venerdì 29 maggio 2009

Le ceneri della Opel sempre più costose

General Motors non ha richiesto ulteriori 350 milioni di euro per Opel. A sciogliere il giallo con cui si è conclusa la lunghissima maratona notturna tra i pretendenti e il governo tedesco terminata alle 5 di ieri mattina è sceso direttamente in campo Firtz Henderson. In un’intervista a Bloomberg l’amministratore delegato di Gm ha precisato che le necessità di Opel restano 1,5 miliardi di euro. In altre parole, non c’è stato alcun rilancio: la richiesta è invariata. Il fraintendimento, però, c’è stato. Gm vuole 450 milioni di euro di pagamento anticipato, mentre il governo tedesco pensava che ne fossero necessari inizialmente solo 100 milioni. «Ci assumiamo la responsabilità della confusione che questo può aver causato», ha spiegato Henderson. «Stiamo cercando di trovare un terreno comune in Europea in quella che è chiaramente una situazione tesa».
Sbaglio o no, la questione non è di poco conto. Anzi, sembra che lo stallo delle trattative sia dovuto proprio alla corposa richiesta di liquidità avanzata da Gm, ben più alta di quella che il governo federale e i quattro Laender che ospitano gli impianti della Opel erano disposti a sborsare sotto forma di prestito ponte. I fondi servirebbero a tenere in vita la controllata europea di Gm finché non si troverà una soluzione definitiva. In ogni caso, i soldi dovranno essere restituiti allo Stato dall’acquirente. È in questo contesto che si inserisce l’offerta dei concessionari del marchio tedesco, che ieri hanno ribadito la loro disponibilità a stanziare 500 milioni di euro per salvare la società.
Ma una delle poche certezze raggiunte nelle trattative fiume è che a giocare la partita sono rimasti in due. Fiat e Magna. Oggi ci sarà un nuovo giro di incontri. Il Lingotto e il produttore di componenti d’auto austro-canadese dovrebbero presentarsi all’appuntamento con i piani rielaborati anche alla luce della nuova richiesta di liquidità. Entrambi i contendenti sarebbero comunque disposti ad andare avanti e a coprire il buco. L’amministratore delegato della Magna, Siegfrid Wolf, lo ha dichiarato apertamente al quotidiano Rheinische Post.
Ma sulla strada dell’operazione Opel non c’è solo il nodo liquidità. Un altro macigno è arrivato ieri dalla Commissione Ue. Le regole europee sugli aiuti di Stato «vanno pienamente rispettate» da tutti, anche per quel che riguarda il settore automobilistico. Lo ha ribadito il portavoce della commissaria alla concorrenza, Neelie Kroes, alla vigilia dell’incontro a Bruxelles con i ministri dell’Industria europei, che oggi affronteranno la questione Opel e più in generale la situazione di Gm Europe. «Obiettivo della riunione», ha spiegato il portavoce del commissario Ue all’industria, Gunter Verheugen, «è quello di procedere ad uno scambio di informazioni e di coordinare gli eventuali interventi». Non parteciperanno all’incontro, comunque, i rappresentanti di Gm.
Joahnnes Laitenberger, portavoce dell’esecutivo europeo, ha sottolineato che «la riunione non è l’inizio di un processo, ma la continuazione di un processo, con la Commissione Ue che è sempre stata in contatto con le parti interessate». Opinione non condivisa dal sottosegretario tedesco all’Economia, Peter Hintexe, che ieri da Bruxelles si è detto «dispiaciuto che Verhuegen non abbia concordato l’incontro con il governo di Berlino». Nel mirino anche la britannica Vauxhall, che come Opel e Saab fa parte del gruppo Gm, e che ha fatto richiesta di aiuti. «Siamo in contatto con le autorità britanniche e al momento», ha detto il portavoce di Neelie Kroes, «e non abbiamo ragioni per pensare che si vogliano violare le regole europee sulla concorrenza».

