forte impulso alla ricerca, all’innovazione attraverso strumenti come il credito d’imposta».
Ieri Berlusconi ha annunciato la progressiva riduzione dell’Irap. Si tratta di una svolta o di un ritorno al programma del PdL?
«Berlusconi ha raccolto il consenso della maggioranza degli italiani per cambiare l’Italia. E cambiare l’Italia significa fare le riforme istituzionali e della giustizia e ridurre le tasse e la spesa pubblica. La crisi ci ha messo di fronte all’emergenza di salvare i posti di lavoro e le imprese, ma ora che la crisi sembra in via di superamento bisogna avviare le riforme strutturali, a partire da quella fiscale. Nel messaggio all’Assemblea degli artigiani Berlusconi ha dichiarato che il governo ha allo studio interventi per ridurre la pressione fiscale, a partire dal taglio graduale dell’Irap, aumentare i consumi e agevolare gli investimenti. Ma bisognerà cominciare a pensare concretamente anche al “quoziente familiare” per ridurre la pressione fiscale sulle famiglie numerose».
Non pensa che finora il governo abbia un po’ trascurato le piccole imprese e le partite Iva?
«Il disagio delle piccole imprese è reale. Ma penso di avere la coscienza a posto. I maggiori interventi del governo sono andati proprio a loro: penso al Fondo di garanzia per il credito che abbiamo esteso all’artigianato e che in nove mesi ha dato risposta ad oltre 15mila imprese, il 70% in più rispetto al 2008; penso all’Iva per cassa; penso alla revisione degli studi di settore. E in un prossimo Consiglio dei ministri vareremo la Direttiva sulle Pmi che recepisce lo Small Business Act europeo e contiene misure molto importanti come incentivi alle aggregazioni di aziende per innovare o andare insieme all’estero e snellimenti burocratici».
Crede che le risorse che arriveranno dallo scudo fiscale saranno sufficienti a finanziare gli interventi per far ripartire il Paese?
«I proventi dello Scudo non sono le uniche risorse su cui contiamo. Ci sono anche i fondi della Cdp e della Sace, che sono stati mobilitati per garantire la liquidità delle imprese. Ci sono i 90 miliardi di fondi europei e nazionali per gli interventi nel Mezzogiorno che dovremo spendere entro il 2013».
Non pensa che sia arrivato il momento, come chiedono da tempo l’Europa e il governatore di Bankitalia, di mettere mano alla riforma delle pensioni?
«Sulle pensioni siamo già intervenuti con due provvedimenti significativi: l’equiparazione dell’età pensionistica tra uomini e donne nel pubblico impiego e l’adeguamento delle pensioni all’aumento dell’età media della popolazione dal 2015. Si potrebbero accelerare alcune misure o introdurne altre, ma il nostro sistema pensionistico è in equilibrio nel lungo periodo».

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In busta paga salgono solo le trattenute

Meglio il posto fisso o quello flessibile? Una cosa è certa: entrambi pagano le tasse e vanno a fare la spesa. Ed entrambi a fine mese si ritrovano in tasca sempre meno soldi. Si tratti di assunti, di precari o di pensionati, la musica cambia poco. Stando ai dati raccolti sul campo (attraverso i centri di assistenza fiscale) dall’ufficio studi della Cisl, tra gli effetti della riforma Visco, l’inflazione e il fiscal drug il reddito reale degli italiani si è pericolosamente assottigliato, ancor prima che la crisi finanziaria iniziasse a far sentire i suoi colpi più violenti. La frenata è infatti partita nel 2008, quando lo stipendio medio si è attestato sui 21.600 euro, con un incremento del 3,1% rispetto al 2007. Sulla carta. Nella vita reale, quella che tiene conto dei prezzi, il reddito medio è invece rimasto sostanzialmente invariato (+0,6%) per i lavoratori dipendenti, mentre è risultato negativo dell’1,1% per i pensionati. Il risultato è che il 48,6% degli italiani con un posto, fisso o precario, si è ritrovato con meno quattrini in tasca e lo stesso è accaduto al 94,9% di coloro che percepiscono un trattamento previdenziale.
Sulla busta paga “leggera” si è poi abbattuto il nuovo sistema fiscale voluto dal governo Prodi, che ha provocato un aumento dell’imposta media del 5,4% rispetto all’incremento del 2,2% che si era registrato tra il 2006 e il 2007. In soldoni nel 2008 gli italiani hanno dovuto pagare all’erario una media di 191 euro in più. Non tutti, ovviamente, allo stesso modo. Perché il fisco sembra ingiusto in identica misura nei confronti di chiunque, ma quello elaborato dal ministro Visco lo è particolarmente nei confronti delle classi medie, sulle cui spalle è stata caricata la fetta maggiore del prelievo. E si arriva così al fiscal drug, ovvero al meccanismo per cui l’inflazione aumenta i redditi nominali e diminuisce quelli reali, ma le tasse si continuano a pagare sui primi e non sui secondi. Il risultato è che il drenaggio fiscale complessivo (di dipendenti e pensionati) nel 2008 è praticamente raddoppiato rispetto a quello del 2007, passando da una media di 63 euro a 119 euro.
E a poco, sostengono gli esperti della Cisl, sono serviti i tentativi di rafforzare i vantaggi fiscali per le famiglie aumentando le detrazioni per familiari a carico. La causa, si legge nello studio, «in parte è da ricercare nella stessa riforma Visco, che ha determinato un aumento della base imponibile delle addizionali regionali e comunali, in parte è una conseguenza delle scelte delle amministrazioni locali, che hanno spesso utilizzato i nuovi margini di autonomia aumentando aliquote e scaglioni». La sostanza è che i timidi effetti benefici della riforma sono stati ampiamente compensati da un inasprimento della tassazione al livello locale.

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Le big di Piazza Affari lasciano indietro i Btp

