L’Italia cambia e si trasforma. Negli ultimi 10 anni, secondo la fotografia scattata ieri dal presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, a un convegno dell’Aspen, la quota di ricchezza nazionale che non va alle famiglie ma finisce a banche e mondo finanziario è addirittura raddoppiata, mentre si è ridotta di un terzo la quota andata alle imprese.
Nello stesso periodo di tempo (1999-2008), è quasi triplicata la percentuale finita all’estero, una quota composta anche dai profitti delle imprese trasferiti oltreconfine. Complessivamente, invece, il prodotto interno lordo è cresciuto più del reddito disponibile dei nuclei familiari: con il 1999 considerato come base 100, nel 2008 il Pil è arrivato a quota 111,1, mentre il reddito disponibile lordo delle famiglie solo a 107. Questo gap di ricchezza è finito in cinque canali principali: le società finanziarie, le imprese, le risorse finite all'estero, le famiglie produttrici (o microimprese) e la pubblica amministrazione.
A prima vista si tratterebbe di una vera e propria metamorfosi. A ben guardare, però, la situazione è meno rivoluzionaria di quello che sembra.
La quota di Pil finita in tasca al mondo della finanza è sì raddoppiata, ma lo sfondamento non è riuscito fino in fondo. E c’è da scommettere che il morso della crisi frenerà ancora di più la corsa. Nei dieci anni presi in esame dall’Istat la percentuale è infatti passata dal 4,6 al 9,4%. Complessivamente, insomma, il business delle banche e dei mercati finanziari restano ancora sotto il 10% del prodotto interno lordo totale.
Anche il calo delle aziende, per quanto significativo, non stravolge la realtà di un Paese a prevalente vocazione industriale e manifatturiera. Per quanto il colpo si faccia sentire: la quota di Pil attribuita alle aziende è diminuita dal 37,8 al 24,4%. Forti oscillazioni anche per le risorse andate all’estero (composte da profitti delle imprese, multinazionali, rimesse degli immigrati). La quota è quasi triplicata, salendo dal 3,9% all’11,8%. Più stabile invece l’andamento della quota di ricchezza finite in mano alle famiglie produttrici, leggermente salita dal 9,7% all’11,4%.
A rassicurare i nostalgici e i conservatori c’è l’immancabile punto di riferimento del settore statale. La quota di ricchezza che si mangiano le amministrazioni pubbliche sembra inossidabile e immodificabile. Nel corso dei dieci anni presi in esame è scesa soltanto di una manciata di punti, dal 44,1% al 42,9%.
Ma più che della fotografia in sé, ieri all’Aspen instute si è discusso della sua affidabilità. Con Gianfranco Fini e Giulio Tremonti che, manco a dirlo, si sono trovati in disaccordo. Per il presidente della Camera è necessario «ridare fiducia alle statistiche». E se il Pil non è sufficiente «è importante cominciare a valutare, accanto ai dati economici, quali altri elementi prendere in considerazione». Ma guai a cadere nella «tentazione» di archiviare il prodotto interno lordo.
La tentazione sembra forte per il ministro dell’Economia, che difende gli istituti di statistica, ma ritiene il Pil molto datato. «Se fossero calcolati l’ambiente, la cultura, la bellezza, la storia e il clima, l’Italia si troverebbe in una imbarazzante prima posizione. Ma quello che è innanzitutto da rilevare», ha spiegato Tremonti, «è che il Pil è stato inventato prima della globalizzazione ma, come dice il nome stesso è una entità che raccoglie flussi-out ed è tutto incentrato sulla parola interno. Mi sembra che l’economia italiana abbia una configurazione non completamente catturata dal Pil».
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