giovedì 28 gennaio 2010

Marchionne chiude in Italia e pensa a Saab

Stop, si chiude. Tanto per gettare un po’ di benzina sul fuoco delle proteste e per incalzare il governo sulla proroga degli incentivi che tarda ad arrivare. Fatto sta che tutti gli stabilimenti della Fiat Auto si fermeranno due settimane, l’ultima di febbraio e la prima di marzo. La cassa integrazione interesserà Mirafiori, Melfi, Termini Imerese, la Sevel, Cassino e Pomigliano: in totale circa 30.000 lavoratori. L’azienda spiega che la decisione è dovuta all’andamento degli ordini a gennaio che, «dopo il periodo positivo di fine 2009, si stanno drasticamente ridimensionando a un livello ancora più basso di quello registrato a gennaio dell’anno scorso, quando il mercato era in grave crisi». L’azienda, malgrado le manciate di ottimismo sparse nella presentazione dei conti di lunedì con l’annuncio del ritorno all’utile entro la fine dell’anno, prevede che «questo andamento negativo continui», e ritiene quindi necessario «adeguare i livelli produttivi alla domanda». Immediata la reazione dei sindacati, che sono più o meno concordi nel giudicare la decisione del Lingotto un pessimo segnale e chiedono l’intervento urgente del governo. Non si fermano, ovviamente, le proteste dei lavoratori. Un gruppo di operai dell’indotto Fiat di Termini Imerese ha bloccato ieri mattina l’ingresso dei Tir davanti ai cancelli dello stabilimento. Mentre tredici operai della Delivery Mail per la settima notte consecutiva hanno dormito sul tetto della fabbrica. E lo stato di agitazione prosegue anche a Pomigliano d’Arco.Da Stoccolma invece Sergio Marchionne traccia scenari sul futuro del gruppo, con un occhio alla Saab, che proprio in queste ore sta passando di mano dalla General Motors agli olandesi di Spyker. «Mi piace il marchio Saab», ha detto il manager, prevedendo un percorso difficile per la nuova proprietà. «Penso sia difficile essere un player di nicchia e allo stesso tempo profittevole. I player marginali continueranno a essere marginalizzati. Non si può costruire sulle speranze e sui sogni», ha spiegato Marchionne, lasciando trapelare un interesse per la casa svedese ceduta da Gm, secondo quanto si apprende, per 74 milioni di dollari cash e 326 milioni in azioni della nuova società che nascerà al termine dell’operazione.La Saab si inserirebbe nel progetto di Marchionne di dare vita ad un grande polo dell’auto sportiva di lusso. Piano cui il manager ha dato un colpo d’acceleratore con la nomina di Harald Wester alla guida della Alfa Romeo Automobiles, che riunisce i tre brand a vocazione sportiva Alfa, Maserati e Abarth. L’operazione, che ora potrebbe vedere coinvolta anche la casa svedese (che Gm non avrebbe mai venduto direttamente a Fiat), implicherebbe una nuova organizzazione della produzione, con la delocalizzazione delle utilitarie e il mantenimento in Europa, dove sfornare veicoli costa di più, dei segmenti di fascia alta che potrebbero garantire un margine di guadagno più consistente.

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Eni mette le mani sul maxi-giacimento di Chavez

Mentre si alimenta, dopo le aperture di Paolo Scaroni, il dibattito sulla cessione della rete del gas in capo a Snam, l’Eni continua la sua espansione all’estero. Il ministro dell’Energia del Venezuela nonché presidente di Pdvsa, Rafael Ramírez, e l’ad del Cane a sei zampe, presente anche Hugo Chavez, hanno siglato ieri tre accordi strategici. Il primo prevede lo sviluppo del giacimento giant Junin 5 in cui sono stati certificati 35 miliardi di barili di olio pesante. Firmati poi un’intesa con Pdvsa per lo sviluppo della tecnologia di idrogenerazione per la valorizzazione degli oli pesanti e un memorandum per la costruzione di una centrale elettrica da 1 GW nella penisola di Guiria. Il Junin 5 è un blocco a olio pesante situato nella fascia petrolifera dell’Orinoco (Faja), che si trova a circa 550 km a sud est di Caracas e copre un’area di 425 km quadrati. Secondo i termini dell’accordo Pdvsa ed Eni deterranno rispettivamente il 60% e il 40% di una joint venture (Empresa Mixta) per lo sviluppo del giacimento. La joint venture ha in programma di raggiungere una produzione iniziale di 75.000 barili al giorno a partire dal 2013 e un plateu di produzione di lungo termine di 240.000 barili al giorno in seguito alla costruzione di una nuova raffineria a Jose. L’Eni pagherà un bonus di 646 milioni di dollari, di cui 300 milioni al momento della costituzione della Impresa Mixta e il restante in tranche soggette al raggiungimento delle tappe previste dal progetto. Sul fronte Snam ieri il sottosegretario allo Sviluppo, Stefano Saglia, ha spiegato che «la separazione proprietaria della rete si può evitare a certe condizioni e non deve comunque avvenire se l’obiettivo è solo quello di ridurre il debito».

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L’Fmi dà ragione a Tremonti: Pil su dell’1%

Il Fondo monetario internazionale modifica al rialzo le stime e conferma le previsioni del governo sulla crescita dell’Italia nei prossimi anni. Ma dà anche una mano a Giulio Tremonti e alla sua politica del rigore, sostenendo che la ripresa globale è partita, ma sarà lenta rispetto alle precedenti esperienze e soprattutto procederà a velocità e intensità diverse nelle diverse regioni. Quanto ai numeri, l’istituto di Washington prevede che il Pil mondiale crescerà quest’anno del 3,9% e nel 2011 del 4,3%, con un miglioramento dello 0,8% e dello 0,1% rispetto alle stime di ottobre. Per l’Italia viene ritenuta possibile la crescita già annunciata da Tremonti dell’1% nel 2010 (+0,8%) e dell’1,3% nel 2011 (+0,6%). Nel complesso, il prodotto delle economie avanzate dovrebbe aumentare del 2,1% (+0,8%) quest’anno e del 2,4% (-0,1%) il prossimo. Per gli Stati Uniti il Pil salirà del 2,7% e del 2,4%. Mentre l’Eurozona dovrà accontentarsi di un +1% nel 2010 e di un +1,6% per l’anno successivo. Spicca la performance tedesca (+1,5% e +1,9% nei due anni), non sembra invece volerne sapere di ripartire l’economia spagnola, che si contrarrà dello 0,6% quest’anno per poi risalire dello 0,9% il prossimo.Se il mondo riparte lentamente, i fondi sovrani hanno invece già rimesso il turbo. Gli investimenti sono infatti tornati ai livelli pre crisi. È quanto rileva la Fondazione Eni Enrico Mattei e Monitor Group in un rapporto sul terzo trimestre del 2009. In un clima in cui sembra si stia ricostruendo la fiducia nei mercati finanziari, si legge nel documento, i fondi sovrani hanno cominciato a reinvestire, soprattutto all’estero e in particolare in Europa e in Nord America. «Gli investimenti fatti in queste aree contano infatti per più della metà degli investimenti totali di questo trimestre» dice William Miracky, senior partner di Monitor Group. L’analisi delle transazioni durante il terzo trimestre del 2009 evidenzia un trend crescente, con un numero di iniziative doppio rispetto al precedente trimestre con un balzo da 11 a 25 operazioni, oltre a un significativo incremento nel controvalore che passa da 3,5 a circa 25, 3 miliardi di dollari. Non si riportavano valori così elevati dall’inizio della crisi economica. Se confrontato con lo stesso dato del secondo trimestre, si calcola un incremento del 66%. Una sola, secondo quanto riporta lo studio, la nuova strategia d’investimento post-crisi: stare alla larga dal settore finanziario.

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lunedì 25 gennaio 2010

Derby fiscale Tremonti-Scajola

Accusa il Corriere di essersi inventato l’aumento della pressione fiscale, zittisce Bersani ricordandogli che quando al governo c’era lui le tasse aumentavano davvero e poi se la prende di nuovo col «Dottor Stranamore», che pur di alleggerire i tributi sarebbe disposto a tagliare la sanità. Insomma, è il solito Giulio Tremonti quello che si presenta alla convention del Pdl ad Arezzo. Polemico e pungente come sempre. Anche il tormentone non cambia. «Quando ci sarà la ripresa noi saremo al governo e ridurremo le tasse», ha detto il ministro dell’Economia. Il resto sono inutili elucubrazioni. O peggio, pericolose illusioni. «Ci sono in giro dei dottor Stranamore - ha continuato Tremonti, tornando a utilizzare una delle sue metafore preferite - che dicono: tagliamo 30 miliardi alla sanità per ridurre le tasse». Una cifra, quei 30 miliardi, che non può non far pensare al professor Mario Baldassarri, che da tempo punzecchia il ministro con la sua ricetta per ridurre la pressione fiscale non toccando la sanità, ma attraverso tagli mirati alla spesa improduttiva della Pa. La strada, secondo il titolare di Via XX Settembre, non è percorribile. Perché la priorità del governo è «conservare le persone e la coesione sociale». «Non c’è riduzione fiscale che tenga - ha aggiunto - quanto il conservare sanità, sicurezza, pensioni». In sintesi, «bisogna evitare al paese la macelleria sociale». Non si fa attendere la replica di Baldassarri, anche lui senza mai citare il ministro: «Macelleria sociale è una battuta che fa spesso Bertinotti». L’economista del Pdl ha ricordato di aver «indicato con precisione al Senato una manovra aggiuntiva nel medio termine di 35 miliardi, dicendo dove andare a coprire la spesa, non tagli trasversali». Ma a spingere per un colpo d’acceleratore sul fisco non c’è solo Baldassarri. Anche Claudio Scajola incalza Tremonti. «Le risorse sono poche e nonostante questo abbiamo affrontato la crisi senza aumentare le tasse - ha riconosciuto il ministro dello Sviluppo sempre da Arezzo - ma sono convinto che se la crescita sarà più alta di un punto, il ministro dell’Economia potrà proporre che già a fine anno si possa individuare un percorso di riduzione delle tasse». Tremonti non replica. Risposte al vetriolo arrivano invece per il segretario del Pd e il ha attaccato Bersani - di sentire raccontare favole compresa quella secondo la quale noi alzeremmo le tasse e lui le abbasserebbe». Quest’anno, spiega citando l’inchiesta del Corriere della Sera, «finiremo di lavorare per lo Stato il 23 giugno. È il record». «È la scoperta dell’acqua calda - ha ribattuto Tremonti - Non servono gli uffici studi e i calendari taroccati per sapere che se salgono i redditi salgono anche le tasse. Bersani ha nostalgia di quando era al governo: quando aumentava le tasse diceva che scendevano e adesso condanna chi le tasse non le ha aumentate». Anzi, secondo la Cgia di Mestre, in alcuni casi sarebbero addirittura diminuite. L’associazione degli artigiani ha verificato che le principali modifiche legislative in materia di tassazione Irpef avvenute tra il 1997 e il 2006 hanno alleggerito il carico fiscale sulle famiglie italiane per un importo complessivo di 30,5 miliardi.