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giovedì 28 maggio 2009

Statali invulnerabili alla crisi

Le retribuzioni contrattuali orarie ad aprile sono cresciute dello 0,1% rispetto a marzo 2009 e del 3,5% su aprile 2008, rispetto ad un’inflazione bloccata all’1,2%. Finalmente una buona notizia? Il dato diffuso ieri dall’Istat sembrerebbe una boccata d’ossigeno dopo lo schiaffo dell’Ocse che piazzava l’Italia al 23esimo posto su 30 per gli stipendi troppo bassi. In realtà, è troppo presto per festeggiare. L’andamento delle buste paga è infatti perfettamente in linea con quello degli ultimi mesi. Con eccezione di dicembre e gennaio dove alcuni rinnovi della parte economica dei contratti hanno spinto il dato mensile verso l’alto. Non a caso le previsioni per l’intero 2009, elaborate sempre dall’Istat, parlano di un incremento medio che dovrebbe attestarsi al 2,9%, un livello più basso di quello visto negli scorsi anni. E che le cose non vadano per il verso giusto è anche confermato dai dati relativi a occupazione e cassa integrazione nelle grandi imprese. per quanto riguarda il primo fronte a marzo il tasso è sceso dello 0,1% rispetto a febbario e dell’1,2% rispetto a marzo 2008. Ma al netto della cassa integrazione, ha precisato l’Istat, il calo occupazionale è stato del 3,4%. Si tratta del risultato peggiore dal gennaio 2001, anno in cui l’Istituto nazionale di statistica ha iniziato le rilevazioni. Le brutte notizie proseguono anche sul versante cassa integrazione. A marzo l’Istat ha infatti registrato un nuovo picco. Le ore di cassa integrazione utilizzate dalle imprese con oltre 500 dipendenti sono state 35,3 ogni mille lavorate, con un aumento del 370,7% rispetto allo stesso mese del 2008.
A soffrire maggiormente è il settore dell’industria, dove tutti i dati si ingigantiscono. La riduzione tendenziale dell’occupazione è infatti arrivata (sempre al netto della Cig) a quota -8,1%, mentre le ore usate di cassa integrazione balzano a 95,5 ogni mille lavorate, quasi una ogni dieci. Il che significa un aumento del 413,4% sullo stesso periodo dell’anno scorso.
Si tratta di un trend che non sembra purtroppo destinato a cambiare. Secondo le stime della Uil l’utilizzo della cassa integrazione nei primi quattro mesi dell’anno ha registrato un costante aumento, con oltre 442mila lavoratori di medie e grandi imprese che ad aprile hanno ricevuto l’assegno. Si tratta di un aumento del 155% rispetto a gennaio.
Non tutti i dati contenuti nel bollettino dell’Istat sono però negativi. In solitaria controtendenza c’è il curioso caso della pubblica amministrazione, che pur nella bufera della crisi economica continua a mantenere il primato della progressione degli stipendi. Il fenomeno non è nuovo. Il differenziale positivo delle buste paga degli statali rispetto a quelle del settore privato era già stato ampiamente segnalato dall governatore di Bankitalia nella sua relazione annuale del 2008. Mario Draghi aveva anche sottolineato l’anomalia di retribuzioni non solo più veloci, ma anche complessivamente più alte rispetto ai colleghi non pubblici. Circostanza dovuta in gran parte ai premi a pioggia e agli avanzamenti automatici di carriera.
Ebbene, il record della Pa sembra resistere bene ai colpi della recessione. Basta guardare l’indice Istat che parte dal 2005 ed arriva fino all’aprile del 2009. Nell’arco del periodo l’indice generale di tutti i settori economici è salito a 111, quello dei privati si è fermato un po’ prima, a 110,5. Imbattibili gli statali, che hanno invece raggiunto quota 112,5. Non tutti, ovviamente, hanno la busta paga gonfia. Le forze dell’ordine e i militari, ad esempio, si attestano su valori più bassi della media, con un indice che oscilla tra 106 e il 107. A mettere il turbo sono invece gli stipendi dei ministeriali, che con un 116,2 sono in testa alla classifica di tutti i settori pubblici e privati. Seguono a ruota gli impiegati nella scuola, passati dai 100 del 2005 ai 115 dell’aprile 2009. Va detto che all’interno della Pa gli stipendi di maestri e insegnanti sono significativamente più bassi della media Europa, ma come scatto non c’è male.

