C’è grande attesa per le considerazioni finali che il governatore Mario Draghi leggerà domani mattina in Bankitalia. Soprattutto dalle parti di Via XX Settembre, dove si teme l’ennesimo affondo sulla politica economica del governo. Del resto, nelle sue quattro relazioni annuali e nei numerosi interventi pubblici, anche recenti, il numero uno di Via Nazionale non ha mai mancato di invocare con forza le riforme strutturali come unica strada per consolidare i conti dello Stato e tornare a crescere. Quelle stesse riforme su cui giovedì scorso ha puntato il dito la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, denunciandone l’assenza dalla manovra messa a punto da Giulio Tremonti.
Di sicuro, però, le riflessioni di Draghi non potranno entrare nel dettaglio. Da quando il Consiglio dei ministri ha varato la finanziaria, il testo è cambiato anche più di una volta al giorno. La versione definitiva è forse quella arrivata ieri mattina nelle mani del Capo dello Stato. Troppo tardi per finire sotto la lente d’ingrandimento degli esperti di Via Nazionale che in queste ore stanno limando il discorso del governatore.
Una casualità dettata dagli eventi? Non del tutto. Secondo alcune indiscrezioni trapelate da Via XX Settembre, oltre al braccio di ferro tra il ministro dell’Economia ed alcuni settori della maggioranza, a ritardare la stesura finale della manovra sarebbe stato anche il tentativo di sottrarre il testo al verdetto di Draghi.
Poco casuale, in quest’ottica, sembra essere anche la tempestiva firma di Tremonti e del ministro Maurizio Sacconi arrivata ieri sul regolamento attuativo che rende operativa la norma che lega l’eta pensionabile all’aspettativa di vita a partire dal 2015, come stabilito dal decreto anticrisi dello scorso anno. Un provvedimento che si va ad aggiungere all’accelerazione sull’equiparazione uomo-donna per le pensioni del pubblico impiego, inserita nella finanziaria varata martedì, e che dovrebbe attutire la scontata bordata di Draghi sull’instabilità del sistema previdenziale. L’innalzamento dell’età pensionabile è infatti un vero e proprio cavallo di battaglia, su cui il governatore insiste da tempo in tutti i suoi interventi.
La questione va al di là della rivalità personale fra Tremonti e il governatore. Le preoccupazioni espresse dal ministro ai collaboratori più stretti riguarda la reazione dei mercati internazionali alle misure correttive messe a punto dal governo. Uno sgambetto di Draghi potrebbe aumentare il clima di sfiducia già presente negli investitori e rendere assai più complicato far passare l’idea che l’Italia è fuori pericolo.
Da Via Nazionale fanno ovviamente sapere che il governatore si guarderà bene dall’assumere atteggiamenti irresponsabili nei confronti del Paese. Questo non significa che mancheranno gli stimoli, anche forti, al governo per avviare un cambio di marcia. Solo qualche giorno fa il banchiere centrale, all’indomani del maxi piano di emergenza varato dalla Ue, ha sottolineato come «non ci sia alternativa al consolidamento fiscale per recuperare la stabilità finanziaria» dei paesi europei. Un avvertimento chiaro all’Unione (e all’Italia), che, per evitare di essere condannata a un lento declino, deve mettere mano alle riforme fino a ora rimandate per ritrovare la crescita e rilanciare l'occupazione. Draghi tornerà a chiedere interventi a costo zero sulla pubblica amminsitrazione, sulla giustizia, sulla scuola. Imperativi che si affiancano alla grande riforma del sistema finanziario di cui lo stesso governatore è promotore attraverso la presidenza del Financial stability board. Draghi tornerà poi a sottolineare, in questo caso in linea con Tremonti, la necessità di un governo economico dell’Ue più forte con regole più rigide, anche attraverso il cambio del patto di stabilità, pena il diffondersi di rischi ad altre nazioni.
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Al principio fu creato l'universo. Questo fatto ha sconcertato non poche persone ed è stato considerato dai più come una cattiva mossa. (Douglas Adams)
domenica 30 maggio 2010
Tremonti alle prese col verdetto di Draghi accelera sulla mini-riforma delle pensioni
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sabato 29 maggio 2010
Il dirigente Fastweb in cella da novanta giorni: «Pronto a difendermi. Dopo Scaglia uscirò anch’io»
Jeans, scarpe da tennis, maglia blu e maglietta bianca che spunta dal colletto, volto curato, barba fatta. Visto così, da lontano, potrebbe sembrare un elegante giovanotto in vacanza. Ma gli occhi di Mario Rossetti raccontano un’altra storia. Una delle tante, verrebbe da dire, nell’Italia della giustizia ingiusta, dei Tortora, dei Cagliari, dei De Lorenzo. Se non fosse che dietro le sbarre da oltre 90 giorni c’è lui, l’ex direttore finanziario di Fastweb travolto dalla bufera delle frodi carosello. E il mal comune conta poco quando non puoi vedere i tuoi figli, i tuoi amici. .
È al termine di un lungo colloquio con il legale che Rossetti si presenta. Un incontro veloce, quello con Giorgio Stracquadanio, ma sufficiente a capire che il manager in questi tre mesi è cambiato. Il deputato del PdL lo aveva già incontrato a Rebibbia, poco dopo l’arresto. «Allora», dice il parlamentare, «era spaventato, incredulo». Ora Rossetti è lucido, determinato. «Nonostante tutto», spiega in una stanza del raggio G12 del carcere romano in presenza del direttore, del vicedirettore e di un ispettore della Penitenziaria, «ho ancora fiducia nell’Italia, nelle istituzioni». «Sono pronto a difendermi», aggiunge. E lo farà con la forza di chi non ha perso la speranza. Malgrado la delusione ricevuta il 17 maggio, con gli arresti domiciliari concessi solo a Silvio Scaglia, dopo 80 giorni di carcere. «Prima o poi toccherà anche a me», dice, perché «la parola sempre non è nella dimensione umana». Nel frattempo, Rossetti divora libri. Sta diventando un esperto di letteratura carceraria. «Ho appena finito Le ali della Libertà», racconta con gli occhi che si illuminano. Del resto, la storia di Stephen King, di cui tutti conosciamo la trasposizione cinematografica, parla proprio di un esperto di finanza accusato ingiustamente. Piuttosto che finire come Tim Robbins, su una spiaggia del Messico, però, Rossetti vorrebbe più semplicemente tornare dalla moglie e dai tre figli (Giorgio di 9 anni, Luise di 8 e Leone di 2). Ma il manager, deformazione professionale, si sta anche interessando di organizzazione carceraria. «Trovo interessante l’idea statunitense di privatizzare il sistema», dice, «in molti casi ha migliorato l’efficienza e reso più accettabili le condizioni dei detenuti». Qui le cose sono un po’ diverse. Soprattutto per lui, che come detenuto in custodia cautelare ha paradossalmente meno diritti degli altri. Un’ora d’aria invece di due, accesso alla biblioteca solo quando gli altri non ci sono, difficoltà ad avere qualsiasi extra. «Vorrei scrivere», spiega, «ma non riesco ad ottenere un pc. E con carta e penna mi riesce difficile, non sono abituato».
Stracquadanio è convinto che Rossetti voglia raccontare la sua storia. E che, come è successo a Scaglia, voglia iniziare un percorso che proseguirà anche fuori. «Il carcere preventivo è come un’ustione, una ferita che non si rimargina». Non serve scomodare Tortora. «I casi di ingiusta custodia cautelare, di uso improprio della carcerazione, spesso per ottenere una confessione, sono centinaia». Anche Stracquadanio ha iniziato un percorso. «Mi occuperò di questo con più frequenza. Voglio incontrare un detenuto in attesa di giudizio ogni settimana». «Mi raccomando, mi saluti gli amici con cui non ho più avuto modo di parlare», dice Rossetti mentre lo riaccompagnano in cella.
© Libero
È al termine di un lungo colloquio con il legale che Rossetti si presenta. Un incontro veloce, quello con Giorgio Stracquadanio, ma sufficiente a capire che il manager in questi tre mesi è cambiato. Il deputato del PdL lo aveva già incontrato a Rebibbia, poco dopo l’arresto. «Allora», dice il parlamentare, «era spaventato, incredulo». Ora Rossetti è lucido, determinato. «Nonostante tutto», spiega in una stanza del raggio G12 del carcere romano in presenza del direttore, del vicedirettore e di un ispettore della Penitenziaria, «ho ancora fiducia nell’Italia, nelle istituzioni». «Sono pronto a difendermi», aggiunge. E lo farà con la forza di chi non ha perso la speranza. Malgrado la delusione ricevuta il 17 maggio, con gli arresti domiciliari concessi solo a Silvio Scaglia, dopo 80 giorni di carcere. «Prima o poi toccherà anche a me», dice, perché «la parola sempre non è nella dimensione umana». Nel frattempo, Rossetti divora libri. Sta diventando un esperto di letteratura carceraria. «Ho appena finito Le ali della Libertà», racconta con gli occhi che si illuminano. Del resto, la storia di Stephen King, di cui tutti conosciamo la trasposizione cinematografica, parla proprio di un esperto di finanza accusato ingiustamente. Piuttosto che finire come Tim Robbins, su una spiaggia del Messico, però, Rossetti vorrebbe più semplicemente tornare dalla moglie e dai tre figli (Giorgio di 9 anni, Luise di 8 e Leone di 2). Ma il manager, deformazione professionale, si sta anche interessando di organizzazione carceraria. «Trovo interessante l’idea statunitense di privatizzare il sistema», dice, «in molti casi ha migliorato l’efficienza e reso più accettabili le condizioni dei detenuti». Qui le cose sono un po’ diverse. Soprattutto per lui, che come detenuto in custodia cautelare ha paradossalmente meno diritti degli altri. Un’ora d’aria invece di due, accesso alla biblioteca solo quando gli altri non ci sono, difficoltà ad avere qualsiasi extra. «Vorrei scrivere», spiega, «ma non riesco ad ottenere un pc. E con carta e penna mi riesce difficile, non sono abituato».
Stracquadanio è convinto che Rossetti voglia raccontare la sua storia. E che, come è successo a Scaglia, voglia iniziare un percorso che proseguirà anche fuori. «Il carcere preventivo è come un’ustione, una ferita che non si rimargina». Non serve scomodare Tortora. «I casi di ingiusta custodia cautelare, di uso improprio della carcerazione, spesso per ottenere una confessione, sono centinaia». Anche Stracquadanio ha iniziato un percorso. «Mi occuperò di questo con più frequenza. Voglio incontrare un detenuto in attesa di giudizio ogni settimana». «Mi raccomando, mi saluti gli amici con cui non ho più avuto modo di parlare», dice Rossetti mentre lo riaccompagnano in cella.
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venerdì 28 maggio 2010
Marcegaglia insoddisfatta: «Ora servono le riforme»
Si poteva, e si dovrà, fare di più. È questo il senso della relazione di Emma Marcegaglia, che raccoglie il più lungo dei 37 applausi sui tagli ai costi della politica, «l’unico settore che non conosce né crisi né cassa integrazione». Ma la cura dimgrante per la Pubblica amministrazione contenuta nella manovra è «solo un buon inizio».
Di fronte agli oltre 3mila imprenditori riuniti per la sua terza assemblea annuale di Confindustria da presidente, la Marcegaglia snocciola numeri e dati da far venire i brividi. Sette punti di Pil e oltre 700mila posti di lavoro persi, 100 trimestri di produzione industriale bruciati, con un crollo del 25%, che ha riportato l’Italia indietro fino al 1985. Da qui, dal «pesantissimo» bilancio della crisi, bisogna ripartire. Pieno sostegno, dunque, «alla linea del rigore del ministro dell’Economia» e alle «misure, che Confindustria chiede da tempo, contenute nella manovra» del governo.
Oltre l’emergenza
Ma per uscire dalla palude occorre altro. Bisogna guardare oltre l’emergenza. Servono «interventi strutturali per incidere sui meccanismi della spesa pubblica» e, soprattutto, «riforme per rilanciare lo sviluppo». A partire da quella fiscale, su cui la Marcegaglia riceve la seconda ovazione degli imprenditori. Ma la lista è lunga. Sul fronte della spesa, avverte la presidente di Confindustria, «nessuna voce è intoccabile». Occorrono «tagli agli stipendi pubblici (cresciuti dal 2000 del 16% rispetto al 3,9% di quelli privati), aumenti dell’età effettiva di pensionamento, revoca delle false invalidità, tagli alla sanità». Perché «mettere in ordine i conti pubblici non basta e non è duraturo senza riforme strutturali che modifichino l’operare dello Stato, il perimetro della sua azione, la stessa concezione della sua funzione». Ma per tornare a crescere non saranno sufficienti neanche i tagli. Serve «un cambio di marcia» su infrastrutture, energia, ricerca, capitale umano, fisco e giustizia. Sono le «questioni cruciali» da affrontare per «rivitalizzare il Paese» contenute nel progetto Italia 2015. Un decalogo per «ridare competitività alle imprese, generare più reddito, investimenti, occupazione».
La riforma fiscale, sottolinea la Marcegaglia, «è importantissima» e Confindustria è disponibile «a un’iniziativa condivisa con le altre parti sociali» per «ridurre le tasse su imprese e lavoratori, i due pilastri che sostengono il Paese». Per le infrastrutture «occorre una riforma delle regole che abbia come obiettivo di realizzare opere di qualità con tempi e costi certi». Per valorizzare il capitale umano, secondo Marcegaglia, va «data piena autonomia alle scuole e alle università». La riforma in discussione in Parlamento, «seppur timida, va nella giusta direzione».
Opposizione dura
Altro capitolo cruciale è quello delle liberalizzazioni nel commercio e nelle professioni. «Se governo e maggioranza persistono in questa marcia indietro», avverte la Marcegaglia, «noi ci metteremo di traverso e sarà opposizione dura». Gli occhi ora sono puntati sul Parlamento, dove le misure di rigore della manovra, che sono «il frutto di una scelta politica non maturata con senso di responsabilità, ma imposta dai mercati», devono essere «rafforzate e non indebolite». Per farlo serviranno «condivisioni e non divisioni». Politici, imprenditori e sindacati devono lavorare insieme, sedersi attorno ad un tavolo «per una grande Assise», una grande intesa per la crescita. Perché «è la lenta crescita la vera emergenza nazionale».
Tutti con Emma
Le risposte all’appello non sono mancate. A partire da quella del leader della Cgil, Guglielmo Epifano, che si è detto disponibile «a discutere». Apprezzamenti sono arrivati anche da Cisl e Uil.
Sul fronte politico è arrivato il sostegno pieno del viceministro allo Sviluppo, Adolfo Urso, sulla necessità sia di «fare di più sulle riforme strutturali» sia di «intensificare il processo di liberalizzazione». Le analisi della Marcegaglia e, «in massima parte», anche i rimedi prospettati hanno raccolto il consenso anche del ministro della Pa, Renato Brunetta, secondo il quale molte delle proposte «corrispondono già a precise linee dell’azione amministrativa». A Maurizio Sacconi non è invece piaciuta l’idea dell’assise. «Non è il momento dei convegni, ma dei fatti», ha detto. Ma il ministro del Welfare si è detto d’accordo sull’importanza «degli interventi struttrali». Quanto alle polemiche della vigilia, al fianco della Marcegaglia si è schierato anche l’ex presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, accusato di essere il “grande cospiratore” delle critiche degli ultimi giorni verso Viale dell’Astronomia. «Non c’è alcun complotto», ha spiegato, «tra me e Emma c’è un rapporto profondo».
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Di fronte agli oltre 3mila imprenditori riuniti per la sua terza assemblea annuale di Confindustria da presidente, la Marcegaglia snocciola numeri e dati da far venire i brividi. Sette punti di Pil e oltre 700mila posti di lavoro persi, 100 trimestri di produzione industriale bruciati, con un crollo del 25%, che ha riportato l’Italia indietro fino al 1985. Da qui, dal «pesantissimo» bilancio della crisi, bisogna ripartire. Pieno sostegno, dunque, «alla linea del rigore del ministro dell’Economia» e alle «misure, che Confindustria chiede da tempo, contenute nella manovra» del governo.
Oltre l’emergenza
Ma per uscire dalla palude occorre altro. Bisogna guardare oltre l’emergenza. Servono «interventi strutturali per incidere sui meccanismi della spesa pubblica» e, soprattutto, «riforme per rilanciare lo sviluppo». A partire da quella fiscale, su cui la Marcegaglia riceve la seconda ovazione degli imprenditori. Ma la lista è lunga. Sul fronte della spesa, avverte la presidente di Confindustria, «nessuna voce è intoccabile». Occorrono «tagli agli stipendi pubblici (cresciuti dal 2000 del 16% rispetto al 3,9% di quelli privati), aumenti dell’età effettiva di pensionamento, revoca delle false invalidità, tagli alla sanità». Perché «mettere in ordine i conti pubblici non basta e non è duraturo senza riforme strutturali che modifichino l’operare dello Stato, il perimetro della sua azione, la stessa concezione della sua funzione». Ma per tornare a crescere non saranno sufficienti neanche i tagli. Serve «un cambio di marcia» su infrastrutture, energia, ricerca, capitale umano, fisco e giustizia. Sono le «questioni cruciali» da affrontare per «rivitalizzare il Paese» contenute nel progetto Italia 2015. Un decalogo per «ridare competitività alle imprese, generare più reddito, investimenti, occupazione».
La riforma fiscale, sottolinea la Marcegaglia, «è importantissima» e Confindustria è disponibile «a un’iniziativa condivisa con le altre parti sociali» per «ridurre le tasse su imprese e lavoratori, i due pilastri che sostengono il Paese». Per le infrastrutture «occorre una riforma delle regole che abbia come obiettivo di realizzare opere di qualità con tempi e costi certi». Per valorizzare il capitale umano, secondo Marcegaglia, va «data piena autonomia alle scuole e alle università». La riforma in discussione in Parlamento, «seppur timida, va nella giusta direzione».
Opposizione dura
Altro capitolo cruciale è quello delle liberalizzazioni nel commercio e nelle professioni. «Se governo e maggioranza persistono in questa marcia indietro», avverte la Marcegaglia, «noi ci metteremo di traverso e sarà opposizione dura». Gli occhi ora sono puntati sul Parlamento, dove le misure di rigore della manovra, che sono «il frutto di una scelta politica non maturata con senso di responsabilità, ma imposta dai mercati», devono essere «rafforzate e non indebolite». Per farlo serviranno «condivisioni e non divisioni». Politici, imprenditori e sindacati devono lavorare insieme, sedersi attorno ad un tavolo «per una grande Assise», una grande intesa per la crescita. Perché «è la lenta crescita la vera emergenza nazionale».
Tutti con Emma
Le risposte all’appello non sono mancate. A partire da quella del leader della Cgil, Guglielmo Epifano, che si è detto disponibile «a discutere». Apprezzamenti sono arrivati anche da Cisl e Uil.
Sul fronte politico è arrivato il sostegno pieno del viceministro allo Sviluppo, Adolfo Urso, sulla necessità sia di «fare di più sulle riforme strutturali» sia di «intensificare il processo di liberalizzazione». Le analisi della Marcegaglia e, «in massima parte», anche i rimedi prospettati hanno raccolto il consenso anche del ministro della Pa, Renato Brunetta, secondo il quale molte delle proposte «corrispondono già a precise linee dell’azione amministrativa». A Maurizio Sacconi non è invece piaciuta l’idea dell’assise. «Non è il momento dei convegni, ma dei fatti», ha detto. Ma il ministro del Welfare si è detto d’accordo sull’importanza «degli interventi struttrali». Quanto alle polemiche della vigilia, al fianco della Marcegaglia si è schierato anche l’ex presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, accusato di essere il “grande cospiratore” delle critiche degli ultimi giorni verso Viale dell’Astronomia. «Non c’è alcun complotto», ha spiegato, «tra me e Emma c’è un rapporto profondo».
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giovedì 27 maggio 2010
I finiani preparano l’assalto alla manovra. Parla Della Vedova
I finiani, per ora, hanno scelto il basso profilo. In linea con il clima di collaborazione che gli sherpa del presidente della Camera stanno ristabilendo in questi giorni con il Cavaliere. Un clima che Benedetto Della Vedova non vuole assolutamente incrinare. Questo non significa, però, secondo l’ex radicale vicino a Gianfranco Fini, dover restare in silenzio. Anche perché, spiega, «la Finanziaria varata dal governo va nella giusta direzione».
Però?
«Però dobbiamo essere consapevoli che l’Italia deve vaccinarsi contro il virus greco per diventarne immune. Un virus che è la miscela esplosiva di due fattori: l’entità del debito e la scarsa vitalità dell’economia che si trova sotto quel debito».
I tagli voluti da Tremonti serviranno proprio a riportare in equilibrio i conti...
«La manovra affronta con misure di emergenza il primo fattore. Ci sono interventi largamente positivi in termini di tagli e di contrasto all’evasione. Così come di riduzione del perimetro dello Stato, che mi sembra rispondere ad un’impostazione sanamente liberale».
Allora cosa c’è che non va?
«Resto convinto che oltre ai tagli si debba in primo luogo accelerare il lavoro tremontiano sulla valorizzazione e la parziale cessione del patrimonio pubblico sia immobiliare che mobiliare. In quest’ottica mi lascia perplesso anche il federalismo demaniale, che va in gran parte ad abbattere il debito degli enti locali spesso generato da operazioni spericolate di finanza creativa. Sarebbe più efficace procedere con un piano di privatizzazioni sia sul piano nazionale sia sul piano locale. Perché lo statalismo municipale non è peggiore di quello centrale».
Qualche esempio?
«Penso alle utility controllate dai Comuni, alle Ferrovie, alle Poste, ma partirei emblematicamente dalla Rai, che deve essere restituita al mercato prima che fallisca e diventi un onere per la collettività pià grande di quanto sia ora».
E poi?
«Poi mi piacerebbe maggiore coraggio sulle pensioni. Il capitolo va assolutamente ridotto a favore delle altre voci di spesa sociale, dove l’Italia è drammaticamente al di sotto degli standard europei. Se in Francia si parla di andare in pensione a 70 anni ci sarà un motivo. A chi dice che in Italia il sistema è in equilibrio vorrei ricordare che non lo è affatto dal punto di vista generazionale e che più tardi si affronterà la questione più costerà rimettere la previdenza sui giusti binari».