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sabato 23 gennaio 2010

Telecom-Telefonica: Piazza Affari approva, il governo no

Il quadro sembra ormai abbastanza chiaro. La fusione tra Telecom e Telefonica è un’ipotesi che piace molto alla Borsa tanto da aver messo le ali ai titoli. Assai meno ai Palazzi romani che, alle indiscrezioni circolate sulla stampa hanno risposto con un fitto fuoco di sbarramento. Non usa mezzi termini Fabrizio Cicchitto. «Cosa possiamo aspettarci da questa fusione? Il rischio che noi vediamo», ha spiegato il capogruppo Pdl alla Camera, «è che da questa fusione possa esservi un interesse soprattutto alla gestione di cassa non avendo la possibilità di trovare la crescita. Quindi c’è il rischio di vedere una riduzione degli investimenti in Italia». Ecco: questo pericolo va scongiurato. Non solo. Secondo Cicchitto, «se la fusione avvenisse sarebbe la prima in Europa tra ex monopolisti», quindi di due operatori che «non hanno capacità nè possibilità di crescere sul mercato interno». Segue a ruota Paolo Romani, che già nei mesi scorsi aveva definito gli spagnoli nell’azionariato di Telecom un problema, invitando il gruppo a valutare l’ipotesi di scorporare l’infrastruttura. Secondo il viceministro delle Comunicazioni «il governo deve dire quello che pensa sull’italianità della rete». Per evitare sorprese sono dunque necessaria garanzie non solo sulla proprietà della rete, ma anche «sull’italianità della governance». È per questo, ha tagliato corto il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, «chiederò a Telecom di essere informato sui colloqui con Telefonica».Una bomba pronta a esplodereInsomma, l’affaire tlc finisce sotto stretta sorveglianza. A far esplodere la bomba, le indiscrezioni di Dagospia prima e di Repubblica poi, secondo le quali Mediobanca starebbe studiando la creazione di una nuova scatola in cui far confluire il 22,5% di Telecom detenuto da Telco e il 3,75% di Telefonica in mano alla banca spagnola Caixa attraverso la holding Criteria (-0,88% a Madrid). La società spagnola sarebbe inoltre disponibile a lanciare un’Ops su Telecom che comporti un premio del 25-30% sugli attuali corsi di Borsa, spianando la strada alla fusione. Nella nuova holding i soci italiani di Telco manterrebbero una sorta di minoranza di blocco in modo da spuntare una governance che sappia tutelare gli interessi italiani nella nuova realtà. Piazza Affari ha risposto con un rialzo dell’1,8% con scambi robusti che hanno fatto passare di mano il 2% del capitale.La catena di comando, secondo Repubblica, vedeva Cesar Alierta nel ruolo di presidente, Gabriele Galateri vice presidente, Julio Linares amministratore delegato per Spagna e Sudamerica e Franco Bernabè per Europa e Mediterraneo.Il silenzio dei banchieriChe qualcosa ci sia è scontato. Come conferma la raffica di no comment in stretta sequenza arrivati dall’ad di Intesa Corrado Passera, dal direttore generale di Mediobanca, Renato Pagliaro, e, infine, anche dagli spagnoli della Caixa.Nel pomeriggio, però, mentre a Piazza Affari impazzava senza sosta la speculazione sul titolo, è giunta la posizione ufficiale dei soci Telco, così come già successo qualche settimana fa su richiesta sempre della Consob. Assicurazioni Generali, Intesa Sanpaolo e Mediobanca comunicano in una nota congiunta che le notizie di stampa riguardo agli assetti proprietari di Telecom «sono prive di qualsiasi fondamento». E sempre su insistenze di Lamberto Cardia, che si è rivolto ai colleghi spagnoli della Cnmv, è arrivata anche la smentita di Telefonica. Identico il contenuto. La realtà è che la partita è ancora tutta da definire. Gli spagnoli non hanno alcuna intenzione di restare fermi ancora per molto, mentre i soci italiani di Telco non vedono l’ora di liberarsi da un investimento che è precipitato dagli iniziali 2,8 euro per azione, al valore di carico di 2,2 euro fino all’euro e spiccioli che il titolo quota oggi in Borsa. Dall’altra parte c’è il governo che non ha alcuna intenzione di lasciare che un asset strategico come la rete fissa vada in mani straniere, ma non può neanche rinunciare alla collaborazione di Telecom sulla banda larga. Non è un caso che proprio di questo abbia parlato ieri Franco Bernabé. Gli investimenti vanno affrontati in base al «ritorno», ha detto l’ad di Telecom, ma «noi non abbiamo né difficoltà a generare cassa, né ad approvvigionarci sul mercato».

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I 26mila euro tartassati delle partite Iva

Non è difficile immaginare quali saranno le reazioni ai dati diffusi ieri da Via XX Settembre sulle partite Iva. Si tornerà a parlare del popolo degli evasori e del Sud malandrino dove regna il sommerso e l’illegalità. Dalle dichiarazioni dei redditi del 2007 presentate dai 3 milioni e 700mila contribuenti sottoposti agli studi di settore emerge, infatti, un’Italia in cui i proprietari di bar guadagnano come i metalmeccanici e i parrucchieri come i pensionati. E se da una parte balza agli occhi la forbice del 40-50% tra il Nord e il Mezzogiorno, dall’altra insospettisce il confronto con il resto dei lavoratori, con un reddito medio che nel 2007 si è attestato poco sopra i 18.300 euro, non troppo lontano dai 26.300 guadagnati in media dagli autonomi. Certo, i 21.100 euro dichiarati da alberghi, pensioni e campeggi fanno una certa impressione, così come i 17.000 euro di bar e ristoranti. Ma ci sono anche i 49.000 euro degli avvocati, i 28.300 euro degli ingegneri e i 35.000 euro delle agenzie immobiliari. Senza contare che dai 26.300 euro delle persone fisiche si passa ai 38.900 delle società di capitali fino ai 43.100 delle società di persone. La realtà è che la fotografia scattata dal fisco è molto più verosimile di quello che si pensi. Intanto, come spiega il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, se si considera che «il 75% degli artigiani e dei commercianti lavora da solo, che la stragrande maggioranza di questi ultimi ha la possibilità di dividere il reddito prodotto con un collaboratore familiare e che per oltre il 15% delle imprese individuali il lavoro autonomo è un secondo lavoro, i redditi medi dichiarati nel 2007 sono molto consistenti». Si passa, sottolinea Bortolussi, da un dato medio nazionale dei commercianti di 22.900 euro, ai 38.400 euro medi del settore manifatturiero e dei servizi dove sono presenti in maniera predominante le aziende artigiane.sud in affannoE la disparità territoriale non fa che confermare l’analisi. Quei 14.700 euro medi di Vibo Valentia che lasciano di stucco rispetto ai 36.500 di Milano non sono altro che la rappresentazione della realtà del Paese. Dove il 51% delle partite Iva e arroccato al Nord e solo il 28% al Sud e nelle Isole. Dove aeree depresse e povere come quelle che ospitano, ad esempio, Cosenza, Crotone ed Enna corrispondono ai dati più bassi sui redditi medi. Dove la Calabria, con 16.500 euro, ha il record negativo di tutta la Penisola, rispetto alle vette raggiunte dalle ricche Lombardia (33.900 euro), Trentino (31.700), Friuli e Veneto (29.800). L’eredità di ViscoSenza contare che il 2007 segna anche una complessiva e generalizzata frenata dei redditi. Un modesto +0,32% rispetto al +11% registrato nel 2006. Dato che rende assai bizzarro pensare ad una improvvisa vocazione dei lavoratori autonomi all’evasione fiscale di massa. Tanto più che in quegli anni i contribuenti sottoposti agli studi di settore erano finiti nel tritacarne dell’ex ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, che aveva ingaggiato contro il popolo delle partite Iva una vera e propria lotta senza quartiere. Difficile credere che proprio allora gli autonomi si siano messi a taroccare le dichiarazioni dei redditi.Il dato impone piuttosto di fare i conti con una fetta consistente del settore produttivo del Paese che, pur considerando una quota sicuramente non trascurabile di evasione, non se la passa così bene come qualcuno vuole farci credere. E che alla fine dell’anno deve fare i conti non solo, come il resto della popolazione, con una pressione tributaria che si aggira sul 50% del reddito, ma anche con quel formidabile strumento che risponde al nome di studi di settore. Meccanismo in base al quale lo Stato stabilisce in anticipo quanto deve guadagnare ciascuna categoria e stanga per principio chi non dovesse rispettare le previsioni. Addio studiCi sono voluti quasi 15 anni prima che la Cassazione, con le sentenze depositate lo scorso dicembre, stabilisse che gli studi di settore non possono essere un criterio certo su cui l’Agenzia delle Entrate può basarsi per emettere la cartella di accertamento fiscale sulla presunzione che lo spostamento dai binari dei parametri di reddito, introdotti con la legge finanziaria del 1996, nasconda evasione. La speranza è non doverne aspettare altrettanti per ridisegnare un sistema fiscale che, come dice Tremonti, non è né giusto e né efficace.Perché se è vero che il lavoratore dipendente non può evadere, l’unico modo per garantirsi la fedeltà anche dell’autonomo è quella di ridargli un po’ di ossigeno tagliando il peso dei balzelli.

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giovedì 21 gennaio 2010

L’Acea ai privati? Il vero nodo sono i francesi

Gli occhi e le polemiche, come spesso accade, sono tutti rivolti nella direzione sbagliata. Il colpo di acceleratore sulla dimissione delle quote di Acea annunciato da Gianni Alemanno ha subito rilanciato l’allarme sulla “privatizzazione” della multi-utility romana. In realtà, come ha ben spiegato l’assessore al Bilancio del Campidoglio, Maurizio Leo, la riduzione della partecipazione azionaria degli enti locali nelle società del settore idrico quotate in Borsa è stabilita dal decreto Ronchi, che ha fissato la soglia massima al 40% entro il 31 dicembre 2013 e al 30% entro il 31 dicembre 2015. Il fatto che avvenga prima può far storcere il naso, ma è difficile incolpare il sindaco di Roma per l’applicazione di una norma di legge. Semmai qualcuno dovrebbe apprezzarne la lungimiranza, visto che una vendita delle quote (ora il Comune è al 51%) a ridosso della scadenza obbligata avverrebbe sicuramente a prezzi meno convenienti per il Campidoglio, che adesso potrebbe incassare qualcosa come 300-400 milioni. Del tutto inosservato è passato invece il punto centrale dell’intervista rilasciata dal sindaco al Sole24Ore e cioè a chi venderà il Comune. Alemanno dice di immaginare come investitori cui cedere il 20% del capitale «partner legati al territorio, fondazioni, imprenditori». A prescindere dal ruolo che potrebbe giocare Francesco Gateano Caltagirone (che è un imprenditore locale e possiede già l’8% della società), la questione rimanda direttamente alla delicata trattativa che l’Acea sta conducendo con i soci di Suez-Gdf per ridefinire gli equilibri interni. È chiaro, infatti, che tra quegli investitori indicati dal sindaco non ci saranno i francesi, che invece avevano posto come condizione per restare nella società propria un aumento della partecipazione rispetto all’attuale 10%. Il problema delle sinergie con Suez-Gdf sarà sul tavolo del cda di Acea convocato per il 26 gennaio. Alla fine di dicembre sembrava che si fosse vicini ad un accordo di massima. Ma le parole del sindaco disegnano ora uno scenario di cui i francesi potrebbero non fare più parte. E questa non è necessariamente una buona notizia. Il colosso d’Oltralpe ha infatti detto più volte di essere interessato al mercato italiano, con o senza Acea. Tradotto, significa uno scomodo concorrente in più per la quotata del Campidoglio.

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Il nuovo Soros punta sul “buco” di Atene

Quando qualcuno li accusa di aver guadagnato sulla pelle dei risparmiatori, loro rispondono di aver fatto solo gli interessi dei clienti, approfittando degli squilibri dei mercati. Eppure, quando nel 2008 gli hedge fund persero in media il 18% i loro stipendi non fecero una piega. George Soros, il re della speculazione sulle monete (nonché filantropo, filosofo e difensore dei diritti civili), ha mantenuto tranquillamente il suo quarto posto nella classifica dei manager più pagati degli States con 1 miliardo e 100 milioni di dollari. Mentre al secondo posto, senza battere ciglio, ha continuato a troneggiare John Paulson, con 2 miliardi di dollari tondi tondi. Messosi in proprio nel 1994, con un piccolo fondo (Paulson &Co) da 2 milioni di dollari e due soli dipendenti (lui stesso e un assistente), nel 2008 Paulson è diventato il 33esimo americano più ricco. Secondo la rivista Forbes, ha accumulato una ricchezza di 6,7 miliardi. L’ascesa dell’ex banchiere di Bears & Stearn, a differenza di quella di Soros, è dovuta alle scommesse sui mutui subprime. Le speculazioni sulla bolla immobiliare negli Usa, dopo una relativa oscurità, gli hanno garantito profitti per molti miliardi di dollari facendolo comparire di colpo al trentatreesimo posto della lista Forbes degli uomini più ricchi del mondo. Paulson, 53 anni, nessuna relazione con l’ex segretario al tesoro Henry Paulson, ha recentemente fatto una grande scommessa sul’oro, cresciuto del 36% nell’ultimo anno, lanciando un nuovo fondo sui titoli minerari ed altri investimenti correlati. Ma ora il finanziere avrebbe deciso di seguire le orme del maestro ungherese Soros, che divenne famoso nel ’92 per la maxi speculazione da 10 miliardi di dollari sulla sterlina. Questo almeno sostiene la stampa greca, che indica in Paulson l’autore di una massiccia operazione speculativa contro l’euro sfruttando le difficoltà del governo di Atene.A lanciare l’accusa è il quotidiano socialista To Vima, che parla senza mezzi termini di una pressione contro il debito sovrano greco e la moneta europea, che nelle ultime settimane ha subito consistenti perdite proprio a causa delle difficoltà di Atene. Secondo gli osservatori l’operazione non sarebbe slegata dalle manovre sull’oro. La speculazione di Paulson sarebbe infatti dovuta alle sue aspettative di svalutazione del dollaro (su cui è fondato il prezzo del metallo prezioso) a lungo termine, solo in apparente contrasto dunque con una speculazione a breve contro l’euro.E la convinzione che gli hedge fund si stiano avventando sulla preda balcanica è condivisa anche dal governo. Ieri anche il ministro delle Finanze, Giorgio Papaconstantinou, ha confermato che ci sono «giochi speculativi» contro la Grecia. Ma anche aggiunto che questo fa parte del funzionamento del mercato e compito del governo è contrastarli in modo trasparente. Ieri sul caso Grecia è intervenuto anche Jürgen Stark, membro del comitato esecutivo e capo economista della Banca centrale europea, sostenendo che Francoforte non cambierà le proprie regole per aiutare Paesi in difficoltà. «La Grecia sa che deve mettere ordine in casa propria», ha spiegato, aggiungendo che le priorità assolute del governo devono essere «una svolta radicale nelle proprie politiche economiche e un ampio piano di consolidamento di bilancio». Stark si è comunque detto convinto che Atene «stia facendo i suoi compiti» e che «ci sono dei primi segnali positivi». L’euro è comunque sceso sotto quota 1,42 sul dollaro, ai minimi da cinque mesi, proprio a causa della preoccupazione per i conti pubblici greci. Un po’ di ottimismo è arrivata ieri dall’Fmi, che vede spiragli di miglioramento per l’economia mondiale. Anche per l’Italia, come anticipato da Giulio Tremonti, le prospettive di crescita si presentano più rosee, con un Pil che da quest’anno dovrebbe tornare a crescere a un tasso dell’1% e superarlo il prossimo.