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La Fenice in mano alla Consulta

Ci mancava solo questo. Prima il lodo Alfano e il caso Mills, poi il termovalorizzatore di Acerra ed ora il decreto Alitalia. Sembra che nelle aule di giustizia abbiano deciso improvvisamente di rimboccarsi tutti le maniche. Basta che la pratica riguardi direttamente o indirettamente il presidente del Consiglio. Sarà una coincidenza, ma la sensazione è che in queste ultime settimane prima del voto sia sufficiente che la cosa rechi anche un piccolo fastidio al manovratore per far sì che la pigra macchina dello Stato inserisca rapidamente il turbo. Questa volta è stato il turno del Tar del Lazio, che ha deciso di sospendere il giudizio e di trasmettere tutti gli atti alla Corte costituzionale. Sotto accusa c’è il decreto del 28 agosto 2008 che ha ampliato gli ambiti di applicazione della legge Marzano consentendo alla compagnia di bandiera di accedere all’amministrazione controllata, di procedere alla fusione degli asset “buoni” con AirOne e di arrivare alla successiva cessione alla Cai di Colaninno e Sabelli.Il coinvolgimento del Tribunale amministrativo scaturisce dai ricorsi con cui Meridiana, Eurofly e Federconsumatori hanno chiesto l’annullamento del provvedimento con cui il 3 dicembre 2008 l’Antitrust ha autorizzato l’operazione Fenice. Le obiezioni riguardano in particolare il fatto che Antonio Catricalà, applicando il decreto sotto accusa, si sia limitato a prescrivere una serie di condizioni a tutela degli utenti invece di intervenire con più decisione sui nuovi assetti di mercato. Per il Tar «è verosimile ritenere - si legge nell’ordinanza - che la norma di legge abbia discriminato i vettori aerei prevedendo un trattamento più favorevole per le compagnie aeree che, realizzando l’operazione di concentrazione senza il preventivo esame dell’Antitrust sull’eventuale costituzione o rafforzamento di una posizione dominante, hanno incrementato la propria posizione in termini concorrenziali». Il collegio ha ritenuto che «tale discriminazione non sia ragionevole e, pertanto, risolvendosi in una disparità di trattamento, possa violare l’art. 3 della Costituzione».Il problema, intendiamoci, non è peregrino. Il decreto Alitalia, che si occupa, lo ricordiamo, di situazioni straordinarie ed eccezionali, prevede una deroga ai principi Antitrust per due anni. Ma sulla questione, oltre ad essersi espresso il Parlamento in fase di conversione del decreto e la Commissione europea (che ha spesso consentito deroghe ad altri Paesi dell’Unione), è intervenuto con chiarezza lo stesso Catricalà. Il presidente dell’Authority ha posto come unico problema quello della lunghezza del periodo di tutela concesso alla Cai, suggerendo una riduzione che renderebbe la prescrizione in linea con le normative internazionali. Ma ha anche ribadito che il decreto non consente affatto la violazione delle regole. «L’autorità», ha spiegato durante un’audizione in Senato, «non mancherà di vigilare sul comportamento delle nuove imprese che dovessero derivare dalle operazioni di concentrazione autorizzate dal decreto. L’impresa risultante sarà qualificabile come dominante sui mercati nei quali opererà e sarà pienamente soggetta al divieto di abusare della propria posizione».