E sul secondo aspetto del virus, cosa manca nella Finanziaria?
«Qui è il problema principale. Sul fronte della crescita nella manovra c’è la riduzione dell’Irap per le imprese del Sud, che è sicuramente importante perché lìeconomia sostiene il debito e l’economia la fanno le imprese. Bisogna però fare di più per favorire la concorrenza, per aprire i mercati, per abbassare la pressione fiscale, magari scambiando gli incentivi con la detassazione».
Tremonti direbbe che è un vecchio linguaggio degli anni ’90...
«È il linguaggio delle riforme che saranno necessarie per garantire la tenuta del sistema italiano».
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Però?
«Però dobbiamo essere consapevoli che l’Italia deve vaccinarsi contro il virus greco per diventarne immune. Un virus che è la miscela esplosiva di due fattori: l’entità del debito e la scarsa vitalità dell’economia che si trova sotto quel debito».
I tagli voluti da Tremonti serviranno proprio a riportare in equilibrio i conti...
«La manovra affronta con misure di emergenza il primo fattore. Ci sono interventi largamente positivi in termini di tagli e di contrasto all’evasione. Così come di riduzione del perimetro dello Stato, che mi sembra rispondere ad un’impostazione sanamente liberale».
Allora cosa c’è che non va?
«Resto convinto che oltre ai tagli si debba in primo luogo accelerare il lavoro tremontiano sulla valorizzazione e la parziale cessione del patrimonio pubblico sia immobiliare che mobiliare. In quest’ottica mi lascia perplesso anche il federalismo demaniale, che va in gran parte ad abbattere il debito degli enti locali spesso generato da operazioni spericolate di finanza creativa. Sarebbe più efficace procedere con un piano di privatizzazioni sia sul piano nazionale sia sul piano locale. Perché lo statalismo municipale non è peggiore di quello centrale».
Qualche esempio?
«Penso alle utility controllate dai Comuni, alle Ferrovie, alle Poste, ma partirei emblematicamente dalla Rai, che deve essere restituita al mercato prima che fallisca e diventi un onere per la collettività pià grande di quanto sia ora».
E poi?
«Poi mi piacerebbe maggiore coraggio sulle pensioni. Il capitolo va assolutamente ridotto a favore delle altre voci di spesa sociale, dove l’Italia è drammaticamente al di sotto degli standard europei. Se in Francia si parla di andare in pensione a 70 anni ci sarà un motivo. A chi dice che in Italia il sistema è in equilibrio vorrei ricordare che non lo è affatto dal punto di vista generazionale e che più tardi si affronterà la questione più costerà rimettere la previdenza sui giusti binari».
E sul secondo aspetto del virus, cosa manca nella Finanziaria?
«Qui è il problema principale. Sul fronte della crescita nella manovra c’è la riduzione dell’Irap per le imprese del Sud, che è sicuramente importante perché lìeconomia sostiene il debito e l’economia la fanno le imprese. Bisogna però fare di più per favorire la concorrenza, per aprire i mercati, per abbassare la pressione fiscale, magari scambiando gli incentivi con la detassazione».
Tremonti direbbe che è un vecchio linguaggio degli anni ’90...
«È il linguaggio delle riforme che saranno necessarie per garantire la tenuta del sistema italiano».
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La Marcegaglia caccia i montezemolini
«Attacchi ingiuriosi, di chiara provenienza». Certo, c’è la manovra. La crisi internazionale che morde. E mille problemi da risolvere. Ma Emma Marcegaglia non ha intenzione di lasciarsi mettere all’angolo. Di incassare senza tirare fuori le unghie. È così che le prime parole dell’assemblea privata di Confindustria sono dedicate a chi, nelle ultime settimane, ha tentato di far coincidere la relazione annuale di medio termine con la fase discendente della presidenza Marcegaglia. Un’offensiva per nulla sotterranea a colpi di libri, articoli e interviste. Come l’affondo dell’ex presidente di Federmeccanica, già deputato del Pd e ora dell’Upi di Rutelli, Massimo Calearo, che dalle pagine del Mondo ha puntato il dito sulla debolezza della politica confindustriale. O l’ampio spazio dato sui quotidiani al libro sulla “casta” di Viale dell’Astronomia, sempre firmato da un giornalista del settimanale di Rcs. Oppure gli approfondimenti del quotidiano di De Benedetti, Repubblica, secondo il quale l’associazione degli imprenditori è tenuta artificialmente in vita solo dall’euro debole.
«In questi giorni», ha tuonato la Marcegaglia, di fronte agli oltre mille imprenditori seduti in platea nell’auditorium di viale Tupini, «sono stata oggetto, assieme a Confindustria, di attacchi ingiuriosi, costruiti su notizie false e prive di fondamento, di chiara provenienza».
Tra gli indiziati, ovviamente, c’è l’area politico-industriale sconfitta alle ultime elezioni confindustriali che non solo sta affilando le armi per la prossima sfida, ma che, secondo le parole dell’ex presidente Giorgio Fossa sta «cedendo alla tentazione di un collateralismo con la politica che finisce per creare solo confusione». Ambienti, tanto per essere chiari, a cui non è estraneo Luca Cordero di Montezemolo, che da oggi dovrà anche rinunciare al suo fedelissimo Andrea Moltrasio, sostituito in giunta con Giorgio Squinzi, che due anni fa fu il grande sostenitore della scalata della Marcegaglia ai vertici di Viale dell’Astronomia. «Nei primi minuti», ha spiegato la presidente, «oltre all’amarezza, ho avuto la tentazione di replicare con dati e circostanze, questi sì veri. Poi è prevalso in me il senso della responsabilità e del rispetto per l’istituzione Confindustria. Per me l’unica cosa che conta è essere in sintonia con voi: altri si comportino come vogliono. Fino all’ultimo giorno sarò con voi per l’indipendenza della nostra istituzione e per la sua difesa».
A sostegno della Marcegaglia sono arrivati in primo luogo i numeri. E’ stato un nuovo plebiscito quello che l’assemblea, dopo la Giunta del marzo scorso, ha tributato alla nuova squadra e al programma del leader per i prossimi due anni. I sì sono stati 98,7%, la percentuale più alta dal ’98 ad oggi nelle votazioni di metà mandato. Nel maggio 2006, infatti, nel corso della presidenza Montezemolo, la percentuale fu del 96,9%; in quella del giro di boa di Antonio D’Amato dell’84,1% e nel maggio ’98, nel corso della presidenza Fossa, i sì arrivarono al 97,4%. Ma in difesa della Marcegaglia sono arrivate anche le parole. Dichiarazioni nette, come quelle dell’ex presidente Luigi Abete, che ha richiamato «tutti al rispetto dell’istituzione Confindustria e all’importanza di confrontarsi in maniera trasparente, ma all’interno degli organismi non sulle pagine dei giornali». Sulla stessa linea anche l’intervento di Giorgio Fossa, secondo il quale «se una parte sociale viene meno al suo ruolo occupando spazi impropri o lasciando occupare i propri il minimo che può accadere è perdere forza e rappresentatività. Due valori che questa presidente ha addirittura accresciuto e che Confindustria non vuole e non può perdere».
Ma ieri, al di la delle polemiche, è stato anche il giorno del debutto di John Elkann, al quale, nella sala dell’auditorium, è stato riservato il posto da sempre occupato dal nonno, l’Avvocato Agnelli: in prima fila, nella parte centrale.
Il neo presidente di Fiat (al posto di Montezemolo) è entrato ufficialmente nella squadra insieme al patron della Mapei, Squinzi. Il primo sarà chiamato a guidare un nuovo comitato, quello per l’analisi e le opportunità di sviluppo nei grandi Paesi emergenti; il secondo assumerà la presidenza del Comitato tecnico con delega all’Europa.
Ad uscire, come si diceva, è Moltrasio. L’imprenditore chimico vicinissimo a Montezemolo ufficialmente ha fatto un passo indietro per seguire l’azienda di famiglia. Ma dopo dieci anni passati in Confindustria, gli ultimi con una delega pesante come quella sull’Europa, è difficile non vedere nella sua uscita un tassello delle manovre in atto a Viale dell’Astronomia. Tra le new entry anche Giuseppe Recchi, presidente di general Electric per l’Italia che entra come presidente del Comitato tecnico per le multinazionali.
Dopo aver sistemato le beghe interne, oggi nell’assemblea pubblica la presidente affronterà i nodi della crisi economica e della manovra finanziaria appena varata dal governo. «Andrò a parlare in Confindustria e credo che le imprese e gli imprenditori debbano essere contenti perché nulla in questa Manovra ha colpito chi produce benessere per sé e per tutti», ha detto ieri il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. «Servono misure forti e vere per rendere credibile la manovra», queste le parole usate dalla Marcegaglia nei giorni scorsi. Come dire: bene i tagli, ma bisogna pensare anche allo sviluppo. E questo il senso del documento Italia 2015, che sarà presentato oggi. Un progetto a medio termine, diviso in dieci capitoli dedicati ad altrettanti temi. Punti centrali, gli investimenti in ricerca, innovazione ed infrastrutture. La presidente di Confindustria, vista la situazione, non riproporrà ultimatum al governo, ma l’invito ad agire, c’è da scommettere, sarà pressante.
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«In questi giorni», ha tuonato la Marcegaglia, di fronte agli oltre mille imprenditori seduti in platea nell’auditorium di viale Tupini, «sono stata oggetto, assieme a Confindustria, di attacchi ingiuriosi, costruiti su notizie false e prive di fondamento, di chiara provenienza».
Tra gli indiziati, ovviamente, c’è l’area politico-industriale sconfitta alle ultime elezioni confindustriali che non solo sta affilando le armi per la prossima sfida, ma che, secondo le parole dell’ex presidente Giorgio Fossa sta «cedendo alla tentazione di un collateralismo con la politica che finisce per creare solo confusione». Ambienti, tanto per essere chiari, a cui non è estraneo Luca Cordero di Montezemolo, che da oggi dovrà anche rinunciare al suo fedelissimo Andrea Moltrasio, sostituito in giunta con Giorgio Squinzi, che due anni fa fu il grande sostenitore della scalata della Marcegaglia ai vertici di Viale dell’Astronomia. «Nei primi minuti», ha spiegato la presidente, «oltre all’amarezza, ho avuto la tentazione di replicare con dati e circostanze, questi sì veri. Poi è prevalso in me il senso della responsabilità e del rispetto per l’istituzione Confindustria. Per me l’unica cosa che conta è essere in sintonia con voi: altri si comportino come vogliono. Fino all’ultimo giorno sarò con voi per l’indipendenza della nostra istituzione e per la sua difesa».
A sostegno della Marcegaglia sono arrivati in primo luogo i numeri. E’ stato un nuovo plebiscito quello che l’assemblea, dopo la Giunta del marzo scorso, ha tributato alla nuova squadra e al programma del leader per i prossimi due anni. I sì sono stati 98,7%, la percentuale più alta dal ’98 ad oggi nelle votazioni di metà mandato. Nel maggio 2006, infatti, nel corso della presidenza Montezemolo, la percentuale fu del 96,9%; in quella del giro di boa di Antonio D’Amato dell’84,1% e nel maggio ’98, nel corso della presidenza Fossa, i sì arrivarono al 97,4%. Ma in difesa della Marcegaglia sono arrivate anche le parole. Dichiarazioni nette, come quelle dell’ex presidente Luigi Abete, che ha richiamato «tutti al rispetto dell’istituzione Confindustria e all’importanza di confrontarsi in maniera trasparente, ma all’interno degli organismi non sulle pagine dei giornali». Sulla stessa linea anche l’intervento di Giorgio Fossa, secondo il quale «se una parte sociale viene meno al suo ruolo occupando spazi impropri o lasciando occupare i propri il minimo che può accadere è perdere forza e rappresentatività. Due valori che questa presidente ha addirittura accresciuto e che Confindustria non vuole e non può perdere».
Ma ieri, al di la delle polemiche, è stato anche il giorno del debutto di John Elkann, al quale, nella sala dell’auditorium, è stato riservato il posto da sempre occupato dal nonno, l’Avvocato Agnelli: in prima fila, nella parte centrale.
Il neo presidente di Fiat (al posto di Montezemolo) è entrato ufficialmente nella squadra insieme al patron della Mapei, Squinzi. Il primo sarà chiamato a guidare un nuovo comitato, quello per l’analisi e le opportunità di sviluppo nei grandi Paesi emergenti; il secondo assumerà la presidenza del Comitato tecnico con delega all’Europa.
Ad uscire, come si diceva, è Moltrasio. L’imprenditore chimico vicinissimo a Montezemolo ufficialmente ha fatto un passo indietro per seguire l’azienda di famiglia. Ma dopo dieci anni passati in Confindustria, gli ultimi con una delega pesante come quella sull’Europa, è difficile non vedere nella sua uscita un tassello delle manovre in atto a Viale dell’Astronomia. Tra le new entry anche Giuseppe Recchi, presidente di general Electric per l’Italia che entra come presidente del Comitato tecnico per le multinazionali.
Dopo aver sistemato le beghe interne, oggi nell’assemblea pubblica la presidente affronterà i nodi della crisi economica e della manovra finanziaria appena varata dal governo. «Andrò a parlare in Confindustria e credo che le imprese e gli imprenditori debbano essere contenti perché nulla in questa Manovra ha colpito chi produce benessere per sé e per tutti», ha detto ieri il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. «Servono misure forti e vere per rendere credibile la manovra», queste le parole usate dalla Marcegaglia nei giorni scorsi. Come dire: bene i tagli, ma bisogna pensare anche allo sviluppo. E questo il senso del documento Italia 2015, che sarà presentato oggi. Un progetto a medio termine, diviso in dieci capitoli dedicati ad altrettanti temi. Punti centrali, gli investimenti in ricerca, innovazione ed infrastrutture. La presidente di Confindustria, vista la situazione, non riproporrà ultimatum al governo, ma l’invito ad agire, c’è da scommettere, sarà pressante.
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mercoledì 26 maggio 2010
Finalmente dieci province in meno
Oltre 4mila amministratori, 61mila dipendenti, 14 miliardi complessivi di costo, 160 euro all’anno per ogni cittadino italiano. Sono questi i numeri delle 110 province italiane su cui si è abbattuta ieri la scure del governo. Una vecchia battaglia, quella dell’abolizione degli enti intermedi, sbandierata con forza dal centrodestra, ma anche da molte componenti del centrosinistra, in campagna elettorale e poi accantonata come nulla fosse. Ieri, a sorpresa, dal cilindro del Consiglio dei ministri è spuntata la sforbiciata. Una cura dimagrante, più che un’abolizione, ma è pur sempre qualcosa.
La norma, che non era presente nella bozza della manovra da 24 miliardi entrata in serata a Palazzo Chigi, sarebbe contenuta in un collegato messo a punto dal ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli.
Il testo prevede la soppressione delle Province con un numero di abitanti inferiori a 220mila, che non confinino con Stati esteri e che non siano nelle regioni a Statuto speciale. I calcoli sono presto fatti. Le province sotto i 220mila abitanti sono 22, di queste bisogna però escluderne 6 della Sardegna, una della Valle d’Aosta, una della Sicilia, una del Friuli Venezia Giulia, nonché la ligure Imperia (confinante) la piemontese Verbano-Cusio-Ossola e la veneta Belluno. Ne resterebbero, quindi, 10, la cui sparizione, stando al colore politico dei presidenti, rispetterebbe un principio rigorosamente bipartisan: Isernia (PdL), Massa Carrara (Pd), Matera (Pd), Crotone (Pdl), Vibo Valentia (Pd), Rieti (Pd), Ascoli Piceno (PdL), Fermo (Sinistra e Libertà), Biella (Lega) e Vercelli (commissariata).
La dieta non darà neanche risultati immediati. Per vedere gli effetti bisognerà infatti aspettare le prossime legislature provinciali. Solo allora le competenze e gli uffici saranno trasferiti ad altre province, con notevoli risparmi per le casse dello Stato.
Il valore simbolico della mossa è comunque forte. Così come lo è quello di moltissime misure contenute nella manovra che ieri in tarda serata ha ricevuto il via libera dal Consiglio dei ministri con tanto di richiesta di fiducia già preventivamente approvata. Il mix di interventi per correggere i conti pubblici di 12 miliardi nel 2011 e 12 nel 2012 appare ormai definito, ma il testo vero e proprio non arrivera prima di domani, quando il capo dello Stato, Napolitano, rientrerà dagli Usa. Resta da capire se saranno recuperati i tagli alla presidenza del Consiglio e la stretta sulla Protezione civile, provvedimenti saltati all’ultimo.
Queste le principali misure:
Pubblico impiego: Stop agli aumenti degli stipendi dei dipendenti pubblici già a partire da quest’anno. Il congelamento vale quattro anni, fino al 2013. Stop per due anni al turn over.
Tagli alla politica: sforbiciata dal 5 al 10% a ministri e sottosegretari ma su formazione, consulenze e missioni della Pa si arriva al dimezzamento della spesa. Giro di vite sulle auto blu. Cala del 20% (e non del 50%) il contributo per le spese elettorali.
Manager Pa: sforbiciata dal 5 al 10%. per gli stipendi oltre i 90.000 e oltre i 130.000 euro.
Fisco e comuni: i comuni che collaboreranno alla lotta all’evasione incasseranno il 33% dei tributi statali incassati.
Pensioni e invalidi: La percentuale per gli assegni di invalidità sale all’80%. Rinvio delle finestre per il pensionamento e per il riordino degli enti. La novità è invece l’accelerazione dei tempi per l’aumento dell'età pensionabile a 65 anni per le donne dipendenti del pubblica amministrazione che avverrà a gennaio 2016.
Leggi inutilizzate: Si recuperano risorse attraverso il definanziamento degli stanziamenti improduttivi.
Taglia-enti: Vengono soppressi Ipsema, Ispel e Ipost. Ma anche l’Isae, l’Ice e l’Ente italiano Montagna. Salta o viene ridotto inoltre il finanziamento a 72 enti.
Spesa farmaci: Acquisti centralizzati per le Asl per trattare meglio il prezzo con i fornitori e interventi sui farmaci con una modifica delle quote dei grossisti e dei farmacisti sul prezzo di vendita al pubblico dei medicinali di classe a.
Tagli a enti locali: alle Regioni vengono chiesti tagli per oltre 10 miliardi in due anni (2011 e 2012); ai Comuni e Province risparmi di 1 miliardo e 100 nel 2011 e 2 miliardi e 100 nel 2012.
Tracciabilità: Tetto a 5.000 euro (e non 7.000 come da prime ipotesi) per i pagamenti in contanti. Obbligo di fattura telematica oltre i 3.000 euro.
Bancomat Pa: Addio ai libretti di deposito bancari o postali. In compenso arriva la carta elettronica istituzionale per effettuare i pagamenti da parte delle Pa.
Stangata ai manager: Salgono le tasse sulle stock option e i bonus dei manager che eccedono il triplo della parte fissa della retribuzione.
Case fantasma: Sanatoria sugli immobili fantasma entro il 31 dicembre.
Sud: Le regioni del Mezzogiorno avranno la possibilità di istituire un tributo sostitutivo per azzerare l’Irap a carico delle nuove imprese
Sir: addio al Comitato Sir che prese in carico le società chimiche di Nino Rovelli.
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La norma, che non era presente nella bozza della manovra da 24 miliardi entrata in serata a Palazzo Chigi, sarebbe contenuta in un collegato messo a punto dal ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli.
Il testo prevede la soppressione delle Province con un numero di abitanti inferiori a 220mila, che non confinino con Stati esteri e che non siano nelle regioni a Statuto speciale. I calcoli sono presto fatti. Le province sotto i 220mila abitanti sono 22, di queste bisogna però escluderne 6 della Sardegna, una della Valle d’Aosta, una della Sicilia, una del Friuli Venezia Giulia, nonché la ligure Imperia (confinante) la piemontese Verbano-Cusio-Ossola e la veneta Belluno. Ne resterebbero, quindi, 10, la cui sparizione, stando al colore politico dei presidenti, rispetterebbe un principio rigorosamente bipartisan: Isernia (PdL), Massa Carrara (Pd), Matera (Pd), Crotone (Pdl), Vibo Valentia (Pd), Rieti (Pd), Ascoli Piceno (PdL), Fermo (Sinistra e Libertà), Biella (Lega) e Vercelli (commissariata).
La dieta non darà neanche risultati immediati. Per vedere gli effetti bisognerà infatti aspettare le prossime legislature provinciali. Solo allora le competenze e gli uffici saranno trasferiti ad altre province, con notevoli risparmi per le casse dello Stato.
Il valore simbolico della mossa è comunque forte. Così come lo è quello di moltissime misure contenute nella manovra che ieri in tarda serata ha ricevuto il via libera dal Consiglio dei ministri con tanto di richiesta di fiducia già preventivamente approvata. Il mix di interventi per correggere i conti pubblici di 12 miliardi nel 2011 e 12 nel 2012 appare ormai definito, ma il testo vero e proprio non arrivera prima di domani, quando il capo dello Stato, Napolitano, rientrerà dagli Usa. Resta da capire se saranno recuperati i tagli alla presidenza del Consiglio e la stretta sulla Protezione civile, provvedimenti saltati all’ultimo.
Queste le principali misure:
Pubblico impiego: Stop agli aumenti degli stipendi dei dipendenti pubblici già a partire da quest’anno. Il congelamento vale quattro anni, fino al 2013. Stop per due anni al turn over.
Tagli alla politica: sforbiciata dal 5 al 10% a ministri e sottosegretari ma su formazione, consulenze e missioni della Pa si arriva al dimezzamento della spesa. Giro di vite sulle auto blu. Cala del 20% (e non del 50%) il contributo per le spese elettorali.
Manager Pa: sforbiciata dal 5 al 10%. per gli stipendi oltre i 90.000 e oltre i 130.000 euro.
Fisco e comuni: i comuni che collaboreranno alla lotta all’evasione incasseranno il 33% dei tributi statali incassati.