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L’ultimo anno di scuola si può passare al lavoro

Basterebbero i numeri di Confartigianato a chiudere il discorso. Dati che parlano di una disoccupazione giovanile in Italia ai primi posti in Europa e, soprattutto, dei 23mila posti di lavoro (su 93mila richiesti) rimasti vuoti nel 2009 proprio per l’impossibilità da parte delle piccole imprese di reperire personale specializzato sul mercato.Eppure, l’emendamento Cazzola che punta a favorire la formazione dei più giovani ha immediatamente scatenato la protesta feroce di sindacati e opposizioni. Nel mirino c’è la norma introdotta nel ddl lavoro, che approderà lunedì nell’Aula di Montecitorio per la terza lettura, in base alla quale chi ha 15 anni può svolgere l’ultimo anno di scuola facendo pratica in un’impresa. Apriti cielo. «È l’ultimo atto dello smantellamento di un vero obbligo scolastico», tuona la Cgil. «La maggioranza e il ministro Sacconi hanno deciso di fare carta straccia dell’obbligo scolastico», gli fa eco l’ex ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni.La realtà, come spiega l’attuale ministro Mariastella Gelmini, è che la proposta presentata dal relatore Giuliano Cazzola assicura «l’assolvimento dell’obbligo di istruzione attraverso un vero contratto di lavoro, retribuito secondo i contratti collettivi di lavoro». Il che «rappresenta una possibilità ulteriore di contrasto al fenomeno della dispersione scolastica». Al sindacato che accusa il governo di voler abbassare surrettiziamente l’età minima per lavorare risponde invece Maurizio Sacconi, che definisce «una porcheria» le insinuazioni. «Con la modifica al ddl Lavoro», spiega il ministro del Welfare, «si consente ad un giovane, un anno prima, di fare solo un certo tipo di apprendistato». Attualmente ne esistono tre tipi. Uno è quello professionale, per il conseguimento di una qualificazione o un apprendimento tecnico. Il secondo è quello finalizzato all’acquisizione di un diploma di alta formazione. Entrambi sono riservati a giovani di età tra i 18 e i 29 anni. C’è infine una terza tipologia. Si tratta dell’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione. Ovvero di uno strumento, rigorosamente disciplinato dal punto di vista del contenuto educativo, per completare il ciclo di 12 anni di apprendimento previsto dalla legge. Ed è qui che entra in gioco l’emendamento Cazzola, anticipando dagli attuali 16 a 15 anni la possibilità di accedere al percorso formativo. Una novità che raccoglie il consenso delle imprese. «Basta con le finzioni che alimentano il disadattamento scolastico», dice il presidente di Confartigianto, Giorgio Guerrini, «un anno di apprendistato per completare la scuola dell’obbligo è molto più utile rispetto al parcheggio forzato nelle aule e permette ai giovani di maturare un’esperienza utile ad entrare nel mondo del lavoro». Guerrini ricorda poi che l’apprendistato rappresenta il principale strumento di inserimento lavorativo nelle imprese artigiane e che, dati alla mano, un giovane su due finita la formazione resta in azienda. Giudizi positivi anche da Confindustria. La norma, secondo la presidente Emma Marcegaglia, «viene incontro all’esigenza che c’è soprattutto in alcune zone del Paese dove a 14 anni si interrompono gli studi e si va al lavoro. Con questa misura si può lavorare e comunque continuare un percorso di formazione all’interno dell’azienda». Per il resto il ddl sul lavoro che ha ottenuto il via libera dalla commissione Lavoro della Camera contiene anche molte altre novità, dall’innalzamento dell’età pensionabile per i dirigenti sanitari all’allungamento dei tempi della riforma degli ammortizzatori sociali il cui varo sarà possibile fino a 2 anni dopo l’approvazione della legge.

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Dainese lascia l’Italia. Esuberi nel paesino più ricco del Nordest

La cassa integrazione arriva anche a Molvena. Con la crisi che impazza, direte voi, che c’è di strano? C’è che Molvena è il simbolo del Nordest che produce ricchezza, dell’imprenditoria più dinamica, del benessere economico. Numeri alla mano, è il comune che nel Veneto detiene da anni il primato del reddito medio per abitante più elevato. Ancora nel 2008, a fronte di un reddito medio veneto di 17.132 euro, il piccolo comune si piazzava in testa alla regione con 23.428 euro.Anche per l’oasi felice è però venuto il momento di fare i conti con la recessione. L’azienda vicentina che possiede lo stranoto marchio Dainese (oltre a Mavet e Agv) ha infatti deciso di bloccare la produzione in Italia. Niente più caschi (famosi quelli tricolori di Giacomo Agostini), niente più tute per i motociclisti. Dopo aver resistito per alcuni mesi alla crisi del settore il gruppo ha firmato un accordo con Provincia (Vicenza) e sindacati. L’intesa prevede un anno di cassa integrazione straordinaria per 120 dipendenti e fra dodici mesi la mobilità e il licenziamento per circa 80 di questi. Gli sfortunati prescelti sono stati individuati all’interno dei profili professionali in esubero, salvaguardando i lavoratori con maggiori carichi familiari.Lo stabilimento della Pedemontana vicentina, che tra gli altri veste anche il campione del MotoGp valentino Rossi, conta 250 addetti, di cui un centinaio operai, per lo più donne, e realizza il top di gamma delle tute. Dainese ha due stabilimenti anche in Tunisia, e in tutto arriva a 500 addetti. I numeri di bilancio 2008, anche se in forte contrazione rispetto all’esercizio precedente, erano ancora positivi: 105 milioni di euro di ricavi, un margine operativo lordo di 10,2 milioni e un utile di 700 mila euro, seppur con un certo indebitamento, 33,2 milioni di posizione finanziaria netta negativa. «Nel 2009 la crisi ha picchiato duro sul settore motociclistico, in particolare sul mercato dei prodotti per moto superiori ai 300 cc», spiega Giuseppe Sforza, segretario regionale della Filcem Cgil, «A Molvena un centinaio di dipendenti ha fatto cassa integrazione ordinaria da marzo fino alla scorsa settimana, quando dopo due mesi di trattative abbiamo firmato l’accordo. Di fatto va a cessare la produzione di tute in Italia, eccetto una ristretta nicchia di qualche centinaio di capi. Il piano industriale presentato, comunque, ci sembra valido e l’azienda prevede di mettere in produzione entro fine anno le tute-airbag, ma questo comporterà solo l’assunzione di qualche tecnico. A noi hanno riferito che nel 2009 c’è stato un calo di fatturato del 25%, ma nel 2010 potrebbe andare ancora peggio: siamo molto preoccupati, inutile negarlo».Dainese, secondo l’accordo siglato con Cisl e Cgil metterà duemila euro di incentivo da investire in formazione per ogni dipendente in cassa integrazione che decidesse di avviare un percorso di riqualificazione professionale, «con la speranza di ridurre le mobilità», osserva Sforza. Le rassicurazioni si sprecano. «Molvena è e resta il cuore della Dainese», spiega l’amministratore delegato Franco Scanagatta, che però aggiunge: «Il ridisegno organizzativo richiede la trasformazione dello stabilimento da sede meramente produttiva a sede di progettazione. L’azienda si vede costretta, suo malgrado, a un intervento di ridimensionamento del personale, che toccherà circa 80 dipendenti: saranno utilizzati tutti gli ammortizzatori sociali possibili». L’obiettivo, conclude Scanagatta, «resta quello di confermare all’azienda un ruolo di leader nel settore della ricerca nel settore delle protezioni degli sport dinamici». Magra consolazione per Molvena, che da oggi dovrà rimboccarsi le maniche per mantenere i sui record reddituali senza più l’aiuto della Dainese.

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Mantenere la casa in Italia costa 375 euro al mese

Un frullatore di qua, una bolletta di là. Ed ecco che a fine mese, quasi senza accorgersene, il portafoglio è più leggero. Che saranno mai, direte voi, poche decine di euro. In realtà, tra affitto (o mutuo che più meno è la stessa cosa), accessori, elettrodomestici e prodotti vari ogni 30 giorni spendiamo in media a testa 375 euro. A fare i calcoli ci ha pensato Confcommercio, che ha messo in fila sia le spese fisse sia quelle variabili sostenute dalle famiglie nel 2008. Il conto è presto fatto. Ed è abbastanza salato. Nella colonna dei costi obbligatori ci sono, oltre all’affitto, le bollette per l’acqua e la luce e i costi di manutenzione. Totale: 276,5 euro pro capite. Più numerose le componenti variabili. Si va dagli utensili agli elettrodomestici, dal tessile agli accessori per le piante, fino alla cristalleria e al tessile. La spesa complessiva è di 97,5 euro. Il totale 375 euro al mese. In un anno si arriva a 4.448 euro. Come dire, considerando il reddito medio degli italiani, che tre buste paga se ne vanno solo per mantenere casa. Poi ci sono gli alimentari e l’abbigliamento.Ben magra consolazione che non siamo i soli. Anzi, in Europa c’è chi spende più di noi anche se poi la media è inferiore alla nostra. Secondo il rapporto Europa Consumi elaborato dall’Ufficio studi di Confcommercio, la spesa complessiva pro capite dei cittadini dei 27 Paesi Ue ammonta a poco meno di 4.000 euro l’anno. Solo per mobili, elettrodomestici e articoli di arredamento il conto è di 850 euro, con punte in Austria e Irlanda (1.260 euro). In Italia, come abbiamo visto, stiamo intorno a 1.200 euro. Anche su affitti, acqua, elettricità, gas e manutenzione della casa, stiamo un pochino sopra la media, che è di 3.100 euro. Ma c’è anche chi spende molto di più. A partire dai Paesi scandinavi. In Danimarca, ad esempio, la spesa ammonta a 5.431 euro, in Svezia 4.294 ed in Finlandia a 4.250 euro. All’interno delle spese fisse ovviamente è la voce affitti a farla da padrone in tutti i Paesi, assorbendo circa 2.163 euro per abitante. Solo per gli affitti in Italia nel 2008 sono stati spesi 2.274 euro per abitante. Ma ci battono di un bel po’ Paesi come la Danimarca, la Finlandia, la Francia, l’Irlanda e la Svezia. Per il complesso delle spese per l’abitazione, sommando cioè sia le fisse che quelle per l’arredamento e gli elettrodomestici, Bulgaria e Romania sono i Paesi dove si spende meno, rispettivamente 730 e 1.040 euro. Tra il 1996 e il 2008, gli elettrodomestici rappresentano la voce di spesa cresciuta di più (+3,2%). Analizzando il periodo dal 1996 al 2008, emerge una tendenza dell’aggregato a crescere a ritmi più contenuti rispetto al complesso dei consumi. Il fenomeno è dovuto,in larga misura, ai mobili.Nel quadro d’insieme dallo studio di Confcommercio emerge la stagnazione registrata in Germania e la contenuta crescita dell’Italia, fenomeni anche qui da attribuirsi principalmente alla componente relativa ai mobili ed al tessile per la casa.La voce più dinamica è risultata in quasi tutti i Paesi quella relativa agli elettrodomestici legata all’introduzione di nuovi prodotti ed alle innovazioni che hanno interessato i beni più “maturi”, con riflessi anche in termini di impatto ambientale e risparmio energetico, tematiche a cui i consumatori europei si sono dimostrati via via più sensibili. Anche a causa dei vari incentivi pubblici che, di volta in volta, hanno incoraggiato gli acquisti di quasi tutte le tipologie di apparecchi.

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I finiani del PdL contro il ministro dell’Economia: «Non ha mantenuto l’impegno di ridurre le imposte»

C’è il rimpianto di avere perso un’occasione. Ma anche la sensazione di essere stati presi per i fondelli. Soprattutto tra chi, come Maurizio Saia (Pdl) al Senato e Marcello De Angelis (Pdl) alla Camera, si era fatto portavoce delle proposte sulla riduzione delle tasse in Finanziaria e aveva incassato precise promesse da Giulio Tremonti. «Il Parlamento», spiega il senatore Saia, «deve essere la sede principale del confronto politico e invece viene regolarmente mortificato». In effetti, il governo aveva respinto gli emendamenti Baldassarri al Senato sostenendo che fosse necessario aspettare i risultati dello scudo. E poi? «Poi è rimasta solo la farsa della cedolare secca sugli affitti dell’Aquila, malgrado lo scudo abbia incassato più del previsto». Ed ora il governo ha fatto anche marcia indietro rispetto all’ordine del giorno sul taglio delle imposte. «L’impegno», dice Saia, «era stato preso. Si potevano fare piccoli passi, come avviare veramente la cedolare, che non richiede molte coperture di bilancio. Invece, ha vinto la timidezza». Secondo Tremonti ha vinto la necessità di tenere in piedi i conti pubblici. «Il ministro fa un monitoraggio corretto dei saldi di bilancio, ma deve anche confrontarsi con le esigenze del Paese, altrimenti perde il contatto con la realtà».E la delusione è forte anche per De Angelis, che aveva traghettato gli emendamenti alla Camera. «Il gioco della doccia scozzese», spiega, «era già iniziato in Finanziaria». E agli stop and go, «si aggiungeva il solito atteggiamento di Tremonti, che prima dice di apprezzare le proposte del Parlamento, ma poi spiega che è meglio se vengono elaborate dal governo. E ancora dopo dice che non è il momento». Arrivati a questo punto, ragiona De Angelis, «chiediamo che si riprendano in mano le proposte di mini-riduzioni su Irpef, Irap e affitti, visto che erano state accantonate con la motivazione che il fisco richiedeva una riforma complessiva».Più categorico Benedetto della Vedova (Pdl), secondo il quale bisogna prendere atto che «il governo non crede che la questione fiscale sia centrale per il Paese e sia la leva strategica con cui rilanciare l’economia». Perché, continua, «se si ritiene che il peso eccessivo delle tasse e un sistema che complica la vita ai contribuenti leali sia un problema, e io penso che lo sia, va affrontato oggi». della Vedova rimpiange il vecchio Berlusconi: «Quando diceva che la tassazione deve essere percepita come equa, che bisogna pagare meno per pagare tutti, io ci credevo». «Forse», conclude, «l’immobilismo di Tremonti è dovuto ad un eccesso di ottimismo sugli effetti catartici della crisi. Non ci si rende conto che passata la bufera i problemi saranno gli stessi di prima».