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mercoledì 27 maggio 2009

Non è il fisco ad appiattire i salari

Sembrerà strano, con tutto quello che alla fine del mese versiamo nelle casse dell’Erario, ma non è solo un problema di tasse. Il fisco non basta a spiegare quella imbarazzante 23esima (su 30 Paesi) posizione dell’Italia registrata dall’Ocse calcolando il livello medio dei nostri salari netti. Numeri alla mano, il costo del lavoro medio nella Penisola non è più alto di quello della Germania e della Francia, che mettendo insieme cuneo fiscale e contributivo tolgono alla busta paga dei lavoratori una bella fetta di stipendio. No, non si tratta di balzelli. Ma di produttività. Se al costo del lavoro per dipendente sostituiamo il costo del lavoro per unità di prodotto scopriamo, infatti, che le cose cambiano. E non di poco. Un recente studio del Cerm rivela che dal 2000 ad oggi siamo l’unico Paese in Europa in cui il valore è aumentato. Con un differenziale di 5.10 punti rispetto alla media della Ue a 15. Il che significa che mentre in tutto il resto d’Europa costruire una bicicletta, un martello o una pentola costava col tempo sempre meno, da noi il costo per l’azienda continuava a salire, in barba alla tecnologia, all’innovazione e all’efficienza. Il discorso è specularmente identico per la produttività vera e propria. Anche qui ci viene in aiuto il lavoro del direttore del Cerm Fabio Pammolli e del senior economist Nicola Salerno. Fatta 100 la produttività del lavoro per occupato nel 2000 (al netto dell’inflazione), nel 2008 l’Italia scende a 97.3, mentre tutta l’Europa sale (con picchi del 113.9 dell’Inghilterra) e gli Stati Uniti arrivano a 111.9.A questo punto bisogna però capire quello che è successo. È chiaro infatti che se la produttività cala, lo fa anche la busta paga. Ma è vero anche il contrario. Se lo stipendio scende, il dipendente lavora male e poco. È questa la dinamica perversa (ora resa drammatica dalla crisi economica) in cui si è avvitata l’Italia negli ultimi decenni. Un sistema incoraggiato e favorito dai sindacati, ma anche sottovalutato dalle imprese e dalla politica. È il mito della piena occupazione, che ha dirottato le risorse verso le assunzioni prosciugando gli investimenti in ricerca e sviluppo o in nuove tecnologie che avrebbero dato impulso alla produttività e alle buste paga. Meglio dieci operai che una macchina, è stato il ragionamento veteroluddista. Senza preoccuparsi troppo del fatto che quel meccanismo avrebbe portato a ridurre progressivamente non solo gli stipendi, ma anche i posti di lavoro complessivi del sistema. Non è un caso che tra il 1995 e il 2008 il pil pro capite nella Ue a 15 è cresciuto del 63%, mentre da noi poco più del 40%Intendiamoci, il problema italiano è complesso e antico. Riguarda l’alto peso della contribuzione pensionistica sul costo del lavoro, un fisco che penalizza le famiglie, la rigidità della contrattazione collettiva, la scarsissima differenziazione territoriale a fronte, invece, di variazioni sensibili del costo della vita. E riguarda anche la Pubblica amministrazione, che ha contribuito alla diminuzione di produttività senza che però questo si ripercuotesse sulle retribuzioni, salite molto più del settore privato. Ma è evidente, come si legge nello studio del Cerm, che per ripartire «è necessario rompere l’equilibrio vizioso in cui bassa produttività e basso costo del lavoro si giustificano a vicenda». Un equilibrio di sottosviluppo in cui non solo i redditi sono compressi verso il basso, ma sono destinate a rimanere limitate anche le risorse per il welfare. A chi convenga un gioco del genere è difficile da capire.

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venerdì 22 maggio 2009

Il falco Sacconi ora vuole far pace con Epifani

Il tempo giusto e le persone giuste, aveva detto giovedì Giulio Tremonti parlando in maniera un po’ sibillina di pensioni. È toccato a Maurizio Sacconi, ieri, fare nomi e cognomi. E, a sorpresa, tra gli invitati è spuntato anche Guglielmo Epifani. Proprio a lui si è rivolto il ministro del Welfare parlando dal palco del congresso della Cisl: «Chiedo anche alla Cgil di riflettere, di aprirsi, prima che al dialogo con il governo, al dialogo vero, pieno, compiuto». L’appello, curiosamente, arriva dallo stesso Sacconi che durante la trattativa su Alitalia era accusato di voler spaccare il fronte sindacale. Ma tant’è. Per uscire dalla crisi e per costruire «con il dialogo» il percorso per l’avvio di riforme, ha spiegato il ministro, c’è bisogno di coesione sociale: «Il Paese in questo momento ha davvero bisogno di tutti, anche dell’amico Guglielmo». Perché i «germogli» intravisti ieri dal Centro studi di Confindustria non sbocceranno così in fretta anche nel mondo del lavoro, dove l’occupazione registra con ritardo i cambi di marcia. In altre parole, i posti di lavoro «continueranno a diminuire». Anche se i dati sull’andamento della crisi fanno presumere che «il peggio del peggio» sia ormai alle spalle, ha osservato quindi il responsabile del Lavoro, «siamo ancora immersi in una situazione di recessione». Quanto alla riapertura del dibattito sulle pensioni, ha assicurato Sacconi, non ci può essere sviluppo se manca «il dialogo» tra le parti sociali, tra gli attori interessati. Soprattutto, per il governo, resta fondamentale avere un interlocutore che sieda ai tavoli per contrattare. Come la Cisl, ha detto il ministro, tornando a tessere, tra gli applausi, le lodi dell’organizzazione che negli ultimi mesi si è «guadagnata» il rispetto. «Perché le firme pesano, fanno la differenza, sono assunzione di responsabilità, danno titolo e forza», ha aggiunto. E se anche la Uil si è guadagnata «il tavolo negoziale», lo stesso non è accaduto per la Cgil, ancora all’angolo nella triangolazione tra governo, Confindustria e parti sociali. In tempo reale la replica del segretario generale, Guglielmo Epifani, al congresso della Cisl per portare, «oltre al saluto», quel «senso di stima, affetto, amicizia e rispetto che non deve venire mai meno». Anche lui (che da “nemico” è stato appaludito 14 volte durante l’intervento) ha chiesto di limare «le differenze» per affrontare insieme le priorità del Paese. A partire dalla crisi, ha detto, che «non è ancora finita. I prossimi mesi, soprattutto sull’occupazione, saranno molto più pesanti» e il governo, «se non ci vogliamo raccontare balle, ci ha messo al massimo 2-3 miliardi». Poi, il segretario ha spiegato che la Cgil non vuole sfuggire al tema delle pensioni. Ma a patto di ripartire dai protocolli già firmati. Per la previdenza ci sono da ultimare i capitoli lasciati aperti dal governo Prodi su lavori usuranti e coefficienti di trasformazione. Sulla rappresentanza e sul fisco, invece, c’è la piattaforma unitaria firmata un anno e mezzo fa. Da qui vuole ripartire Epifani, che oggi riceverà la risposta del leader Cisl Raffaele Bonanni. Per ora è arrivata quella della Uil. Sul fisco, ha detto Luigi Angeletti, c’è un’unica cosa da fare: «ridurre le tasse su lavoro, pensioni e tredicesime». Quanto ai rapporti interconfederali, «le piattaforme non si fanno per proclamare lo sciopero ma per fare accordi».