Pensioni e invalidi: La percentuale per gli assegni di invalidità sale all’80%. Rinvio delle finestre per il pensionamento e per il riordino degli enti. La novità è invece l’accelerazione dei tempi per l’aumento dell'età pensionabile a 65 anni per le donne dipendenti del pubblica amministrazione che avverrà a gennaio 2016.
Leggi inutilizzate: Si recuperano risorse attraverso il definanziamento degli stanziamenti improduttivi.
Taglia-enti: Vengono soppressi Ipsema, Ispel e Ipost. Ma anche l’Isae, l’Ice e l’Ente italiano Montagna. Salta o viene ridotto inoltre il finanziamento a 72 enti.
Spesa farmaci: Acquisti centralizzati per le Asl per trattare meglio il prezzo con i fornitori e interventi sui farmaci con una modifica delle quote dei grossisti e dei farmacisti sul prezzo di vendita al pubblico dei medicinali di classe a.
Tagli a enti locali: alle Regioni vengono chiesti tagli per oltre 10 miliardi in due anni (2011 e 2012); ai Comuni e Province risparmi di 1 miliardo e 100 nel 2011 e 2 miliardi e 100 nel 2012.
Tracciabilità: Tetto a 5.000 euro (e non 7.000 come da prime ipotesi) per i pagamenti in contanti. Obbligo di fattura telematica oltre i 3.000 euro.
Bancomat Pa: Addio ai libretti di deposito bancari o postali. In compenso arriva la carta elettronica istituzionale per effettuare i pagamenti da parte delle Pa.
Stangata ai manager: Salgono le tasse sulle stock option e i bonus dei manager che eccedono il triplo della parte fissa della retribuzione.
Case fantasma: Sanatoria sugli immobili fantasma entro il 31 dicembre.
Sud: Le regioni del Mezzogiorno avranno la possibilità di istituire un tributo sostitutivo per azzerare l’Irap a carico delle nuove imprese
Sir: addio al Comitato Sir che prese in carico le società chimiche di Nino Rovelli.
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martedì 25 maggio 2010
Per la banda ultra-larga sfida tra colossi a Roma Nord
Da una parte Fleming, dall’altra Prati. Da una parte l’alleanza Fastweb, Wind, Vodafone, dall’altra l’ex monopolista Telecom. Si gioca nei quartieri della Roma bene la partita della banda ultra larga. Ma la sfida è tutt’altro che locale. Presto i duellanti allargheranno il terreno dello scontro dalle strade delle Capitale alle principali città italiane e a tutto il territorio nazionale. La posta in palio per le società coinvolte è il business della rete di nuova generazione (Next generation network) che sarà in grado di trasportare ad altissima velocità ogni tipo di contenuto, dalla tv ad alta definizione al cinema on demand fino ai servizi di videocomunicazione. Per i cittadini all’orizzonte c’è il cablaggio del Paese e la speranza di poter finalmente colmare il divario con l’Europa sulle nuove tecnologie per la comunicazione.
Per avere un’idea, basti pensare che solo il 53% delle famiglie italiane dispone di un collegamento a Internet, contro una media Ue a 27 del 65%, mentre i collegamenti a banda larga si fermano al 39% delle famiglie, contro il 56% della media europea. Sulla linea ultraveloce, poi, i confronti sono impietosi. La soglia di penetrazione della fibra ottica nel nostro Paese resta ancorata all’1% contro il 50% di famiglie coreane che dispongono di collegamenti in grado di trasportare 100 Megabit al secondo.
Per i romani qualcosa potrebbe cambiare in fretta. A posare la prima pietra, o meglio ad allacciare i primi cavi, saranno oggi i cosiddetti operatori alternativi Fastweb, Wind e Vodafone. La sperimentazione è prevista nell’area di Collina Fleming, quartiere residenziale di Roma Nord. L’obiettivo è collegare 7.400 abitazioni alla Ngn entro luglio. Si tratta del primo tassello di un progetto più ampio, “2010 Fibra ottica per l’Italia” (in inglese Fiber To The Home - Ftth), con cui i tre operatori di telefonia intendono cablare 15 città italiane in 5 anni, con un investimento complessivo di circa 2,5 miliardi di euro. In un secondo tempo il piano si estenderebbe a tutti i centri con più di 20mila abitanti al fine di raggiungere il 50% della popolazione. In questo caso gli investimenti complessivi salirebbero a 8,5 miliardi.
L’accelerazione “romana” dell’alleanza per la fibra non è piaciuta molto a Telecom, che qualche giorno fa ha deciso di rendere la pariglia, annunciando proprio per questa settimana i primi collegamenti alla fibra ottica nel quartiere Prati. La società guidata da Franco Bernabé ha intenzione di cablare 15mila abitazioni solo in Prati, per poi passare entro la fine dell’anno ad 80mila, coinvolgendo le zone Belle Arti, Appia e Pontelungo. L’intenzione, nel biennio 2011-2012, è raggiungere con la nuova rete circa 350mila abitazioni e sbarcare in altre 12 città.
Al di là della gara nella Capitale, di cui sono chiaramente grati i romani che potranno progressivamente abbandonare la vecchia rete in rame, la sfida tra l’ex monopolista e l’alleanza alternativa nasconde una situazione di stallo. La speranza degli operatori, condivisa anche dall’Agcom e dal governo, era che l’avvio del progetto spingesse Telecom a partecipare alla realizzazione di una rete unica attraverso l’ingresso in una “società della fibra” sostenuta finanziariamente anche da soggetti pubblici, a partire dalla Cassa depositi e prestiti.
Come ha spiegato l’ad di Wind, Luigi Gubitosi, «la fibra ottica nel Paese non è un problema di singola azienda, ma di politica economica». In altre parole, «il progetto senza Telecom non ha senso, così come non avrebbe senso per Telecom andare avanti da sola». La risposta dell’ex monopolista, finora, sembra chiara. Ma la partita è ancora da giocare. Non è un caso che Fastweb, Wind e Vodafone non abbiano ancora costituito la prevista Newco per gestire il progetto: un modo per lasciare la porta aperta a nuovi soci. Di sicuro anche le istituzioni dovranno fare la loro parte, stabilendo un quadro regolatorio e politico che sia in grado di fornire garanzie sugli investimenti e sugli asset coinvolti nel progetto. A partire dalla vecchia rete in rame, che Telecom difenderà con il coltello tra i denti.
© Libero
Per avere un’idea, basti pensare che solo il 53% delle famiglie italiane dispone di un collegamento a Internet, contro una media Ue a 27 del 65%, mentre i collegamenti a banda larga si fermano al 39% delle famiglie, contro il 56% della media europea. Sulla linea ultraveloce, poi, i confronti sono impietosi. La soglia di penetrazione della fibra ottica nel nostro Paese resta ancorata all’1% contro il 50% di famiglie coreane che dispongono di collegamenti in grado di trasportare 100 Megabit al secondo.
Per i romani qualcosa potrebbe cambiare in fretta. A posare la prima pietra, o meglio ad allacciare i primi cavi, saranno oggi i cosiddetti operatori alternativi Fastweb, Wind e Vodafone. La sperimentazione è prevista nell’area di Collina Fleming, quartiere residenziale di Roma Nord. L’obiettivo è collegare 7.400 abitazioni alla Ngn entro luglio. Si tratta del primo tassello di un progetto più ampio, “2010 Fibra ottica per l’Italia” (in inglese Fiber To The Home - Ftth), con cui i tre operatori di telefonia intendono cablare 15 città italiane in 5 anni, con un investimento complessivo di circa 2,5 miliardi di euro. In un secondo tempo il piano si estenderebbe a tutti i centri con più di 20mila abitanti al fine di raggiungere il 50% della popolazione. In questo caso gli investimenti complessivi salirebbero a 8,5 miliardi.
L’accelerazione “romana” dell’alleanza per la fibra non è piaciuta molto a Telecom, che qualche giorno fa ha deciso di rendere la pariglia, annunciando proprio per questa settimana i primi collegamenti alla fibra ottica nel quartiere Prati. La società guidata da Franco Bernabé ha intenzione di cablare 15mila abitazioni solo in Prati, per poi passare entro la fine dell’anno ad 80mila, coinvolgendo le zone Belle Arti, Appia e Pontelungo. L’intenzione, nel biennio 2011-2012, è raggiungere con la nuova rete circa 350mila abitazioni e sbarcare in altre 12 città.
Al di là della gara nella Capitale, di cui sono chiaramente grati i romani che potranno progressivamente abbandonare la vecchia rete in rame, la sfida tra l’ex monopolista e l’alleanza alternativa nasconde una situazione di stallo. La speranza degli operatori, condivisa anche dall’Agcom e dal governo, era che l’avvio del progetto spingesse Telecom a partecipare alla realizzazione di una rete unica attraverso l’ingresso in una “società della fibra” sostenuta finanziariamente anche da soggetti pubblici, a partire dalla Cassa depositi e prestiti.
Come ha spiegato l’ad di Wind, Luigi Gubitosi, «la fibra ottica nel Paese non è un problema di singola azienda, ma di politica economica». In altre parole, «il progetto senza Telecom non ha senso, così come non avrebbe senso per Telecom andare avanti da sola». La risposta dell’ex monopolista, finora, sembra chiara. Ma la partita è ancora da giocare. Non è un caso che Fastweb, Wind e Vodafone non abbiano ancora costituito la prevista Newco per gestire il progetto: un modo per lasciare la porta aperta a nuovi soci. Di sicuro anche le istituzioni dovranno fare la loro parte, stabilendo un quadro regolatorio e politico che sia in grado di fornire garanzie sugli investimenti e sugli asset coinvolti nel progetto. A partire dalla vecchia rete in rame, che Telecom difenderà con il coltello tra i denti.
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La casta si tassa. E impugna le forbici
Stretta sugli assegni degli invalidi, nuovi pedaggi autostradali, finestra unica per le pensioni di vecchiaia. Si iniziano a intravedere con più chiarezza i sacrifici «pesanti, ma provvisori», per usare la definizione del sottosegretario Gianni Letta, inseriti da Giulio Tremonti nella manovra finanziaria. Ma accanto ai sacrifici ci sono anche misure ad alto contenuto simbolico, come la sforbiciata ai rimborsi elettorali, i tagli agli stipendi di ministri e sottosegretari e, novità dell’ultim’ora, la stangata sui premi dei supermanager privati.
Chi pensava che della manovra si sapesse giù tutto ha dovuto ricredersi. I primi a farlo, ieri sera, sono stati i colleghi di governo è di partito a cui il ministro dell’Economia ha illustrato i contenuti della finanziaria da 24-26 miliardi che, con ogni probabilità, sarà oggi pomeriggio sul tavolo del Consiglio dei ministri dopo un doppio passaggio in mattinata con le parti sociali e con i rappresentanti degli enti locali.
Ad ascoltare Tremonti negli uffici di via dell’Umiltà, una consulta economica allargata, in pratica tutto lo stato maggiore del Pdl. All’incontro, tra gli altri, hanno partecipato il sottosegretario alla presidenza Letta, i tre coordinatori nazionali Ignazio La Russa, Denis Verdini e Sandro Bondi, i capigruppo di Camera e Senato Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri, ma anche i ministri delle Infrastrutture Altero Matteoli, del Welfare Maurizio Sacconi, degli Affari regionali Raffaele Fitto, della Pubblica amministrazione Renato Brunetta. Tra i partecipanti pure l’economista vicino a Gianfranco Fini Mario Baldassarri, presidente della commissione Finanze del Senato. Dopo quasi due ore di incontro, dalla consulta è arrivato un sostanziale via libera al testo. Ancora da definire i fondi per Roma capitale (dove fa pressione Alemanno), i tetti per gli stipendi dei manager pubblici, quello per i pagamenti in contanti e l’entità della sforbiciata al finanziamento ai partiti.
Moltissima la carne al fuoco. Partendo dalle novità, spicca lasupertassa su stock option e bonus. Sarà applicata un’aliquota addizionale del 10% su quelle remunerazioni che eccedono il triplo della parte fissa della retribuzione. Masorprese ci sono anche sul fronte dei tagli alla casta. Oltre al taglio del 10% per ministri e sottosegretari con stipendi sopra gli 80mila euro, arriva anche il ventilato dimezzamento dei rimborsi elettorali, che passeranno da 1 euro a 50 centesimi per votante. Verranno inoltre soppresse le quote annuali dei rimborsi in caso di scioglimento anticipato del Parlamento. Se un politico che è stato eletto ha incarichi nella pubblica amministrazione, per questi può percepire solo il rimborso delle spese e un gettone di presenza al massimo di 30 euro. La novità uscita ieri sera è che il taglio dei costi della politica andrà a finanziare la Cassa integrazione.
Il ministro ha poi confermato una stretta sulla spesa in materia di invalidità. Ci sarà l’elevazione della percentuale di invalidità dal 74 all’80% per la concessione dell’assegno. Previsto anche un piano di controlli: l’Inps è chiamata ad effettuare un programma di 100mila verifiche per l’anno 2010 e di 200mila verifiche annue per ciascuno degli anni 2011 e 2012. Le Regioni poi dovranno concorrere alle spese: il 45% dei trasferimenti sarà redistribuito tenendo conto della distribuzione pro-capite della spesa effettuata per invalidità civile.
Regioni ed Enti locali dovranno complessivamente produrre tagli per 2 miliardi nel 2011 e per 3 miliardi e 800 milioni sia nel 2012 che nel 2013: nel complesso poco meno di 10 miliardi in tre anni.
Nel comparto dell’istruzione la sforbiciata del 10% riguarderà essenzialmente le spese di funzionamento, come quelle per convegni, consulenze e missioni. Per tutti gli statali, compresi i dirigenti, lo stipendio non potrà superare (fino al 2013) il trattamento del 2009. Il turn over sarà inoltre limitato per altri 2 anni. I trattamenti saranno poi ridotti del 5% sopra i 90mila euro per la parte che eccede i 90mila fino a 130milaeuro. Sopra, il taglio sarà del 10%. C’è poi un tetto alle code contrattuali 2008-2009: cioè si prevede che i rinnovi non possano determinare aumenti superiori al 3,2%.
Tra i sacrifici erga omnes c’è sicuramente la stretta sulle pensioni. Dal 2011 ci sarà una finestra mobile per la pensione di vecchiaia, che scatterà sei mesi dopo la maturazione dei requisiti (invece degli attuali tre). Confermate le due finestre per la pensione d’anzianità contributiva. Rispunta il pedaggio su tratti stradali che connettono con le autostrade. la misura servirà a reperire risorse per le infrastrutture ed escludere Anas dal perimetro del bilancio statale.
Confermata la soppressione dell’Ipsema, dell’Ispel, dell’Ipost con trasferimento delle funzioni rispettivamente all’Inail e all’Inps. Stop anche per Isae, Ente italiano montagna, Ice e altri enti che saranno accorpati ai rispettivi ministeri. Sarà anche soppresso il finanziamento pubblico per tutti quegli enti che non hanno risposto alle richieste di informazione inviate nei mesi scorsi per conoscere l’utilizzo dei finanziamenti a carico del bilancio dello Stato.
Confermata pure la sanatoria per gli immobili fantasma. Ci sarà l’obbligo per gli interessati di dichiarazione di aggiornamento catastale con sanzioni che saranno ridotte ad un terzo.
Un’importante novità riguarda il Mezzogiorno. Le regioni del Sud avranno la possibilità di istituire un tributo sostitutivo all’Irap con riferimento alle imprese avviate dopo l’entrata in vigore del decreto legge con l’opportunità di ridurre o azzerare la stessa Irap. Sempre sul fronte fiscale, torna il tetto a 5.000 euro per i pagamenti in contanti (ma alla fine dovrebbe attestarsi a 7.500 euro) e arriva l’obbligo di fattura telematica oltre i 3.000 euro. I comuni che collaboreranno alla lotta all’evasione incasseranno il33% dei tributi statali incassati.
© Libero
Chi pensava che della manovra si sapesse giù tutto ha dovuto ricredersi. I primi a farlo, ieri sera, sono stati i colleghi di governo è di partito a cui il ministro dell’Economia ha illustrato i contenuti della finanziaria da 24-26 miliardi che, con ogni probabilità, sarà oggi pomeriggio sul tavolo del Consiglio dei ministri dopo un doppio passaggio in mattinata con le parti sociali e con i rappresentanti degli enti locali.
Ad ascoltare Tremonti negli uffici di via dell’Umiltà, una consulta economica allargata, in pratica tutto lo stato maggiore del Pdl. All’incontro, tra gli altri, hanno partecipato il sottosegretario alla presidenza Letta, i tre coordinatori nazionali Ignazio La Russa, Denis Verdini e Sandro Bondi, i capigruppo di Camera e Senato Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri, ma anche i ministri delle Infrastrutture Altero Matteoli, del Welfare Maurizio Sacconi, degli Affari regionali Raffaele Fitto, della Pubblica amministrazione Renato Brunetta. Tra i partecipanti pure l’economista vicino a Gianfranco Fini Mario Baldassarri, presidente della commissione Finanze del Senato. Dopo quasi due ore di incontro, dalla consulta è arrivato un sostanziale via libera al testo. Ancora da definire i fondi per Roma capitale (dove fa pressione Alemanno), i tetti per gli stipendi dei manager pubblici, quello per i pagamenti in contanti e l’entità della sforbiciata al finanziamento ai partiti.
Moltissima la carne al fuoco. Partendo dalle novità, spicca lasupertassa su stock option e bonus. Sarà applicata un’aliquota addizionale del 10% su quelle remunerazioni che eccedono il triplo della parte fissa della retribuzione. Masorprese ci sono anche sul fronte dei tagli alla casta. Oltre al taglio del 10% per ministri e sottosegretari con stipendi sopra gli 80mila euro, arriva anche il ventilato dimezzamento dei rimborsi elettorali, che passeranno da 1 euro a 50 centesimi per votante. Verranno inoltre soppresse le quote annuali dei rimborsi in caso di scioglimento anticipato del Parlamento. Se un politico che è stato eletto ha incarichi nella pubblica amministrazione, per questi può percepire solo il rimborso delle spese e un gettone di presenza al massimo di 30 euro. La novità uscita ieri sera è che il taglio dei costi della politica andrà a finanziare la Cassa integrazione.
Il ministro ha poi confermato una stretta sulla spesa in materia di invalidità. Ci sarà l’elevazione della percentuale di invalidità dal 74 all’80% per la concessione dell’assegno. Previsto anche un piano di controlli: l’Inps è chiamata ad effettuare un programma di 100mila verifiche per l’anno 2010 e di 200mila verifiche annue per ciascuno degli anni 2011 e 2012. Le Regioni poi dovranno concorrere alle spese: il 45% dei trasferimenti sarà redistribuito tenendo conto della distribuzione pro-capite della spesa effettuata per invalidità civile.
Regioni ed Enti locali dovranno complessivamente produrre tagli per 2 miliardi nel 2011 e per 3 miliardi e 800 milioni sia nel 2012 che nel 2013: nel complesso poco meno di 10 miliardi in tre anni.
Nel comparto dell’istruzione la sforbiciata del 10% riguarderà essenzialmente le spese di funzionamento, come quelle per convegni, consulenze e missioni. Per tutti gli statali, compresi i dirigenti, lo stipendio non potrà superare (fino al 2013) il trattamento del 2009. Il turn over sarà inoltre limitato per altri 2 anni. I trattamenti saranno poi ridotti del 5% sopra i 90mila euro per la parte che eccede i 90mila fino a 130milaeuro. Sopra, il taglio sarà del 10%. C’è poi un tetto alle code contrattuali 2008-2009: cioè si prevede che i rinnovi non possano determinare aumenti superiori al 3,2%.
Tra i sacrifici erga omnes c’è sicuramente la stretta sulle pensioni. Dal 2011 ci sarà una finestra mobile per la pensione di vecchiaia, che scatterà sei mesi dopo la maturazione dei requisiti (invece degli attuali tre). Confermate le due finestre per la pensione d’anzianità contributiva. Rispunta il pedaggio su tratti stradali che connettono con le autostrade. la misura servirà a reperire risorse per le infrastrutture ed escludere Anas dal perimetro del bilancio statale.
Confermata la soppressione dell’Ipsema, dell’Ispel, dell’Ipost con trasferimento delle funzioni rispettivamente all’Inail e all’Inps. Stop anche per Isae, Ente italiano montagna, Ice e altri enti che saranno accorpati ai rispettivi ministeri. Sarà anche soppresso il finanziamento pubblico per tutti quegli enti che non hanno risposto alle richieste di informazione inviate nei mesi scorsi per conoscere l’utilizzo dei finanziamenti a carico del bilancio dello Stato.
Confermata pure la sanatoria per gli immobili fantasma. Ci sarà l’obbligo per gli interessati di dichiarazione di aggiornamento catastale con sanzioni che saranno ridotte ad un terzo.
Un’importante novità riguarda il Mezzogiorno. Le regioni del Sud avranno la possibilità di istituire un tributo sostitutivo all’Irap con riferimento alle imprese avviate dopo l’entrata in vigore del decreto legge con l’opportunità di ridurre o azzerare la stessa Irap. Sempre sul fronte fiscale, torna il tetto a 5.000 euro per i pagamenti in contanti (ma alla fine dovrebbe attestarsi a 7.500 euro) e arriva l’obbligo di fattura telematica oltre i 3.000 euro. I comuni che collaboreranno alla lotta all’evasione incasseranno il33% dei tributi statali incassati.
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lunedì 24 maggio 2010
Tremonti punta sulla casa per trovare sette miliardi
Giulio Tremonti non toglie il piede dall’acceleratore. “Sintesi politica” o no, secondo Sergio Chiamparino il ministro dell’Economia punta ancora a chiudere la partita entro i primi giorni della settimana. Magari contingentando fino all’osso i tempi del confronto con la coalizione e con le parti sociali. L’obiettivo è comunque quello di presentarsi con la manovra in mano all’appuntamento dell’Ecofin del 7 giugno, in cui Bruxelles chiederà conto degli sforzi messi in campo dagli Stati membri per la correzione dei conti pubblici. Ieri il presidente della Commissione Manuel Barroso ha spiegato che l’euro non è in pericolo, ma che «la crisi ha spazzato via dieci anni di crescita economica e finanziaria».