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sabato 16 gennaio 2010

L’ira di Sacconi su Draghi: «Bankitalia come la Cgil»

Galeotto fu il bollettino. Non è la prima volta che le statistiche di Bankitalia irritano il governo. Fino ad ora, però, il duello era rimasto circoscritto al ministro dell’Economia, Tremonti.
Questa volta ad infuriarsi è Maurizio Sacconi, che non ha digerito i dati sulla disoccupazione. Nulla di falso, intendiamoci. Così come accaduto con Tremonti, a scontentare è la prospettiva, il metodo di calcolo.
In questo caso la percentuale incriminata è un 10,2% a cui, secondo l’ufficio studi di Bankitalia, ammonterebbe la quota di lavoro inutilizzato nel secondo trimestre 2009. Alla cifra si arriva sommando alla disoccupazione ordinaria i lavoratori in cassa integrazione e i cosiddetti “scoraggiati”, ovvero chi ha smesso di cercare un’occupazione. In questo modo, al 7,4% certificato dall’Istat si aggiunge l’1,2% di Cig e l’1,6% attribuibile al fenomeno dello scoraggiamento. Ed ecco che nel terzo trimestre 2009, si legge nel bollettino economico di Via Nazionale, «il tasso di disoccupazione corretto sarebbe stato pari al 10,2% anziché al 7,4%». La cifra non è sfuggita alle agenzie di stampa e ai sindacati, che hanno immediatamente cavalcato la notizia.
Apriti cielo. Sacconi è balzato sulla sedia è ha subito puntato il dito contro il governatore. «Sommare i disoccupati veri e propri con i cassintegrati (che sono e restano legati alle rispettive aziende da un rapporto di lavoro solo temporaneamente sospeso)», tuona il ministro del Welfare, «e addirittura con i cosiddetti scoraggiati è un’operazione scientificamente scorretta e senza confronto con gli altri Paesi ove ci si attiene all’autorità statistica». Non solo: «Significa negare quell’effetto della politica di governo, concertata con le parti sociali, per cui in una crisi globale della domanda si è voluta conservare la base produttiva e occupazionale, attraverso la cassa integrazione e i contratti di solidarietà, rispetto a possibili processi di deindustrializzazione o frettolose espulsioni della manodopera». Scelte, prosegue, «che lo stesso governatore della Banca d’Italia ha apprezzato in più occasioni». Durissima la conclusione: «Porre una questione così artificiosa alimenta solo la sfiducia, l’incertezza e la confusione nel momento in cui è essenziale garantire la corretta percezione della crisi a partire da quella sociale». Non è un caso, secondo il ministro, che gli unici ad utilizzare questo metodo siano «il servizio studi di Bankitalia e la Cgil».
In effetti, come spiega lo stesso bollettino di Via Nazionale, «sulla base di criteri armonizzati a livello internazionale dall’International Labour Organization (Ilo) si considera disoccupato chi è senza lavoro, è alla ricerca di un impiego, è immediatamente disponibile a lavorare e ha compiuto un’azione di ricerca durante il mese precedente il momento della rilevazione». Ma la cassa integrazione e i lavoratori scoraggiati sono entrati già da qualche tempo a far parte delle analisi sull’occupazione. E non sono solo i sindacati ad utilizzare i nuovi parametri, ma pure le imprese, che in teoria non hanno molti interessi a gonfiare il peso dei disoccupati.
Anche Confindustria, infatti, nell’ultimo Report del Centro studi presentato a dicembre aveva legato la previsione della disoccupazione per il 2010-211 alla percentuale di riassorbimento dei lavoratori dalla Cassa integrazione: i posti di lavoro persi tra il 2008 ed il 2010, infatti, ammonterebbero a 665mila nel caso in cui il 70% dei lavoratori in Cig rientrassero in azienda. Un dato che la crisi ecomica potrebbe aggiornare diversamente: se la percentuale di assorbimento scendesse infatti al 40%, dicevano gli economisti di Confindustria, i posti di lavoro a rischio tra il 2008 ed il 2010 salirebbero a 700 mila con altri 70 mila nel 2011.
Una cosa è certa. Scientifico o meno, ora quel dato di 2,6 milioni di senza lavoro messo sul piatto da Bankitalia col calcolo allargato sarà al centro del dibattito dei prossimi mesi.

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venerdì 15 gennaio 2010

Baldassarri: «Se non taglia ora, Tremonti è fuori dal nostro partito»

Nessun commento all’annuncio di Berlusconi sulla riforma. E nessuno all’inaspettato dietro front sui tagli. È stato un silenzio “tecnico” quello osservato da Mario Baldassarri nei giorni del balletto fiscale. «Si è trattato», spiega l’economista vicino a Fini nonché presidente della commissione Finanze del Senato, «di un polverone inutile e pieno di equivoci».
Proviamo ad elencarli...
«Il primo è pensare che si possa fare la riforma a gettito invariato. Quando si parla di riforma del fisco si parla necessariamente di riduzione della pressione fiscale, perché veniamo dai due anni di governo Prodi in cui il peso delle tasse è aumentato a dismisura».
E i soldi dove si trovano?
«Ecco il secondo equivoco: pensare che chi vuole meno tasse vuole più deficit. Tagliare le imposte significa tagliare la spesa. Altrimenti ci prendiamo solo in giro».
Questo vuol dire toccare sanità, sicurezza, scuola...
«E arriviamo al terzo punto. La spesa si taglia intervenendo sugli sprechi e sulle malversazioni. Negli ultimi cinque anni lo Stato ha speso 50 miliardi in più per gli acquisti della Pa e per i finanziamenti a fondo perduto. Le famiglie hanno forse percepito miglioramenti nei servizi? Le imprese hanno ricevuto più sostegno per le loro attività? Credo proprio di no».
E allora perché non si fa?
«Perché per tagliare la spesa ci vuole prudenza e coraggio. E quest’ultimo spesso manca. Ma chi pensa che non si possa fare diventa alleato di quelle 200mila persone che sguazzano negli sprechi della spesa pubblica alla faccia di 57 milioni di italiani».
La sua contromanovra fu accusata di essere troppo mastodontica...
«L’ordine del giorno approvato dal Parlamento durante la Finanziaria impegna il governo su un progetto diviso in tre moduli. Il primo costa 7,5 miliardi. Tre servono a finanziare il taglio di 1.000 euro di Irpef per ogni membro del nucleo familiare. Quattro per dedurre il monte salari dall’Irap per le imprese fino a 50 dipendenti e 500 milioni per la cedolare secca sugli affitti. Quest’ultima misura dal secondo anno porterebbe un gettito aggiuntivo di circa 2 miliardi, come è successo per le detrazioni sulle ristrutturazioni».
E i tagli di spesa?
«Per l’Irpef si interviene sugli acquisti della Pa, per l’Irap si trasformano i fondi perduti in credito d’imposta e si spalmano su cinque anni, per la cedolare secca si fa uno sforzo per il primo anno poi si finanzia da sola».
Sulla cedolare, però, è partita la sperimentazione all’Aquila?
Far partire una detassazione degli affitti in una città dove non ci sono più le case mi sembra inspiegabile».
Per ora la linea del Pdl è questa. Dovrà accontentarsi o cambiare partito...
«Guardi, sono stato io nel ’94 ad inventare lo slogan “meno tasse per tutti”. Il taglio delle tasse è nel codice genetico del Pdl ed è il punto più forte che ci distingue dalla sinistra, che pensa ancora che con più imposte si possano avere più servizi. Quindi, è chi ritiene che le tasse e la spesa non si debbano tagliare che è fuori dal partito».
Finché Tremonti resta a Via XX Settembre, però, sembra questa la musica...
«Ripeto, se non vuole ridurre le tasse e tagliare la spesa è lui che si pone fuori dal Pdl».
Perché, secondo lei, il ministro è così irremovibile?
«Tremonti ha il terrore, giustamente, dei saldi da finanziare. Ma, come dicevo prima, per riformare il fisco ci vuole prudenza e coraggio».

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La finanza avanza ma non sfonda

L’Italia cambia e si trasforma. Negli ultimi 10 anni, secondo la fotografia scattata ieri dal presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, a un convegno dell’Aspen, la quota di ricchezza nazionale che non va alle famiglie ma finisce a banche e mondo finanziario è addirittura raddoppiata, mentre si è ridotta di un terzo la quota andata alle imprese.
Nello stesso periodo di tempo (1999-2008), è quasi triplicata la percentuale finita all’estero, una quota composta anche dai profitti delle imprese trasferiti oltreconfine. Complessivamente, invece, il prodotto interno lordo è cresciuto più del reddito disponibile dei nuclei familiari: con il 1999 considerato come base 100, nel 2008 il Pil è arrivato a quota 111,1, mentre il reddito disponibile lordo delle famiglie solo a 107. Questo gap di ricchezza è finito in cinque canali principali: le società finanziarie, le imprese, le risorse finite all'estero, le famiglie produttrici (o microimprese) e la pubblica amministrazione.
A prima vista si tratterebbe di una vera e propria metamorfosi. A ben guardare, però, la situazione è meno rivoluzionaria di quello che sembra.
La quota di Pil finita in tasca al mondo della finanza è sì raddoppiata, ma lo sfondamento non è riuscito fino in fondo. E c’è da scommettere che il morso della crisi frenerà ancora di più la corsa. Nei dieci anni presi in esame dall’Istat la percentuale è infatti passata dal 4,6 al 9,4%. Complessivamente, insomma, il business delle banche e dei mercati finanziari restano ancora sotto il 10% del prodotto interno lordo totale.
Anche il calo delle aziende, per quanto significativo, non stravolge la realtà di un Paese a prevalente vocazione industriale e manifatturiera. Per quanto il colpo si faccia sentire: la quota di Pil attribuita alle aziende è diminuita dal 37,8 al 24,4%. Forti oscillazioni anche per le risorse andate all’estero (composte da profitti delle imprese, multinazionali, rimesse degli immigrati). La quota è quasi triplicata, salendo dal 3,9% all’11,8%. Più stabile invece l’andamento della quota di ricchezza finite in mano alle famiglie produttrici, leggermente salita dal 9,7% all’11,4%.
A rassicurare i nostalgici e i conservatori c’è l’immancabile punto di riferimento del settore statale. La quota di ricchezza che si mangiano le amministrazioni pubbliche sembra inossidabile e immodificabile. Nel corso dei dieci anni presi in esame è scesa soltanto di una manciata di punti, dal 44,1% al 42,9%.
Ma più che della fotografia in sé, ieri all’Aspen instute si è discusso della sua affidabilità. Con Gianfranco Fini e Giulio Tremonti che, manco a dirlo, si sono trovati in disaccordo. Per il presidente della Camera è necessario «ridare fiducia alle statistiche». E se il Pil non è sufficiente «è importante cominciare a valutare, accanto ai dati economici, quali altri elementi prendere in considerazione». Ma guai a cadere nella «tentazione» di archiviare il prodotto interno lordo.
La tentazione sembra forte per il ministro dell’Economia, che difende gli istituti di statistica, ma ritiene il Pil molto datato. «Se fossero calcolati l’ambiente, la cultura, la bellezza, la storia e il clima, l’Italia si troverebbe in una imbarazzante prima posizione. Ma quello che è innanzitutto da rilevare», ha spiegato Tremonti, «è che il Pil è stato inventato prima della globalizzazione ma, come dice il nome stesso è una entità che raccoglie flussi-out ed è tutto incentrato sulla parola interno. Mi sembra che l’economia italiana abbia una configurazione non completamente catturata dal Pil».