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giovedì 21 maggio 2009

Marcegaglia accusa, Tremonti teorizza

Troppo morbida, sostengono alcuni. In realtà, dietro il tono garbato, Emma Marcegaglia non ha risparmiato gli affondi al governo. A partire dalle riforme «urgenti e indispensabili» fino alla «vergogna» dei debiti della Pa nei confronti delle imprese. A ben guardare, anzi, l’intervento della presidente all’Assemblea annuale della Confindustria è un lungo elenco di doglianze che portano tutte allo stesso punto: il governo si dia una mossa, e lo faccia in fretta perché la crisi (ma non era dietro le spalle?) non è affatto finita. «Di qui l’appello rivolto a Silvio Berlusconi: «Presidente, ha un consenso straordinario, lo usi per fare adesso le riforme necessarie». Perché senza interventi strutturali, ha spiegato dal palco dell’Auditorium di Roma la Marcegaglia, per la ripresa bisognerà attendere il 2013, «un arco di tempo troppo lungo per non avere conseguenze negative sulla vita dei lavoratori e delle imprese e sulla stessa coesione sociale». Tra le priorità c’è l’innalzamento dell’età pensionabile. «Siamo il Paese», ha detto, «con la spesa sociale più squilibrata a favore delle pensioni, per le quali spendiamo quasi il 16% del Pil contro il 9,5% dei Paesi avanzati». Ma c’è anche l’allungamento della cassa integrazione, visto che «negli ultimi 18 anni la gestione della cassa ha accumulato saldo attivo di 40 miliardi che è andato a finanziare i disavanzi pubblici». Quanto al capitolo infrastrutture, la presidente di Confindustria ha detto di avere apprezzato «gli sforzi del ministro Matteoli», ma nonostante gli annunci «non risulta alcun aumento degli investimenti pubblici nel 2009». C’è poi le «scandalo nazionale» degli enti inutili, che «continuano a pesare sulle tasche dei contribuenti» e «impongono burocrazia dannosa su cittadini e imprese». Tra questi, ha aggiunto, «ci sono anche le Province». La presidente ha infine messo in guardia il governo sul federalismo fiscale, che non potrà «essere in alcun modo una giustificazione per aumentare la spesa pubblica e di conseguenza la pressione fiscale».
Ma le parole più dure sono state riservate alla stretta del credito che sta soffocando le imprese, «schiacciate tra la riduzione degli ordini e la difficoltà di incasso dei pagamenti». Sui prestiti il dito è puntato verso le banche, perché malgrado i Tremonti bond sono «troppi i casi di aziende cui vengono ritirati i fidi, che si vedono rifiutare le anticipazioni sulle fatture e a cui vengono applicati tassi esorbitanti». Il j’accuse della Marcegaglia è però diretto anche e soprattutto al governo perché «la montagna di crediti verso le pubbliche amministrazioni è una patologia insopportabile» e «i ritardi nei pagamenti, già gravissimi, si sono allungati». Che il fronte sia caldo lo sa bene il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che non a caso un paio di giorni fa si è impegnato a sbloccare la situazione attraverso l’intervento di Sace e Cdp. Ma di concreto, fino ad ora, c’è poco o nulla.
«Ci hanno spiegato», ha detto la Marcegaglia, «che lo Stato e le altre amministrazioni non possono rimborsare subito tutti i debiti pregressi». A questo punto, ha tuonato, «chiedo come e quando saremo pagati». Risposte, su questo, non ne sono arrivate. Ma Silvio Berlusconi si è detto «d’accordo su tutto» con la presidente. Mentre il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, ha sottolineato che il governo «sarà al fianco delle imprese per rafforzare la competitività del sistema».
C’è poi il segnale arrivato dal titolare dell’Economia, che nel pomeriggio, dal congresso Cisl, ha aperto uno spiraglio sulla riforma della previdenza. Niente di troppo impegnativo, ma qualcosa di più del solito: le pensioni non si toccano. «Fare le riforme è una cosa dura e complessa», ha spiegato Giulio Tremonti, «non basta dire: facciamo un patto tra generazioni. Devi fare un disegno di legge in cui si dice con quali diritti e a quale età vai in pensione». Il ministro si è comunque detto convinto che il sistema sarà riformato. Quando? «Al tempo giusto e con le persone giuste». Perché, ha proseguito nella sua sibillina metafora «c’è un tempo per gestire la crisi e un tempo per fare le riforme». Nel frattempo, Tremonti ha «fede e fiducia». Un tasto su cui hanno insistito anche il premier e Scajola, sottolineando che «ottimismo e fiducia» sono ingredienti necessari a combattere la crisi. Ce ne vorrà molto di entrambi.