È proprio per velocizzare la pratica che ieri Tremonti ha convocato a sorpresa il presidente dell’Anci insieme a una delegazione di sindaci. Nell’incontro di oltre due ore a Via XX Settembre si sarebbe parlato di tagli ai trasferimenti e di immobili fantasma, ma non di condono edilizio, ha spiegato Chiamparino. Eppure, le indiscrezioni sull’ipotesi di una sanatoria sugli immobili si rincorrono con insistenza. La misura straordinaria potrebbe valere circa 5 miliardi. Il che farebbe salire la fetta di manovra che il ministro spera di ricavare dal comparto “casa”. Il condono si aggiungerebbe infatti alla sanatoria sugli immobili fantasma per un gettito complessivo che potrebbe arrivare a 7 miliardi.
Perde invece quota l’ipotesi di inserire il pedaggio sul Grande Raccordo Anulare di Roma visto che la possibilità è già prevista nella Finanziaria per il 2010. Tra le novità dell’ultim’ora c’è poi il congelamento del rinnovo contrattuale per il biennio 2008-2009 anche per tutti i dipendenti pubblici impiegati nel settore della difesa e della sicurezza. L’intervento riguarderebbe quindi gli addetti delle forze di polizia e delle forze armate che attendono il rinnovo contrattuale. La misura che farebbe risparmiare allo Stato dai 200 ai 700 milioni.
Tra le altre misure con cui Tremonti intende recuperare i 26-28 miliardi della manovra biennale spicca la raffica di tagli alla Pa: per gli statali oltre al congelamento dei rinnovi contrattuali (compresi magistrati e professori universitari) si ragiona anche sul blocco del turn over e sul mini-slittamento delle buonuscite. Ma il piatto forte è la sforbiciata del 50% rispetto al 2009 del budget di spesa della pubblica amministrazione e delle società che fanno parte del perimetro della Pa per le consulenze, i convegni, la formazione, le pubbliche relazioni, le sponsorizzazioni e le missioni. Resta confermato il taglio del 10% per ministri, sottosegretari, parlamentari e tutto il personale degli uffici di diretta collaborazione dei ministeri. Sul versante “casta” spunta anche l’ipotesi di ridurre da un euro a 50 centesimi a votante il rimborso elettorale per i partiti. Per quanto riguarda la sforbiciata agli stipendi dei manager pubblici la norma è allo studio, ma rischia di inciampare su questioni di costituzionalità.
Sulle pensioni si valuta la chiusura di una o più finestre del 2011 sia per le pensioni di vecchiaia che di anzianità. Annunciata poi un’offensiva sui trattamenti per i falsi invalidi. Mentre perderanno l’indennità di accompagnamento gli invalidi civili che possiedono redditi oltre i 25mila euro annui. Torna l’ipotesi di accorpare tutti gli istituti più piccoli all’Inps, mantenendo Inpdap e Inail. E resta confermata la caccia agli enti inutili anche attivi, come l’Isae, l’Isfol e l’Ice che potrebbero essere assorbiti dai ministeri ai quali fanno riferimento.
Sul fronte della lotta all’evasione potrebbe essere abbassata la soglia dei pagamenti in contanti oggi fissata a 12.500 euro. La misura consentirebbe una maggiore tracciabilità sollecitata dai sindacati. Si va poi verso una riedizione, riveduta e corretta, del redditometro, che entrerà in vigore da gennaio 2011. Per la sanità si studia il ritorno di un pagamento dei ticket su diagnostica e visite specialistiche da 7,5-10 euro. Mentre la stretta sulla Protezione civile prevede che le decisioni di spesa siano filtrate dal ministero dell’Economia e controllate dalla Corte dei Conti.
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È proprio per velocizzare la pratica che ieri Tremonti ha convocato a sorpresa il presidente dell’Anci insieme a una delegazione di sindaci. Nell’incontro di oltre due ore a Via XX Settembre si sarebbe parlato di tagli ai trasferimenti e di immobili fantasma, ma non di condono edilizio, ha spiegato Chiamparino. Eppure, le indiscrezioni sull’ipotesi di una sanatoria sugli immobili si rincorrono con insistenza. La misura straordinaria potrebbe valere circa 5 miliardi. Il che farebbe salire la fetta di manovra che il ministro spera di ricavare dal comparto “casa”. Il condono si aggiungerebbe infatti alla sanatoria sugli immobili fantasma per un gettito complessivo che potrebbe arrivare a 7 miliardi.
Perde invece quota l’ipotesi di inserire il pedaggio sul Grande Raccordo Anulare di Roma visto che la possibilità è già prevista nella Finanziaria per il 2010. Tra le novità dell’ultim’ora c’è poi il congelamento del rinnovo contrattuale per il biennio 2008-2009 anche per tutti i dipendenti pubblici impiegati nel settore della difesa e della sicurezza. L’intervento riguarderebbe quindi gli addetti delle forze di polizia e delle forze armate che attendono il rinnovo contrattuale. La misura che farebbe risparmiare allo Stato dai 200 ai 700 milioni.
Tra le altre misure con cui Tremonti intende recuperare i 26-28 miliardi della manovra biennale spicca la raffica di tagli alla Pa: per gli statali oltre al congelamento dei rinnovi contrattuali (compresi magistrati e professori universitari) si ragiona anche sul blocco del turn over e sul mini-slittamento delle buonuscite. Ma il piatto forte è la sforbiciata del 50% rispetto al 2009 del budget di spesa della pubblica amministrazione e delle società che fanno parte del perimetro della Pa per le consulenze, i convegni, la formazione, le pubbliche relazioni, le sponsorizzazioni e le missioni. Resta confermato il taglio del 10% per ministri, sottosegretari, parlamentari e tutto il personale degli uffici di diretta collaborazione dei ministeri. Sul versante “casta” spunta anche l’ipotesi di ridurre da un euro a 50 centesimi a votante il rimborso elettorale per i partiti. Per quanto riguarda la sforbiciata agli stipendi dei manager pubblici la norma è allo studio, ma rischia di inciampare su questioni di costituzionalità.
Sulle pensioni si valuta la chiusura di una o più finestre del 2011 sia per le pensioni di vecchiaia che di anzianità. Annunciata poi un’offensiva sui trattamenti per i falsi invalidi. Mentre perderanno l’indennità di accompagnamento gli invalidi civili che possiedono redditi oltre i 25mila euro annui. Torna l’ipotesi di accorpare tutti gli istituti più piccoli all’Inps, mantenendo Inpdap e Inail. E resta confermata la caccia agli enti inutili anche attivi, come l’Isae, l’Isfol e l’Ice che potrebbero essere assorbiti dai ministeri ai quali fanno riferimento.
Sul fronte della lotta all’evasione potrebbe essere abbassata la soglia dei pagamenti in contanti oggi fissata a 12.500 euro. La misura consentirebbe una maggiore tracciabilità sollecitata dai sindacati. Si va poi verso una riedizione, riveduta e corretta, del redditometro, che entrerà in vigore da gennaio 2011. Per la sanità si studia il ritorno di un pagamento dei ticket su diagnostica e visite specialistiche da 7,5-10 euro. Mentre la stretta sulla Protezione civile prevede che le decisioni di spesa siano filtrate dal ministero dell’Economia e controllate dalla Corte dei Conti.
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venerdì 21 maggio 2010
L’industria ricomincia a lavorare
Dopo l’export ripartono anche ordini e fatturato. Malgrado la difficile situazione internazionale e il burrascoso andamento dei mercati borsistici, l’economia reale italiana continua ad inseguire la ripresa. A marzo, oltre al consolidamento dei buoni risultati dell’esportazione, hanno ingranato la marcia pure gli ordini, con un aumento dell’1% su febbraio e addirittura del 13,1% sul 2009, un balzo che non si vedeva dal giugno del 2007. I dati diffusi ieri dall’Istat si incrociano perfettamente con quelli relativi all’export (+17% a marzo). A livello tendenziale, infatti, gli ordini hanno registrato una crescita del 7% sul mercato nazionale e del 25,4% su quello estero, che quindi ha fatto da traino. Stesso discorso mese su mese, dove gli ordini nazionali hanno segnato un aumento dello 0,4% e quelli esteri dell’1,8%. Buone notizie arrivano anche sul fatturato. L’aumento rispetto a febbraio è dell’1,5%, mentre anche nel confronto con il 2009 si registra un’accelerazione del 6,3%. Per trovare un dato simile bisogna andare indietro fino al giugno 2008.
Gli incrementi tendenziali più rilevanti dell’indice grezzo degli ordinativi hanno riguardato la fabbricazione di computer, prodotti di elettronica e ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e orologi (+25,9%), le industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (+ 20,2%) e la metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (+20%). Gli aumenti più ampi del fatturato sono invece stati registrati nei settori della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (+31,5%), della fabbricazione di mezzi di trasporto (+18,3%) e della produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+18,3%).
I dati Istat, ha spiegato il viceministro allo Sviluppo Economico, Adolfo Urso, «dimostrano le capacità di reazione delle imprese e la vitalità dell’industria italiana». La strada, chiaramente, è ancora lunga. Soprattutto sul fronte dell’occupazione, dove i contraccolpi arriveranno anche dopo l’uscita dal guado. Di «lenta risalita», ha parlato ieri Federmeccanica, che ha registrato nei primi tre mesi dell’anno una ripresa del settore del 3,1% rispetto al 2009. Ma allo stesso tempo l’associazione delle imprese metalmeccaniche ha lanciato l’allarme sulla nuova impennata della cassa integrazione tra marzo e aprile. Allarme condiviso anche dalle piccole imprese. Secondo un’indagine Confapi-Unicredit sul termometro della crisi le previsioni occupazionali delle Pmi manifatturiere per il primo semestre 2010 segnano un meno 6,3%. Dallo studio emerge anche che più di un terzo delle imprese (il 34,8%) ha utilizzato la cig nel secondo semestre 2009 e il 15,6% si aspetta di farlo anche nel 2010. «Per i piccoli», ha avvertito il presidente di Confapi, Paolo Galassi, «la crisi non è ancora finita».
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Gli incrementi tendenziali più rilevanti dell’indice grezzo degli ordinativi hanno riguardato la fabbricazione di computer, prodotti di elettronica e ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e orologi (+25,9%), le industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (+ 20,2%) e la metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (+20%). Gli aumenti più ampi del fatturato sono invece stati registrati nei settori della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (+31,5%), della fabbricazione di mezzi di trasporto (+18,3%) e della produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+18,3%).
I dati Istat, ha spiegato il viceministro allo Sviluppo Economico, Adolfo Urso, «dimostrano le capacità di reazione delle imprese e la vitalità dell’industria italiana». La strada, chiaramente, è ancora lunga. Soprattutto sul fronte dell’occupazione, dove i contraccolpi arriveranno anche dopo l’uscita dal guado. Di «lenta risalita», ha parlato ieri Federmeccanica, che ha registrato nei primi tre mesi dell’anno una ripresa del settore del 3,1% rispetto al 2009. Ma allo stesso tempo l’associazione delle imprese metalmeccaniche ha lanciato l’allarme sulla nuova impennata della cassa integrazione tra marzo e aprile. Allarme condiviso anche dalle piccole imprese. Secondo un’indagine Confapi-Unicredit sul termometro della crisi le previsioni occupazionali delle Pmi manifatturiere per il primo semestre 2010 segnano un meno 6,3%. Dallo studio emerge anche che più di un terzo delle imprese (il 34,8%) ha utilizzato la cig nel secondo semestre 2009 e il 15,6% si aspetta di farlo anche nel 2010. «Per i piccoli», ha avvertito il presidente di Confapi, Paolo Galassi, «la crisi non è ancora finita».
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Tremonti sale al Colle per anticipare i tagli
Giulio Tremonti ha ingranato la marcia. In serata, il ministro dell’Economia si è recato con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, al Quirinale per illustrare le misure di correzione dei conti pubblici. Al termine dell’incontro i due hanno fatto ritorno a Palazzo Chigi per riferire a Silvio Berlusconi. Il premier è preoccupato per la grave crisi economica internazionale. Tuttavia si è raccomandato con il superministro: «Niente nuove tasse». I tempi? Si prevedono strettissimi. Secondo quanto riferiscono fonti vicine a Palazzo Chigi, lunedì il governo vedrà le parti sociali e martedì la manovra 2011-2012 dovrebbe approdare in Consiglio dei ministri. Al più tardi l’approvazione potrebbe slittare alla prima settimana di giugno. La scadenza da rispettare, anche se non ufficiale, è l’Eurogruppo del 7 giugno, nel quale i ministri delle Finanze dovranno confrontarsi sulle misure da mettere in campo. La finanziaria dovrebbe essere composta da due provvedimenti: un decreto e un disegno di legge.
Sui contenuti, regna ancora molta confusione. Dopo Tremonti ieri anche Renato Brunetta ha tentato di sottrarre la manovra al fuoco di indiscrezioni. «Illazioni destituite di ogni fondamento», ha spiegato il ministro della Pa, aggiungendo che «il governo sta lavorando in maniera assolutamente collegiale». In realtà, il confronto che molti colleghi dell’esecutivo si aspettavano ieri al Consiglio dei ministri non c’è stato. «Tremonti non ha aperto bocca», ha assicurato il responsabile della Gioventù, Giorgia Meloni, lasciando Palazzo Chigi.
Di manovra si è discusso soltanto dopo il Cdm, in una riunione ristretta. Al conclave con Silvio Berlusconi hanno partecipato, oltre al ministro dell’Economia, quello delle Riforme, Umberto Bossi, della Semplificazione, Roberto Calderoli, delle Politiche Comunitarie, Andrea Ronchi.
Qualche dettaglio sulle misure al vaglio del governo per recuperare 26-28 miliardi in due anni è trapelato dall’incontro di mercoledì scorso con le parti sociali. Sarebbero confermati il blocco sulle pensioni e quello sugli statali. «Si sta discutendo», ha spiegato il leader della Uil, Luigi Angeletti, che ha partecipato al vertice, «del blocco delle finestre e questo significa un aumento dell’età pensionabile di due, tre mesi», quanto agli stipendi, «si è parlato di una moratoria sul pubblico impiego» che riguarda gli aumenti contrattuali 2010-2011. La voce statali non è irrisoria. Secondo stime del direttore del Centro studi di Confindustria, Luca Paolazzi, dal blocco del turnover (già in vigore) e degli stipendi della Pa il governo potrebbe ottenere fino a 8 miliardi di risparmi in due anni.
Si lavora molto probabilmente alla sforbiciata ai danni della “casta”. Nei giorni scorsi si è parlato di riduzioni del 10-15% degli stipendi di manager pubblici, parlamentari e ministri. «Non sono state date cifre», ha detto Angeletti, confermando però che la strada è quella. Su questo fronte si sono mossi parallelamente anche Gianfranco Fini e Renato Schifani, d’accordo sul giro di vite per le pensioni baby ed il blocco delle uscite dei dipendenti del Parlamento. Camera e Senato concorreranno alla manovra anti-crisi bloccando le uscite dei pensionamenti anticipati nei due rami, con effetto immediato e sino al 31 luglio 2010. Ma il Tesoro studia anche un aumento permanente dell’età pensionabile da 65 a 67 anni per i funzionari.
Tra le altre misure ci sarebbero tagli agli enti locali, riduzione degli enti inutili, lotta all’evasione e ai falsi invalidi, rafforzamento degli incentivi alla produttività del lavoro. E’ probabile anche che il governo sfrutti la manovra per inserire una misura che metta sotto controllo la Protezione Civile. Si valuta anche la possibilità di una proroga per il congelamento delle tasse per gli abruzzesi.
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Sui contenuti, regna ancora molta confusione. Dopo Tremonti ieri anche Renato Brunetta ha tentato di sottrarre la manovra al fuoco di indiscrezioni. «Illazioni destituite di ogni fondamento», ha spiegato il ministro della Pa, aggiungendo che «il governo sta lavorando in maniera assolutamente collegiale». In realtà, il confronto che molti colleghi dell’esecutivo si aspettavano ieri al Consiglio dei ministri non c’è stato. «Tremonti non ha aperto bocca», ha assicurato il responsabile della Gioventù, Giorgia Meloni, lasciando Palazzo Chigi.
Di manovra si è discusso soltanto dopo il Cdm, in una riunione ristretta. Al conclave con Silvio Berlusconi hanno partecipato, oltre al ministro dell’Economia, quello delle Riforme, Umberto Bossi, della Semplificazione, Roberto Calderoli, delle Politiche Comunitarie, Andrea Ronchi.
Qualche dettaglio sulle misure al vaglio del governo per recuperare 26-28 miliardi in due anni è trapelato dall’incontro di mercoledì scorso con le parti sociali. Sarebbero confermati il blocco sulle pensioni e quello sugli statali. «Si sta discutendo», ha spiegato il leader della Uil, Luigi Angeletti, che ha partecipato al vertice, «del blocco delle finestre e questo significa un aumento dell’età pensionabile di due, tre mesi», quanto agli stipendi, «si è parlato di una moratoria sul pubblico impiego» che riguarda gli aumenti contrattuali 2010-2011. La voce statali non è irrisoria. Secondo stime del direttore del Centro studi di Confindustria, Luca Paolazzi, dal blocco del turnover (già in vigore) e degli stipendi della Pa il governo potrebbe ottenere fino a 8 miliardi di risparmi in due anni.
Si lavora molto probabilmente alla sforbiciata ai danni della “casta”. Nei giorni scorsi si è parlato di riduzioni del 10-15% degli stipendi di manager pubblici, parlamentari e ministri. «Non sono state date cifre», ha detto Angeletti, confermando però che la strada è quella. Su questo fronte si sono mossi parallelamente anche Gianfranco Fini e Renato Schifani, d’accordo sul giro di vite per le pensioni baby ed il blocco delle uscite dei dipendenti del Parlamento. Camera e Senato concorreranno alla manovra anti-crisi bloccando le uscite dei pensionamenti anticipati nei due rami, con effetto immediato e sino al 31 luglio 2010. Ma il Tesoro studia anche un aumento permanente dell’età pensionabile da 65 a 67 anni per i funzionari.
Tra le altre misure ci sarebbero tagli agli enti locali, riduzione degli enti inutili, lotta all’evasione e ai falsi invalidi, rafforzamento degli incentivi alla produttività del lavoro. E’ probabile anche che il governo sfrutti la manovra per inserire una misura che metta sotto controllo la Protezione Civile. Si valuta anche la possibilità di una proroga per il congelamento delle tasse per gli abruzzesi.
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giovedì 20 maggio 2010
Piano Baldassarri. I finiani preparano la battaglia sulla contromanovra
Venti miliardi dal contenimento della spesa pubblica per acquisti di beni e servizi. Quindici miliardi dai trasferimenti a fondo perduto alle imprese (in cambio di zero fisco per 5 anni). In tutto 35 miliardi di tagli alla spesa corrente per aggiustare i conti pubblici e rilanciare lo sviluppo. Il programma, visto il gran parlare che si è fatto in questi giorni di sforbiciate alla spesa improduttiva, potrebbe sembrare quello di Giulio Tremonti. In realtà, le cifre sono quelle della contromanovra di Mario Baldassarri. Numeri su cui l’economista del PdL diede battaglia, senza successo, durante l’accesa discussione della scorsa Finanziaria. Allora il presidente della commissione Finanze del Senato fu zittito sostenendo che la proposta era esagerata e rischiosa. Qualcuno, disse il ministro dell’Economia riferendosi al professore, «pensa che si possano tagliare le tasse con la macelleria sociale. Non c’è riduzione fiscale che valga quanto conservare la sanità e le pensioni». Ora che non si tratta più di ridurre le tasse, ma di salvare l’euro e l’Europa puntellando i conti pubblici, di macelleria sociale non si parla più. E tra le ipotesi su cui il ministro Tremonti sta lavorando per mettere insieme la finanziaria correttiva c’è proprio, in prima fila, quella di aggredire la spesa improduttiva, comprese sanità e pensioni, di cui si pensa quanto meno di ridurre gli sprechi o di congelare le finestre d’uscita. Ora che Bruxelles sta col fiato sul collo dell’Italia quei 35 miliardi di tagli (prelevati per la maggior parte dai soldi che le amminsitrazioni locali continuano a prosciugare in barba al Patto di stabilità interno), senza toccare lo stato sociale, potrebbero fare comodo. E il modo in cui recuperarli è tornato di stretta attualità. Durante lo scorso autunno la proposta di Baldassarri, considerato molto vicino al presidente della Camera, fu subito derubricata come l’ennesimo sgambetto dei finiani al governo.
Da allora molte cose sono cambiate anche nel rapporto tra Fini e il governo. E il fatto che i finiani abbiano scelto di mantenere un profilo basso nei giorni in cui tutti discutono di manovra potrebbe non essere casuale. Sarebbe curioso, del resto, non rivendicare la primogenitura politica della necessità di abbattere i costi improduttivi della pubblica amministrazione proprio mentre quei tagli vengono invocati. Baldassari, qualche giorno fa, ha speso qualche parola sul suo progetto. Che è scritto da mesi nero su bianco, con numeri e tabelle, nei dossier dell’associazione Economia reale. Non appena sulla manovra si alzerà il velo, c’è da scommettere che il professore tornerà a far sentire con più forza la sua voce. E con lui tutta la truppa dei finiani. Del resto, prima o poi, il decreto in Parlamento ci dovrà passare.
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Da allora molte cose sono cambiate anche nel rapporto tra Fini e il governo. E il fatto che i finiani abbiano scelto di mantenere un profilo basso nei giorni in cui tutti discutono di manovra potrebbe non essere casuale. Sarebbe curioso, del resto, non rivendicare la primogenitura politica della necessità di abbattere i costi improduttivi della pubblica amministrazione proprio mentre quei tagli vengono invocati. Baldassari, qualche giorno fa, ha speso qualche parola sul suo progetto. Che è scritto da mesi nero su bianco, con numeri e tabelle, nei dossier dell’associazione Economia reale. Non appena sulla manovra si alzerà il velo, c’è da scommettere che il professore tornerà a far sentire con più forza la sua voce. E con lui tutta la truppa dei finiani. Del resto, prima o poi, il decreto in Parlamento ci dovrà passare.