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giovedì 14 gennaio 2010

La vittoria di Tremonti: «Non è il momento delle follie fiscali»

Il fisco è ingiusto, ma per ora ce lo teniamo. È un Giulio Tremonti ringalluzzito quello che si intrattiene con Bruno Vespa davanti alle telecamere di Porta a Porta. Le posizioni sono quelle dette e ridette negli ultimi mesi. Le stesse che gli hanno procurato non pochi attriti con con le componenti liberiste del Pdl e con buona parte dei ministri economici. Ma ora dalla sua parte è sceso in campo il premier Silvio Berlusconi e il ragionamento scorre più veloce. «Dobbiamo porci la sfida di un grande cambiamento del sistema fiscale», spiega il ministro dell’Economia, «l’ideale sarebbe un sistema efficace e giusto, quello che c’è adesso non è tanto efficace e non è neanche tanto giusto». Detto questo, sulla riforma fiscale «dobbiamo studiare seriamente. Non possiamo fare stupidate o follie». Perché «siamo durante una fase economica complicata. Abbiamo, e lo sa bene e lo dice il presidente del Consiglio, il terzo debito pubblico del mondo ma non la terza economia del mondo». Sollecitato da Vespa, che chiede se saranno possibili interventi già nel 2010, il ministro risponde: «Come era nei nostri accordi redazionali questa è una domanda che deve fare in termini di attrazione, da giornalista, ma prima devi capire come si può fare, come vanno le cose».
E il percorso non sembra affatto facile. «Il sistema fiscale italiano è tremendamente complicato, ci sono oltre 140 modi di prelevare e dedurre», fa notare il ministro dell’Economia, sottolineando che «ci sono sovrapposizioni incredibili, interventi che si sono accumulati negli anni».
Di interventi spot, insomma, non se ne parla. Anzi, la situazione è così ingarbugliata che saranno necessarie diverse fasi: «Ora stiamo facendo la Tac al sistema fiscale, poi dal dibattito verranno fuori le ipotesi». E il dibattito sarà ampio, approfondito e visto il numero di soggetti da mettere al tavolo, lungo. La discussione sarà infatti aperta «ai sindacati, a Confindustria, alle sedi accademiche, ai tecnici del Parlamento, alla Commissione europea». Un punto, quest’ultimo, su cui il ministro insiste. Oltre alla crisi e alla tenuta dei conti, la riforma è infatti subordinata anche «alla compatibilità europea». L’unica certezza è il punto di partenza. O meglio il luogo. Si comincerà, presto, con un vertice all’Aquila.
Entrando nel dettaglio, Tremonti gela chi ancora sperava, dopo il dibattito in Finanziaria, in una rimodulazione dell’Irap. «È un’imposta», spiega, «che ha sostituito altri tributi, non so se è stata una scelta intelligente ma adesso tornare indietro è difficile». Quanto ad un aumento delle imposte sulle rendite finanziarie chieste a gran voce dalla sinistra, «bisogna essere attenti e prudenti nel valutare l’armonizzazione». Non è, dice il ministro, «che quando si parla di rendita c’è dietro uno gnomo di Zurigo ma c’è la famiglia con i suoi risparmi». Sul capitolo scudo Tremonti chiarisce che tra le ragioni della proroga ci sono state le difficoltà registrate nel riportare i capitali detenuti all’estero a causa delle banche straniere, ma è evidente che «più tempo vuol dire più soldi che tornano».
E di soldi, stando ai dati diffusi ieri da Bankitalia e dal Tesoro, ce n’è bisogno. A novembre è infatti proseguito il calo delle entrate tributarie, che nei primi 11 mesi dell’anno sono diminuite del 3,9% (3,4% secondo via Nazionale) rispetto allo stesso periodo del 2008. Il calo, secondo l’Economia, è dovuto in gran parte agli effetti della crisi economica. E infatti all’appello mancano circa 14 miliardi di tasse (Ires e Irap) provenienti dalle imprese. In ogni caso, assicura Tremonti, «le entrate tengono». Grazie anche al buon andamento degli incassi relativi alla lotta all’evasione, che continuano a sostenere le entrate tributarie: nel periodo gennaio-novembre 2009 il gettito è cresciuto del 20,0% rispetto allo stesso periodo del 2008 .
E spiragli di ottimismo arrivano anche dai dati sul debito, che secondo Bankitalia a novembre è calato, riportando la quota pro-capite sotto la soglia dei 30mila euro. Diminuisce in particolare il debito delle amministrazioni centrali, mentre dopo una fase di miglioramento torna a crescere quello di Regioni, Province e Comuni. In ogni caso, rispetto al dicembre 2008 il debito è complessivamente aumentato del 7% circa.

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Disoccupazione record. Ma gli artigiani non trovano personale

La disoccupazione è a livelli record? Ebbene, nel 2009 un’impresa artigiana su quattro ha avuto difficoltà a reperire personale. Avete letto bene: in piena recessione sono rimasti vuoti 23.446 posti di lavoro su un fabbisogno occupazionale complessivo di 93.410. Non si tratta di un trucco. Il mondo delle piccole e delle micro imprese ha sentito i colpi della crisi come il resto dell’industria. Il saldo complessivo dell’occupazione, tra assunzioni, licenziamenti e mancate sostituzioni di personale, ha registrato nell’anno appena trascorso un calo di 4,4 punti percentuali.
Resta il fatto che un quarto delle offerte di lavoro non stagionali, con picchi del 28% nel settore dei servizi e nel manifatturiero, è rimasto vacante. Una quota minore rispetto agli anni scorsi ma sicuramente più alta del resto del tessuto produttivo, dove la media si ferma al 20%. La spiegazione è nella difficoltà delle imprese artigiane a trovare personale specializzato. Un fenomeno accentuato dai costi elevati dei contratti di formazione, che rendono sempre più difficile il ricorso allo strumento da parte delle microaziende. «Dal 2007», ha spiegato il segretario generale di Confartigianato, Cesare Fumagalli, nel corso di un convegno che si è tenuto ieri a Roma, «è stata introdotta una contribuzione a carico delle aziende: 1,5% il primo anno, 3% il secondo anno e 10% per gli anni successivi eventuali di apprendistato». Ma c’è un costo di formazione a carico delle imprese, ha proseguito, «che è il valore del tempo sottratto alla produzione». Nel dettaglio, dal 2006 al 2009 sono state 64 milioni le ore dedicate alla formazione, con un investimento medio di 1,8 miliardi l’anno.
Malgrado questo, nel 2008 gli apprendisti nelle imprese artigiane erano 218.344, vale a dire circa un terzo rispetto ai 640.863 del totale delle aziende italiane. Un dato importante, se si pensa che il 53% dei giovani, concluso il percorso di formazione, ha poi continuato a lavorare nell’azienda.
Nasce anche da queste riflessioni il Piano Italia 2020, messo a punto dal ministero del Lavoro e da quello dell’Istruzione. Il progetto, ha detto Fumagalli, «è finalmente l’occasione per rilanciare l’apprendistato, che ha a che fare con il nostro futuro economico perché è rimasto l’unico istituto a causa mista: quella del lavoro e quella dell’apprendere».
La speranza è che si riesca in fretta a riempire quei posti di lavoro rimasti vacanti. Un lusso che non si può permettere un Paese, come il nostro, che tra settembre 2008 e settembre 2009 ha visto crescere il tasso di disoccupazione degli under 25 dal 19,5% al 23,5% (percentuale che ci piazza al terzo posto in Europa, dopo Spagna e Grecia). E che detiene un record ancora più negativo sul tasso di occupazione dei giovani sotto i 29 anni: siamo al penultimo posto tra 9 paesi Ue con un valore del 39,3% rispetto alla media europea del 51,2%.

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Scajola e Tremonti alla resa dei conti dopo lo Scudo. Sul piatto gli incentivi che il Tesoro non vuole finanziare

Ci risiamo. Claudio Scajola e Giulio Tremonti sono di nuovo ai ferri corti. Esattamente come nel gennaio dell’anno scorso. Identico l’oggetto del contendere: i fondi per il decreto incentivi. Le uniche differenze, rispetto al 2009, sono che il titolare dell’Economia è da diversi mesi sulla graticola proprio per le sue impuntature sulla politica del rigore e sugli insormontabili vincoli di bilancio e che i duelli tra il Tesoro e gli altri ministeri ormai non si contano più.
A dicembre Tremonti era riuscito a sottrarsi all’impegno, convincendo il collega dello Sviluppo economico che fosse necessario aspettare i risultati dello scudo fiscale prima di prevedere voci di spesa per rilanciare la crescita. Scajola si è piegato allo slittamento, annunciando però pubblicamente che il provvedimento sarebbe approdato al Consiglio dei ministri entro gennaio. Ora il nodo è arrivato al pettine. Il problema è che, malgrado il successo della prima tranche dello scudo fiscale, il ministro dell’Economia non sembra avere molte risorse da mettere sul piatto. Né molte intenzioni di aprire i cordoni della borsa con un 2010 di fronte che non si preannuncia una passeggiata.
In cantiere c’è un nutrito pacchetto di incentivi. Oltre a quelli per l’auto (è prevista una rimodulazione rispetto agli anni passati), allo studio ci sono anche interventi per gli elettrodomestici, i mobili, le macchine utensili e per l’acquisto dei pc. Ma nel decreto dovrebbero trovare spazio anche gli sgravi fiscali alle banche che hanno aderito alla moratoria con le piccole e medie imprese. In totale, secondo indiscrezioni dello Sviluppo economico, la richiesta di Scajola sarebbe di 1,2 miliardi. Troppi per Tremonti che nei giorni scorsi avrebbe messo le mani avanti, sostenendo che per accontentare il ministero dello Sviluppo dovrà già mettere in conto i 400 milioni chiesti dal viceministro alle Comunicazioni, Paolo Romani, per la banda larga. E ad assottigliare le risorse ci sono anche gli ulteriori interventi per l’Abruzzo. Per non parlare della possibilità che il premier Silvio Berlusconi insista sulla necessità di fare qualche primo passetto sulla riduzione delle imposte prima delle Regionali, ipotesi che ridurrebbe ulteriormente i margini di manovra del ministro del Tesoro.
I tecnici dei due dicasteri sono già al lavoro per trovare la quadra. Ma molto probabilmente la trattativa dovrà essere condotta in prima persona dai due ministri. E non è escluso che il braccio di ferro sbarchi direttamente in Consiglio dei ministri. Forse già oggi, in una riunione che già si preannuncia infuocata sul fronte della riforma della giustizia e sul piano carceri che presenterà Alfano.

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Alcoa annuncia la cassa integrazione per duemila operai e il ministro Scajola ordina il blocco della procedura

Le cose, per i 2mila lavoratori dell’Alcoa in Italia, non sembrano mettersi bene. Dall’incontro fiume di giovedì notte al ministero dello Sviluppo economico invece dell’accordo è uscito il blocco della produzione per 10 giorni. Non solo, Alcoa ha anche annunciato l’intenzione di avviare la cassa integrazione. Ipotesi duramente osteggiata dal dicastero guidato da Claudio Scajola. In una lettera inviata all’azienda e alle organizzazioni sindacali, il capo di gabinetto Luigi Mastrobuono sottolinea «la necessità che nessuna delle parti metta in atto, nelle more del confronto, azioni unilaterali e non condivise quale potrebbe essere la unilaterale apertura della procedura di Cig». Difficile prevedere l’esito del braccio di ferro. Di sicuro le posizioni sono ancora lontanissime. Il gigante Usa dell’alluminio ribadisce che per mantenere la produzione sono necessari «prezzi energetici competitivi, una fornitura di energia pluriennale e una soluzione accettabile per la Commissione Europea». Richieste che il ministero definisce «legittime» ma che né il governo, né l’Enel sono in grado di soddisfare. Il ministro dello Sviluppo ha messo sul tavolo la possibilità tecnica di utilizzare diversi strumenti (import virtuale, interrompibilità e dispacciamento) per abbassare il costo dell’energia fino ai 28-30 euro per Mwh chiesti da Alcoa. L’Enel da parte sua ha dato la disponibilità ad attivarsi per garantire la fornitura di energia. Ma nessuno può assicurare alla multinazionale che lo sconto sull’elettricità resterà tale per i prossimi tre anni o che Bruxelles non intervenga di nuovo. Sullo sfondo c’è il delicato appuntamento di lunedì, quando Alcoa dovrà presentare alla comunità finanziaria i risultati del quarto trimestre. Alcuni analisti sostengono che nelle previsioni per i prossimi mesi il gruppo abbia già dato per scontata l’uscita dal mercato italiano. Gli operai sardi, nel frattempo, sono tornati sulle barricate.