Una brutta notizia per i bot-people. Per quanto volubile e imprevedibile, Piazza Affari resta il posto più sicuro dove mettere i nostri soldi. Una follia? Guardando le serie storiche diffuse ieri da Mediobanca non si direbbe. Negli ultimi 25 anni e mezzo le blue chips quotate hanno superato di 8,9 punti i titoli di Stato in termini di rendimento complessivo, dividendi inclusi. Come emerge dalla pubblicazione di Piazzetta Cuccia “Indici e Dati”, le maggiori azioni hanno reso il 17,1% annuo contro l’8,2% dei Btp. Follia nella follia, tra i titoli più sicuri ci sono proprio quelli del settore più colpito dalla crisi. I rendimenti medi annui più elevati sono infatti di Intesa (+12,2%), Alleanza Assicurazioni (+10,5%), Mediobanca (9,8%) e Unicredit (9,7%).
Ma meglio dei titoli di Stato riescono a fare anche le mid-cap, cioè le aziende a media capitalizzazione. Dal gennaio 1996 al 14 ottobre 2009 il rendimento complessivo del comparto è del 10,2% medio annuo, mentre la Borsa nel suo complesso ha reso l’8,4%. In ogni caso, meglio essere cauti. Investendo 100 euro nella Borsa ad inizio del 1928, tenuto conto di dividendi ed inflazione, oggi si avrebbero quasi trecento euro (pari all’1,8% medio annuo), ma ci si sarebbe potuti trovare in perdita fino alla fine del 1992 (89 euro, pari al -0,2% medio annuo), 65 anni dopo.
Addio bancocentrismo
Detto questo, gli effetti della crisi si sono fatti sentire. Il terremoto finanziario ha riportato la capitalizzazione della Borsa indietro di 11 anni. Cala non solo il valore complessivo (a giugno 390 miliardi, poi risaliti a metà ottobre a 480 miliardi, come nel 1998), ma ha il peso del settore bancario per capitalizzazione (il 25,4% da oltre il 30%) e all’8,8% l’assicurativo (metà rispetto al 1998). Nel contempo la componente industriale, che era del 55,9% nel 2005, è salita al 65,8%. Il monte dividendi si è dimezzato a 16,6 miliardi nel 2009 dai 31,4 miliardi del 2008. Mentre nei primi sei mesi del 2009 sono stati realizzati aumenti di capitale per 15,2 miliardi, la cifra più alta da 10 anni a questa parte. Nel confronto mondiale Piazza Affari, resta al 18esimo posto tra i 24 principali mercati. Al primo posto svetta Nyse Euronext nella sua componente Usa, con 6.978,6 miliardi (erano 11.385 nel 1999). Seguono Tokyo e il Nasdaq. Shanghai balza al quarto posto, scalzando Nyse Euronext Europa, Londra e Hong Kong. La palma per crescita della capitalizzazione va alla Borsa russa (+1.016% dal 1999).
Il calcio batte la crisi
Nei quasi due anni di bufera dal gennaio 2008 a metà ottobre 2009 (in cui Piazza Affari ha perso il 38%) solo 20 titoli sono sopravvissuti. La performance migliore è di Bastogi (+123%), seguita da Diasorin (+81%), Gemina rnc (+76%) e Ansaldo Sts (+58%). Fondo classifica per Seat (-89%) e Risanamento (-87%). Ma la vera sorpresa sono le società del calcio. Per la Roma il bilancio è un brillante +33%, davanti alla rivale Lazio (+31%), mentre la Juventus si ferma a +1%.

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sabato 17 ottobre 2009

La Fiom ora abbia il coraggio di rifiutare l'aumento

La Fiom minaccia fuoco e fiamme nelle fabbriche. E si batte il petto gridando all’ingiustizia. Ma la realtà è che i duri della Cgil questa volta l’hanno fatta grossa. Restare fuori dal più veloce rinnovo contrattuale della storia dei metalmeccanici, il primo ad applicare integralmente le nuove regole sancite dalla riforma siglata l’anno scorso, l’unico in cui le richieste del sindacato sono state accettate senza scambi sottobanco e senza scioperi selvaggi, appartiene ad una strategia che difficilmente sarà compresa dai lavoratori.
«La verità», spiega a Libero Giovanni Contento, «è che la Fiom puntava sulla famosa scossa, sulla caduta del governo». A quel punto, chiaramente, avrebbero sbandierato il loro rifiuto come una grande vittoria politica. «Ma è proprio questo il problema», continua il segretario nazionale della Uilm, «l’ossessione della lotta politica. Era chiaro che la nuova piattaforma con cui si sono presentati al tavolo della trattativa con Federmeccanica era un manifesto contro il governo, non una proposta di contratto». La Fiom, però, sostiene che quel documento era stato sottoposto al voto della base, così come ora vorrebbero che l’accordo fosse giudicato attraverso un referendum. Quel foglio con cui si sono presentati al primo incontro, svela Contento, «non solo era diverso da quello votato nelle fabbriche, ma neanche i delegati ne erano a conoscenza. E poi, se amano così tanto la democrazia, perché non fanno un referendum sugli scioperi, che proclamano con leggerezza senza pensare alle buste paga dei lavoratori?». Il rischio è che la risposta non piaccia. Così come non piacerebbe la reazione delle tute blu alla proposta della Uilm. «Se sono davvero convinti che il nuovo contratto sia dannoso dovrebbero chiedere alla base di rinunciare alla sua applicazione», dice Contento, che invece ritiene la firma un vero e proprio successo del sindacato. «Una svolta che apre la strada ad un modello nuovo fatto di regole e di risultati concreti, come l’aumento medio di 112 euro e l’avvio del primo fondo di solidarietà, sull’esempio dei Paesi scandinavi. È questa la direzione su cui intendiamo andare avanti». Anche da soli, ma «la speranza è che la Fiom non confonda la diversità con l’isolamento, che sarebbe inutile e dannoso per i lavoratori. Noi, da parte nostra, continueremo sempre a cercare il consenso unitario». Se la risposta sarà negativa? «Vuol dire che l’ideologia avrà prevalso sulla ragione».

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venerdì 16 ottobre 2009

La Bce critica gli incentivi all’auto: «Più danni che vantaggi»

Effetti distorsivi sul mercato, meccanismo boomerang, impatto negativo sul complesso dei consumi. Ce n’è voluto di tempo, ma alla fine qualcuno si è accorto che la pioggia di incentivi all’auto messa in campo dai governi europei rischia di far saltare il banco e di provocare pesanti danni all’economia. A rovinare la festa degli ennesimi dati trionfanti sulle vendite diffusi ieri da Acea ci ha pensato la Bce, che nel bollettino mensile ha invitato a procedere con molta cautela su eventuali proroghe. Innanzitutto, ha spiegato Jean Claude Trichet, «è stata frenata la domanda di altri acquisti importanti» e questo comporta che «l’impatto delle misure sui consumi privati e sull’attività economica complessiva è inferiore a quello diretto sulle vendite di autovetture nuove». Insomma, il gioco è in perdita. Non solo. Secondo la Bce, «in una prospettiva di politica economica più generale, occorre tenere presente che le misure di bilancio a vantaggio di un settore specifico generano distorsioni dei prezzi relativi che possono impedire cambiamenti strutturali necessari, indurre maggiori pressioni da parte delle attività di lobbying finalizzate a introdurre ulteriori agevolazioni e distorcere le condizioni di parità concorrenziale a livello internazionale». Inoltre, «la rottamazione precoce di autoveicoli ancora in buono stato, derivante da incentivi fiscali alle famiglie, riduce la ricchezza di un’economia» compromettendo «così le prospettive di reddito e occupazione complessive nel più lungo termine».
In sostanza, se a settembre le vendite di nuove auto in Europa (Ue27+Efta) sono salite del 6,3% annuo e quelle della Fiat sono addirittura aumentate del 13,7% c’è poco da essere contenti. Anzi, c’è da sperare che i governi, Italia compresa, buttino un occhio sul bollettino mensile della Bce prima che sia troppo tardi