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Tremonti taglia tutto. Pronta una manovra da quaranta miliardi
«Sarà dura», ha detto lunedì Umberto Bossi. Potrebbe essere durissima. Stando alle indiscrezioni che circolano in ambienti vicini a Via XX Settembre i tecnici del Tesoro sono al lavoro su varie ipotesi di manovra. Tutte ben chiuse nel cassetto in attesa di verificare gli sviluppi della situazione internazionale. Alcune andrebbero ben al di là dei 26 miliardi di cui si è discusso finora. Ma anche dei 30 ventilati per una possibile correzione più muscolare dei conti pubblici. Il piano B da tirare fuori dal cilindro se le cose dovessero mettersi male, potrebbe arrivare addirittura a sfiorare i 40 miliardi, sempre spalmati su due anni. Dal Tesoro, ovviamente, smentiscono con decisione. Ma non è così bizzarro pensare che Giulio Tremonti non voglia farsi cogliere impreparato da eventuali richieste di maggiori impegni provenienti dall’Europa.
Presto, comunque, i nodi dovrebbero essere sciolti. In serata il ministro ha illustrato la manovra al premier Silvio Berlusconi, mentre nel pomeriggio Tremonti ha ricevuto le parti sociali. Un incontro a cui, come già accaduto la scorsa settimana, non avrebbe partecipato la Cgil. Al vertice sarebbero invece intervenuti la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia e i rappresentanti delle altre organizzazioni sindacali.
Oggi, probabilmente, le linee guida della manovra finiranno anche sul tavolo del Consiglio dei ministri per una prima ricognizione.
Intanto, si continua a ragionare sui vari capitoli di spesa che finiranno sotto la scure di Tremonti. Anche alla luce dei calcoli effettuati dalla Corte dei Conti, secondo la quale sul versante del contenimento della spesa pubblica c’è poco da fare. Nel rapporto sul coordinamento della finanza pubblica relativo al 2009, i magistrati spiegano che «ci sono margini strettissimi, visto che degli 80 miliardi interessati, 20 sono di investimenti fissi lordi e contributi alle imprese e 22 di consumi intermedi». E su questi «il fondo del barile è stato raschiato abbastanza».
Il ministro Maurizio Sacconi ha comunque confermato che i falsi invalidi saranno sicuramente tra i bersagli della manovra. «È una delle aree, ha spiegato il ministro del Welfare, «nelle quali siamo impegnati. Serve una buona e tempestiva selezione delle domande». Immediata la risposta del presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, che sul contrasto ai falsi invalidi ha già ottenuto ottimi risultati. «Se il governo vuole affidarci un’ulteriore sfida, siamo pronti», ha detto, sottolineando però che proprio grazie al lavoro dell’Istituto «dopo 30 anni ci sono i primi risultati: il 50% di domande in meno e il 15% delle domande bocciate».
Tra le ipotesi allo studio del Tesoro ci sarebbe poi un concordato con adesione in tre tempi finalizzato alla regolarizzazione degli immobili fantasma di cui si è parlato nei giorni scorsi. La misura prevede la possibilità di far riemergere il bene dalla clandestinità immediatamente, entro un bimestre, tramite il pagamento delle imposte dovute relativamente alle ultime due annualità. L’opzione di un seconda finestra, che si aprirebbe entro sei mesi, consentirebbe di mettersi in regola, ma pagando il dovuto per le ultime cinque annualità. Entro queste prime due scadenze non sarebbero dovute sanzioni. Che invece scatterebbero se i tempi di regolarizzazione fossero più lunghi. Sembra dunque tramontata l’ipotesi del pagamento dell’una tantum per la regolarizzazione catastale. È, intanto, in corso la ricognizione dell’Agenzia del Territorio per stabilire quanti degli immobili “fantasma” finora mappati potrebbero essere fonte di gettito per l’Erario. Al momento, le stime indicano entrate per 1-1,5 miliardi.
Sui tagli alla “casta” si ragiona su un taglio ai Parlamentari tra il 10 e il 15%, ma l’ultima ipotesi di cui si discute è un «contributo» del 10% per tutti gli stipendi dei dirigenti pubblici superiori ai 100mila euro annui da introdurre per un periodo temporaneo di due o tre anni. Un intervento chiaramente simbolico, visto che la stessa Corte dei Conti ieri ha ribadito che da questo tipo di interventi non si potrà recuperare granché. Sul carattere “etico” della manovra, ieri è tornato anche Sacconi, che ha indicato tre linee di intervento. Riorganizzare le strutture centrali della spesa pubblica, «porre sotto responsabilità la spesa a livello regionale» e rilanciare la sussidiarietà, rivolto a «costruire un modello di protezione e inclusione sociale più efficace».
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Presto, comunque, i nodi dovrebbero essere sciolti. In serata il ministro ha illustrato la manovra al premier Silvio Berlusconi, mentre nel pomeriggio Tremonti ha ricevuto le parti sociali. Un incontro a cui, come già accaduto la scorsa settimana, non avrebbe partecipato la Cgil. Al vertice sarebbero invece intervenuti la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia e i rappresentanti delle altre organizzazioni sindacali.
Oggi, probabilmente, le linee guida della manovra finiranno anche sul tavolo del Consiglio dei ministri per una prima ricognizione.
Intanto, si continua a ragionare sui vari capitoli di spesa che finiranno sotto la scure di Tremonti. Anche alla luce dei calcoli effettuati dalla Corte dei Conti, secondo la quale sul versante del contenimento della spesa pubblica c’è poco da fare. Nel rapporto sul coordinamento della finanza pubblica relativo al 2009, i magistrati spiegano che «ci sono margini strettissimi, visto che degli 80 miliardi interessati, 20 sono di investimenti fissi lordi e contributi alle imprese e 22 di consumi intermedi». E su questi «il fondo del barile è stato raschiato abbastanza».
Il ministro Maurizio Sacconi ha comunque confermato che i falsi invalidi saranno sicuramente tra i bersagli della manovra. «È una delle aree, ha spiegato il ministro del Welfare, «nelle quali siamo impegnati. Serve una buona e tempestiva selezione delle domande». Immediata la risposta del presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, che sul contrasto ai falsi invalidi ha già ottenuto ottimi risultati. «Se il governo vuole affidarci un’ulteriore sfida, siamo pronti», ha detto, sottolineando però che proprio grazie al lavoro dell’Istituto «dopo 30 anni ci sono i primi risultati: il 50% di domande in meno e il 15% delle domande bocciate».
Tra le ipotesi allo studio del Tesoro ci sarebbe poi un concordato con adesione in tre tempi finalizzato alla regolarizzazione degli immobili fantasma di cui si è parlato nei giorni scorsi. La misura prevede la possibilità di far riemergere il bene dalla clandestinità immediatamente, entro un bimestre, tramite il pagamento delle imposte dovute relativamente alle ultime due annualità. L’opzione di un seconda finestra, che si aprirebbe entro sei mesi, consentirebbe di mettersi in regola, ma pagando il dovuto per le ultime cinque annualità. Entro queste prime due scadenze non sarebbero dovute sanzioni. Che invece scatterebbero se i tempi di regolarizzazione fossero più lunghi. Sembra dunque tramontata l’ipotesi del pagamento dell’una tantum per la regolarizzazione catastale. È, intanto, in corso la ricognizione dell’Agenzia del Territorio per stabilire quanti degli immobili “fantasma” finora mappati potrebbero essere fonte di gettito per l’Erario. Al momento, le stime indicano entrate per 1-1,5 miliardi.
Sui tagli alla “casta” si ragiona su un taglio ai Parlamentari tra il 10 e il 15%, ma l’ultima ipotesi di cui si discute è un «contributo» del 10% per tutti gli stipendi dei dirigenti pubblici superiori ai 100mila euro annui da introdurre per un periodo temporaneo di due o tre anni. Un intervento chiaramente simbolico, visto che la stessa Corte dei Conti ieri ha ribadito che da questo tipo di interventi non si potrà recuperare granché. Sul carattere “etico” della manovra, ieri è tornato anche Sacconi, che ha indicato tre linee di intervento. Riorganizzare le strutture centrali della spesa pubblica, «porre sotto responsabilità la spesa a livello regionale» e rilanciare la sussidiarietà, rivolto a «costruire un modello di protezione e inclusione sociale più efficace».
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mercoledì 19 maggio 2010
Tremonti presenta il conto a evasori e finti invalidi
Lacrime e sangue. Ma solo per chi se lo merita. Perché la manovra non sarà soltanto «correttiva», ma anche «etica». Dopo aver stoppato con durezza le indiscrezioni «confuse» e «confusionarie» circolate intorno alle misure allo studio per l’aggiustamento dei conti pubblici, ieri Giulio Tremonti ha voluto dire la sua. Un contributo alla chiarezza non eccessivamente generoso, quello arrivato da Bruxelles al termine dell’Ecofin, che è comunque servito a stabilire alcuni punti fermi. Niente aumenti delle tasse, niente interventi sul sistema pensionistico e stretta su evasori e falsi invalidi. Quanto alla “casta”, il ministro dell’Economia non ha voluto rivelare nulla, ma ha spiegato che «il taglio degli stipendi dei parlamentari del 5%» lo fa «sorridere». Quello, ha ironizzato, «è solo l’aperitivo».
Tremonti ha comunque ribadito che le classi più deboli non saranno colpite: «Non metteremo le mani in tasca agli italiani». Sulle pensioni il ministro non si è sbilanciato: «In Italia abbiamo il sistema previdenziale più stabile d'Europa. E se mi chiedete se stiamo stravolgendo il sistema pensionistico vi dico di no, perché il sistema funziona». Parole che secondo l’economista del Pdl, Giuliano Cazzola, non escludono interventi sulle finestre che produrrebbero risparmi da 800mila ad un miliardo di euro.
Ma nel mirino ci sono principalmente gli sprechi, la corruzione e le irregolarità che gonfiano la spesa, con un «uso non appropriato del denaro pubblico». «Ridurremo il peso della mano pubblica lì dove è meno produttiva e dove non ha effetti recessivi», ha spiegato. Gli esempi citati dal ministro sono quelli già circolati all’indomani della presentazione della Relazione unificata sull’economia al Consiglio dei ministri. In primo luogo gli assegni di invalidità. «La spesa dal 2001 ad oggi, col Titolo quinto che ha dato alle Regioni poteri di spesa ma non di presa, è salita da 6 miliardi di euro a 16 miliardi di euro, un punto di Pil». Qui, secondo i calcoli fatti dagli esperti del Tesoro, sarebbe possibile recuperare qualcosa come 4 miliardi di euro. Somme che vanno a persone che non hanno alcun diritto. Ma il monitoraggio della spesa sarà serrato, anche sulle risorse erariali che finiscono in pancia agli enti locali. «Esistono trasferimenti dal ministero degli Interni ad una platea di Comuni», ha detto Tremonti, che ammontano a 15 miliardi di euro ogni anno. I margini di intervento sono dunque enormi». Proseguirà poi la stretta, già prevista dalla manovra triennale varata nel 2008, sull’evasione fiscali. Con controlli intensificati a partire dai contribuenti che dichiarano di non avere alcun reddito e da chi sostiene di risiedere all’estero.
Il ministro ha però voluto mettere in chiaro che da Bruxelles non ci saranno pressioni indebite, come qualcuno paventava. «L’Italia ha già ricevuto nel dicembre scorso indicazioni dalla Ue per la correzione dei propri conti e noi intendiamo rispettare quegli impegni e quei numeri. Non ci è stato chiesto nient’altro», ha precisato Tremonti sottolineando la differenza da quanto accaduto per Spagna e Portogallo. La manovra, che il governo intende varare «prima di luglio» e che oggi lo stesso titolare di via XX Settembre illustrerà nelle sue grandi linee Silvio Berlusconi, si conferma dunque finalizzata ad una correzione del deficit dello 0,8% sia nel 2011 che nel 2012, per un ammontare complessivo di circa 26 miliardi di euro.
In serata anche Umberto Bossi ha confermato che la manovra sarà «dura», pur ammettendo di non conscerne i dettagli, tranne «le liti tra Brunetta e Tremonti, che sono all’ordine del giorno». Su un eventuale aumento delle tasse, il leader del Carroccio ha commentato: «Speriamo di no, sono già molto alte nel Paese».
Quanto ai temi discussi dall’Ecofin, Tremonti ha mostrato soddisfazione per l’accordo raggiunto sulla regolamentazione degli hedge fund, nonostante i malumori inglesi: «È un esempio di come debba essere la politica a dettare le regole». In merito alla proposta della Commissione Ue di armonizzare le politiche di bilancio con un controllo più stretto sul debito, il ministro si è detto d’accordo, a patto che «si consideri tutto il debito, quello pubblico e quello privato».
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Tremonti ha comunque ribadito che le classi più deboli non saranno colpite: «Non metteremo le mani in tasca agli italiani». Sulle pensioni il ministro non si è sbilanciato: «In Italia abbiamo il sistema previdenziale più stabile d'Europa. E se mi chiedete se stiamo stravolgendo il sistema pensionistico vi dico di no, perché il sistema funziona». Parole che secondo l’economista del Pdl, Giuliano Cazzola, non escludono interventi sulle finestre che produrrebbero risparmi da 800mila ad un miliardo di euro.
Ma nel mirino ci sono principalmente gli sprechi, la corruzione e le irregolarità che gonfiano la spesa, con un «uso non appropriato del denaro pubblico». «Ridurremo il peso della mano pubblica lì dove è meno produttiva e dove non ha effetti recessivi», ha spiegato. Gli esempi citati dal ministro sono quelli già circolati all’indomani della presentazione della Relazione unificata sull’economia al Consiglio dei ministri. In primo luogo gli assegni di invalidità. «La spesa dal 2001 ad oggi, col Titolo quinto che ha dato alle Regioni poteri di spesa ma non di presa, è salita da 6 miliardi di euro a 16 miliardi di euro, un punto di Pil». Qui, secondo i calcoli fatti dagli esperti del Tesoro, sarebbe possibile recuperare qualcosa come 4 miliardi di euro. Somme che vanno a persone che non hanno alcun diritto. Ma il monitoraggio della spesa sarà serrato, anche sulle risorse erariali che finiscono in pancia agli enti locali. «Esistono trasferimenti dal ministero degli Interni ad una platea di Comuni», ha detto Tremonti, che ammontano a 15 miliardi di euro ogni anno. I margini di intervento sono dunque enormi». Proseguirà poi la stretta, già prevista dalla manovra triennale varata nel 2008, sull’evasione fiscali. Con controlli intensificati a partire dai contribuenti che dichiarano di non avere alcun reddito e da chi sostiene di risiedere all’estero.
Il ministro ha però voluto mettere in chiaro che da Bruxelles non ci saranno pressioni indebite, come qualcuno paventava. «L’Italia ha già ricevuto nel dicembre scorso indicazioni dalla Ue per la correzione dei propri conti e noi intendiamo rispettare quegli impegni e quei numeri. Non ci è stato chiesto nient’altro», ha precisato Tremonti sottolineando la differenza da quanto accaduto per Spagna e Portogallo. La manovra, che il governo intende varare «prima di luglio» e che oggi lo stesso titolare di via XX Settembre illustrerà nelle sue grandi linee Silvio Berlusconi, si conferma dunque finalizzata ad una correzione del deficit dello 0,8% sia nel 2011 che nel 2012, per un ammontare complessivo di circa 26 miliardi di euro.
In serata anche Umberto Bossi ha confermato che la manovra sarà «dura», pur ammettendo di non conscerne i dettagli, tranne «le liti tra Brunetta e Tremonti, che sono all’ordine del giorno». Su un eventuale aumento delle tasse, il leader del Carroccio ha commentato: «Speriamo di no, sono già molto alte nel Paese».
Quanto ai temi discussi dall’Ecofin, Tremonti ha mostrato soddisfazione per l’accordo raggiunto sulla regolamentazione degli hedge fund, nonostante i malumori inglesi: «È un esempio di come debba essere la politica a dettare le regole». In merito alla proposta della Commissione Ue di armonizzare le politiche di bilancio con un controllo più stretto sul debito, il ministro si è detto d’accordo, a patto che «si consideri tutto il debito, quello pubblico e quello privato».
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martedì 18 maggio 2010
L’euro debole fa bene a meccanica e tessile
C’è chi con il minieuro ci ha già guadagnato. Si tratta dei cosiddetti frontalieri, un esercito di 19mila lavoratori che ogni giorno varca la frontiera per operare in Svizzera. Per loro, che vengono pagati in franchi, ogni punto che perde la moneta unica è una boccata d’ossigeno. Grazie al cambio, da dicembre ad oggi lo stipendio di un operaio frontaliere è già aumentato di circa 185 euro al mese.
Ma sono in molti, in questi giorni, a fare i conti con i contraccolpi valutari del terremoto greco, che ieri ha portato l’euro a chiudere a 1,23 dollari dopo uno scivolone in avvio a 1,22, minimo degli ultimi quattro anni. C’è chi, come le piccole imprese, non vede scenari drammatici, ma opportunità. «Il brutto è che deriva da una crisi e non da una politica monetaria», spiega il presidente di Confapi, Paolo Galassi, ma non c’è dubbio «che il crollo dell’euro favorisca la competitività della piccola e media impresa». Già, i piccoli, gli artigiani, ma anche il turismo e il made in Italy. Sono molti i settori che potrebbero ricevere una spinta dalla discesa della moneta unica. Il tasso di cambio favorevole dei primi mesi dell’anno, ad esempio, ha già prodotto un incremento del 6% delle esportazioni di vino. Gli Stati Uniti, sottolinea infatti la Coldiretti, «rappresentano un importante mercato di sbocco per l’agroalimentare italiano». Ed è solo l’inizio. «Ipotizzando una prosecuzione del trend di indebolimento della moneta unica, con il cambio euro/dollaro a 1,25 a fine 2010 e 1,15 entro il 2011», si legge in un rapporto dell’Area pianificazione strategica di Banca Monte Paschi, «l’effetto sulle esportazioni italiane è quantificabile in una crescita dello 0,7% nel 2010 e dell’1,5% l’anno successivo». Ma se la domanda estera dovesse ripartire, la crescita cumulata nel biennio potrebbe raggiungere anche il 7% rispetto al -18% del 2009.
Tra i comparti più favoriti, chiaramente, il manifatturiero, che rappresenta circa il 95% del nostro export. Con picchi nel tessile e nell’abbigliamento. Ma potrà correre di più anche l’alimentare, la meccanica e la metallurgia. Qualche esempio? Interpump, società italiana specializzata in pompe per l’agricoltura e l’industria, fa il 78% del suo fatturato all’estero. Stesso discorso per la Manas, piccola azienda di scarpe da donna, il cui giro d’affari di 70 milioni è dovuto per il 65% all’export. Arriva fino al 91% il fatturato realizzato fuori dall’Italia da Datalogic, leader dei lettori per codici a barre con ricavi annui di 370 milioni.
Ma anche marchi più conosciuti come Ferragamo (620 milioni di fatturato, il 50% solo in Asia) o Luxottica (5 miliardi, il 60% negli Stati Uniti, diventato il 70% nel primo trimestre 2010), vivono sulle esportazioni. Lo sa bene, Corrado Passera, che ha definito «significativo» il «potenziale di crescita» dei ricavi di Intesa proprio grazie «all’improvvisa svalutazione dell’euro, che darà sostegno all’economia». E un «effetto positivo» ci sarà anche per le Generali, ha spiegato l’ad Giovanni Perissinotto.
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Ma sono in molti, in questi giorni, a fare i conti con i contraccolpi valutari del terremoto greco, che ieri ha portato l’euro a chiudere a 1,23 dollari dopo uno scivolone in avvio a 1,22, minimo degli ultimi quattro anni. C’è chi, come le piccole imprese, non vede scenari drammatici, ma opportunità. «Il brutto è che deriva da una crisi e non da una politica monetaria», spiega il presidente di Confapi, Paolo Galassi, ma non c’è dubbio «che il crollo dell’euro favorisca la competitività della piccola e media impresa». Già, i piccoli, gli artigiani, ma anche il turismo e il made in Italy. Sono molti i settori che potrebbero ricevere una spinta dalla discesa della moneta unica. Il tasso di cambio favorevole dei primi mesi dell’anno, ad esempio, ha già prodotto un incremento del 6% delle esportazioni di vino. Gli Stati Uniti, sottolinea infatti la Coldiretti, «rappresentano un importante mercato di sbocco per l’agroalimentare italiano». Ed è solo l’inizio. «Ipotizzando una prosecuzione del trend di indebolimento della moneta unica, con il cambio euro/dollaro a 1,25 a fine 2010 e 1,15 entro il 2011», si legge in un rapporto dell’Area pianificazione strategica di Banca Monte Paschi, «l’effetto sulle esportazioni italiane è quantificabile in una crescita dello 0,7% nel 2010 e dell’1,5% l’anno successivo». Ma se la domanda estera dovesse ripartire, la crescita cumulata nel biennio potrebbe raggiungere anche il 7% rispetto al -18% del 2009.
Tra i comparti più favoriti, chiaramente, il manifatturiero, che rappresenta circa il 95% del nostro export. Con picchi nel tessile e nell’abbigliamento. Ma potrà correre di più anche l’alimentare, la meccanica e la metallurgia. Qualche esempio? Interpump, società italiana specializzata in pompe per l’agricoltura e l’industria, fa il 78% del suo fatturato all’estero. Stesso discorso per la Manas, piccola azienda di scarpe da donna, il cui giro d’affari di 70 milioni è dovuto per il 65% all’export. Arriva fino al 91% il fatturato realizzato fuori dall’Italia da Datalogic, leader dei lettori per codici a barre con ricavi annui di 370 milioni.