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venerdì 8 gennaio 2010

I finiani con il Cavaliere nel partito taglia-tasse

Il taglio può attendere. Mettere ordine nel sistema fiscale italiano è una necessità ma per raggiungere l’obiettivo serve «un grande consenso e una grande prudenza». Il copione si ripete. Come dopo l’annuncio di Silvio Berlusconi sulla riduzione dell’Irap, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, all’indomani delle parole del Cavaliere sul taglio delle tasse, torna a fissare i paletti e a bloccare le fughe in avanti. Il fisco più snello è un’ambizione che sicuramente rientra nel programma di governo, ma che potrà essere soddisfatta nei tempi medio-lunghi della legislatura. Stesso concetto arriva anche dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti, che parla «di tempi giusti e momenti giusti» e sottolinea: «Riformare non vuol dire tagliare».
Il fisco divide
Il dibattito, insomma, si riapre. E presto rispunteranno anche le spaccature già viste nel corso della Finanziaria, con il gruppo degli ex An vicini al presidente della Camera schierato nettamente a sostegno di una riduzione della pressione fiscale, soprattutto attraverso le proposte dell’economista Mario Baldassarri, e i “forzisti” piazzati invece a difesa della sostenibilità dei conti pubblici e della insostenibilità di una diminuzione del gettito.
Ma le divisioni non sono così nette. A favore della possibilità di procedere ad una sforbiciata delle imposte, oltre ai liberisti storici come Antonio Martino, si erano espressi, seppur con moderazione, anche alcuni fedelissimi del Cavaliere come Maurizio Gasparri e Claudio Scajola. Diverse poi sono state le richieste di un cambio di passo anche sul fisco da parte di Renato Brunetta e numerosi, per quanto più di bandiera che sostanziali, gli interventi di esponenti leghisti per sostenere la necessità di alleggerire il peso delle imposte su piccole imprese e partite Iva. A rappresentare l’ala finiano-riformista del Pdl ci ha pensato ieri Benedetto Della Vedova. «L’Italia non ha solo bisogno di una riforma del sistema fiscale, ma innanzitutto», ha spiegato il deputato del Pdl, «di una minore pressione fiscale. Non si tratta di fare rivoluzioni o fughe in avanti, ma di iniziare a tagliare le tasse e la spesa pubblica».
Al momento però, si insiste in ambienti di governo, i conti non consentono margini di azione particolarmente ampi. E, a partire dai decreti legge all’esame del Parlamento, le novità che comportano voci di spesa avranno vita difficile.
Irap e cedolare
Un confronto, anche se accademico, sulla riforma del fisco dovrebbe comunque partire. Perlomeno per delimitare le aree di intervento e stabilire una tabella di marcia. La base è sicuramente il «Libro Bianco» del 1994, i temi sul tappeto quelli già emersi negli ultimi mesi. Dall’Irap al quoziente famigliare, dalla cedolare per gli affitti agli aiuti per la ricerca. Sull’imposta regionale a carico delle imprese l’obiettivo è quello di una progressiva abolizione. Ma il gettito, che sfiora i 40 miliardi l’anno e finanzia la sanità, rende difficile l’operazione. Tante le ipotesi in campo: esenzione dell’imposta sulle perdite, innalzamento della franchigia fino a 15.000 euro, deduzione anche parziale del costo del lavoro. Per le famiglie Tremonti ha detto chiaramente di ritenere superato il sistema del “quoziente”, che pure è nel programma di governo. Più efficace, secondo il ministro, sarebbe una rimodulazione delle detrazioni per i figli.
C’è poi la questione della cedolare secca al 20% sugli affitti. La misura, invocatissima durante la Finanziaria, è stata introdotta in via sperimentale soltanto all'Aquila. Un ulteriore passo potrebbe essere l’ampliamento della misura ai contratti concordati. Altro tema sul tavolo è quello relativo alla tassazione delle persone fisiche. Il primo nodo da sciogliere è senza dubbio l’eccessivo carico fiscale per lavoratori dipendenti e pensionati. Ma obiettivo della riforma dovrà necessariamente essere anche la semplificazione del sistema delle aliquote. Questione che il centrodestra aveva cavalcato in passato, ma che la crisi ha costretto a rimettere nel cassetto.
Tremonti non ha fretta, ma la questione, spiega Della Vedova, «non potrà essere accantonata a lungo, senza pregiudicare il dinamismo economico di un Paese, che, negli ultimi anni, quando è cresciuto, lo ha fatto in misura inferiore a quella dei concorrenti europei, perché gravato da un mercato del lavoro disuguale, da un welfare inefficiente e da un potentissimo disincentivo fiscale al lavoro e all’investimento produttivo».

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Accordo lontano per salvare i 2000 lavoratori Alcoa. E la Fiom annuncia lo sciopero contro il Lingotto

I lavoratori di Portovesme sono col fiato sospeso, quelli di Termini Imerese si preparano alla lotta. Per i primi tutto dipende dall’esito della trattativa tra Alcoa e governo. Ai negoziati è appeso il destino non solo di 2mila operai (tra impianti in Sardegna e Veneto), ma dell’intero polo dell’acciaio dell’isola. Ipotesi che ha messo in allarme anche gli amministratori locali. Ma la quadra è ancora lontana. Nelle ultime ore è infatti emerso che la questione non è affatto legata ai pochi euro in più o in meno che dovrebbero rappresentare lo sconto sul prezzo dell’energia pagato dalla multinazionale Usa. Il governo, mescolando agevolazioni previste dalle attuali normative (interrompibilità, costi di dispacciamento e interconnessione) è riuscito ad abbassare la cifra a 30 euro per mwh, rispetto ai 70 che si pagano in Italia e ai 45 della media europea. Ma il punto è che l’Alcoa non vuole rischiare di prendere un’altra bastonata dalla Ue. In fondo anche la sanzione di 300 milioni arrivata nei mesi scorsi da Bruxelles per gli aiuti di Stato ricevuti dal 2006 ad oggi bocciava agevolazioni previste dalla legge. «Ringraziamo il governo per gli sforzi che sta facendo», spiega a Libero l’ingegner Alessandro Profili, capo delle relazioni istituzionali di Alcoa per l’Europa, «ma prima di fidarci delle misure previste dal governo dobbiamo capire se c’è il via libera della Ue». Siccome, però, nessuno può permettersi di aspettare fino ad allora, «l’unica soluzione è quella dei contratti bilaterali con i fornitori. Solo così potremmo avere garanzie e certezze sul futuro». La stessa cosa, del resto, accade in Spagna, dove si parte da un prezzo contrattuale (e quindi non passibile di variazione per effetto di interventi europei) di 40 euro per mwh a cui vanno poi sottratte le quote di agevolazioni previste dalle leggi del Paese. In altre parole, la palla passa all’Enel, che fino al 2006 aveva garantito prezzi dell’energia competitivi proprio sulla base di un contratto. Ma neanche l’azienda sembra per ora disposta ad assumersi il rischio. Alla difficile mediazione sta lavorando il governo, che ieri ha incontrato l’Alcoa e i sindacati, insieme a rappresentanti dell’Auhtority e di Terna. Al vertice, curiosamente, non ha partecipato l’Enel. Malgrado il colosso dell’acciaio abbia fatto sapere che in mancanza di un contratto non ci sarà accordo. Nell’attesa, l’Alcoa avrebbe proposto una fermata tecnica degli impianti italiani per 6/8 mesi.
Le cose non vanno meglio alla Fiat. Ieri il direttivo della Fiom si è riunito a Termini Imerese per fare il punto sulle iniziative di lotta contro il rischio di chiusura degli stabilimenti siciliani. Sul tavolo c’è, tanto per cambiare, lo sciopero generale. La Fiom-Cgil ha chiamato alla mobilitazione tutti gli 80mila dipendenti della Fiat, ribadendo i giudizi negativi nei confronti del piano industriale presentato dall’ad Sergio Marchionne il 22 dicembre a Palazzo Chigi. «Giovedì prossimo», ha detto il segretario generale Gianni Rinaldini, «ci sarà una riunione unitaria con le altre sigle, in quella sede decideremo le modalità». Non si allenta la tensione neanche a Pomigliano D’Arco. Ieri un gruppo di lavoratori precari, ai quali la Fiat non ha rinnovato i contratti, ha occupato simbolicamente per pochi minuti la sede locale della Fiom, chiedendo e ottenendo di incontrare tutti i sindacati nell’aula del consiglio comunale, da giorni presidiata dagli operai con le loro famiglie. Per finire, le tute blu della Cgil hanno annunciato anche la presentazione di una denuncia per comportamento antisindacale nei confronti della Fiat per avere disertato la riunione convocata dal Prefetto di Napoli sulla vertenza precari e per avere rifiutato i permessi sindacali ai delegati.
Tornando in Sardegna, ieri è scattata la protesta anche a Porto Torres. «Eni non scalda brucia». È quanto era scritto sullo striscione degli operai della Vynils, una decina in tutto, che hanno occupato la Torre Aragonese. I lavoratori del petrolchimico del Cane a sei zampe dovrebbe andare avanti sino allo sciopero generale previsto per la prossima settimana.

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Bruxelles non molla: «In Grecia più rigore»

L’Islanda rimborserà i risparmiatori e la Grecia si rimboccherà le maniche per ripianare il deficit. Sulla carta, il terremoto scatenato nei giorni scorsi dai due Paesi europei sembra diminuire d’intensità. In realtà, la tensione resta altissima. Il presidente Olafur Grimsson si è presentato ieri davanti alle telecamere della Bbc per rassicurare tutti. «L’opinione secondo cui non terremo fede ai nostri obblighi è completamente sbagliata», ha detto Grimsson, spiegando che la legge da lui firmata lo scorso autunno già garantiva i rimborsi. «Il provvedimento è basato su un accordo siglato con il governo britannico e olandese in cui l’Islanda riconosce i propri debiti», ha sottolineato nell’intervista. Ma il presidente insiste sulla validità del “veto democratico”. «Ho deciso», ha spiegato in un’altra intervista sul Financial Times, «di accordare l’ultima parola al popolo islandese con un referendum che è compatibile con i nostri principi democratici fondamentali». Grimsson si è rifiutato martedì scorso di ratificare l’impopolare legge sui rimborsi ai clienti esteri, essenzialmente britannici e olandesi, per il fallimento della banca Icesave. La questione sarà sottoposta a referendum forse il 20 febbraio, ma il presidente assicura che non è messa in discussione la sostanza, «ma solo il metodo, la forma e le condizioni del pagamento».
E in stallo appare anche la difficile situazione della Grecia. Il gruppo di ispettori della Commissione europea in missione ad Atene ha chiesto al governo un piano triennale dettagliato di riduzione del deficit pubblico. Si tratta, sostanzialmente, di verificare la praticabilità delle intenzioni già annunciate dall’esecutivo greco. Il piano di risanamento prevede che l’obiettivo di ridurre il defict dall’attuale 12,7% del Pil a meno del 3% venga raggiunto nel 2012 invece che nel 2013. La missione comunitaria, che si concluderà oggi, punta ad assicurare che alla riduzione del deficit e del debito si affianchi una serie di riforme strutturali per migliorare la competitività dell’economia. Preoccupa in ogni caso l’impatto sociale che avrà il piano di rientro che include un ulteriore taglio del 10% dei salari pubblici e un taglio della spesa in sicurezza sociale del 10% quest’anno.
Un bufera annunciata? Non è catastrofista Gregorio De Felice, capo del Servizio studi di Intesa Sanpaolo, pur ammettendo che il caso Grecia «è senz’altro più preoccupante di quello che sta accadendo in Islanda». In questo caso, spiega, «stanno venendo al pettine i nodi di una gestione della finanza pubblica non efficiente e di una economia non competitiva». Sull’euro non ci saranno troppi contraccolpi. «Si verificherà», dice De Felice, « un’alta volatilità degli spread sui titoli di Stato greci e il sistema bancario ellenico finirà sotto pressione, ma l’unione monetaria non prevede vie di fuga. E poi i maligni sostengono che la Grecia negli ultimi mesi abbia anche contribuito a far si che l’euro non diventasse troppo forte, evitando effetti negativi per l’economia europea». Per quanto riguarda la possibilità di una stampella di Bruxelles, per l’economista «non c’è alcun obbligo di intervento da parte delle istituzioni Ue. Un piano di rientro credibile faciliterebbe comunque un aiuto internazionale se per la Grecia dovesse mettersi male, ma per ora questa possibilità non la vedo. Malgrado i declassamenti il Paese è ancora investment grade».

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giovedì 7 gennaio 2010

Alcoa pronta a chiudere gli impianti

La quadra, secondo fonti vicine al ministero dello Sviluppo, non è ancora stata trovata. La trattativa che si riapre oggi tra Alcoa e governo per evitare la chiusura degli stabilimenti di Portvesme in Sardegna e Fusina in Veneto (complessivamente 2mila operai più l’indotto) è appesa a un filo. O meglio a una manciata di euro. Sfruttando tutte le carte possibili fornite dai regolamenti dell’authority e dalle normative in materia energetica, Claudio Scajola sarebbe riuscito a ridurre le tariffe per la multinazionale dell’acciaio fino a 30 euro per megawatt. Un valore nettamente inferiore al costo medio dell’energia in Europa (circa 45-50 euro) e a quello che la stessa azienda paga negli stabilimenti in Spagna (40 euro). Ma Alcoa non sarebbe ancora soddisfatta. L’obiettivo è non solo abbassare ulteriormente lo sconto sull’elettricità (fino a 27 euro) ma soprattutto avere garanzie di medio periodo e non solo per il 2010.
Alla fine di dicembre l’amministratore delegato di Alcoa Italia, Giuseppe Toia, aveva già comunicato ai sindacati in un incontro a Iglesias che senza tariffa competitiva sarebbero andati tutti a casa. Il rischio, ora, è più che concreto. E non solo, a quanto sembra, per colpa della sentenza di Bruxelles che ha bocciato gli aiuti di Stato elargiti dal governo negli ultimi anni e condannato la multinazionale a restituire 300 milioni. Secondo alcune fonti che si stanno occupando del dossier il colosso americano dell’acciaio avrebbe semplicemente colto la palla al balzo per mettere in atto una fuga dall’Italia che il gruppo stava già meditando da tempo.