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martedì 19 maggio 2009

Fantozzi addio, il fannullone va in galera

Chi pensava che Renato Brunetta avesse abbassato la guardia dovrà ricredersi. Archiviata la class action, sono arrivate le manette. Per i fannulloni della Pa si prevedono tempi duri. E qualcuno forse rimpiangerà le cause collettive, che si sarebbero limitate a garantire il ripristino del servizio fornito. Tutt’altra, adesso, la musica. Chi fa il furbo rischia di finire dritto dietro le sbarre, fino a cinque anni. Il nuovo decreto legislativo sul pubblico impiego è fresco di stampa e di autorizzazioni, arrivate ieri dalla Ragioneria generale dello Stato. Basta una rapida occhiata al nuovo testo per capire che il ministro ha dovuto cedere alle pressioni del collega Giulio Tremonti sui ricorsi di massa, ma non è indietreggiato di una virgola sulla linea dura nei confronti degli assenteisti. Il riferimento alle sanzioni di carattere penale, infatti, era già contenuto nella prima versione del decreto. E malgrado le proteste dei sindacati, Brunetta è andato avanti per la sua strada.
Le nuove norme volute dal titolare della Funzione pubblica per dichiarare guerra alle inefficienze della Pa sono contenute nell’ultima parte del testo. Al Capo V, articolo 67, dove si ridisegnano le sanzioni disciplinari previste dal decreto legislativo n. 165 del 2001. Nel dettaglio, l’articolo 55 quinquies prevede che oltre al licenziamento su due piedi e al risarcimento del danno «il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustifica l’assenza del servizio mediante una certificazione falsa o falsamente attestante uno stato di malattia è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600».
Il deterrente dovrebbe scoraggiare anche i fannulloni più impenitenti. La galera, infatti, non scatta solo nel caso di falsificazioni di atti pubblici, come nel caso dei certificati medici, ma in presenza di qualsiasi “modalità fraudolenta” con cui l’impiegato cerca di fare fesso lo Stato. Non solo. La medesima pena prevista per il ”fannullone” si applicherà anche «al medico e a chiunque altro concorre nella commissione del delitto». Se il testo passa, trovare il Fantozzi di turno, costretto a muovere le sagome dell’intero reparto per garantire un po’ di relax ai colleghi, non sarà più così facile.