Ma anche marchi più conosciuti come Ferragamo (620 milioni di fatturato, il 50% solo in Asia) o Luxottica (5 miliardi, il 60% negli Stati Uniti, diventato il 70% nel primo trimestre 2010), vivono sulle esportazioni. Lo sa bene, Corrado Passera, che ha definito «significativo» il «potenziale di crescita» dei ricavi di Intesa proprio grazie «all’improvvisa svalutazione dell’euro, che darà sostegno all’economia». E un «effetto positivo» ci sarà anche per le Generali, ha spiegato l’ad Giovanni Perissinotto.
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Tremonti e Brunetta al lavoro per evitare un’euro-mazzata
Tagli, risparmi, sacrifici. I sedici ministri dell’Economia dell’Unione si sono ritrovati ieri a Bruxelles per fare il punto sulla crisi e coordinare gli interventi di aggiustamento dei conti pubblici. Ma è chiaro che la partita non si chiuderà all’Ecofin di oggi. Ognuno dei sedici dovrà infatti, prima o poi, tornare a casa e fare i conti con i suoi. E non è detto che tutti siano disposti a farsi da parte. Non lo è per niente, ad esempio, Renato Brunetta, che, dopo aver ascoltato in silenzio per giorni e giorni indiscrezioni e ipotesi su ogni tipo di sforbiciata ai danni degli statali, ieri ha deciso di stoppare il gioco. «Gli stipendi della Pa non si toccano», ha spiegato, «non stiamo come la Grecia».
Bisogna poi vedere quanto il ministro della Funzione pubblica riuscirà a duellare con il collega Giulio Tremonti. Il quale, a dire la verità, ha denunciato domenica le poche idee molto confuse che circolano sulla Finanziaria biennale da 25 miliardi che dovrà approdare sul tavolo del Consiglio dei ministri nei primi giorni di giugno.
Nell’attesa, Brunetta ha assicurato che la manovra non conterrà alcun taglio agli stipendi dei dipendenti pubblici. «Ci sono sprechi da tagliare, ovunque si annidino, a partire dagli sprechi in politica. Ciascuno deve fare la propria parte», ha aggiunto Brunetta, ribadendo che «il governo non metterà le mani nelle tasche degli italiani». Parlando al convegno inaugurale della XXI edizione del Forum Pa, il ministro ha però sottolineato, in linea con la posizione sostenuta anche durante il braccio di ferro durante la scorsa Finanziaria, che «questo provvedimento non sarà solo e tanto di tagli agli sprechi, dovrà essere parallelamente di rilancio e sviluppo del Paese, realizzando quelle riforme che sono a costo zero, che sono come le ho definite sotto zero».
Per essere ancora più chiari, il ministro della Pa ha spiegato che «questo Paese non sopporterebbe un mero taglio keynesiano della spesa, perchè farebbe ridurre la domanda effettiva e il reddito. Noi abbiamo bisogno di più crescita, con minore spesa pubblica cattiva. Questo è l’oggetto della nostra azione nelle prossime settimane». I tagli dovranno quindi essere «selettivi e intelligenti». Altrimenti il rischio è che si «puniscano allo stesso modo cicale e formiche e questo è sbagliato. I tagli orizzontali non servono, sono deleteri, sono una iattura: è come restringere la cinta di qualche buco pensando di essere dimagriti».
Se decidere quali tagli sarà compito del governo, quanti tagli molto probabilmente lo deciderà Bruxelles. E i timori di Tremonti e dello stesso Silvio Berlusconi sono tutti rivolti alle mosse del cancelliere tedesco, Angela Merkel, che sta cercando di fare passare una linea “lacrime e sangue” che sgambetterebbe l’Italia, ma soffocherebbe anche la ripresa Ue. L’ipotesi è sul tavolo. L’Eurogruppo, che oggi sbloccherà i primi 14,5 miliardi di prestiti alla Grecia, ha infatti accolto favorevolmente gli ulteriori tagli decisi per il 2010 da Spagna e Portogallo. E e ha auspicato «più sacrifici» e manovre più stringenti anche da parte di tutti gli altri.
A spingere in questa direzione soprattutto la Germania, che vorrebbe addirittura inserire nelle Costituzioni dei Paesi dell’euro un «freno ai deficit», vale a dire una soglia massima invalicabile per i disavanzi. Proprio come ha già fatto Berlino, che nella Carta ha inserito una disposizione in cui si prevede di ridurre il deficit di 10 miliardi, portandolo entro il 2016 allo 0,35% dall’attuale 5%.
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Bisogna poi vedere quanto il ministro della Funzione pubblica riuscirà a duellare con il collega Giulio Tremonti. Il quale, a dire la verità, ha denunciato domenica le poche idee molto confuse che circolano sulla Finanziaria biennale da 25 miliardi che dovrà approdare sul tavolo del Consiglio dei ministri nei primi giorni di giugno.
Nell’attesa, Brunetta ha assicurato che la manovra non conterrà alcun taglio agli stipendi dei dipendenti pubblici. «Ci sono sprechi da tagliare, ovunque si annidino, a partire dagli sprechi in politica. Ciascuno deve fare la propria parte», ha aggiunto Brunetta, ribadendo che «il governo non metterà le mani nelle tasche degli italiani». Parlando al convegno inaugurale della XXI edizione del Forum Pa, il ministro ha però sottolineato, in linea con la posizione sostenuta anche durante il braccio di ferro durante la scorsa Finanziaria, che «questo provvedimento non sarà solo e tanto di tagli agli sprechi, dovrà essere parallelamente di rilancio e sviluppo del Paese, realizzando quelle riforme che sono a costo zero, che sono come le ho definite sotto zero».
Per essere ancora più chiari, il ministro della Pa ha spiegato che «questo Paese non sopporterebbe un mero taglio keynesiano della spesa, perchè farebbe ridurre la domanda effettiva e il reddito. Noi abbiamo bisogno di più crescita, con minore spesa pubblica cattiva. Questo è l’oggetto della nostra azione nelle prossime settimane». I tagli dovranno quindi essere «selettivi e intelligenti». Altrimenti il rischio è che si «puniscano allo stesso modo cicale e formiche e questo è sbagliato. I tagli orizzontali non servono, sono deleteri, sono una iattura: è come restringere la cinta di qualche buco pensando di essere dimagriti».
Se decidere quali tagli sarà compito del governo, quanti tagli molto probabilmente lo deciderà Bruxelles. E i timori di Tremonti e dello stesso Silvio Berlusconi sono tutti rivolti alle mosse del cancelliere tedesco, Angela Merkel, che sta cercando di fare passare una linea “lacrime e sangue” che sgambetterebbe l’Italia, ma soffocherebbe anche la ripresa Ue. L’ipotesi è sul tavolo. L’Eurogruppo, che oggi sbloccherà i primi 14,5 miliardi di prestiti alla Grecia, ha infatti accolto favorevolmente gli ulteriori tagli decisi per il 2010 da Spagna e Portogallo. E e ha auspicato «più sacrifici» e manovre più stringenti anche da parte di tutti gli altri.
A spingere in questa direzione soprattutto la Germania, che vorrebbe addirittura inserire nelle Costituzioni dei Paesi dell’euro un «freno ai deficit», vale a dire una soglia massima invalicabile per i disavanzi. Proprio come ha già fatto Berlino, che nella Carta ha inserito una disposizione in cui si prevede di ridurre il deficit di 10 miliardi, portandolo entro il 2016 allo 0,35% dall’attuale 5%.
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domenica 16 maggio 2010
Premi, contratti e buonuscite. Tremonti mette a dieta gli statali
I sindacati sono sul piede di guerra, l’opposizione punta il dito sull’irresponsabilità del governo, mentre nella maggioranza è scattata la corsa a chi vuole tagliare di più. Dopo la sforbiciata del 5% degli stipendi parlamentari suggerita da Calderoli ieri la Santanché ha rilanciato fino al 10%, per Malan dovrebbero essere colpite anche le consulenze e per la Boniver pure le retribuzioni dei super manager.
La verità è che, malgrado le polemiche, le proposte e le ricostruzioni giornalistiche, nessuno sa esattamente quali siano le misure allo studio di Giulio Tremonti per aggiustare i conti.
«Tutti parlano e commentano, ma numeri finora non ne sono circolati», spiega una fonte parlamentare che segue da vicino le mosse di Via XX Settembre, «qualcosa di concreto si saprà solo all’inizio di giugno, quando la manovra arriverà sul tavolo del Consiglio dei ministri». All’Economia i tecnici stanno comunque lavorando a testa bassa. La situazione internazionale e l’esempio degli altri Paesi Ue impongono a Tremonti di dare un segnale forte sulla spesa, al di là dei 25 miliardi già annunciati per la correzione in due anni di 1,6 punti di deficit.
Il terreno è però impervio. Anche perché i tagli a Pa e pubblico impiego sono già abbondantemente previsti dalla Finanziaria triennale da 36 miliardi varata nel 2008. Complessivamente per i ministeri sono stati previsti risparmi di spesa di 8,4 miliardi nel 2009, 8,9 miliardi nel 2010 e 15,6 miliardi nel 2011. Si può fare di più senza provocare rivolte di piazza? Ne è convinto Sacconi, che ieri in un’intervista ha ribadito l’intenzione del governo di «ridurre il perimetro della spesa pubblica». Sul tavolo, tra le opzioni possibili da monetizzare in tempi brevi, c’è sicuramente il blocco dei contratti degli statali, che sui tre anni vale 5,3 miliardi. Nel pacchetto potrebbe rientrare un prelievo dei Fondi unici delle amministrazioni per i premi di produttività legati alla contrattazione integrativa, fino a un miliardo. Sempre per il pubblico impiego si ragiona sulla proroga del blocco del turn-over al 2012, che garantirebbe 800 milioni, e del Tfr, mentre dal taglio dei costi della politica potrebbe arrivare un miliardo. Non è escluso che Tremonti rispolveri anche il vecchio piano per la valorizzazione del patrimonio pubblico che nel 2004 si aggirava sui 1.800 miliardi. Anche perché sulla strada dei risparmi sulla Pa c’è un agguerrito Brunetta che sembra pronto all’ennesimo duello con l’amico Giulio.
Di crisi e di conti pubblici il ministro parlerà anche con le banche. Domani è previsto un incontro privato a Milano con i vertici dei principali istituti di credito alla presenza anche del direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli. Il sostegno delle banche sarà necessario per mantenere alta la fiducia degli investitori sul mercato azionario e su quello dei titoli di Stato.
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La verità è che, malgrado le polemiche, le proposte e le ricostruzioni giornalistiche, nessuno sa esattamente quali siano le misure allo studio di Giulio Tremonti per aggiustare i conti.
«Tutti parlano e commentano, ma numeri finora non ne sono circolati», spiega una fonte parlamentare che segue da vicino le mosse di Via XX Settembre, «qualcosa di concreto si saprà solo all’inizio di giugno, quando la manovra arriverà sul tavolo del Consiglio dei ministri». All’Economia i tecnici stanno comunque lavorando a testa bassa. La situazione internazionale e l’esempio degli altri Paesi Ue impongono a Tremonti di dare un segnale forte sulla spesa, al di là dei 25 miliardi già annunciati per la correzione in due anni di 1,6 punti di deficit.
Il terreno è però impervio. Anche perché i tagli a Pa e pubblico impiego sono già abbondantemente previsti dalla Finanziaria triennale da 36 miliardi varata nel 2008. Complessivamente per i ministeri sono stati previsti risparmi di spesa di 8,4 miliardi nel 2009, 8,9 miliardi nel 2010 e 15,6 miliardi nel 2011. Si può fare di più senza provocare rivolte di piazza? Ne è convinto Sacconi, che ieri in un’intervista ha ribadito l’intenzione del governo di «ridurre il perimetro della spesa pubblica». Sul tavolo, tra le opzioni possibili da monetizzare in tempi brevi, c’è sicuramente il blocco dei contratti degli statali, che sui tre anni vale 5,3 miliardi. Nel pacchetto potrebbe rientrare un prelievo dei Fondi unici delle amministrazioni per i premi di produttività legati alla contrattazione integrativa, fino a un miliardo. Sempre per il pubblico impiego si ragiona sulla proroga del blocco del turn-over al 2012, che garantirebbe 800 milioni, e del Tfr, mentre dal taglio dei costi della politica potrebbe arrivare un miliardo. Non è escluso che Tremonti rispolveri anche il vecchio piano per la valorizzazione del patrimonio pubblico che nel 2004 si aggirava sui 1.800 miliardi. Anche perché sulla strada dei risparmi sulla Pa c’è un agguerrito Brunetta che sembra pronto all’ennesimo duello con l’amico Giulio.
Di crisi e di conti pubblici il ministro parlerà anche con le banche. Domani è previsto un incontro privato a Milano con i vertici dei principali istituti di credito alla presenza anche del direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli. Il sostegno delle banche sarà necessario per mantenere alta la fiducia degli investitori sul mercato azionario e su quello dei titoli di Stato.
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sabato 15 maggio 2010
Avvoltoi sull’Italia. La Borsa perde il 5%
Oro alle stelle, euro ai minimi e Borse in picchiata. La furia degli speculatori si scatena di nuovo sui mercati internazionali. E l’Europa è costretta ad archiviare l’ennesimo venerdì nero. L’indice Stoxx Europe 600, che fotografa l’andamento dei principali titoli quotati sui listini del Vecchio continente, ha ceduto il 3,41%, che equivale a 172 miliardi bruciati in una sola giornata.
Gli ordini di vendita si sono avventati principalmente sul settore bancario, travolgendo i listini in cui il mondo del credito è più rappresentato. La Spagna soprattutto (-6,6%), ma anche l’Italia. Piazza Affari ha chiuso la seduta in calo del 5,2%. Tra i titoli più colpiti, oltre a Geox che è stata trascinata giù del 10% da una cattiva trimestrale, ci sono Intesa SanPaolo (-5,3%), Unicredit (-6,3%), Ubi (-8,3%), Mps (-5,9%), Bpm (-6,8%) e Banco Popolare (-6,2%). Ma la sfilza dei ribassi si è estesa a macchia d’olio su tutto il Continente. L’effetto panico si è abbattuto anche su Londra (-3,14%), Parigi (-4,59%), Francoforte (-3,12%), Amsterdam (-3,13%), Atene (-3,41%), Lisbona (-4,27%), Dublino (-3,66%). E il contraccolpo è arrivato anche a Wall Street, dove il Dow Jones, dopo tre ore di contrattazioni, perdeva ancora l’1,5%.
La bufera non ha ovviamente risparmiato il mercato valutario, con l’euro sceso sotto gli 1,24 dollari, ai minimi dai tempi del crac di Lehman Brothers, ovvero dal novembre 2008. La fuga dalla moneta unica ha subito provocato l’impennata dell’oro, arrivato a sfiorare 1.250 dollari l’oncia.
Ad alimentare le incertezze degli investitori, in mattinata, ci hanno pensato i soliti esperti di Moody’s che hanno preannunciato come «molto probabile» un deciso taglio del rating della Grecia nel giro dei prossimi tre mesi. Ma il carico da novanta è quello arrivato dalla Germania con l’intervista del numero uno di Deutsche Bank, Josef Ackermann, il quale ha messo in dubbio la capacità della Grecia di rimborsare completamente il suo debito. Parole che hanno costretto Berlino a intervenire con una secca smentita: la Germania non ha mai messo in dubbio la solvibilità di Atene.
Parole che non sono comunque riuscite a impedire l’effetto sui rendimenti dei titoli di Stato di Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda, che hanno ripreso a salire facendo allargare lo spread con i bund tedeschi. Stesso discorso per i Cds, che misurano il rischio default dei Paesi, schizzati di nuovo verso l’alto dopo un periodo di relativa tranquillità.
Non è ottimista l’Fmi, che ieri ha invitato i Paesi più ricchi, se non vogliono mettere a rischio la ripresa, ad agire «in modo deciso e significativo» per mettere in ordine i conti pubblici. Il Fondo ha però confermato la tenuta dei conti pubblici italiani. Per portare il debito al 60% del pil nel 2030, all’Italia serve una correzione del 4,1% fra il 2010 e il 2020, ovvero un aggiustamento decisamente inferiore a quello richiesto alla Francia (8,3%) e in linea con quello tedesco (4%). Il nostro Paese deve però agire su due fronti: le pensioni e la sanità. Di «sacrifici per tutti» ha parlato ieri anche il ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli, che ha annunciato una manovra a breve in cui i tagli alle spese riguarderanno anche «ministri e parlamentari».
© Libero
Gli ordini di vendita si sono avventati principalmente sul settore bancario, travolgendo i listini in cui il mondo del credito è più rappresentato. La Spagna soprattutto (-6,6%), ma anche l’Italia. Piazza Affari ha chiuso la seduta in calo del 5,2%. Tra i titoli più colpiti, oltre a Geox che è stata trascinata giù del 10% da una cattiva trimestrale, ci sono Intesa SanPaolo (-5,3%), Unicredit (-6,3%), Ubi (-8,3%), Mps (-5,9%), Bpm (-6,8%) e Banco Popolare (-6,2%). Ma la sfilza dei ribassi si è estesa a macchia d’olio su tutto il Continente. L’effetto panico si è abbattuto anche su Londra (-3,14%), Parigi (-4,59%), Francoforte (-3,12%), Amsterdam (-3,13%), Atene (-3,41%), Lisbona (-4,27%), Dublino (-3,66%). E il contraccolpo è arrivato anche a Wall Street, dove il Dow Jones, dopo tre ore di contrattazioni, perdeva ancora l’1,5%.
La bufera non ha ovviamente risparmiato il mercato valutario, con l’euro sceso sotto gli 1,24 dollari, ai minimi dai tempi del crac di Lehman Brothers, ovvero dal novembre 2008. La fuga dalla moneta unica ha subito provocato l’impennata dell’oro, arrivato a sfiorare 1.250 dollari l’oncia.
Ad alimentare le incertezze degli investitori, in mattinata, ci hanno pensato i soliti esperti di Moody’s che hanno preannunciato come «molto probabile» un deciso taglio del rating della Grecia nel giro dei prossimi tre mesi. Ma il carico da novanta è quello arrivato dalla Germania con l’intervista del numero uno di Deutsche Bank, Josef Ackermann, il quale ha messo in dubbio la capacità della Grecia di rimborsare completamente il suo debito. Parole che hanno costretto Berlino a intervenire con una secca smentita: la Germania non ha mai messo in dubbio la solvibilità di Atene.
Parole che non sono comunque riuscite a impedire l’effetto sui rendimenti dei titoli di Stato di Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda, che hanno ripreso a salire facendo allargare lo spread con i bund tedeschi. Stesso discorso per i Cds, che misurano il rischio default dei Paesi, schizzati di nuovo verso l’alto dopo un periodo di relativa tranquillità.
Non è ottimista l’Fmi, che ieri ha invitato i Paesi più ricchi, se non vogliono mettere a rischio la ripresa, ad agire «in modo deciso e significativo» per mettere in ordine i conti pubblici. Il Fondo ha però confermato la tenuta dei conti pubblici italiani. Per portare il debito al 60% del pil nel 2030, all’Italia serve una correzione del 4,1% fra il 2010 e il 2020, ovvero un aggiustamento decisamente inferiore a quello richiesto alla Francia (8,3%) e in linea con quello tedesco (4%). Il nostro Paese deve però agire su due fronti: le pensioni e la sanità. Di «sacrifici per tutti» ha parlato ieri anche il ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli, che ha annunciato una manovra a breve in cui i tagli alle spese riguarderanno anche «ministri e parlamentari».
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venerdì 14 maggio 2010
L’Europa vuole mettere a dieta l’Italia
La cinghia va stretta un altro po’. E subito. Chi pensava di poter aspettare il nuovo e più severo Patto di stabilità per inaugurare la linea del rigore estremo sui conti pubblici è stato gelato ieri dalla Bce, che ha chiesto ai governi dell’eurozona un impegno immediato sui saldi di bilancio. «Dagli ultimi dati», si legge nel Bollettino mensile, «emerge che per correggere gli ampi squilibri sarà, in generale, necessario intensificare gli sforzi». Per essere più chiari, il risanamento dovrà «superare in misura considerevole l’aggiustamento strutturale dello 0,5% del Pil su base annua stabilito come requisito minimo nel Patto di stabilità». E più «più si aspetterà a correggere gli squilibri», avverte la Bce, «maggiore risulterà l’aggiustamento necessario e più elevato sarà il rischio di subire un danno in termini di reputazione e fiducia». Insomma, non c’è tempo da perdere.
L’invito è chiaramente rivolto a tutti. Le previsioni per il 2010, del resto parlano di una media europea del rapporto deficit/pil al 6,8%, oltre il doppio del tetto previsto inizialmente dai parametri di Maastricht. Nel club c’è anche l’Italia, malgrado l’ottimismo del Fondo monetario, che qualche giorno fa ha stimato l’indebitamento del nostro Paese per il 2010 al 5,2%, al di sotto di quello tedesco (5,7%) e francese (8,2%). Previsioni incoraggianti, che devono però essere affiancate a un debito che schizzerà al 118% del Pil e a una crescita inferiore al resto d’Europa. Tremonti, in altre parole, dovrà fare bene i suoi calcoli. Basterà la manovra da 25 miliardi in due anni prevista dal ministro dell’Economia? Secondo Maurizio Sacconi la Finanziaria già annunciata dal governo «sarà consistente e significativa, anche superiore alle esigenze richieste dai parametri Ue». Il ministro del Welfare ammette comunque che «sarà necessario ridurre il perimetro della spesa pubblica». In effetti, guardando i numeri, Tremonti si sta muovendo sul filo del rasoio. I 25 miliardi (che equivalgono all’1,6% del Pil) dovrebbero servire, stando a quanto si legge nella Relazione unificata sull’economia presentata pochi giorni fa, a ridurre il deficit/pil strutturale (cioè al netto delle una tantum) dello 0,8% nel 2011 e dello 0,5% nel 2012. Un altro 0,5% di rientro è stimato per l’anno in corso. Questo significa, facendo una media, che l’aggiustamento dei conti non è così superiore a quello richiesto e, anzi, qualsiasi errore nelle previsioni (quelle sul 2010 del governo, ad esempio, non coincidono né sul deficit né sul Pil con quelle degli organismi internazionali) farebbe scendere l’asticella al di sotto della soglia di sicurezza.