Gli amici di Luca lasciano a piedi Fs

Mauro Moretti lo va dicendo da tempo. «I francesi vogliono venire da noi, ma noi non possiamo andare da loro». Nessuno, però, lo ha mai preso troppo sul serio. Anzi, qualcuno lo ha pure accusato di parlar male dei cugini d’Oltralpe solo perché si sono alleati con Montezemolo per fare concorrenza alle Fs.
Tutto può essere. Poi, però, accade che il colosso Veolia metta in vendita la divisione Cargo, che i tedeschi rinuncino alla gara, che le Fs italiane siano l’unico candidato e che alla fine, come per incanto, spunti fuori una cordata guidata dalle ferrovie di Stato francesi che si pappa tutto il boccone. Vabbé, si è detto, ci avranno pensato all’ultimo e avranno fatto l’offerta migliore. Evviva il mercato. Poi, però, accade ancora che i francesi mettano a gara la tratta fra Milano e Parigi, che oltre alle Fs ci siano solo aziende minori e che, quando la vittoria sembra ormai in tasca, le autorità di controllo d’Oltralpe se ne escano sostenendo che il gruppo italiano non ha le carte in regola. Coincidenze, sicuramente. Sta di fatto che «loro vengono da noi, ma noi non possiamo andare da loro».
Facciamo un po’ d’ordine. Le ferrovie francesi, Sncf, sono entrate tranquillamente con il 20% nella società Ntv creata da Luca Cordero di Montezemolo (38,4% Della Valle-Montezemolo-Punzo, 20% Intesa-Sanpaolo, 15% Generali, 5% Bombassei e 1,6% Sciarrone) per duellare sull’alta velocità italiana dal 2011.
Anche le Fs di Moretti, come si usa fare in un regime di concorrenza, hanno pensato di espandersi all’estero. In Germania tutto è andato liscio. Trenitalia ha acquistato la maggioranza (51%) del capitale della società tedesca TX Logistik AG, la seconda principale impresa ferroviaria privata nel settore merci, e ha rafforzato la sua presenza nel Nord Europa. Poi, è arrivata l’occasione Veolia Cargo. Prima dell’estate tutto sembrava fatto. A sorpresa, agli inizi di settembre, il gruppo francese Veolia Environement sceglie di vendere alla cordata composta da Sncf (attraverso Geodis) ed Europorte 2, l’impresa che gestisce la galleria sotto la Manica. Trenitalia non solo resta a bocca asciutta, ma si becca anche la concorrenza dei francesi in casa attraverso le attività italiane di Veolia Cargo.
Si arriva così alla Milano-Torino-Lione-Parigi, che dal 13 dicembre, in base alla decisione di Parigi di liberalizzare le tratte transfrontaliere, dovrà aprirsi ai privati. L’occasione è ghiotta perché le Fs potrebbero fare concorrenza a Sncf su una delle sue linee più redditizie, dove il rivale francese realizza margini intorno al 25%. La gara è partita lo scorso aprile, apparentemente senza problemi e senza concorrenti in grado di impensierire Trenitalia. Mercoledì scorso la doccia fredda: la Epsf (la società francese che si occupa di rilasciare le autorizzazioni) fa sapere al quotidiano Les Echos che «ciascun nuovo entrante deve ottenere un certificato di sicurezza e un’autorizzazione per il materiale rotabile. In entrambi i casi ci sono state riunioni di lavoro durante l’estate, ma le Fs non hanno depositato ufficialmente alcun dossier». Insomma, secondo i francesi Moretti avrebbe chiesto di partecipare alla gara e poi si sarebbe dimenticato di consegnare la documentazione. Le Fs, ovviamente, assicurano di aver presentato la richiesta per il rilascio del certificato addirittura nel maggio 2008. Bizzarro? Forse, come dice Moretti, è semplicemente che «loro vengono da noi, ma noi non possiamo andare da loro». Montezemolo, in ogni caso, ringrazia.

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giovedì 15 ottobre 2009

I sindacati la spuntano su Atitech

Alla fine, come al solito, hanno vinto i sindacati. I 657 dipendenti dell’Atitech non saranno licenziati. La firma definitiva dovrà arrivare entro sette giorni, ma l’accordo quadro firmato nella notte a Palazzo Chigi ha già ottenuto un via libera di massima da parte di tutte le sigle, compresa la Cgil. Si tratta dell’ultimo atto della vicenda Alitalia. Anche questo, come tutta l’operazione Fenice, condito di ammortizzatori straordinari, contributi pubblici e soccorso da parte di aziende controllate dal Tesoro.
L’intesa è stata raggiunta sulla nuova versione del piano presentato dal presidente dell’Unione industriali di Napoli, Gianni Lettieri, a capo di Manutenzioni Aeronautiche, la newco che rileva la società di manutenzione pesante di Capodichino, e il cui capitale è detenuto al 75% dalla Meridie dello stesso Lettieri, al 15% da Cai e al 10% da Finmeccanica, che manterranno le proprie partecipazioni per almeno 5 anni. L’accordo è stato firmato in zona Cesarini, a poche ore dalla riunione del cda della società che, altrimenti, avrebbe dovuto avviare le procedure per il fallimento.
L’Atitech è balzata agli onori della cronaca nelle settimane calde della trattativa per la cessione di Alitalia, quando i lavoratori appresero che l’azienda sarebbe rimasta nelle mani del commissario straordinario Augusto Fantozzi, fuori quindi dal perimetro della Cai di Colaninno e Sabelli. Da allora la mobilitazione, talvolta anche dura, degli operai non è più cessata. La tensione è risalita prima dell’estate in coincidenza con il mancato pagamento degli stipendi ed è puntualmente ripresa, con tanto di tafferugli e blocco dei voli, qualche settimana fa in vista della possibile chiusura degli stabilimenti.
Ora tra i lavoratori di Capodichino sembra fortunatamente essere tornato il sereno. Resta da capire se lo stesso clima può essere condiviso dai contribuenti. In altre parole, chi paga? Fino a pochi giorni fa l’intesa sembrava lontana. Il piano di Lettieri prevedeva il mantenimento di 300 posti di lavoro su 650. I sindacati chiedevano di lasciar fuori al massimo 110 persone da accompagnare alla pensione con gli scivoli.
Ecco le condizioni del nuovo accordo: assunzione immediata di 360 dipendenti che, a regime, nel 2014, diventeranno 500: unità selezionate tra quelle poste in cassa integrazione straordinaria. Ai lavoratori reinseriti nel ciclo produttivo a partire dall’ottobre 2010, sarà applicata la cassa integrazione a rotazione. Fatta eccezione per i lavoratori che saranno riassorbiti da Finmeccanica (60 unità) e per quelli (70) che, al termine del periodo degli ammortizzatori sociali, avranno maturato i requisiti per la pensione. Ai dipendenti della newco verrà applicato il contratto Cai per il personale di terra, sottoscritto il 30 ottobre 2008. Contratto che prevederebbe un taglio medio delle attuali retribuzioni Atitech del 7% circa. Ma la decurtazione sarebbe poi compensata da incentivi legati agli obiettivi di produzione. Accordo limato anche per il capitolo commesse: la Cai si impegna ad affidare alla società, per 5 anni dal 2010, la manutenzione di tutti gli aeromobili, inclusi quelli di lungo raggio, che non rientravano nella precedente versione del piano. Una novità che andrà accompagnata da interventi infrastrutturali e, soprattutto, da corsi di riqualificazione del personale, che saranno finanziati dalla Regione Campania. Finmeccanica, infine, oltre ad assumere, in aziende del gruppo, 60 lavoratori ex Atitech si impegna a ricercare, nell’ambito delle proprie società operative, ulteriori opportunità di lavoro da affidare ad Atitech. Una soluzione, infine, si profila anche per i circa 130 lavoratori dell’indotto che dovrebbero usufruire di corsi di formazione e cassa integrazione in deroga. Insomma, considerata la situazione finanziaria dell’Alitalia e quella specifica dell’Atitech, mancano solo le “sedie in pelle umana”. Volete sapere cosa ha detto Rifondazione? Un «pessimo accordo».

