lunedì 5 ottobre 2009

Si sgretola il welfare di Obama

Sarà pure vero che la riforma sanitaria “costa meno delle guerre di Bush” e garantirà la copertura delle fasce più deboli, che saranno i ricchi a pagare il welfare per i poveri e che lo Stato non aiuterà più nessuna banca. Ma la sensazione è che i duecentomila americani scesi spontaneamente in piazza a Washington qualche settimana fa sotto le insegne dei Tea Party e di Freedomworks avessero ragione. Il new deal di Obama finora è riuscito soltanto a socializzare le perdite di Wall Street con i massicci sostegni alle big del credito e a promettere miracoli attraverso un’espansione della spesa pubblica e un aumento delle tasse. Ma di frenare gli effetti della crisi non se ne parla.
Mentre il presidente Usa continua a zompettare da una tv all’altra per convincere gli americani della necessità della costosissima riforma sanitaria, i disoccupati non solo aumentano, ma finiscono anche fuori dalla protezione pubblica. Il fenomento è stato oscurato dai drammatici dati sul lavoro di settembre, che hanno registrato un calo dei posti di lavoro nel settore non agricolo di 263mila unità e un tasso di disoccupazione balzato al 9,8%, il massimo dal giugno 1983, 26 anni fa, pericolosamente vicino a quel 10% raggiunto ai tempi della crisi del ’29.
Ma il dato più preoccupante è quello relativo ai tempi medi di rioccupazione. In altre parole il periodo necessario ad un lavoratore licenziato per trovare un altro impiego. Questo tempo è salito a settembre a 26,2settimane. E si tratta, purtroppo, di un altro pesante record negativo. Per la prima volta, infatti, il periodo di disoccupazione ha superato quello durante il quale lo Stato garantisce il sussidio per chi ha perso il posto, che si ferma a 26 settimane. Questo significa che l’assegno ordinario fornito dal governo non basta più a coprire tutto il tempo necessario al lavoratore per portare a casa un’altra busta paga. Non accadeva, come riferisce il Dipartimento del Lavoro Usa, dal 1948, ovvero da quando partono le serie storiche dell’istituto di statistica.
Il Congresso, nel giugno del 2008 e poi, con Obama, nel febbraio del 2009, ha parzialmente tamponato il problema prevedendo un allungamento straordinario del periodo di copertura che in alcuni casi può arrivare fino a 46 settimane (e negli Stati dove il tasso di disoccupazione è sopra il 6% fino al 59%). Ma le misure speciali, che stanno provocando un’emorragia di risorse pubbliche, termineranno entro la fine dell’anno. E difficilmente potranno essere riproposte, visto che attualmente sono circa 5,4 milioni (il 35,6% del totale dei disoccupati) le persone che restano fuori dal mondo del lavoro per più di 27 settimane.
Troppe per poter godere tutte dei benefici pagati dai contribuenti. Considerato anche che le richieste di sussidi continuano a salire (551mila nella settimana che si è chiusa il 26 settembre) e che lo stock di disoccupati ha ormai raggiunto i 15,1 milioni, con 7,2 milioni di posti di lavoro persi da quando è iniziata la recessione, nel dicembre 2007.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Basti pensare che nei primi nove mesi del 2009 sono saliti a oltre un milione i consumatori americani che hanno dichiarato “bancarotta personale” per l’impossibilità di pagare la rata del mutuo o della carta di credito.
Difficile difendere ancora le ricette stataliste, se questo è il risultato. E sarà ancora più difficile per Obama difendere un consenso che sta pericolosamente scivolando verso il basso. I sondaggi d’opinione americani disegnano lo sfondo dell’attuale impasse. La fiducia nel presidente è scesa in pochi mesi di 18 punti al di sotto del 50%, proprio per via dell’eccesso di deficit, della disoccupazione e della riforma sanitaria. Si tratta della più veloce e cospicua perdita di gradimento per un inquilino della Casa Bianca dal dopoguerra ad oggi.

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