Del resto, proprio ieri la Bce ha tagliato le stime di crescita di Eurolandia (dall’1,4 all’1,3%) e ha ribadito che la crisi finanziaria potrebbe rallentare ulteriormente la corsa. Brutte notizie arrivano anche sull’occupazione, che è balzata oltre il 10% e rischia di raggiungere il 10,4% fra meno di un anno. Notizia che ha fatto immediatamente scattare l’allarme della Cgil, che chiede «certezza di ammortizzatori adeguati per tutto il 2011» e «tutele per chi è privo di ogni protezione e per i tanti che termineranno il periodo di disoccupazione senza trovare lavoro». In sostanza, altri soldi pubblici da spendere. Mentre i tecnici di Tremonti tentano di sbrigliare la matassa, il ministro incassa però la seconda fiducia degli investitori sul debito nel giro di pochi giorni. Quello di ieri, secondo molti osservatori che avevano storto il naso sui rendimenti eccessivi dei Bot collocati lunedì, era il vero esame da superare. Ebbene, il Tesoro ha piazzato senza problemi 3 miliardi di Btp a 5 anni e 2 miliardi con scadenza 15 anni, con richieste che hanno superato abbondantemente l’offerta. Sui rendimenti, sono andati benissimo i titoli a 5 anni, con un calo di 7 punti, ai minimi storici. Un po’ peggio quelli a 15, con tassi saliti di 2 punti. Complessivamente, però, il differenziale fra Btp e Bund tedesco continua a ridursi. Ieri ha raggiunto quota 95 punti.
© Libero
L’invito è chiaramente rivolto a tutti. Le previsioni per il 2010, del resto parlano di una media europea del rapporto deficit/pil al 6,8%, oltre il doppio del tetto previsto inizialmente dai parametri di Maastricht. Nel club c’è anche l’Italia, malgrado l’ottimismo del Fondo monetario, che qualche giorno fa ha stimato l’indebitamento del nostro Paese per il 2010 al 5,2%, al di sotto di quello tedesco (5,7%) e francese (8,2%). Previsioni incoraggianti, che devono però essere affiancate a un debito che schizzerà al 118% del Pil e a una crescita inferiore al resto d’Europa. Tremonti, in altre parole, dovrà fare bene i suoi calcoli. Basterà la manovra da 25 miliardi in due anni prevista dal ministro dell’Economia? Secondo Maurizio Sacconi la Finanziaria già annunciata dal governo «sarà consistente e significativa, anche superiore alle esigenze richieste dai parametri Ue». Il ministro del Welfare ammette comunque che «sarà necessario ridurre il perimetro della spesa pubblica». In effetti, guardando i numeri, Tremonti si sta muovendo sul filo del rasoio. I 25 miliardi (che equivalgono all’1,6% del Pil) dovrebbero servire, stando a quanto si legge nella Relazione unificata sull’economia presentata pochi giorni fa, a ridurre il deficit/pil strutturale (cioè al netto delle una tantum) dello 0,8% nel 2011 e dello 0,5% nel 2012. Un altro 0,5% di rientro è stimato per l’anno in corso. Questo significa, facendo una media, che l’aggiustamento dei conti non è così superiore a quello richiesto e, anzi, qualsiasi errore nelle previsioni (quelle sul 2010 del governo, ad esempio, non coincidono né sul deficit né sul Pil con quelle degli organismi internazionali) farebbe scendere l’asticella al di sotto della soglia di sicurezza.
Del resto, proprio ieri la Bce ha tagliato le stime di crescita di Eurolandia (dall’1,4 all’1,3%) e ha ribadito che la crisi finanziaria potrebbe rallentare ulteriormente la corsa. Brutte notizie arrivano anche sull’occupazione, che è balzata oltre il 10% e rischia di raggiungere il 10,4% fra meno di un anno. Notizia che ha fatto immediatamente scattare l’allarme della Cgil, che chiede «certezza di ammortizzatori adeguati per tutto il 2011» e «tutele per chi è privo di ogni protezione e per i tanti che termineranno il periodo di disoccupazione senza trovare lavoro». In sostanza, altri soldi pubblici da spendere. Mentre i tecnici di Tremonti tentano di sbrigliare la matassa, il ministro incassa però la seconda fiducia degli investitori sul debito nel giro di pochi giorni. Quello di ieri, secondo molti osservatori che avevano storto il naso sui rendimenti eccessivi dei Bot collocati lunedì, era il vero esame da superare. Ebbene, il Tesoro ha piazzato senza problemi 3 miliardi di Btp a 5 anni e 2 miliardi con scadenza 15 anni, con richieste che hanno superato abbondantemente l’offerta. Sui rendimenti, sono andati benissimo i titoli a 5 anni, con un calo di 7 punti, ai minimi storici. Un po’ peggio quelli a 15, con tassi saliti di 2 punti. Complessivamente, però, il differenziale fra Btp e Bund tedesco continua a ridursi. Ieri ha raggiunto quota 95 punti.
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giovedì 13 maggio 2010
Bruxelles scriverà la Finanziaria agli Stati troppo spreconi
Impegni più severi, controlli più stringenti, sanzioni più dure. Non piace a tutti il nuovo Patto di Stabilità proposto dalla Commissione Ue, ma per ora nessuno si azzarda a difendere il vecchio. Ed è già qualcosa. Al centro della bozza messa a punto da Bruxelles ci sono chiaramente i debiti pubblici, che diventano sorvegliati speciali, ma anche il coordinamento delle politiche economiche e di bilancio, che potranno essere oggetto di vigilanza preventiva.
Insomma, gli Stati dovranno perdere quote di sovranità. Ma «se i governi non si decidono a rafforzare l’unione economica, tanto vale dimenticarsi di quella monetaria», ha spiegato Josè Manuel Barroso nel presentare la proposta di Bruxelles. «Bisogna agire adesso», ha sottolineato il presidente della Commissione Ue che spera di fare andare in porto la riforma del Patto entro la fine dell’anno perché sia operativa già nel 2011. Nel mirino, si legge nel documento, ci sono soprattutto «gli elevati livelli di debito pubblico che non possono essere prolungati a tempo indefinito». Perché «i recenti eventi hanno messo in luce non solo la vulnerabilità degli Stati membri che devono sostenere il peso di debiti molto elevati, ma anche le potenziali ripercussioni negative» che ciò può avere su tutta la zona euro.
Il commissario agli affari economici e monetari, Olli Rehn, è stato chiaro: «Se un Paese ha un livello di debito al 100%, o superiore, diventa fondamentale non solo riportare il deficit sotto il 3%, ma ridurlo in maniera tale da garantire una sufficiente discesa del debito». L’Italia, che insieme alla Grecia è il paese con un debito sopra il 100%, è avvertita. Ma sotto osservazione ci sono anche i tanti paesi dell’Eurozona che attualmente sforano il parametro del 60%, comprese Francia e Germania, che dovranno essere «sottoposti a procedura di infrazione» se le correzioni apportate non saranno giudicate «appropriate». La Commissione Ue dovrà quindi valutare se il livello di deficit, pur essendo sotto il 3%, «è coerente con un costante e sostanziale declino del debito pubblico». Ma il cuore della riforma è la vigilanza preventiva. Si propone di introdurre dal 2011, un Semestre europeo nel corso del quale «coordinare e sincronizzare» le politiche economiche e di bilancio.
In pratica, a inizio anno l’Ecofin detta le linee guida strategiche da seguire per preparare le Finanziarie e le eventuali riforme strutturali. L’obiettivo è quello di evitare che gli squilibri macroeconomici si allarghino, mettendo a rischio la tenuta della zona euro. Per quanto riguarda le sanzioni si va dal versamento di un «deposito cauzionale» nelle casse Ue alla sospensione dei fondi strutturali e di coesione, in caso di ripetute violazioni del Patto. Ma «in caso di politiche di bilancio inadeguate», la Ue può decidere come un Paese deve spendere le risorse comunitarie.
Infine, la Commissione ha sposato la tesi tremontiana del Fondo Ue, sostenendo la necessità di creare un «robusto meccanismo permanente di risoluzione delle crisi» che possa fornire nel medio e lungo termine sostegno finanziario ai Paesi della zona euro in difficoltà.
Mentre Bruxelles studia il nuovo Patto in Europa è il giorno delle polemiche. L’Handelsblatt ha infatti rivelato uno scambio che avrebbe convinto Berlino ad aprire il portafoglio per aiutare la Grecia: l’arrivo alla presidenza dea Bce del numero uno della Bundesbank, Axel Weber. Secondo il quotidiano economico, a questo punto, la candidatura alternativa, quella del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, «non ha più alcuna possibilità di successo». Malgrado le tensioni i mercati, sia pure con cautela, stanno tornando alla normalità: l’euro ieri ha riguadagnato quota 1,27 dollari. Le borse sono tornate a correre e sono in calo anche i premi di rendimento dei titoli di Spagna, Grecia e Portogallo rispetto ai bund tedeschi.
libero-news.it
Insomma, gli Stati dovranno perdere quote di sovranità. Ma «se i governi non si decidono a rafforzare l’unione economica, tanto vale dimenticarsi di quella monetaria», ha spiegato Josè Manuel Barroso nel presentare la proposta di Bruxelles. «Bisogna agire adesso», ha sottolineato il presidente della Commissione Ue che spera di fare andare in porto la riforma del Patto entro la fine dell’anno perché sia operativa già nel 2011. Nel mirino, si legge nel documento, ci sono soprattutto «gli elevati livelli di debito pubblico che non possono essere prolungati a tempo indefinito». Perché «i recenti eventi hanno messo in luce non solo la vulnerabilità degli Stati membri che devono sostenere il peso di debiti molto elevati, ma anche le potenziali ripercussioni negative» che ciò può avere su tutta la zona euro.
Il commissario agli affari economici e monetari, Olli Rehn, è stato chiaro: «Se un Paese ha un livello di debito al 100%, o superiore, diventa fondamentale non solo riportare il deficit sotto il 3%, ma ridurlo in maniera tale da garantire una sufficiente discesa del debito». L’Italia, che insieme alla Grecia è il paese con un debito sopra il 100%, è avvertita. Ma sotto osservazione ci sono anche i tanti paesi dell’Eurozona che attualmente sforano il parametro del 60%, comprese Francia e Germania, che dovranno essere «sottoposti a procedura di infrazione» se le correzioni apportate non saranno giudicate «appropriate». La Commissione Ue dovrà quindi valutare se il livello di deficit, pur essendo sotto il 3%, «è coerente con un costante e sostanziale declino del debito pubblico». Ma il cuore della riforma è la vigilanza preventiva. Si propone di introdurre dal 2011, un Semestre europeo nel corso del quale «coordinare e sincronizzare» le politiche economiche e di bilancio.
In pratica, a inizio anno l’Ecofin detta le linee guida strategiche da seguire per preparare le Finanziarie e le eventuali riforme strutturali. L’obiettivo è quello di evitare che gli squilibri macroeconomici si allarghino, mettendo a rischio la tenuta della zona euro. Per quanto riguarda le sanzioni si va dal versamento di un «deposito cauzionale» nelle casse Ue alla sospensione dei fondi strutturali e di coesione, in caso di ripetute violazioni del Patto. Ma «in caso di politiche di bilancio inadeguate», la Ue può decidere come un Paese deve spendere le risorse comunitarie.
Infine, la Commissione ha sposato la tesi tremontiana del Fondo Ue, sostenendo la necessità di creare un «robusto meccanismo permanente di risoluzione delle crisi» che possa fornire nel medio e lungo termine sostegno finanziario ai Paesi della zona euro in difficoltà.
Mentre Bruxelles studia il nuovo Patto in Europa è il giorno delle polemiche. L’Handelsblatt ha infatti rivelato uno scambio che avrebbe convinto Berlino ad aprire il portafoglio per aiutare la Grecia: l’arrivo alla presidenza dea Bce del numero uno della Bundesbank, Axel Weber. Secondo il quotidiano economico, a questo punto, la candidatura alternativa, quella del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, «non ha più alcuna possibilità di successo». Malgrado le tensioni i mercati, sia pure con cautela, stanno tornando alla normalità: l’euro ieri ha riguadagnato quota 1,27 dollari. Le borse sono tornate a correre e sono in calo anche i premi di rendimento dei titoli di Spagna, Grecia e Portogallo rispetto ai bund tedeschi.
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Il governo benedice le cordate alternative sul nucleare
Giuliano Zuccoli rimette nel cassetto il dossier nucleare, ma il governo apre alla cordata alternativa. L’affondo del presidente del consiglio di gestione di A2A non è andato come ci si aspettava. Il progetto con cui il manager voleva far partire il progetto della cordata alternativa a quella già costituita da Enel ed Edf è stato stoppato dal consiglio per l’assenza di un via libera preventivo dei soci, i comuni di Milano e di Brescia, che sono ancora scettici su un’operazione che comporterebbe guadagni futuri ma costi immediati. Contemporaneamente, però, sulla seconda cordata è arrivata a sorpresa l’apertura del governo. Il sottosegretario allo Sviluppo, Stefano Saglia, intervenendo ad un convegno organizzato dalla statunitense Westinghouse e da Ansaldo Nucleare (le due società che lavorano con la tecnologia alternativa a quella usata da Enel-Edf), ha spiegato che la partita sull’atomo non è affatto chiusa. «Qualcuno pensa che sia di difficile gestione», la convivenza tra le tecnologie per il nucleare Ap1000 (americana) e l’Epr (francese), «ma noi siamo convinti che abbiano caratteristiche non in contraddizione e siano due opportunità che possono utilmente integrarsi sul territorio italiano, che è complesso». Nulla comunque potrà partire se il governo non sbloccherà l’Agenzia per il nucleare. Lo ha ribadito ieri anche l’Enel, smentendo alcune indiscrezioni che parlavano di Montalto e Piacenza come due siti che il gruppo avrebbe già individuato per le nuove centrali. Proprio per evitare inutili allarmismi ieri l’ad Fulvio Conti ha chiesto al direttivo di Confindustria di «parlare tutti insieme al Paese per generare una nuova consapevolezza» sul nucleare. Quanto ai conti, Enel archivia il primo trimestre con un utile netto praticamente dimezzato (-45%) a causa delle partite straordinarie legate all’opzione put concessa ad Acciona sul 25% di Endesa. Al netto di quel provento, i profitti risultano in crescita (+11,9%), così come i risultati operativi. L’Ebitda è salito del 16,3% a 4,47 miliardi, mentre per i ricavi l'incremento è stato del 19,9% fino a 18,1 miliardi.
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mercoledì 12 maggio 2010
A2A si allea con la Lega. Nasce il nucleare padano
Dal credito all’energia. Dopo aver annunciato l’assalto alle banche per tutelare gli interessi del popolo del Nord, l’attivismo leghista si allarga anche al nucleare. Una partita verso cui, formalmente, il Carroccio non ha mai mostrato particolare interesse. Anzi, in campagna elettorale i due candidati-governatori Luca Zaia e Roberto Cota avevano subito messo in chiaro che di fare le centrali in Veneto o in Piemonte non se ne sarebbe parlato. Concetto ribadito senza mezzi termini una volta eletti.
Eppure, c’è chi negli ultimi mesi si è dedicato molto alla possibilità di creare un secondo consorzio alternativo a quello Enel-Edf per gestire il rilancio del nucleare italiano. A seguire il dossier è Bruno Caparini, esperto di impiantistica nucleare, padre del deputato nonché direttore di Telepadania Davide, proprietario del castello di Ponte di Legno dove Umberto Bossi trascorre le vacanze e fedelissimo da sempre del Senatur, che l’ha voluto nel consiglio di sorveglianza di A2A. Organismo in cui siede dal giugno dello scorso anno non senza alcune polemiche legate ad un’esperienza di fallimento societario che sarebbe stata omessa nel curriculum e che avrebbe, secondo i contestatori, messo in discussione i suoi requisiti di norabilità e professionalità. Scaramucce legate in gran parte ad uno scontro interno con l’ex presidente del consiglio di sorveglianza Renzo Capra.
L’operazione ruota intorno al progetto fortemente sostenuto da Giuliano Zuccoli. Il presidente della multiutility lombarda insiste sull’atomo da più di un anno. Finora, però, il piano è rimasto sulla carta. Anche perché per andare avanti servono non solo finanziamenti, ma anche un partner industriale di peso. E il principale candidato, l’Eni, ha fino ad oggi sempre smentito qualsiasi interesse. Più complicata da percorrere sarebbe la strada del partner straniero, anche se si è parlato della tedesca E.On e della stessa Edison, che A2A controlla insieme ai francesi di Edf. In questo caso, però, l’interesse strategico nazionale dovrebbe essere garantito da un grande investitore finanziario italiano o da un altro socio industriale. Dopo l’ingresso di Ansaldo Energia nel consorzio Enel-Edf non sarà facile trovare un’alternativa.
Un mesetto fa il manager della multiutility lombarda è tornato all’attacco sostenendo che «sul nucleare in Italia non si può avere una sola cordata e neppure una sola tecnologia» e candidando apertamente A2A a svolgere il ruolo del competitor. Dopo un anno di annunci, Zuccoli sembra finalmente intenzionato ad uscire allo scoperto. Il dossier sul nucleare sarà infatti portato oggi ufficialmente sul tavolo del consiglio di gestione di A2A.
Nella riunione il presidente dovrebbe illustrare il progetto della cordata alternativa, la cui parte del leone dovrebbe spettare ad un drappello di ex municipalizzate, affiancate da gruppi specializzati nella tecnologia atomica e da un partner finanziario di spessore.
Ed è qui che potrebbe entrare in gioco lo zampino leghista. Gli amministratori del Carroccio consentirebbero a Zuccoli di avere preziosi alleati negli enti locali che, attraverso il controllo societario delle utility, parteciperebbero alla partita. I primi con cui fare i conti, del resto, sono proprio i comuni che hanno in pancia le azioni A2A, Milano e Brescia. Sia Letizia Moratti sia Adriano Paroli non sarebbero entusiasti di un progetto che nel lungo periodo porterebbe grandi guadagni ma nell’immediato costerebbe qualcosa come 4 miliardi di investimenti. Un po’ troppi considerati i 4,65 miliardi di debiti della multiutility che, fra le altre cose, deve anche sciogliere il nodo della cogestione francese di Edison. Sul fronte finanziario un aiuto leghista potrebbe arrivare attraverso le Fondazioni azioniste dei grandi istituti bancari del Nord, a partire da quelle Intesa e Unicredit su cui il Carroccio ha già detto di voler puntare i riflettori. Di nomi, per ora, non se ne fanno. Oltre alle società già citate sarebbero in pista anche Iride (multiutility controllata dai comuni di Genova e Torino), l’americana Westinghouse, Saipem (Eni) in veste di general contractor, e anche la Cassa depositi e prestiti come possibile finanziatrice. Un fronte, quest’ultimo, su cui l’asse Bossi-Tremonti potrebbe fare la differenza.
libero-news.it
Eppure, c’è chi negli ultimi mesi si è dedicato molto alla possibilità di creare un secondo consorzio alternativo a quello Enel-Edf per gestire il rilancio del nucleare italiano. A seguire il dossier è Bruno Caparini, esperto di impiantistica nucleare, padre del deputato nonché direttore di Telepadania Davide, proprietario del castello di Ponte di Legno dove Umberto Bossi trascorre le vacanze e fedelissimo da sempre del Senatur, che l’ha voluto nel consiglio di sorveglianza di A2A. Organismo in cui siede dal giugno dello scorso anno non senza alcune polemiche legate ad un’esperienza di fallimento societario che sarebbe stata omessa nel curriculum e che avrebbe, secondo i contestatori, messo in discussione i suoi requisiti di norabilità e professionalità. Scaramucce legate in gran parte ad uno scontro interno con l’ex presidente del consiglio di sorveglianza Renzo Capra.
L’operazione ruota intorno al progetto fortemente sostenuto da Giuliano Zuccoli. Il presidente della multiutility lombarda insiste sull’atomo da più di un anno. Finora, però, il piano è rimasto sulla carta. Anche perché per andare avanti servono non solo finanziamenti, ma anche un partner industriale di peso. E il principale candidato, l’Eni, ha fino ad oggi sempre smentito qualsiasi interesse. Più complicata da percorrere sarebbe la strada del partner straniero, anche se si è parlato della tedesca E.On e della stessa Edison, che A2A controlla insieme ai francesi di Edf. In questo caso, però, l’interesse strategico nazionale dovrebbe essere garantito da un grande investitore finanziario italiano o da un altro socio industriale. Dopo l’ingresso di Ansaldo Energia nel consorzio Enel-Edf non sarà facile trovare un’alternativa.
Un mesetto fa il manager della multiutility lombarda è tornato all’attacco sostenendo che «sul nucleare in Italia non si può avere una sola cordata e neppure una sola tecnologia» e candidando apertamente A2A a svolgere il ruolo del competitor. Dopo un anno di annunci, Zuccoli sembra finalmente intenzionato ad uscire allo scoperto. Il dossier sul nucleare sarà infatti portato oggi ufficialmente sul tavolo del consiglio di gestione di A2A.
Nella riunione il presidente dovrebbe illustrare il progetto della cordata alternativa, la cui parte del leone dovrebbe spettare ad un drappello di ex municipalizzate, affiancate da gruppi specializzati nella tecnologia atomica e da un partner finanziario di spessore.
Ed è qui che potrebbe entrare in gioco lo zampino leghista. Gli amministratori del Carroccio consentirebbero a Zuccoli di avere preziosi alleati negli enti locali che, attraverso il controllo societario delle utility, parteciperebbero alla partita. I primi con cui fare i conti, del resto, sono proprio i comuni che hanno in pancia le azioni A2A, Milano e Brescia. Sia Letizia Moratti sia Adriano Paroli non sarebbero entusiasti di un progetto che nel lungo periodo porterebbe grandi guadagni ma nell’immediato costerebbe qualcosa come 4 miliardi di investimenti. Un po’ troppi considerati i 4,65 miliardi di debiti della multiutility che, fra le altre cose, deve anche sciogliere il nodo della cogestione francese di Edison. Sul fronte finanziario un aiuto leghista potrebbe arrivare attraverso le Fondazioni azioniste dei grandi istituti bancari del Nord, a partire da quelle Intesa e Unicredit su cui il Carroccio ha già detto di voler puntare i riflettori. Di nomi, per ora, non se ne fanno. Oltre alle società già citate sarebbero in pista anche Iride (multiutility controllata dai comuni di Genova e Torino), l’americana Westinghouse, Saipem (Eni) in veste di general contractor, e anche la Cassa depositi e prestiti come possibile finanziatrice. Un fronte, quest’ultimo, su cui l’asse Bossi-Tremonti potrebbe fare la differenza.