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Gdf rassicura Sarkozy: il nucleare italiano parlerà francese

Nulla di irreparabile, ma la strada per il nucleare di Finmeccanica si complica un po’. «Ancora non è stata presa alcuna decisione», ha spiegato Gerard Mestrallet confermando l’intesa con E.On, ma una cosa è chiara: «La tecnologia Epr è la nostra prima scelta». Un paletto, quello messo dal manager, che si va a piazzare proprio di fronte alle ambizioni di Westinghouse, che sul nucleare collabora da tempo con Ansaldo Energia (Finmeccanica) e che opera con la tecnologia AP1000, alternativa a quella Epr, utilizzata dalla francese Areva per i reattori di Edf. E visto che Gdf lavora tranquillamente anche con l’AP1000 sia in Inghilterra sia in altri Paesi insieme ad E.On, si tratta, con tutta probabilità, di un segnale inviato Oltralpe per tranquillizzare l’Eliseo sulle insegne sotto cui sarà condotta l’operazione. Quanto ad Acea, l’ad di Gdf, sceso in Italia per presentare il nuovo marchio Cofely, ha detto di essere «pronto ad un’intesa ampia. Ma spetta a loro decidere il perimetro dell’accordo».

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La carica del mini-dollaro soffoca la ripresa italiana

Un piccolo passo indietro. Mentre la Casa Bianca festeggia il Nobel della pace assegnato a Barack Obama, il dollaro ieri ha rallentato la sua corsa verso il basso. Un po’ per le parole della Federal Reserve, con il presidente Ben Bernanke che ha rassicurato i mercati annunciando una stretta monetaria quando l’inflazione farà capolino, un po’ per il calo inatteso del deficit commerciale Usa di agosto, sta di fatto che il biglietto verde è riuscito ad alzare leggermente la testa. L’euro ha infatti chiuso in rialzo nei confronti di tutte le principali valute meno che sul dollaro.
Ma il problema è tutt’altro che risolto. L’idea che l’amministrazione Obama stia giocando col mini-dollaro per svalutare il valore del debito pubblico e rilanciare le esportazioni è ormai convinzione diffusa di tutti i principali osservatori economici e finanziari. Il si salvi chi può è già scattato nel Far East. Le banche centrali di Sud Corea, Taiwan, Filippine, Thailandia, Hong Kong e Indonesia stanno da alcuni giorni comprando dollari a mani basse per cercare di frenare l’apprezzamento delle loro valute che sta soffocando l’export.
Molto più complicata appare la situazione di Eurolandia. Giovedì Jean Claude Trichet ha messo le mani avanti, annunciando un’azione coordinata sui cambi per congiurare gli effetti nefasti di un’ulteriore scarica di rialzi dell’euro sul dollaro. È chiaro infatti che con un rapporto che si invola verso 1,50 i segnali di ripresa che si vedono in Europa e in Italia andranno facilmente a farsi benedire. Come ha diplomaticamente detto il presidente della Bce, «per le grandi valute, una volatilità eccessiva e movimenti disordinati nei cambi hanno implicazioni avverse per l’economia». Trichet ha poi assicurato che «coopereremo con gli Usa nella misura in cui è appropriato».
Ma è evidente che gli States, con il deficit federale salito ai massimi da vent’anni e la disoccupazione che sfiora il 10%, a tutto stanno pensando tranne che a cooperare. Ed è altrettanto evidente che a farne le spese sarà soprattutto l’Italia.
Se al primo posto del nostro export resta la Germania, sebbene nel 2008 il valore delle esportazioni verso questo paese sia diminuito dell’1,3%, seguita dalla Francia (-2,5%), e dalla Spagna (-12,7%), gli Stati Uniti campeggiano ancora al quarto posto, con un volume di esportazioni che nel 2008, secondo l’ultimo rapporto dell’Ice, è già diminuito del 5%. Mentre secondo i dati dell’Istat nei mesi da gennaio ad agosto del 2009 il calo è stato ben più consistente, del 24,9 per cento.
Cosa si può fare per accelerare l’indebolimento dell’euro? «Le banche centrali al di fuori della Cina stanno cercando aggressivamente di difendere la propria competitività rispetto a un apprezzamento delle loro monete in seguito all'indebolimento del dollaro» spiega al Financial Times, Simon Derrick, di Bank of New York Mellon. Ma l’ampiezza dei mercati impedisce che mosse di questo tipo abbiano un impatto sul dollaro. Per Eurolandia un intervento della Bce finalizzato esclusivamente a difendere l’euro, acquistando valuta Usa, non andrebbe al di là dell’effetto simbolico. Per ora, insomma, si resta appesi alle decisioni di Washington.
Nel frattempo, però, arriva una buona notizia dall’Ocse, che vede segnali di ripartenza più decisi del previsto. L’Italia, in particolare, nell’elaborazione della periodica misurazione spicca fra tutte le economie dell’Organizzazione con uno scatto di 10,4 punti rispetto all’agosto di un anno prima, segnando un incremento di 2 punti su base mensile a 106 punti.
Nel complesso dell’aera Ocse il Superindice ha mostrato un incremento di 1,5 punti ad agosto (+0,6 sul corrispondente mese del 2008) a 99,2. È salito anche negli Usa di 1,6 a 97,4 punti, ma è risultato di 1,6 punti più basso di un anno prima. Nell’Eurozona è invece aumentato di 1,7 a 102 punti ed è risultato di 4,1 punti sopra ad agosto 2008.

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Sorpresa a Mirafiori: gli operai lavorano ma gli impianti sono fermi

Ci risiamo. Non bastano la crisi, la cassa integrazione (ieri anche la Ferrari ha aperto la procedura in seguito al calo della Maserati), il crollo delle vendite, la lotteria degli incentivi. A complicare la vita degli operai della Fiat ci si mettono anche... gli operai. È quello che sta accadendo nella storica Mirafiori dove migliaia di lavoratori tra lunedì e ieri hanno incrociato le braccia. Il motivo? Nessuno che li riguardi. Il blocco della produzione delle carrozzerie è infatti dovuto allo sciopero di un altro stabilimento, quello della Ex Ergom (oggi gruppo Magneti Marelli) di San Benigno Canavese che produce i componenti in plastica. Lunedì sono rimasti a casa in duemila, tutto il secondo turno delle carrozzerie Mirafiori. E altrettanti, il primo turno della mattina, si sono fermati ieri.
Per quanto incredibile, il giochino non è nuovo. Qualche mese fa è successo nel comprensorio di Melfi, dove, come ha spiegato il segretario generale della Fismic Roberto di Maulo, «circa 10mila lavoratori sono stati costretti a rimanere a casa per colpa della protesta di un centinaio di lavoratori». Quest’ultimi erano sempre della ex Ergom. Un anno fa, sempre per colpa di componenti che non arrivano, toccò alla Sicilia. Lo sciopero indetto alla ex Ergom contro la decisione dell’azienda di non rinnovare 23 contratti in scadenza provocò il blocco per diversi giorni dello stabilimento Fiat e di tutte le ditte dell’indotto di Termini Imerese.
I dipendenti della ex Ergom non hanno invece alcuna colpa della cattiva giornata di Borsa che ha vissuto ieri il titolo Fiat. In mattinata le azioni, complice anche un giudizio positivo di Mediobanca, hanno continuato a muoversi lungo la via dei guadagni, arrivando a toccare un massimo di 11,47 euro, con un progresso di oltre 4 punti percentuali. Da lì sono scattate le prese di profitto degli investitori, che hanno iniziato a vendere portando il titolo ad invertire la rotta, tanto che il gruppo guidato da Sergio Marchionne ha terminato gli scambi a 10,75 euro, in calo del 2,45%.
La flessione, dopo il boom di lunedì (+6,6%), non stupisce più di tanto. Le vendite erano infatti inevitabili dopo che la Fiat ha messo a segno un rialzo di oltre il 20% in poco meno di 10 sedute. «È difficile fare il 6% ogni giorno. È difficile che possa continuare», ha commentato il vicepresidente della Fiat, John Elkann, il quale ha poi ricordato che le prossime tappe significative per il Lingotto saranno i dati della trimestrale il 21 di ottobre e la presentazione il 4 novembre a Detroit del piano industriale.

