Tasse troppo alte, scarsa produttività, costo del lavoro alle stelle, poca attenzione alla composizione del reddito famigliare. La doccia dell’Ocse, per quanto gelata, non ci racconta grandi novità. Già nell’ottobre del 2007, durante una lezione a Torino, il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, aveva denunciato il livello troppo basso delle retribuzione italiane, spiegando che i nostri stipendi viaggiano su medie sensibilmente inferiori al resto d’Europa. L’Ocse fa di più, e ci dice che non è tanto lo stipendio lordo che piange quanto il netto in busta paga e, alla fine dei conti, quello che resta in mano alla famiglia per campare.
Cifre che ci vedono nelle posizioni più arretrate non solo del Vecchio Continente, ma di tutto il mondo industrializzato (23esimi su 30 Paesi). Quello che l’Ocse, a differenza di Draghi, non ci dice è che gli stipendi italiani non viaggiano tutti alla stessa velocità. La questione non è di poco conto, perché facendo qualche passo indietro e verificando la crescita tendenziale delle retribuzioni nel nostro Paese, scopriamo che a crescere di più sono proprio quelle che paghiamo noi, quelle degli statali. Comprese quelle, per intenderci, di chi ha il coraggio di scendere in piazza per protestare contro l’odioso “tornello” che gli impedisce di andare a fare la spesa.
La beffa è nascosta, ma non troppo. Per accorgersi del trucco basta confrontare, come ha fatto Bankitalia nell’ultima relazione annuale, non solo le retribuzioni calcolate sulla base dei contratti nazionali, ma le retribuzioni di fatto, ovvero quelle formate da premi, bonus, incentivi e scatti di anzianità. È grazie a queste forme di contrattazione di secondo livello (quelle, per inciso, che il ministro Brunetta sta cercando di legare una volta per tutte alla produttività togliendole dalle mani dei sindacati) che i dipendenti della Pubblica amministrazione nell’arco di una quindicina d’anni sono riusciti ad eguagliare e superare i privati. Numeri alla mano, considerate uguali a 100 le retribuzioni nel 1992, nel 2007 quelle del privato sono arrivate solo a 107, mentre quelle del pubblico sono cresciute fino a 110. Un risultato che in tempi di stagnazione e bassa crescita fa senza dubbio la differenza. Un’ulteriore conferma arriva da un recente rapporto Istat, che analizza le variazioni annue tenendo conto anche degli sbalzi congiunturali dovuti ai rinnovi contrattuali. Ebbene, tra il 2002 e il 2005 la busta paga degli agricoltori è cresciuta del 2,7% l’anno, quella di chi lavora nell’industria del 2,9%, mentre lo stipendio medio dell’impegato statale è salito del 3,1% a fronte di un’inflazione media annua del 2,5%.
Il fenomeno è tutt’altro che marginale, visto che gli impiegati dello Stato costituiscono il 14,5% del totale degli occupati. Il risultato è che mentre il numero dei dipendenti è leggermente diminuito, dal 2000 al 2007, come riporta uno studio della Cgia di Mestre, la spesa per il personale pubblico in percentuale del Pil è salita dal 10,4 al 10,7%. Alla faccia delle buste paga leggere e degli allarmi dell’Ocse. E non è tutto. Il peso della Pa non è neanche distribuito in maniera uniforme sul territorio nazionale. Sempre l’ufficio studi della Confartigianato di Mestre ci spiega infatti che mentre al Nord ci sono 50 impiegati pubblici ogni 1.000 abitanti, al Sud la cifra balza a 59 (altro record negativo a livello Ue). Una situazione che non fa che accrescere il dislivello già visto a livello nazionale. È evidente, infatti, che nel Mezzogiorno, dove si concentra la presenza massiccia degli statali pagati dai contribuenti e dove le dinamiche retributive dei privati si muovono su livelli sensibilmente più bassi rispetto alla media, il differenziale raggiunge dimensioni ancora più macroscopiche. Di questo, purtroppo, l’Ocse non si occupa.
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