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Fiat e Tata faranno la mini-car per sfondare in Asia

Dopo il boom delle immatricolazioni in Italia e la conferma del successo in Brasile, il Lingotto punta dritto sull’India. Una nuova mini car e vendite raddoppiate entro la fine del 2010. Questi i piani della Fiat svelati ieri dal responsabile per il Paese orientale Rjeev Kappor.
La nuova small car che dovrebbe arrivare nel 2012, secondo quanto si apprende a Torino, si inserisce nella strategia Fiat di realizzare modelli in grado di soddisfare le richieste specifiche dei singoli mercati in cui il gruppo è presente. Questa politica è la stessa, ad esempio, che sta dando ottimi risultati in Brasile, dove con i suoi modelli la Fiat si è imposta per l’ottavo anno consecutivo come marca più venduta. In India, dove nel 2009 la Linea è stata venduta in oltre 12mila esemplari e dallo scorso giugno la Grande Punto ha trovato più di 9mila acquirenti, Fiat vuole ora entrare in un segmento particolarmente richiesto, come appunto quello delle utilitarie a basso costo. La nuova piccola, ha spiegato il presidente e ad di Fiat India, «sarà progettata a Torino e sarà più piccola della Palio». L’obiettivo è quello di conquistare nuove fette di un mercato che, a livello mondiale, è ritenuto in forte espansione. Per quest’anno la società prevede di vendere complessivamente in India, dove il Lingotto collabora da anni con Tata, 46mila vetture, raddoppiando i risultati del 2009, e prevede di esportare il 10% della sua produzione locale.
E le cose sembrano andare molto bene anche in Germania. Nel 2009 le immatricolazioni del Lingotto in terra tedesca sono balzate dell’86,1% rispetto all’anno precedente a 163.953 unità con una quota del 4,3% su un mercato dell’auto tedesco in rialzo del 23,2% a quasi 3,81 milioni di vetture. A dicembre il miglioramento delle vendite del marchio Fiat in Germania è stato del 26,8% rispetto ad andamento complessivo del mercato in calo del 4,6%. Il trend positivo è spiegato dalla Motorizzazione tedesca Kba con gli incentivi previsti dal Governo di cui «non tutti i costruttori comunque hanno tratto vantaggio allo stesso modo». Anche in questo caso a vincere sono state le piccole, in testa alla classifica con una crescita del 65,7%. Bene anche il segmento dei monovolume, aumentato del 31,1%. In picchiata invece la fascia lusso e premium, che hanno accusato flessioni consistenti delle immatricolazioni (tra -16 e -18%), e le sportive scese a -26%. Il rialzo di Fiat nel 2009 è stato secondo per ampiezza solo a quello di Lada (+105,3%), le cui vendite si limitano comunque a 4.616 vettura nell’anno. Anche il marchio Alfa Romeo ha segnato un balzo delle immatricolazioni in Germania nel 2009 (+57,9% a 11.993), mentre a dicembre emerge una flessione del 49,5%.
Per quanto riguarda le vicende italiane, resta alta la tensione su Termini Imerese. Oggi negli stabilimenti siciliani si riunisce l’esecutivo del coordinamento Fiat della Fiom-Cgil. Scopo dell’incontro è fare il punto sulle prospettive del gruppo alla luce di quanto emerso nel corso dell’incontro con il governo che l’azienda ha avuto a Palazzo Chigi il 22 dicembre scorso. E mentre i sindacati affilano la armi per nuove iniziative di protesta, spunta una curiosa proposta eco-solidale per salvare lo stabilimento. A lanciarla è Simone Cimino, imprenditore milanese di origine siciliana, gestore del fondo di private equity Cape Natixis, che vorrebbe riconvertire l’impianto alla produzione di auto a propulsione ecologica sfruttando consolidate partnership indiane o cinesi. «Ritengo doverosa un’iniziativa che riunisca imprenditori siciliani per realizzare un’auto tutta made in Sicily», ha spiegato Cimino, che ora dice di aspettare risposte dal governo e dalla Regione.

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Corrida Telecom

È bastato un sasso nello stagno a far riesplodere le tensioni dopo la tregua natalizia. Segno che sotto l’apparente tranquillità e concordia ostentata dal managment all’ultimo cda, la matassa Telecom è sempre più aggrovigliata.
I nodi son ben conosciuti: il ruolo degli spagnoli e il futuro della rete. Ma lo scenario è ancora tutto da mettere a fuoco. Con Telefonica che preme per uscire dall’impasse, in una direzione o nell’altra, e i soci italiani che vogliono rientrare dall’investimento “di sistema” fatto nel 2007, ma senza fughe in avanti. A mettere un freno all’entusiasmo dei mercati sulle ipotesi ventilate dalla stampa finanziaria in merito ad una possibile cessione in blocco alla società di Cesare Alierta ci ha pensato Lamberto Cardia, che ha “suggerito” agli azionisti di Telco di fare chiarezza sulla vicenda.
La nota congiunta di Assicurazioni Generali, Intesa Sanpaolo e Mediobanca è breve ma precisa. I gruppi, «su richiesta della Consob», comunicano che la notizia circolata «è priva di qualsiasi fondamento».
Secondo quanto riportava ieri mattinata Mf i tre colossi finanziari italiani avrebbero già deciso di cedere la loro partecipazione in Telco (che controlla il 24,5% di Telecom) al quarto socio della holding. Ricordiamo che attualmente gli spagnoli hanno una partecipazione del 46,35% e Generali, Mediobanca e IntesaSanpaolo si dividono il restante 53,75%. Il Leone di Trieste ha il 30,61%, i due istituti l’11,57% ciascuno. Il gruppo spagnolo potrebbe acquisire l’intero pacchetto a un prezzo tra i 2,2 e i 2,6 euro per azione, evitando anche di dover ricorrere al lancio di un’Opa. La smentita degli interessati è categorica, ma non chiude di certo la questione.
Tanto più che della partita si sta occupando da tempo il governo, che negli scorsi mesi ha più volte messo i vertici del gruppo di fronte al bivio: o gli spagnoli escono dal capitale o la rete esce dalla società. Il valore strategico dell’infrastruttura per l’interesse nazionale non è in discussione. Nessun Paese al mondo appalta all’esterno i suoi telefoni, figuriamoci se può farlo l’Italia, dove la cornetta si intreccia ai segreti di Stato e alle inchieste più scottanti della magistratura.
L’esigenza dei soci italiani di recuperare i quattrini messi in pancia al gruppo di tlc dovrà quindi necessariamente trovare un punto di incontro con quella di Palazzo Chigi di mantenere il controllo dell’infrastruttura. Il dossier cui sta lavorando il Tesoro è quello della cosiddetta “società delle reti”, con un intervento diretto della Cassa depositi e prestiti nell’operazione di scorporo della rete fissa di Telecom. Resta da vedere se gli spagnoli si accontenteranno di una carcassa svuotata della principale fonte di business del gruppo. Alierta finora ha sempre mostrato una morbida, ma ferma, avversione all’ipotesi. D’altra parte la cessione sarebbe l’unico modo per far tornare i conti. Con un valore che oscilla dai 29 ai 34 miliardi di euro, la rete di fatto pesa quasi quanto tutto il debito di Telecom Italia (poco meno di 36 miliardi di euro). Sarebbe la quadratura del cerchio. Di sicuro, però, gli spagnoli non acquisteranno al prezzo ipotizzato dalle indiscrezioni di stampa, che si aggira sul doppio del valore attuale dei titoli in Borsa. Anche senza tenere conto dell’incognita rete, si tratta di una cifra troppo lontana da quello che di solito accade sul mercato, dove il premio di controllo si aggira attorno al 20-30%. A marzo 2007 Telecom scambiava a 2,15 e Pirelli ha venduto fra 2,7 e 2,8, quindi il premio è stato del 26%. Oggi Telecom Italia sta sotto gli 1,1 euro, quindi applicando lo stesso schema l’acquirente dovrebbe pagare fra 1,38 e 1,40 euro per azione.
Bisognerà infine vedere quali saranno le prossime mosse di Franco Bernabé. L’ad di Telecom (affiancato dal presidente Gabriele Galateri) si è finora dimostrato un buon alleato degli spagnoli e, soprattutto, uno strenuo oppositore delle ipotesi di cessione della rete «che sarebbero gravi e devastanti per la potenzialità e il futuro dell’azienda». Alcune fonti vicine al dossier sostengono comunque che per capire bene quello che sta succedendo bisogna guardare non solo alla recente operazione di Mediaset, che ha consolidato la sua presenza nelle tv iberiche con l’acquisizione del canale Cuatro, ma anche alla campagna di Spagna condotta dall’Enel sul colosso dell’energia Endesa. Un colpaccio che il governo di Madrid non potrà non mettere sul piatto in un’eventuale trattativa sul futuro di Telecom.

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Manchester al collasso. Il modello inglese fa crac

Qualcuno sostiene che sia la fine di un mito. Ma molti sono pronti a scommettere che l’idea di emettere un bond per ripianare i debiti sia soltanto l’ennesima giocata vincente. Di sicuro c’è che il Manchester United non finisce mai di stupire. Prima la sconfitta con il Leeds United e l’inopinata uscita dalla prestigiosa FA Cup ed ora i rumors sui guai di bilancio. Il tutto in una manciata di giorni, tanto per iniziare in sordina il 2010.
La prima sbandata è di quelle che fanno male. Non era mai successo in 23 anni di regno di Sir Alex Ferguson all’Old Trafford che i leggendari Red Devils uscissero dal terzo turno di coppa. E soprattutto che si arrendessero ad un club di categoria inferiore. Onta che ai tifosi è resa ancora più pesante dal filotto di successi messo a segno dal nostro Roberto Mancini, che da quando è sbarcato alla guida dei “cugini” del Manchester City non ha sbagliato un colpo. Ma la notizia che preoccupa di più è quella che riguarda le finanze. Già, perché lo United oltre ad essere invincibile nel rettangolo di gioco era anche insuperabile nel far quadrare i bilanci. Un modello invidiato in tutto il mondo. Primo nelle classifiche dei fatturati, primo in quelle dei rendimenti di Borsa e nei ricavi da merchandising, dai ristoranti dell’Old Trafford alle magliette vendute in Asia. L’unica squadra in grado di fare soldi con il calcio. Eppure, dopo la bufera della crisi finanziaria il Manchester è diventato anche primo nella classifica dei club più indebitati d’Europa. E visto che gli altri non se la passano affatto bene (la premier League complessivamente ha 3,5 miliardi di euro di rosso), è facile capire che il guaio è grosso.
Il buco di Glazer
L’enorme buco di bilancio (ad oggi circa 700 milioni di sterline) della squadra di Ferguson non è una novità. Il passivo è stato infatti generato proprio dall’acquisto della società, avvenuto nel 2005, da parte del miliardario americano Malcolm Glazer. Il quale, pur avendo le tasche stracolme di quattrini, si guardò bene dal vuotarle e fece la classica operazione a debito, con un leveraged buyout da 790 milioni di sterline. Una follia? Non proprio. Il Manchester è una macchina da soldi e ripianare il debito non è mai stato un problema. Solitamente la squadra genera utili superiori agli interessi che paga sui prestiti. Nel 2008, ad esempio, i profitti sono stati di 72 milioni di sterline e soldi versati alle banche 69 milioni. Per un po’, insomma Glazer se l’è cavata.
I rubinetti si chiudono
Negli ultimi due anni, però, trovare capitali non è stato così semplice. Per quanti utili potesse produrre la società, la crisi di liquidità che ha travolto tutto il mondo finanziario ha reso difficilissimo recuperare le risorse. Cosi, rinegoziare il debito è diventato sempre più difficile. Risultato: dopo il cappellino e le azioni arriva anche il bond. La squadra, secondo fonti attendibili ma non confermate ufficialmente, ha infatti dato mandato a JP Morgan e Deutsche Bank di studiare la soluzione migliore per recuperare risorse. E l’ipotesi più probabile è il ricorso ad un bond ad alto rendimento, per sfruttare la ripresa dei mercati obbligazionari. In altre parole, visto che le banche hanno chiuso i cordoni della borsa il Manchester si rivolge agli investitori (probabilmente istituzionali, ma non è escluso anche l’accesso ai risparmiatori).
La soluzione può apparire bizzarra ed è difficile dire se avrà successo. Di certo, nessuno da noi può permettersi di criticare. La Roma, che anni fa scelse la strada della Borsa imitando proprio i club inglesi, si ritrova sul groppone qualcosa come 360 milioni di debiti, con una tranche in scadenza di 130 milioni e un utile nel 2008 di 19 milioni. L’Inter, con perdite nel 2007 di oltre 200 milioni e nel 2008 di 148, continua ad andare avanti solo grazie alle continue iniezioni di denaro che Massimo Moratti preleva dai dividendi della Saras. Non se la passa meglio il Milan, con Berlusconi che la scorsa primavera ha dovuto ripianare di tasca sua un passivo di 66 milioni, o la Juventus, che ha chiuso il bilancio con un buco di 20 milioni. Tutte, inutile dirlo, con ricavi che si fermano alla metà di quelli del Manchester.