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lunedì 18 maggio 2009

Stipendi bassi, ma non per gli statali

Tasse troppo alte, scarsa produttività, costo del lavoro alle stelle, poca attenzione alla composizione del reddito famigliare. La doccia dell’Ocse, per quanto gelata, non ci racconta grandi novità. Già nell’ottobre del 2007, durante una lezione a Torino, il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, aveva denunciato il livello troppo basso delle retribuzione italiane, spiegando che i nostri stipendi viaggiano su medie sensibilmente inferiori al resto d’Europa. L’Ocse fa di più, e ci dice che non è tanto lo stipendio lordo che piange quanto il netto in busta paga e, alla fine dei conti, quello che resta in mano alla famiglia per campare.
Cifre che ci vedono nelle posizioni più arretrate non solo del Vecchio Continente, ma di tutto il mondo industrializzato (23esimi su 30 Paesi). Quello che l’Ocse, a differenza di Draghi, non ci dice è che gli stipendi italiani non viaggiano tutti alla stessa velocità. La questione non è di poco conto, perché facendo qualche passo indietro e verificando la crescita tendenziale delle retribuzioni nel nostro Paese, scopriamo che a crescere di più sono proprio quelle che paghiamo noi, quelle degli statali. Comprese quelle, per intenderci, di chi ha il coraggio di scendere in piazza per protestare contro l’odioso “tornello” che gli impedisce di andare a fare la spesa.
La beffa è nascosta, ma non troppo. Per accorgersi del trucco basta confrontare, come ha fatto Bankitalia nell’ultima relazione annuale, non solo le retribuzioni calcolate sulla base dei contratti nazionali, ma le retribuzioni di fatto, ovvero quelle formate da premi, bonus, incentivi e scatti di anzianità. È grazie a queste forme di contrattazione di secondo livello (quelle, per inciso, che il ministro Brunetta sta cercando di legare una volta per tutte alla produttività togliendole dalle mani dei sindacati) che i dipendenti della Pubblica amministrazione nell’arco di una quindicina d’anni sono riusciti ad eguagliare e superare i privati. Numeri alla mano, considerate uguali a 100 le retribuzioni nel 1992, nel 2007 quelle del privato sono arrivate solo a 107, mentre quelle del pubblico sono cresciute fino a 110. Un risultato che in tempi di stagnazione e bassa crescita fa senza dubbio la differenza. Un’ulteriore conferma arriva da un recente rapporto Istat, che analizza le variazioni annue tenendo conto anche degli sbalzi congiunturali dovuti ai rinnovi contrattuali. Ebbene, tra il 2002 e il 2005 la busta paga degli agricoltori è cresciuta del 2,7% l’anno, quella di chi lavora nell’industria del 2,9%, mentre lo stipendio medio dell’impegato statale è salito del 3,1% a fronte di un’inflazione media annua del 2,5%.
Il fenomeno è tutt’altro che marginale, visto che gli impiegati dello Stato costituiscono il 14,5% del totale degli occupati. Il risultato è che mentre il numero dei dipendenti è leggermente diminuito, dal 2000 al 2007, come riporta uno studio della Cgia di Mestre, la spesa per il personale pubblico in percentuale del Pil è salita dal 10,4 al 10,7%. Alla faccia delle buste paga leggere e degli allarmi dell’Ocse. E non è tutto. Il peso della Pa non è neanche distribuito in maniera uniforme sul territorio nazionale. Sempre l’ufficio studi della Confartigianato di Mestre ci spiega infatti che mentre al Nord ci sono 50 impiegati pubblici ogni 1.000 abitanti, al Sud la cifra balza a 59 (altro record negativo a livello Ue). Una situazione che non fa che accrescere il dislivello già visto a livello nazionale. È evidente, infatti, che nel Mezzogiorno, dove si concentra la presenza massiccia degli statali pagati dai contribuenti e dove le dinamiche retributive dei privati si muovono su livelli sensibilmente più bassi rispetto alla media, il differenziale raggiunge dimensioni ancora più macroscopiche. Di questo, purtroppo, l’Ocse non si occupa.