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venerdì 9 ottobre 2009

Cordata franco-tedesca per il nucleare italiano

La sfida per il nucleare italiano entra nel vivo. Con i francesi che si preparano a fare la parte del leone. Dopo l’accordo già siglato tra Edf ed Enel per la realizzazione di quattro impianti nucleari, sembra che anche l’altro colosso pubblico d’Oltralpe, Gaz de France, voglia essere della partita. Il gruppo guidato da Gérard Mestrallet, secondo quanto risulta al Quotidiano Energia, avrebbe già coordinato la sua azione con i tedeschi di E.On. Fonti vicine al dossier rivelano che tutto è pronto per gettare le basi del secondo consorzio. La trattativa è in fase avanzata. In una lettera d’intenti Gdf-Suez ed E.On, che dopo la fusione tra Enel ed Endesa ha acquisito tutte le attività italiane del gruppo iberico, avrebbero previsto, tra le altre cose, una serie di approfondimenti comuni sulla realizzazione dei futuri impianti.

L’operazione potrebbe rappresentare la vera quadratura del cerchio sul complicato dossier politico-industriale del nucleare. Intanto, rafforzerebbe il legame tra Sarkozy e Berlusconi, recentemente incrinato da un po’ di attriti relativi alla vicenda Acea, dove proprio Gdf-Suez è presente con una quota del 10% attraverso la controllata Electrabel e dove i ritardi dei vertici della municipalizzata romana nel definire gli equilibri tra i soci hanno fatto saltare l’accordo tra Eni e francesi per la cessione di RomanaGas. Un clima migliore potrebbe anche favorire la partita in corso in Edison, dove i due soci, A2A ed Edf hanno iniziato a ragionare, non senza schermaglie e punzecchiature, sul piano di riassetto.

Ma l’avanzata di Gdf-E.On darebbe soprattutto la possibilità di aprire la strada all’ingresso degli americani, con la partecipazione di Finmeccanica. E.On è il primo esercente nucleare in Germania. GdfSuez con Electrabel è il primo produttore elettrico in Belgio, paese che ricorre per il 50% all’atomo. Ora, sebbene i tedeschi stiano portando avanti una cooperazione con Areva e Siemens per la realizzazione di nuovi reattori ed E.On collaborerà alla costruzione di una nuova centrale nel Regno Unito utilizzando un reattore di nuove generazione Epr, la tecnologia usata prevalentemente dai due colossi per la produzione di energia nucleare è quella usata dalla statunitense Westinghouse. Il gruppo americano collabora da anni con Ansaldo Nucleare (gruppo Finmeccanica) e alla fine di settembre ha ricevuto la visita del ministro Scajola con il quale ha siglato un accordo per la fornitura diattività legate al nucleare

Il secondo consorzio è probabilmente l’unica opportunità per l’accoppiata Finmeccanica-Westinghouse di scendere in campo. È chiaro, infatti, che il sistema integrato dei francesi, con a capo il costruttore pubblico, Areva, lascia poco spazio. Gran parte delle centrali del consorzio Enel-Edf saranno costruite in Francia e trasportate in Italia a pezzi.

Non solo il nocciolo del reattore, ma anche parti come le turbine, che in realtà sono identiche a quelle di una centrale a gas o a carbone. Resta da capire chi sarà l’Enel della situazione. «L’intesa Ansaldo Nucleare-Westinghouse per il rilancio dell’atomo in Italia c’è già. Mancano solo i committenti», ha detto qualche giorno fa l’ad di Ansaldo Energia, Giuseppe Zampini.

Nelle ultime settimane si è parlato molto del possibile ingresso nell’operazione nucleare dell’Eni. Il gruppo guidato da Paolo Scaroni sarebbe il candidato ideale per una necessaria guida nazionale del consorzio Gdf-E.On.

Ma il pressing sul Cane a sei zampe effettuato dal ministero dello Sviluppo economico non ha finora ottenuto risultato. Secondo quanto risulta a Quotidiano Energia, l’Eni avrebbe deciso, per il momento, di restare alla finestra. L’alternativa sul tavolo è quella di A2A. Il presidente del consiglio di gestione Giuliano Zuccoli, del resto, ha più volte criticato il monopolio dell’Enel nella partita sul nucleare, accusando il governo di aver tagliato fuori proprio l’azienda che in Edison già collabora con Edf. Il ruolo dell’utility lombarda potrebbe anche essere quello di capofila di una cordata di imprese locali.

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Obama sotto accusa: «Indebolisce il dollaro»

La corsa dell’oro non si arresta. Ieri il contratto spot ha toccato il nuovo massimo assoluto, 1.058,48 dollari per oncia, consolidando da inizio anno un guadagno di oltre il 20%. Al di là delle manovre speculative e dei timori sul possibile rialzo del prezzo del greggio, a spingere sempre più in alto il metallo prezioso è sicuramente il dollaro. La cui discesa sta preoccupando la comunità internazionale. Tanto che ieri le autorità monetarie di Sud Corea, Taiwan, Filippine, Tailandia, Hong Kong e Indonesia sono state segnalate acquistare dollari per temperare l’apprezzamento delle valute locali, molto dannoso per le loro economie esportatrici. Non meno preoccupata la comunità finanziaria statunitense.

Qualcuno punta il dito sulle mosse di Cina, Russia e paesi Arabi per favorire l’abbandono del biglietto verde come valuta di riferimento. Il principale indiziato, però, resta in ogni caso Barack Obama, visto che negli ultimi sei mesi il dollaro ha perso l’11,5%. Nei giorni scorsi anche Sarah Palin, ex candidata alla vice presidenza della Casa Bianca, è andata ad aggiungersi al coro repubblicano di critiche e di preoccupazioni sull’aumento dell’indebitamento americano (ieri il deficit per il 2009 è salito al record di 1.400 miliardi di dollari, il 9,9% del Pil, la quota più alta dal 1945) e sulle sue ripercussioni sulla moneta.

La tesi è, ovviamente, che la discesa del biglietto verde sia il riflesso dell’indebolimento degli Stati Uniti. A frenare il dollaro, si legge sul New York Times, «è la crescente sensazione che molti politici a Washington gradiscano un lento ma sostenuto deprezzamento soprattutto nei confronti della valuta cinese e asiatiche in generale: un dollaro debole, infatti, renderebbe i beni importati più costosi e i prodotti americani più competitivi».