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La mini ripresa passa dall’outlet

L’inflazione del 2009 allo 0,8% ha immediatamente innescato la polemica. Un riusultato positivvo che, tuttavia, in un sistema ormai di contrapposizioni insanabili ha finito per alimentare polemiche. È il segno della crisi e della crescita zero dei salari, sostengono disfattisti. È il terreno per la ripartenza, dichiarano gli ottimisti. Resta il fatto che per trovare un dato migliore (l’indice allora fu addirittura negativo dello 0,4%) bisogna riandare al 1959. Quando, tanto per dirne una, il quotidiano londinese Daily Mail definiva «l’efficienza e la prosperità del sistema produttivo italiano un miracolo economico», mentre il Financial Times incoronava la lire come moneta più stabile d’Europa. Chiacchiere? Forse. Da allora al 1963, però, l’economia del Paese cresce a tassi mai visti con il pil che si impenna di 6,2%.
Oggi è ovviamente diverso. Ma il riferimento è sicuramente di buon auspicio. Senza considerare che dietro i dati diffusi ieri dall’Istat si nascondono effettivamente alcuni segnali positivi. Intanto c’è l’indice di dicembre. Il rialzo tendenziale, per la quinta volta consecutiva dopo l’azzeramento di luglio, all’1% (lo 0,2% congiunturale) fa concretamente pensare a possibili ulteriori risalite nel 2010. Il che rivela senza ombra di dubbio l’effetto di una ripresina economica in atto.
Per quanto riguarda il dato sull’inflazione media del 2009, come dice il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, si tratta sì «di una conferma della severità della crisi, ma anche del fatto che il potere di acquisto dei cittadini non è stato penalizzato ed è anzi in molti casi aumentato». Ma più che dibattere sul significato dei numeri bisognerà stare attenti alla speculazione. Perché malgrado la bassissima inflazione, come ha spiegato il Cerm, «i prezzi sono comunque aumentati anche durante la crisi». In questa fase di avvio della ripresa, ha sottolineato Scajola, «dobbiamo impegnarci a rilanciare la crescita ma anche a tenere sotto controllo i prezzi per evitare effetti speculativi soprattutto sui prodotti di largo consumo». Per il resto, il parallelo con il ’59 farà felice Silvio Berlusconi. Oltre all’inizio del boom economico è anche l’anno del settimo scudetto del Milan.

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La mini ripresa passa dall’outlet

Si riparte. A fatica, ma si riparte. Gli assalti agli outlet e ai centri commerciali dei giorni scorsi parlano chiaro. L’obiettivo dichiarato è risparmiare, ma il risultato sono buste e borsoni stracolmi e portafogli più leggeri. A Roma, dove la città è andata letteralmente in tilt, i saldi hanno regalato ai commercianti incassi che toccano un più 20% rispetto allo scorso anno, mentre a Milano, dove però si aspetta il tradizionale appuntamento con la Befana, la stima è di un aumento di circa il 4%. Di fatto, gli italiani tornano a spendere. Come confermano anche i dati di Coldiretti, che parlano di una spesa media mensile di circa 475 euro a famiglia in aumento dello 0,4%. «Si tratta», sottolinea l’organizzazione, «di un segnale importante per la ripresa economica generale poiché le famiglie, con quasi un euro su quattro, spendono per la tavola, con gli acquisti di alimentari e bevande che ammontano, complessivamente, a 215 miliardi di euro all’anno». Sei dei quali, secondo la Confederazione italiana agricoltori, sarebbero stati spesi solo tra Natale e Capodanno, con un incremento rispetto allo scorso anno dello 0,5%.
Feste senza austerity
Se al cibo non si rinuncia, anche gli altri acquisiti hanno tenuto. Nel complesso, secondo il monitoraggio effettuato da Confcommercio, «i consumi durante le feste di Natale non hanno registrato alcun crollo, ma un andamento in linea con la debolezza della domanda interna e con qualche timido segnale di ripresa».
Gli acquisti, ovviamente, si sono fatti più cauti ed oculati. Sul fronte dell’abbigliamento, c’è stato «un fermo totale della vendita» di giacche, cappotti e piumini in attesa dei saldi di questi giorni, mentre le vendite di capi scelti come regali natalizi sono stati in linea con l’anno scorso. I libri, che hanno visto un calo delle vendite nell’arco di tutto il 2009 hanno recuperato i volumi di vendita nel periodo delle feste. Bene anche i mercatini. Mentre nella grande distribuzione, è andata forte l’elettronica, trainata dalla vendita di televisori con il digitale terrestre. Segnali di ripresa che secondo il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, sarebbero certificata anche dalla «ripresa tendenziale dell’inflazione di dicembre».
Bankitalia frena
Detto questo, la crisi è tutt’altro che superata. A ricordarcelo ci ha pensato Bankitalia, che ieri ha pubblicato i dati sull’andamento del credito nell’arco di dodici mesi a partire dal settembre 2008. Resta confermata la stretta sui prestiti alle imprese, che sono diminuiti rispetto all’anno precedente dell’1,2%, mentre per le famiglie si registra un aumento del 2,9%. Il dato preoccupante è quello delle sofferenze. Crescono infatti le famiglie e le imprese che hanno difficoltà a ripagare i finanziamenti. Nella media dei quattro trimestri il flusso di nuove sofferenze in rapporto ai prestiti si è confermato più elevato al Mezzogiorno (1,5% il tasso di decadimento) rispetto al Centro Nord (1,2%). E sempre al Sud si pagano i tassi di interesse più alti. Il Taeg sulle nuove operazioni a medio e lungo termine è risultato del 2,8% al Centro Nord e del 3,5% al Sud.
Sorpresa dal fisco
Una buona notizia, una volta tanto, arriva però dall’Agenzia dell’Entrate. L’anno nuovo riserverà a molti cittadini e imprese rimborsi fiscali per circa 900 milioni. Risorse che certamente serviranno a ad affrontare la crisi e rilanciare i consumi. Si tratta di una ulteriore «restituzione» dopo quella già annunciata in estate quando sono arrivati circa 600 milioni. Nel corso del 2009, cpmplessivamente sono stati erogati rimborsi per oltre 14,6 miliardi.

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La nuova previdenza per il pubblico impiego blocca 3.500 donne

Saranno 3.500 le prime “vittime” della riforma delle pensioni nel pubblico impiego. La legge è stata imposta dall’Europa e risponde a un principio di equità nei trattamenti previdenziali tra uomini e donne. Non solo, è anche dettata dall’esigenza di tenere in piedi l’intero sistema attraverso un progressivo innalzamento dell’età pensionabile che permetta di compensare i maggiori costi dovuti all’aumento della longevità della popolazione. Ma alle statali che dovranno restare un anno in più dietro la scrivania non farà sicuramente piacere. Nel 2010 erano pronte a fare gli scatoloni in 6mila. Donne della Pa che in base alla vecchia normativa avrebbero lasciato il lavoro per il raggiungimento dei requisiti di vecchiaia, ovvero 60 anni di età. L’entrata in vigore della riforma, secondo i calcoli aggiornati dall’Inpdap, ne ha però bloccate 3.500. Da quest’anno infatti è scattato il primo scalino biennale che porterà nel 2018 al limite di 65 anni sia per gli uomini sia per le donne. In altre parole, per il 2010 e il 2011 gli anni necessari per accedere al trattamento previdenziale sono 61. Riusciranno ugualmente ad andare in pensione solo le lavoratrici che entro il dicembre 2009 hanno compiuto 60 anni e possiedono 20 anni di contributi.
Il sacrificio avrà effetti tangibili sulle casse dell’Inpdap. Secondo le simulazioni effettuate dall’istituto di previdenza la nuova normativa inserite nel decreto anti-crisi approvato prima della pausa estiva porterà ad un risparmio complessivo di 2,5 miliardi. Risorse che andranno in un fondo istituito presso la Presidenza del Consiglio per interventi sulle politiche sociali e familiari. In particolare, il governo punta a finanziare asili nido per la cura dei bambini o l’assistenza agli anziani non autosufficienti, a cui le donne spesso devono far fronte con effetti negativi sulla carriera.
Ma le donne della pubblica amministrazione non saranno le uniche a dover combattere con le nuove norme pensionistiche. Anche i dipendenti del privato e gli autonomi dovranno fare i conti con gli scalini e le finestre previste dalla riforma con cui Prodi ha riscritto la legge Maroni. Per le pensioni di vecchiaia, ad esempio, le quattro finestre previste nel corso dell’anno possono essere utilizzate solo se i requisiti sono stati raggiunti nel trimestre precedente. Vale a dire che a gennaio potranno andare in pensione solo gli uomini che hanno compiuto i 65 anni entro lo scorso settembre, gli altri dovranno aspettare fino ad aprile. Chi vuole usufruire della pensione di anzianità, invece, dovrà vedersela con le cosiddette quote. Per tutto il 2010 i lavoratori dipendenti potranno andare in pensione con quota 95 (59 anni di età e 36 di contributi o 60 e 35). Considerato che la finestra in questo caso è semestrale la prima uscita utile è a luglio. Dovranno pazientare un po’ di più gli autonomi. Per l’anno in corso la loro quota è 96 e la finestra utile scattera solo dal gennaio 2011.

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Beni confiscati ai terroristi. Dall’11/9 solo 24 milioni

Terroristi a corto di liquidi? A sentire l’amministrazione Usa le principali organizzazioni che minacciano la sicurezza dell’Occidente sarebbero quasi alla canna del gas. Tutto merito della costante e massiccia azione di contrasto messa in atto dall’intelligence statunitense. E tanto sarebbero vuote le tasche dei terroristi che Al Qaeda nel corso del 2009 avrebbe lanciato per ben quattro volte una sorta di campagna di sottoscrizione per mandare avanti la sua attività. Quattro appelli agli adepti sparsi per tutto il mondo allo scopo di racimolare oboli, donazioni e offerte per rimettere in sesto il bilancio. A rivelare la circostanza, qualche settimana fa, è stato David Cohen, il numero due del servizio Usa incaricato di togliere ossigeno al terrore chiudendo i rubinetti dei flussi di denaro.
Eppure, a sfogliare l’ultimo rapporto trasmesso dal Dipartimento del Tesoro Usa al Congresso la situazione sembrerebbe meno rosea. Anzi, a scorrere la tabella che riguarda i fondi confiscati o sequestrati dall’intelligence nell’ambito del contrasto al terrorismo si direbbe che la guerra finanziaria alle organizzazioni si stia rivelando un flop clamoroso.
Complessivamente, dall’11 settembre, i beni delle organizzazioni terroristiche bloccati si fermano a quota 24 milioni e 880mila dollari. Di cui 11 milioni 504mila ad Al Qaeda, 8milioni e 480mila ad Hamas, 4 milioni e 218mila a Hezbollah. Pochi spiccioli sono poi i soldi sequestrati alle Tigri del Tamil (496mila dollari), ai Mujahedin (112mila), alla Jihad islamica e palestinese 63mila). La situazione non cambia di molto se si considerano i beni congelati di proprietà dei Paesi sponsor dei terroristi. In tutto, tra Cuba, Iran, Corea del Nord, Siria e Sudan, si tratta di 323 milioni di dollari. Somme che in gran parte si riferiscono al valore degli immobili detenuti nel territorio degli Stati Uniti per attività diplomatiche.
Tutto qui? Sembra proprio di sì. Certo, non è facile scovare i flussi di denaro clandestini che arrivano nelle mani dei terroristi e solo una parte dei finanziamenti alle organizzazioni passa per istituzioni che si trovano sotto la giurisdizione di Paesi Occidentali. Ma le cifre snocciolate dal rapporto del tesoro statunitense farebbero venire i capelli dritti a qualsiasi amministrazione. Basti pensare che in soli 19 mesi, secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno, il governo Berlusconi ha confiscato alla criminalità organizzata 2.842 beni per un controvalore di 1,8 miliardi, mentre quelli sequestrati sono stati 11.410 per un controvalore di 6,2 miliardi.
Sarà un caso, ma a fronte di quelle briciole recuperate dalla Casa Bianca c’è una finanza islamica che fa faville, anche con la crisi più nera. Anzi, più il mondo si ferma, più il denaro che circola all’ombra della sharia cresce. Nel 2009 la stima degli asset complessivi gestiti dalla finanza islamica nel mondo è di 822 miliardi di dollari, in aumento del 28,6% rispetto ai 639 del 2008. E la previsione per il 2010 parla di un balzo a 1033 miliardi di dollari. Movimenti di denaro che provengono per la maggior parte (il 42,9%) dai Paesi del Golfo, con una percentuale altissima detenuta dall’Iran, il cui segmento di mercato arriva al 35,6% del totale. Fuori dal Medio Oriente la parte del Leone la fa la Malesia, con un 10,5% del totale. Ma il business dell’industria finanziaria islamica, secondo un recente intervento del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, coinvolge ormai più di 600 intermediari e copre oltre 50 Paesi, con ritmi di crescita e di espansione elevatissimi.
Tra qualche giorno a Londra si terrà la 18esima edizione del prestigioso convegno International Islamic Finance Forum. Seguire l’intero evento, 4 giorni, costa poco meno di 2mila dollari. Un po’ caro, ma forse è il caso che Obama ci mandi lo stesso qualcuno dei suoi 007.

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