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Il rigore di ragionier Giulio piace al mercato dei bond
L’Italia ha dovuto indorare un po’ la pillola, ma alla fine gli investitori non si sono tirati indietro. I 5,5 miliardi di Bot a 12 mesi sono andati via con una richiesta che ha sfiorato il doppio dell’offerta. Esito tutt’altro che scontato per il primo esame dopo il piano europeo anti-crisi. Considerato anche il contesto di forte incertezza e confusione che ieri ha fatto ripartire le pressioni sull’euro e piombare di nuovo i listini europei sotto lo zero dopo l’euforia esplosa lunedì.
Qualcuno sostiene che lo scoglio vero sarà quello di domani, quando il Tesoro dovrà collocare 1,5-3 miliardi di titoli a cinque anni e 1-2 miliardi a 15 anni. Per adesso Giulio Tremonti incassa l’ennesima fiducia del mercato sul debito italiano. L’asta di ieri allontana un altro po’ il rischio contagio e premia il ruolo dell’Italia nel portare avanti un piano anticrisi che il ministro dell’Economia aveva già proposto per contrastare i fallimenti delle banche all’inizio della bufera.
Qualcosina in più del solito, tuttavia, il titolare di Via XX Settembre ha dovuto concedere. Per rendere più appetibili i titoli il Tesoro si è trovato costretto a pagare un rendimento dell’1,442 per cento. Si tratta di uno 0,5 in più rispetto all’ultima collocazione di Bot sul mercato, che riporta il premio ai livelli di febbraio 2009. Un prezzo che secondo gli esperti di Unicredit non mette comunque in ombra il risultato dell’asta. Tanto più, spiegano dall’istituto di credito, che «lo spread fra il Btp italiano e il Bund tedesco si è mantenuto su livelli piuttosto stabili a 103,8 punti, in lieve rialzo rispetto a quota 100 toccata lunedì. Il che significa che il titolo non è stato scaricato subito dopo l’asta e ha tenuto anche sul mercato secondario. Diversa l’opinione del Financial Times, che nell’edizione online ha subito puntato il dito sul fatto che l’Italia per attirare gli investtitori abbia «dovuto pagare il più elevato rendimento sui bond annuali», sottolineando che non si tratta di un buon segnale. Premio o no, dalla partita sul debito sono ancora esclusi i piccoli risparmiatori. Malgrado il rialzo di ieri, infatti, il rendimento del Bot annuale, al netto di tasse e commissioni, resta inferiore all’1 per cento. Troppo poco per convincere i Bot-People.
Tutto sommato positivo, vista la situazione di instabilità, è stato anche il messaggio lanciato ieri dal Fondo monetario internazionale. Messaggio che piacerà soprattutto a Tremonti. L’Fmi ha infatti ribadito le difficoltà dell’Italia ad uscire dalla recessione, ma indicato i nostri conti pubblici come i più virtuosi d’Europa. Una sorta di medaglia appuntata sul petto del ministro dell’Economia, la cui politica del rigore, per quanto discussa e contestata, permetterà all’Italia di chiudere il 2010 con un deficit/pil al 5,2% (rispetto al 5% previsto da Tremonti) al di sotto della media Ue del 6,8%, ma soprattutto al di sotto del 5,7% tedesco e dell’8,2% francese.
Le caso vanno un po’ peggio sul fronte della crescita. Qui, malgrado Tremonti si ostini a prevedere un +1% per la fine dell’anno, l’Fmi ha ribadito le sue precedenti stime, che non ci vedono andare oltre lo 0,8%. Con prospettive non brillanti anche per gli anni successivi. Nel 2011 la nostra economia avanzerà solo dell’1,2%, contro un pil dell’area euro in rialzo dell’1,5% grazie soprattutto al traino di Francia (+1,8%) e Germania (+1,7%). Il rallentamento della crescita italiana è, secondo l’Fmi, «un sintomo della scarsa competitività della nostra economia». Ed è anche a causa di ciò, si legge ancora, che l’Italia rientra in quel gruppo di Paesi dell’area che il prossimo anno «emergeranno più lentamente dalla recessione».Intanto da Bruxelles iniziano a filtrare le ipotesi di modifica del Patto di stabilità a cui sta lavorando la Commissione Ue. Il cuore della proposta, che può essere realizzata senza modifiche dei trattati Ue, ruota intorno al rafforzamento della vigilanza preventiva sulle manovre di bilancio e sulle riforme strutturali degli Stati membri. In secondo luogo Bruxelles prevede di rendere vincolante il parametro sul debito pubblico oltre a quello sul deficit; di sanzionare i Paesi poco virtuosi; di creare un meccanismo permanente di risoluzione delle crisi e di potenziare il controllo di Eurostat sulla veridicità delle statistiche nazionali.
martedì 11 maggio 2010
L’Italia cala l’asso. Un fondo europeo contro la crisi
Un Fondo comune contro la crisi. Ma anche contro le bizze della Germania, che dopo aver fatto raddoppiare l’entità degli aiuti alla Grecia con i suoi ritardi, è poi salita in cattedra presentandosi come il pilastro della stabilità comunitaria. È questa la proposta con cui Silvio Berlusconi si è presentato ieri al vertice straordinario dei capi di Stato e di governo che si è tenuto a Bruxelles per decidere le contromosse alla bufera di Atene. E c’è poco tempo da perdere perché, come ha sottolineato il premier italiano ai capi dell’Eurozona, «siamo in un momento di emergenza», ha sintetizzato nel corso del vertice che è andato avanti fino a notte fonda, e «occorre prendere delle decisioni».
L’idea di Tremonti
L’idea del Fondo monetario europeo è un vecchio pallino di Giulio Tremonti, che lo propose nel 2008 come strumento per fronteggiare i fallimenti delle banche. Allora il piano fu seccamente bocciato da Angela Merkel, che riteneva più conveniente lasciare gli Stati membri liberi di intervenire singolarmente. A conti fatti, la convenienza fu solo dell’Italia, che pure aveva proposto lo strumento comune. A fronte dei nostri interventi nel sistema bancario sotto l’1%, l’Europa ha investito in media il 13% del Pil, la Francia il 7 e la Germania l’11.
È forse anche per questo che qualche settimana fa il premier tedesco è sembrato più favorevole alla proposta. In realtà, secondo i maligni, il sostegno della Merkel non era altro che un modo per confondere un po’ le acque e prendere tempo in attesa di sviluppi che forse si stimavano meno drammatici. La situazione è, ora, ben diversa. La Merkel, messa all’angolo dalla crescente pressione degli altri Stati membri ma soprattutto da un’esposizione bancaria e assicurativa verso la Grecia di ben 45 miliardi, ha dovuto far ingoiare agli elettori un piano triennale da 22,4 miliardi.
C’è da scommettere che a pagare non saranno solo i contribuenti tedeschi. Non è un caso che la Merkel si sia presentata di fronte al Bundestag avvertendo che nessuna decisione sulla Grecia sarebbe stata presa senza o contro la Germania. «Il patto di stabilità», ha poi sottolineato il Cancelliere, «deve essere riformato in modo tale che non possa essere più violato» e la Germania «avrà una particolare responsabilità in questo processo di riforma».
L’idea della Merkel è parsa abbastanza chiara a tutti: riportare a Berlino il pallino delle decisioni europee dopo aver dimostrato che senza i soldi tedeschi non si va da nessuna parte. Del resto, è lì che i mercati vanno a guardare quando si tratta di confrontare il differenziale dei rendimenti dei titoli di Stato (il famoso spread con il Bund tedesco) per valutare l’affidabilità del debito.
L’egoismo tedesco
Il tentativo della Merkel non troverà però consensi con tanta facilità. L’irritazione franco-italiana per “l’egoismo” della Germania nel gestire una crisi che ieri il numero uno della Bce, Trichet, ha definito «sistemica», non sarà superata facilmente. Solo giovedì scorso il ministro dell’Economia ha puntato il dito proprio contro Berlino, avvertendo «che nessuno è immune dai rischi», neanche quei Paesi che ritengono di «essere passeggeri con biglietto di prima classe». La Germania dovrà, poi, fare i conti con l’asse tra Berlusconi e Sarkozy, diventato sempre più saldo grazie all’intesa su alcuni dossier strategici su gas, nucleare e infrastrutture, che avrebbe ben poco da guadagnare da un’Europa berlinocentrica.
La sponda di Obama
Per uscire dall’isolamento la Merkel ha cercato e trovato la sponda di Barack Obama, che ieri si è detto in piena sintonia con il cancelliere tedesco. Ma la partita è solo all’inizio. L’iniziativa di Berlusconi di un Fondo anti-crisi, magari finanziato attraverso l’emissione di “titoli comunitari”, potrebbe sparigliare le carte e togliere alla Germania la regia delle operazioni. Nessuno, d’altra parte, vuole che sia la Merkel a fare la lista dei cattivi.
Una stretta sulla vigilanza dei deficit più elevati e nuove manovre correttive per i Paesi più esposti saranno difficilmente evitabili. Si tratta però di capire quale sarà il perimetro delle nuove regole. E se le «misure chiare, concrete ed efficaci» invocate dal premier serviranno a difendere l’Europa o solo i «passeggeri di prima classe». Non è escluso che il Cavaliere, com’è già successo, riesca a far salire tutti nello stesso vagone.
libero-news.it
L’idea di Tremonti
L’idea del Fondo monetario europeo è un vecchio pallino di Giulio Tremonti, che lo propose nel 2008 come strumento per fronteggiare i fallimenti delle banche. Allora il piano fu seccamente bocciato da Angela Merkel, che riteneva più conveniente lasciare gli Stati membri liberi di intervenire singolarmente. A conti fatti, la convenienza fu solo dell’Italia, che pure aveva proposto lo strumento comune. A fronte dei nostri interventi nel sistema bancario sotto l’1%, l’Europa ha investito in media il 13% del Pil, la Francia il 7 e la Germania l’11.
È forse anche per questo che qualche settimana fa il premier tedesco è sembrato più favorevole alla proposta. In realtà, secondo i maligni, il sostegno della Merkel non era altro che un modo per confondere un po’ le acque e prendere tempo in attesa di sviluppi che forse si stimavano meno drammatici. La situazione è, ora, ben diversa. La Merkel, messa all’angolo dalla crescente pressione degli altri Stati membri ma soprattutto da un’esposizione bancaria e assicurativa verso la Grecia di ben 45 miliardi, ha dovuto far ingoiare agli elettori un piano triennale da 22,4 miliardi.
C’è da scommettere che a pagare non saranno solo i contribuenti tedeschi. Non è un caso che la Merkel si sia presentata di fronte al Bundestag avvertendo che nessuna decisione sulla Grecia sarebbe stata presa senza o contro la Germania. «Il patto di stabilità», ha poi sottolineato il Cancelliere, «deve essere riformato in modo tale che non possa essere più violato» e la Germania «avrà una particolare responsabilità in questo processo di riforma».
L’idea della Merkel è parsa abbastanza chiara a tutti: riportare a Berlino il pallino delle decisioni europee dopo aver dimostrato che senza i soldi tedeschi non si va da nessuna parte. Del resto, è lì che i mercati vanno a guardare quando si tratta di confrontare il differenziale dei rendimenti dei titoli di Stato (il famoso spread con il Bund tedesco) per valutare l’affidabilità del debito.
L’egoismo tedesco
Il tentativo della Merkel non troverà però consensi con tanta facilità. L’irritazione franco-italiana per “l’egoismo” della Germania nel gestire una crisi che ieri il numero uno della Bce, Trichet, ha definito «sistemica», non sarà superata facilmente. Solo giovedì scorso il ministro dell’Economia ha puntato il dito proprio contro Berlino, avvertendo «che nessuno è immune dai rischi», neanche quei Paesi che ritengono di «essere passeggeri con biglietto di prima classe». La Germania dovrà, poi, fare i conti con l’asse tra Berlusconi e Sarkozy, diventato sempre più saldo grazie all’intesa su alcuni dossier strategici su gas, nucleare e infrastrutture, che avrebbe ben poco da guadagnare da un’Europa berlinocentrica.
La sponda di Obama
Per uscire dall’isolamento la Merkel ha cercato e trovato la sponda di Barack Obama, che ieri si è detto in piena sintonia con il cancelliere tedesco. Ma la partita è solo all’inizio. L’iniziativa di Berlusconi di un Fondo anti-crisi, magari finanziato attraverso l’emissione di “titoli comunitari”, potrebbe sparigliare le carte e togliere alla Germania la regia delle operazioni. Nessuno, d’altra parte, vuole che sia la Merkel a fare la lista dei cattivi.
Una stretta sulla vigilanza dei deficit più elevati e nuove manovre correttive per i Paesi più esposti saranno difficilmente evitabili. Si tratta però di capire quale sarà il perimetro delle nuove regole. E se le «misure chiare, concrete ed efficaci» invocate dal premier serviranno a difendere l’Europa o solo i «passeggeri di prima classe». Non è escluso che il Cavaliere, com’è già successo, riesca a far salire tutti nello stesso vagone.
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Roma resiste alla crisi meglio del super Nord
Gli amanti dei luoghi comuni e degli slogan leghisti non saranno contenti, ma la Capitale ha resistito alla crisi meglio del Nord operoso e calvinista. A Roma e provincia nel 2009, secondo i dati elaborati dall’Ufficio studi della Camera di Commercio nell’VIII Giornata dell’economia, ha registrato una crescita del sistema imprenditoriale dell’1,5%, con 434.665 aziende registrate, a fronte di un dato nazionale che ha visto una contrazione dello 0,3%. Il trend si conferma anche per i primi 3 mesi del 2010 dove le imprese romane aumentano dello 0,2% rispetto al meno 0,4% italiano. Anche il saldo del 2009 tra iscrizioni e cessazioni (al netto delle cancellazioni d’ufficio) risulta positivo e pari a 6.670 unità, valore che consolida il primato di Roma nella graduatoria delle province.
Più impresa uguale più lavoro e più ricchezza. Per quanto riguarda l’occupazione il 2009 si è chiuso con una contrazione dello 0,2% a fronte di un dato nazionale in calo dell’1,6%. Di qui, a cascata, il buon risultato sul Pil pro capite, che nella provincia di Roma si è ridotto dell’1,7%, mentre a Milano e Bologna il calo è stato rispettivamente del 4,2% e del 4,7%. Questi dati, ha spiegato giustamente e prudentemente il sindaco Gianni Alemanno, «non ci devono far abbassare la guardia e ci devono anzi spronare a fare meglio». Di sicuro, però, se qualcuno vuole trovare dei fannulloni dovrà andare da qualche altra parte.
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Più impresa uguale più lavoro e più ricchezza. Per quanto riguarda l’occupazione il 2009 si è chiuso con una contrazione dello 0,2% a fronte di un dato nazionale in calo dell’1,6%. Di qui, a cascata, il buon risultato sul Pil pro capite, che nella provincia di Roma si è ridotto dell’1,7%, mentre a Milano e Bologna il calo è stato rispettivamente del 4,2% e del 4,7%. Questi dati, ha spiegato giustamente e prudentemente il sindaco Gianni Alemanno, «non ci devono far abbassare la guardia e ci devono anzi spronare a fare meglio». Di sicuro, però, se qualcuno vuole trovare dei fannulloni dovrà andare da qualche altra parte.
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venerdì 7 maggio 2010
Riparte il lavoro: 50mila posti in più
La buona notizia è che la disoccupazione rallenta la sua corsa. La cattiva è che le piccole imprese fanno ancora molta fatica a salire sul treno della ripresa.
Complessivamente il quadro fornito ieri dal rapporto realizzato da Unioncamere per l’ottava Giornata dell’economia lascia intravedere più di uno spiraglio di ottimismo per i prossimi mesi. Tra gennaio e marzo le Camere di commercio hanno registrato 123 mila aperture di imprese, 4.700 in più rispetto allo stesso periodo del 2009. Dato che rappresenta una decisa inversione di tendenza rispetto agli ultimi due anni in cui le imprese iscritte nel primo trimestre erano diminuite di circa 12 mila unità. Sul fronte occupazionale, pur a fronte di prospettive ancora negative, la flessione prevista per il 2010 (circa 173 mila dipendenti in meno, con un calo dell’1,5%) dovrebbe essere meno accentuata rispetto a quella dello scorso anno (-2%). Alla stima si arriva ipotizzando 820 mila assunzioni, con un incremento di circa 50 mila posti di lavoro (in gran parte personale qualificato) rispetto al 2009, mentre dovrebbero restare più o meno stabili le uscite.
La frenata della disoccupazione è chiaramente il frutto di una debole ripartenza dell’economia. A partire dall’industria. Le previsioni per il secondo trimestre del 2010 sembrano, secondo Unioncamere, confermare «il graduale ma deciso percorso di recupero manifatturiero intrapreso a partire dalla seconda metà del 2009. I risultati conseguiti tra gennaio e marzo hanno infatti superato i picchi fortemente negativi dell’anno precedente. Il treno della ripresa tocca, però, solo marginalmente le piccole e le micro-imprese, che rischiano di dover annaspare ancora a lungo. I miglioramenti rilevati da Unioncamere riguardano infatti principalmente le imprese sopra i 50 dipendenti, che hanno chiuso il trimestre sostanzialmente in pareggio (0% la produzione, -0,3% il fatturato). Al di sotto, seppure senza raggiungere i cali di fatturato a doppia cifra del 2009, i ricavi e la produzione sono scesi del 4,5%.
Anche sul commercio le imprese procedono a doppia velocità. Anche grazie al decreto incentivi che ha sostenuto soprattutto le aziende di grandi dimensioni. A soffrire maggiormente sono le piccolissime imprese. In particolare quelle sotto i 20 dipendenti, che nel primo trimestre dell’anno hanno visto un calo delle vendite del 3,9% rispetto al meno 0,3% registrato invece dalle aziende più grandi. «Se la componente più dinamica del nostro sistema imprenditoriale potrebbe uscire irrobustita da questa fase così difficile», ha detto il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello, «restano alte le difficoltà delle imprese più piccole, in particolare quelle artigiane». Sarà fondamentale, in questa fase, riaprire i rubinetti del credito. E spingere le banche a una maggiore attenzione verso il territorio.
«Preoccupa, infatti», ha sottolineato Dardanello, «che il miglioramento degli indicatori dipenda in buona parte da una riduzione della domanda di credito, più che da una maggiore e migliore offerta». Gli imprenditori, insomma, hanno messo mano al portafoglio. Una scelta di responsabilità, secondo il presidente di Unioncamere, «che però non rappresenta certo una soluzione sostenibile».
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Complessivamente il quadro fornito ieri dal rapporto realizzato da Unioncamere per l’ottava Giornata dell’economia lascia intravedere più di uno spiraglio di ottimismo per i prossimi mesi. Tra gennaio e marzo le Camere di commercio hanno registrato 123 mila aperture di imprese, 4.700 in più rispetto allo stesso periodo del 2009. Dato che rappresenta una decisa inversione di tendenza rispetto agli ultimi due anni in cui le imprese iscritte nel primo trimestre erano diminuite di circa 12 mila unità. Sul fronte occupazionale, pur a fronte di prospettive ancora negative, la flessione prevista per il 2010 (circa 173 mila dipendenti in meno, con un calo dell’1,5%) dovrebbe essere meno accentuata rispetto a quella dello scorso anno (-2%). Alla stima si arriva ipotizzando 820 mila assunzioni, con un incremento di circa 50 mila posti di lavoro (in gran parte personale qualificato) rispetto al 2009, mentre dovrebbero restare più o meno stabili le uscite.
La frenata della disoccupazione è chiaramente il frutto di una debole ripartenza dell’economia. A partire dall’industria. Le previsioni per il secondo trimestre del 2010 sembrano, secondo Unioncamere, confermare «il graduale ma deciso percorso di recupero manifatturiero intrapreso a partire dalla seconda metà del 2009. I risultati conseguiti tra gennaio e marzo hanno infatti superato i picchi fortemente negativi dell’anno precedente. Il treno della ripresa tocca, però, solo marginalmente le piccole e le micro-imprese, che rischiano di dover annaspare ancora a lungo. I miglioramenti rilevati da Unioncamere riguardano infatti principalmente le imprese sopra i 50 dipendenti, che hanno chiuso il trimestre sostanzialmente in pareggio (0% la produzione, -0,3% il fatturato). Al di sotto, seppure senza raggiungere i cali di fatturato a doppia cifra del 2009, i ricavi e la produzione sono scesi del 4,5%.
Anche sul commercio le imprese procedono a doppia velocità. Anche grazie al decreto incentivi che ha sostenuto soprattutto le aziende di grandi dimensioni. A soffrire maggiormente sono le piccolissime imprese. In particolare quelle sotto i 20 dipendenti, che nel primo trimestre dell’anno hanno visto un calo delle vendite del 3,9% rispetto al meno 0,3% registrato invece dalle aziende più grandi. «Se la componente più dinamica del nostro sistema imprenditoriale potrebbe uscire irrobustita da questa fase così difficile», ha detto il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello, «restano alte le difficoltà delle imprese più piccole, in particolare quelle artigiane». Sarà fondamentale, in questa fase, riaprire i rubinetti del credito. E spingere le banche a una maggiore attenzione verso il territorio.
«Preoccupa, infatti», ha sottolineato Dardanello, «che il miglioramento degli indicatori dipenda in buona parte da una riduzione della domanda di credito, più che da una maggiore e migliore offerta». Gli imprenditori, insomma, hanno messo mano al portafoglio. Una scelta di responsabilità, secondo il presidente di Unioncamere, «che però non rappresenta certo una soluzione sostenibile».
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