Il segretario al Tesoro americano, Timothy Geithner, ha ribadito che gli Usa faranno il necessario per mantenere la fiducia. Ma molti restano scettici. Ieri David Malpass, presidente di Encima Global, ha scritto sulle pagine del New York Times che Obama dovrebbe rigettare la politica del dollaro debole dell’amministrazione Bush: questo si tradurrebbe in un ritorno dei capitali e dell’occupazione, prima che i tassi di interesse americani tornino a salire. Secondo Malpass, per capire come mai il dollaro è sceso nell’ultima settimana e l’oro ha toccato nuovi record «basta guardare ai numeri sull’occupazione americana di venerdì scorso e il debole comunicato del G7 di Istanbul». «Deplorare l’eccessiva volatilità e i disordinati movimenti dei tassi di cambio non vuol dire esattamente scendere in difesa del dollaro», scrive Malpass, ricordando come il numero uno di Pimco, Bill Gross, in un’intervista all’emittente televisiva Cnbc abbia risposto, a chi gli chiedeva se i bassi tassi di interesse indeboliranno il dollaro: «Penso che sia parte del piano dell’amministrazione». Si tratterebbe, in sostanza, del tentativo di Washington di utilizzare l’inflazione come metodo per ridurre il valore reale del debito pubblico in rapida crescita.

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giovedì 8 ottobre 2009

Gli incentivi all’auto soltanto se Fiat salva gli operai al Sud

La proroga degli incentivi all’auto dovrà essere coordinata con l’Europa e legata «a un aumento della produzione Fiat in Italia». Claudio Scajola è tornato, intervenendo al programma La telefonata su Canale 5, a parlare di aiuti al Lingotto. La sostanza, come già annunciato anche da Silvio Berlusconi, è che i soldi arriveranno pure nel 2010. La novità è che il governo scenderà in pista solo a patto che la Fiat garantisca i lavoratori di Pomigliano d’Arco e Termini Imerese. La sopravvivenza dei due stabilimenti, del resto, era stata messa sul piatto senza mezzi termini dallo stesso Sergio Marchionne. Se gli incentivi dovessero finire, aveva fatto capire l’ad qualche giorno fa, la Fiat dovrà chiuderà le sue fabbriche, a partire proprio da quelle del Sud.
Ed ecco la risposta del governo. «È evidente che se gli incentivi verranno dati in tutti i Paesi di fronte alla crisi del settore auto, l’Italia non può rimanere indietro», ha spiegato Scajola. Ma la produzione dovrà essere salvaguardata. E Marchionne, ha aggiunto il ministro dello Sviluppo, «condivide» questa impostazione.
Per gli operai campani e siciliani è senz’altro una buona notizia. Per il futuro dell’auto e per l’economia del Paese un po’ meno. Gonfiare artificialmente gli acquisti significa infatti continuare a mantere alto un livello di produzione che è già sovradimensionato rispetto alle reali esigenze del mercato. Il che significa che prima o poi, visto che gli aiuti non potranno proseguire all’infinito, i nodi verranno al pettine. E allora saranno davvero dolori.
L’altro problema legato alla proroga degli aiuti riguarda l’effetto domino e la sorte della piccola impresa. Sul primo fronte si è già fatto avanti Pier Francesco Guarguaglini. Ieri anche l’ad di Finmeccanica, malgrado una stima di ricavi per il 2013 intorno ai 20 miliardi (nel 2009 raggiungeranno i 17), ha chiesto al governo di sostenere con maggiori risorse pubbliche l’aerospazio e la difesa. Se Fiat chiede risorse per la rottamazione, ha detto il manager durante un’audizione davanti alla commissione Industria del Senato, «io chiedo risorse per lo sviluppo di prodotti che secondo me danno più futuro».
Ma a fare le spese degli aiuti selettivi saranno soprattutto i piccoli. «Se si segue la scia degli altri paesi Ue», ha spiegato il presidente di Confapi, Paolo Galassi, «a maggior ragione lo si dovrebbe fare sul fronte delle iniziative a favore delle piccole e medie imprese. Altrimenti si creerà uno svantaggio competitivo con l’Europa difficilmente colmabile».

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Il pupillo Alfano azzoppato dalla Consulta

«Per me il lodo Alfano è legge dello Stato. Siamo già proiettati sulla riforma della giustizia», così tagliava corto Angelino Alfano il 23 luglio del 2008, giorno in cui il Capo dello Stato firmò il provvedimento, replicando al vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, che invocava una riforma costituzionale. «Siamo in fiduciosa e serena attesa», diceva ancora ieri mattina il Guardasigilli, qualche ora prima della sentenza.
Ma qualcosa, al ministro della Giustizia, deve essere frullato nella testa durante la trasferta parigina per incontrare l’omologa francese Michelle Alliot-Marie. Ai giornalisti che gli chiedono cosa si provi a vedere il suo nome collegato al lodo, risponde: «È l’abitudine di abbinare un cognome a una legge, ma la legge è tale perché votata dal Parlamento». Un presagio, forse, del terremoto che di lì a poco avrebbe colpito il “suo” lodo.
La notizia gli arriva mentre è a Palazzo Grazioli, dove il ministro si precipita appena rientrato da Parigi. Nel primo commento a freddo, dopo un lungo colloquio con Silvio Berlusconi, Alfano non trattiene lo stupore: «È una sentenza che sorprende, e non poco». Il riferimento è tecnico, a quell’articolo 138 della Costituzione, con cui la Consulta «dice oggi ciò che avrebbe potuto e, inevitabilmente, dovuto dire già nel 2004».
Ma la sorpresa, probabilmente, va al di là degli aspetti giuridici. In serata, intervenendo a Porta a Porta, il ministro chiarisce che «con la bocciatura del lodo si crea un problema: da una parte c’è Silvio Berlusconi premier, legittimato da milioni di voti, che ha diritto di governare, e, dall’altra, vi è il cittadino Silvio Berlusconi, che ha il diritto di difendere se stesso nelle aule di tribunale». Ma è chiaro che il problema non riguarda solo il premier. Quel cognome appiccicato alla legge, per quanto posticcio, lo chiama in causa pesantemente. Del resto, il ddl sulla sospensione dei processi per le prime quattro cariche dello Stato è il suo primo atto da Guardasigilli. E, volente o nolente, la bocciatura del lodo è anche una bocciatura di Alfano.
Persone vicine al ministro assicurano che il fedele Angelino sarebbe stato pronto a dimettersi. La voce è rimbalzata con insistenza in serata in alcuni ambienti del PdL. Ma che il ministro vada fino in fondo è tutto da vedere. Come sembrano confermare le sue stesse parole: «Continueremo a governare, come abbiamo fatto in questi sedici mesi». E ancora: «Questa legge», ha spiegato sempre a Porta a Porta, «è stata caricata di una eccessiva drammatizzazione, immaginando che una eventuale bocciatura potesse aprire la strada a chissà cosa, alla fine di questo governo. Mi pare, anche dalle dichiarazioni del premier, che sia nostra intenzione andare avanti». Anzi, nel negare la volontà di preparare leggi costituzionali che ripropongano il Lodo come chiesto ieri dalla Consulta, Alfano ha rilanciato sulla riforma della giustizia penale. Proprio qui, in effetti, potrebbero concentrarsi nel cammino della legge - oggi in commissione Giustizia al Senato - alcuni provvedimenti sensibili sui processi al persidente del Consiglio.
Tornando ad Alfano, sulla disponibilità del presidente del Consiglio a rinnovare la fiducia al Guardasigilli, non dovrebbero comunque esserci dubbi. Giovanissimo (farà 39 anni il 31 ottobre), è fin dal 2001 considerato, non a torto, uno dei fedelissimi del Cavaliere. L’unico collaboratore per cui Berlusconi abbia mai deciso di spendere la parola “delfino”. Pur di averlo alla Giustizia decise addirittura di scontentare Bossi togliendo la poltrona a Roberto Castelli. E poi, sono stati Ghedini e Pecorella a studiare e limare il lodo. Loro a difenderlo davanti alla Corte Costituzionale. Non a caso nel partito nelle ultime ore è montata la rabbia per il flop dei due giuristi tenuti in palmo di mano dal Cavaliere. I conti, in ogni caso, si faranno oggi, durante l’ufficio politico del PdL. Per ora si sa solo che i due legali dovranno lavorare più nei tribunali che in Parlamento.

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mercoledì 7 ottobre 2009

Diavolo di un Berlusconi: guadagna pure quando perde

Diavolo di un Berlusconi, guadagna pure quando perde. A qualcuno sarà venuto un attacco di bile controllando le chiusure di Borsa di ieri. Può sembrare bizzarro, ma la sentenza del tribunale di Milano che condanna la Fininvest a risarcire 750 milioni a De Benedetti per il Lodo Mondadori ha messo il turbo ai titoli del Cavaliere. La società incriminata, il gruppo di Segrate, ha terminato la seduta di Piazza Affari addirittura con un balzo del 6,27% a 3,6 euro.
In realtà, la fibrillazione dei mercati finanziari è il frutto di meccanismi facilmente individuabili e non necessariamente positivi. La componente che sta influenzando di più l’andamento di Borsa è sicuramente l’attività speculativa, professionisti della scommessa finanziaria che si avventano sui titoli nel tentativo di guadagnare sulle prevedibili oscillazioni provocate dallo scossone giudiziario. Si tratta, in altre parole, di sfruttare il frenetico accavallarsi di ipotesi e voci sulle prossime mosse della Fininvest e delle sue controllate. Al di là dell’annunciata decisione di ricorrere immediatamente all’autorità giudiziaria per congelare l’esecutività della sentenza di Milano (la richiesta è stata già preparata dall’avvocato Romano Vaccarella), gli investitori si interrogano sul modo in cui i manager faranno fronte all’esigenza di liquidità che inevitabilmente, non essendo mai stati fatti accantonamenti, si verrà a creare. L’ipotesi più gettonata nelle ultime ore è che le società del gruppo dovrebbero tornare a distribuire robusti dividendi. La finanziaria di casa Berlusconi perderebbe infatti la propria cassa e probabilmente a quel punto farebbe fluire liquidità dalle controllate (Finivest detiene il 36% di Mediaset, il 50% di Mondadori e il 35% di Mediolanum).
A spingere le azioni ci sono poi motivi più tecnici e meno oscuri. Su Mondadori, ad esempio, ieri è arrivato il giudizio positivo di Centrobanca, che ha promosso il titolo da neutral a buy, alzando il target di prezzo da 3,2 a 3,9 euro. L’invito a comprare, secondo gli esperti della banca d’affari, deriva dal fatto «il calo nelle inserzioni nei periodici rallenterà progressivamente per vedere un’inversione nel primo trimestre del 2010». Centrobanca ha anche tagliato le stime dei ricavi 2009 del 5,5% e dell’ebitda del 19,8%. «Ma il piano di efficienza», hanno spiegato gli analisti, «ci ha indotto ad alzare le stime per 2010 e a rivedere al rialzo del 7% le nostre previsioni sull’utile». In aggiunta negli ultimi mesi le azioni Mondadori hanno registrato una performance peggiore (del 13%) sia rispetto al Dj Stoxx Media (l’indice internazionale del settore) che rispetto all’azionario italiano (del 17%). La sottoperformance è stata determinata dalla scarsa visibilità sul piano di taglio dei costi e dall’andamento deludente della divisione libri (-5% su base annua nel primo semestre).
Per quanto riguarda Mediaset, anch’essa balzata del 2,16% a 4,77 euro, il titolo è stato sicuramente influenzato dalle indiscrezioni dei quotidiani spagnoli Expansion e El Economista - espressamente smentite dal gruppo del Biscione - circa un interesse per l’emittente iberica Cuatro, alla quale punterebbe in vista di una fusione con la controllata Telecinco, o per Digital+, sulla quale starebbe cercando un asse con Telefonica.
Resta il fatto che se tutte le società hanno ingranato la marcia, compresa Mediolanum (+4,14% a 4,77 euro) che è però in linea con la corsa dell’intero settore bancario, i riflettori sono tutti puntati sulla Mondadori. Piazza Affari sembra comunque scommettere sul fatto che il gruppo di Segrate, dopo questa vicenda, possa valer di più. Sul titolo sono piovuti acquisti durante tutta la seduta, con scambi doppi rispetto a lunedì e quattro volte superiori alla media giornaliera dell’ultimo mese. Nelle mani degli agenti di Borsa sono passati addirittura 4,5 milioni di azioni, pari all’1,7% del capitale.
Per quanto riguarda De Benedetti, l’ingegnere può continuare tranquillamente a festeggiare. Oltre alla prospettiva del pacco dono da 750 milioni, i guadagni in Borsa proseguono. Dopo il rally dell’8,21% segnato lunedì, la Cir è avanzata del 2,49% a 1,6 euro, in linea col resto del listino. Più cauto il giudizio degli investitori sulla holding a monte della catena di controllo, la Cofide, che ha chiuso pressoché piatta (+0,08% a 0,61 euro).

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lunedì 5 ottobre 2009

I fannulloni licenziati senza preavviso

Per i fannulloni del pubblico impiego il tempo sta per scadere. C’è voluta qualche prova muscolare, ma alla fine Renato Brunetta è riuscito nell’impresa. La rivoluzione della Pubblica amministrazione è arrivata in porto a distanza di soli quattordici mesi. Il decreto legislativo che attua la riforma potrebbe approdare al Consiglio dei ministri per il varo definitivo già venerdì. Il testo presentato ieri dal ministro della Funzione pubblica recepisce alcuni suggerimenti arrivati dal Parlamento e dai colleghi di governo, ma è sostanzialmente (secondo Brunetta al 98%) quello iniziale. Le nuove norme prevedono sospensioni dal servizio fino al licenziamento e multe per i dipendenti più indisciplinati. Ma anche sanzioni per i dirigenti che non hanno fatto bene il loro mestiere. Rigore e severità sono i principi ispiratori della riforma, ma accanto alle punizioni ci sarà anche la valorizzazione del merito, con meccanismi premiali e incentivi economici per le amministrazioni più efficienti.
Al centro della tolleranza zero finiscono gli assenteisti. In particolare è previsto il licenziamento in tronco, senza preavviso, per chi fa finta di essere al lavoro, timbra il cartellino e poi va a spasso. Cacciato su due piedi anche chi si finge malato e fornisce una «giustificazione dell’assenza mediante certificazione medica falsa». Un dipendente, infine, può essere licenziato, questa volta con preavviso, per un’assenza ingiustificata superiore a tre giorni, per «ingiustificato rifiuto disposto per motivate esigenze di servizio» e per «insufficiente rendimento». Sospensioni, con relative sanzioni, sono previste per i manager pubblici responsabili di inefficienze o illeciti.
Sul fronte opposto, la riforma premierà i dirigenti che avranno conseguito determinati obiettivi di risultato e i dipendenti più efficienti. Finisce dunque la stagione degli incentivi a pioggia. La forbice sarà tra il 7 e il 20% da aggiungere alla retribuzione totale. A valutare l’efficienza della burocrazia «sarà un’agenzia che avrà le caratteristiche di un’Authority indipendente di stampo europeo». I membri saranno nominati dal Parlamento con una maggioranza dei due terzi. I tempi della rivoluzione sono immediati. Le norme entreranno subito in vigore. Ma la riforma è complessa e Brunetta, malgrado l’entusiasmo, non vuole procedere con lo schiacciasassi. Ci sarà un periodo di sperimentazione di due anni entro il quale si potranno apportare ulteriori modifiche e integrazioni sulla base delle osservazioni delle parti sociali.

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Si sgretola il welfare di Obama

Sarà pure vero che la riforma sanitaria “costa meno delle guerre di Bush” e garantirà la copertura delle fasce più deboli, che saranno i ricchi a pagare il welfare per i poveri e che lo Stato non aiuterà più nessuna banca. Ma la sensazione è che i duecentomila americani scesi spontaneamente in piazza a Washington qualche settimana fa sotto le insegne dei Tea Party e di Freedomworks avessero ragione. Il new deal di Obama finora è riuscito soltanto a socializzare le perdite di Wall Street con i massicci sostegni alle big del credito e a promettere miracoli attraverso un’espansione della spesa pubblica e un aumento delle tasse. Ma di frenare gli effetti della crisi non se ne parla.
Mentre il presidente Usa continua a zompettare da una tv all’altra per convincere gli americani della necessità della costosissima riforma sanitaria, i disoccupati non solo aumentano, ma finiscono anche fuori dalla protezione pubblica. Il fenomento è stato oscurato dai drammatici dati sul lavoro di settembre, che hanno registrato un calo dei posti di lavoro nel settore non agricolo di 263mila unità e un tasso di disoccupazione balzato al 9,8%, il massimo dal giugno 1983, 26 anni fa, pericolosamente vicino a quel 10% raggiunto ai tempi della crisi del ’29.
Ma il dato più preoccupante è quello relativo ai tempi medi di rioccupazione. In altre parole il periodo necessario ad un lavoratore licenziato per trovare un altro impiego. Questo tempo è salito a settembre a 26,2settimane. E si tratta, purtroppo, di un altro pesante record negativo. Per la prima volta, infatti, il periodo di disoccupazione ha superato quello durante il quale lo Stato garantisce il sussidio per chi ha perso il posto, che si ferma a 26 settimane. Questo significa che l’assegno ordinario fornito dal governo non basta più a coprire tutto il tempo necessario al lavoratore per portare a casa un’altra busta paga. Non accadeva, come riferisce il Dipartimento del Lavoro Usa, dal 1948, ovvero da quando partono le serie storiche dell’istituto di statistica.
Il Congresso, nel giugno del 2008 e poi, con Obama, nel febbraio del 2009, ha parzialmente tamponato il problema prevedendo un allungamento straordinario del periodo di copertura che in alcuni casi può arrivare fino a 46 settimane (e negli Stati dove il tasso di disoccupazione è sopra il 6% fino al 59%). Ma le misure speciali, che stanno provocando un’emorragia di risorse pubbliche, termineranno entro la fine dell’anno. E difficilmente potranno essere riproposte, visto che attualmente sono circa 5,4 milioni (il 35,6% del totale dei disoccupati) le persone che restano fuori dal mondo del lavoro per più di 27 settimane.
Troppe per poter godere tutte dei benefici pagati dai contribuenti. Considerato anche che le richieste di sussidi continuano a salire (551mila nella settimana che si è chiusa il 26 settembre) e che lo stock di disoccupati ha ormai raggiunto i 15,1 milioni, con 7,2 milioni di posti di lavoro persi da quando è iniziata la recessione, nel dicembre 2007.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Basti pensare che nei primi nove mesi del 2009 sono saliti a oltre un milione i consumatori americani che hanno dichiarato “bancarotta personale” per l’impossibilità di pagare la rata del mutuo o della carta di credito.
Difficile difendere ancora le ricette stataliste, se questo è il risultato. E sarà ancora più difficile per Obama difendere un consenso che sta pericolosamente scivolando verso il basso. I sondaggi d’opinione americani disegnano lo sfondo dell’attuale impasse. La fiducia nel presidente è scesa in pochi mesi di 18 punti al di sotto del 50%, proprio per via dell’eccesso di deficit, della disoccupazione e della riforma sanitaria. Si tratta della più veloce e cospicua perdita di gradimento per un inquilino della Casa Bianca dal dopoguerra ad oggi.

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giovedì 1 ottobre 2009

Bene il condono romano per le vecchie multe. Purché sia l’ultimo

Da oggi anche Roma ha il suo bel condono. La giunta ha approvato la delibera per la definizione agevolata delle multe stradali elevate fino al 31 dicembre 2004. I romani avranno tempo fino al 15 maggio 2010 per mettersi in regola pagando il minimo della sanzione, le spese di procedimento e notifica e un aggio ridotto al 4% per la riscossione. Non saranno più dovuti, quindi, il raddoppio della sanzione originaria e le varie maggiorazioni.

Da oggi anche Roma potrà avere le sue belle polemiche sull’opportunità della sanatoria. Un favore ai furbi, una pessima lezione per il futuro, una scorciatoia per fare cassa. I condoni sono materia delicata. E non solo da un punto di vista etico. Non sempre i vantaggi superano in modo così evidente gli svantaggi. E non sempre gli effetti previsti coincidono con quelli reali. Questa volta, però, la reazione di sdegno che puntualmente arriverà non potrà non tenere conto di alcuni aspetti che caratterizzano l’iniziativa. Quanto al merito, non bisogna dimenticare che il condono “condona” solo gli extra, ma non la sanzione originaria. A conti fatti, ognuno pagherà il dovuto. Relativamente agli effetti, il beneficio sarà ugualmente distribuito. Secondo le prime stime la sanatoria farà risparmiare i cittadini, ma anche il Comune. Le multe coinvolte sarebbero infatti circa 1,1 milioni. In base al grado di adesione il Campidoglio incasserà dai 23 ai 77 milioni, soldi che probabilmente non avrebbe più rivisto. Resta il discorso dei furbetti. Ma per stessa ammissione del Comune, il caos sulle multe, «è da attribuire soprattutto a inefficienze e lentezze non imputabili ai cittadini». Più che un favore, dunque, si tratta di un atto di giustizia. Non solo. Si tratta anche della confessione da parte dell’amministrazione di non aver fatto fino in fondo il proprio dovere. Ed è a questo, forse, che dovrebbe servire il condono. A fare in modo che non sia più necessario vararne un altro.

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