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sabato 16 maggio 2009

Fs, un uomo solo al comando

Altro che alta velocità. La vera rivoluzione nelle Fs partirà il 14 giugno. Da quel giorno sui treni italiani in cabina di guida ci sarà un solo macchinista. Può sembrare una banalità, visto che in tutto il mondo da anni nessuna compagnia si sogna più di pagare due stipendi per pilotare gioielli tecnologici ormai completamente automatizzati e supersicuri. Ma da noi sul doppio uomo al comando i sindacati avevano costruito una sorta di Linea Maginot, da difendere ad ogni costo e contro ogni evidenza. Il braccio di ferro con l’azienda, che si prolungava da anni, si è sbloccato solo la scorsa notte, con la firma da parte di tutte le sigle (Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Fast), tranne l’Orsa, dell’accordo programmatico per il rilancio delle Fs. Si tratta ora di vedere quanto sia costata l’intesa all’ad Mauro Moretti. Tra i punti principali, ad esempio, c’è la reinternalizzazione delle attività di manutenzione che dovrebbe portare a 900 assunzioni entro l’anno. Di sicuro, come ammettono pure i sindacati, si tratta di una svolta «epocale».

giovedì 14 maggio 2009

Dove sono i nuclearisti?

E' bastata l'approvazione di un emendamento al ddl sviluppo per riaprire la crociata contro il nucleare. Ambientalisti, ampie frange dell'opposizione, amministratori locali e molti organi di stampa hanno immediatamente rispolverato i vecchi slogan e si preparano a marciare contro il governo, accusato di voler insistere con pervicacia sulla folle strada del ritorno all'energia dell'atomo. Non stupisce. Quello che stupisce è il silenzio di tutti questi mesi dei nuclearisti convinti. Di tutti coloro, scienziati, imprenditori, neoambientalisti, politici ed esperti, che avevano salutato con entusiasmo la scelta del governo di procedere con estrema fretta al rilancio del nucleare per recuperare il tempo perduto dall'87 ad oggi. Tutti infatti sanno, come ha spiegato più volte il ministro Claudio Scajola, che tra costruzione, realizzazione e autorizzazione, per mettere in piedi una centrale servono almeno dieci anni. Ebbene la fretta annunciata dal governo appena insediato è stata tale che ad un anno di distanza siamo ancora a zero. Il ddl sviluppo è stato infatti approvato dal Senato e ora dovrà tornare alla Camera per il via libera definitivo. Da allora, il governo si è concesso altri sei mesi di tempo per avviare la ripartenza. In altre parole, se ne parla nel 2010, se tutto va bene. Ma non era una priorità?

sabato 9 maggio 2009

Buon compleanno (in ritardo)

"La libertà è essenziale per far posto all'imprevedibile e all'impredicibile; ne abbiamo bisogno perché, come abbiamo imparato, da essa nascono le occasioni per raggiungere molti dei nostri obiettivi".
Friedrich Von Hayek (8 maggio 1899 - 23 marzo 1992)

venerdì 8 maggio 2009

Dove nessun uomo è mai giunto prima

Mentre noi ci accapigliamo sulle smanie sessuali di Berlusconi e sulle foto piccanti di Noemi, c'è chi sta lavorando alla propulsione a curvatura. Ricordate il capitano James T. Kirk o il più recente Jean Luc Picard? La mitica Enterprise sfrecciava nei cieli alla mitica velocità worp per raggiungere ed esplorare nuovi mondi e nuovi universi (...where no man has gone before). Si tratta in sostanza di "piegare" lo spazio per superare la velocità della luce. Fantascienza? Ebbene, secondo alcuni studiosi americani (qui l'articolo) il viaggio a curvatura sarebbe teoricamente possibile. Certo, direte voi, noi abbiamo già il Frecciarossa. E poi, se ce ne andiamo a scorrazzare per l'universo, chi ci racconta dell'ultima conquista del premier o delle scarpe della signora Obama?

mercoledì 6 maggio 2009

Per fortuna che Schwarzy c'è

Ci voleva Terminator (e la crisi economica) per riaprire il dibattito sulla legalizzazione della marijuana. Il governatore della California ci ha già abituato da tempo a scelte ispirate a una sorta di libertarismo pragmatico che a volte fanno storcere il naso ai "suoi" repubblicani e altre disorientano i democratici. Ma sentire che sta addirittura pensando di cavalcare la vecchia battaglia anti-proibizionista di Milton Friedman le supera tutte. Sarà il bisogno di riacquistare popolarità in vista della scadenza del secondo mandato, sarà solo un modo per far entrare un po' di soldi nella casse dello Stato... poco importa. Se il cattivo repubblicano farà la sua mossa, la palla passerà al buon Obama, visto che la materia è tutt'ora regolata da una legge federale. E allora ne vedremo delle belle... Qui l'articolo del Corsera: