tag:blogger.com,1999:blog-46898255729083702192024-03-18T21:12:14.364+01:00praticamente innocuoAl principio fu creato l'universo. Questo fatto ha sconcertato non poche persone ed è stato considerato dai più come una cattiva mossa. (Douglas Adams)Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comBlogger2029125tag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-47836978065172247032021-07-13T15:54:00.002+02:002021-07-14T16:03:34.679+02:00Le assunzioni superano quelle del 2019<div><div>Qualcuno potrebbe anche pensare: se le cose stanno così, tanto valeva metterlo due anni fa il blocco dei licenziamenti. Eh sì, perché stando ai dati diffusi ieri da Bankitalia, nei primi sei mesi dell’anno le assunzioni, malgrado lo stop alle uscite imposto per legge, hanno addirittura superato quelle del 2019. Insomma, i vincoli voluti da sinistra e sindacati non solo non hanno fermato le imprese, ma le hanno addirittura stimolate a fare meglio. La realtà, ovviamente, è un po’ diversa. E quella raccontata dai numeri non fa una grinza. Nel primo semestre del 2020, con l’economia paralizzata da marzo in poi e il divieto di licenziare, il saldo tra rapporti attivati e cessati, scrive Bankitalia, e rimasto sostanzialmente nullo. Poi le aziende hanno iniziato a chiudere e quelle rimaste aperte non hanno rinnovato i contratti a tempo. Risultato, circa 700mila posti di lavoro da inizio pandemia si sono volatilizzati.</div><div><br /><span><a name='more'></a></span></div><div><br /></div><div><b>Manifattura</b></div><div>Ma da gennaio di quest’anno, l’economia, a partire dalla manifattura, ha iniziato a dare segnali di ripresa e, a legislazione invariata, le aziende hanno cambiato marcia. In sei mesi, spiegano gli esperti di Via Nazionale, sono stati creati 719mila nuovi posti di lavoro, si tratta di oltre il 12% in più rispetto allo stesso periodo del 2019. Certo, il divario rispetto ad una situazione di normalità non è stato ancora colmato. Rispetto ad una simulazione effettuata dall’istituto guidato da Ignazio Visco, se il Covid non ci fosse mai stato, oggi dovremmo poter conteggiare almeno 270mila posti in più.</div><div>Tutto, però, fa pensare che lo scostamento sarà recuperato in fretta. La stragrande maggioranza dei contratti, infatti, è stata creata soltanto negli ultimi due mesi, con una accelerazione trainata anche dal comparto dei servizi, soprattutto turismo e commercio, che hanno usufruito dei risultati della campagna vaccinale, della diminuzione dei contagi e delle conseguenti riaperture.</div><div>Resta da capire che ruolo abbia giocato in questa valanga di nuove assunzioni il blocco dei licenziamenti. Ha veramente «preservato oltre 330mila lavoratori», come ha spiegato ieri il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, presentando la sua relazione annuale? Oppure ha costituito un blocco alle assunzioni, come sostengono da tempo dalle parti di Confindustria?</div><div>Bankitalia ci spiega con esattezza quale sia stato l’effetto dello stop alle uscite. Le imprese non si muovono sulla base delle ideologie, ma dei bisogni concreti. E quando si sono trovate di fronte la possibilità di tornare a crescere e fare fatturato, hanno ripreso a cercare personale per far ripartire l’attività produttiva. Con un accorgimento, dovuto ovviamente al blocco legislativo: niente contratti a tempo determinato. La crescita, si legge nel documento di Bankitalia, è stata «trainata interamente dalle posizioni di lavoro a termine». Nei soli mesi di maggio e giugno i nuovi contratti a tempo determinato attivati, al netto delle cessazioni, sono stati addirittura 520mila. Ed ecco allora la morale: i posti di lavoro li salva la ripresa economia e l’unico risultato ottenuto dal blocco dei licenziamenti è stato quello di creare un enorme esercito di precari. Tutto qua. Togliendolo qualche mese prima, quando ormai era chiaro che la macchina della crescita si era messo in moto, forse avremmo avuto non il diluvio di licenziamenti di cui continuano a parlare i sindacati (attaccati in questi giorni ad un paio di vicende che poco hanno a che fare con lo sblocco), ma qualche posto fisso in più.</div><div><br /></div><div><b>Importanti segnali</b></div><div>In ogni caso, pur difendendo il ruolo dell’Inps nella sua funzione di ammortizzatore sociale, lo stesso Tridico ci ha confermato ieri che il tempo volge al sereno. Nei primi cinque mesi dell'anno, ha spiegato, «registriamo tuttavia importanti segnali di ripresa del tessuto produttivo. Infatti, al 31 maggio 2021, le entrate contributive riferite a tutto il settore privato sono aumentate di 4,5 miliardi di euro, con un incremento sul 2020 di oltre nove punti percentuali». Secondo il presidente dell’Inps, tempo qualche mese e tutto tornerà come prima: «Confidiamo che nel corso dell'anno la sostenuta ripresa economica in atto riporti le entrate contributive dell'Inps ai livelli del 2019». E anche da Bankitalia è arrivato ieri un segnale importante. L’accumulo di soldi nei conti correnti ha frenato la sua crescita dal +9,6% di aprile a +8,8 di maggio. Segno che, seppure lentamente, le famiglie riprendono a spendere.</MD></div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-34236966375164109202021-03-09T21:09:00.016+01:002021-03-09T21:09:00.162+01:00Il ministro dell'Economia: gli statali sono incapaci<div><div>E noi che pensavamo che il governo avesse messo il Piano di ripresa e resilienza nelle mani della McKinsey perché i nostri statali non sono capaci. Macché. I super esperti del colosso americano della consulenza strategica, con 98 uffici dislocati in 57 Paesi del pianeta, andranno a Via XX Settembre per fare qualche slide e dare una sistematina grafica ai documenti. Parola di Daniele Franco, che ieri, nella sua prima audizione da ministro dell’Economia, ha provato a sgonfiare le polemiche scoppiate sul reclutamento dei tecnici esterni. La toppa, però, è peggio del buco. L’ipotesi di appaltare all’esterno la gestione del Recovery plan aveva già sollevato un vespaio quando l’ex premier Giuseppe Conte aveva pensato di costituire una mega task force di esperti. Arrivato a Palazzo Chigi, Mario Draghi ha subito tranquillizzato tutti: la regia del piano è affidata al Tesoro e gli altri ministeri daranno una mano. Il che ha cambiato le cose fino ad un certo punto perché il premier è un ex presidente della Bce, all’Economia c’è un ex direttore di Bankitalia, alle Infrastrutture un professore di statistica e all’Innovazione un manager. Insomma, sempre di tecnici si tratta.</div><div><b><br /></b></div><div><b><span><a name='more'></a></span>Forma e sostanza</b></div><div>Ma vabbè. Almeno la forma è salva. Poi però si è scoperto che Franco ha siglato un contratto di 25mila euro più Iva con la McKinsey. E ci sarebbero pure altri accordi con Ernst & Young, Pwc e Accenture. In pratica, gli esperti usciti dalla porta sono subito rientrati dalla finestra. Con l’aggravante che la società di consulenza americana reclutata dal ministro è pure da poco uscita da alcuni scandali negli States (a partire da una storiaccia sui medicinali oppiacei prodotti dalla Pourdue che gli è costata centinaia di milioni di dollari di multa) che la rendono ancor più vulnerabile agli attacchi. </div><div>La questione principale resta comunque la stessa sollevata ai tempi di Conte: possibile che all’interno della pubblica amministrazione non ci siano le competenze adeguate a gestire progetti di riforme ed opere pubbliche imponenti come quelli previsti dal Piano di ripresa e ad assumersi la responsabilità delle scelte?</div><div><br /></div><div>La difesa di Franco è stata chiara sin da subito. Semplice consulenza tecnica, senza alcuna interferenza nelle decisioni né accesso a documentazione riservata o sensibile. Ieri, però, l’ex dg di Bankitalia si è spinto oltre, precisando che l’apporto di McKinsey «riguarda la produzione di crono programmi, aspetti metodologici nella realizzazione del piano, aspetti più editoriali che di sostanza». Questo perché «le strutture pubbliche a volte hanno bisogno di input specialistici per affrontare specifici lavori, tipicamente se uno deve fare presentazioni e slide a volte ci sono persone che sono più efficaci a farlo. I funzionari pubblici hanno altre competenze e altre qualità».</div><div>In altre parole, i nostri travet sono bravissimi, però quando si tratta di usare il Powerpoint vanno nel pallone. E per mettere in bella copia i documenti dobbiamo chiamare gli esperti Usa. Una spiegazione che non solo non spiega niente, ma ridicolizza pure i funzionari pubblici.</div><div>Per il resto, Franco ha confermato che bisogna correre, che il piano sarà di 191,5 miliardi e che gli interventi potranno avere un impatto sul Pil anche superiore al 3% finora stimato. Una brutta notizia riguarda le tasse. Come molti temevano, pure questa volta la modernizzazione (con alleggerimento) del fisco rischia di scomparire dall’orizzonte. Nel Recovery plan ci si occuperà di giustizia e pubblica amministrazione, ha detto il ministro, ma la riforma dei balzelli, pur essendo una priorità, non farà parte del menù. Sarà per la prossima.</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-58454116013507535962021-03-07T21:10:00.012+01:002021-03-09T17:21:15.853+01:00Trovati 40mila medici per iniettarci il vaccino<div><div><div>Almeno i medici ci sono. Dopo mesi di tentennamenti il nuovo governo è finalmente riuscito a chiudere l’accordo con gli specializzandi pagandoli 40 euro lordi all’ora invece dei crediti formativi che gli voleva rifilare Giuseppe Conte. Grazie ad un potenziale esercito di altri 40mila camici bianchi l’esecutivo conta di dare un colpo di acceleratore alle vaccinazioni. </div><div>Un censimento da concludere entro 10 giorni, per stabilire la reale capacità di somministrazione delle singole Regioni ed individuare dove e come potenziare il sistema; consegne bisettimanali in almeno 500 punti sparsi in tutta Italia tra Asl e centri di somministrazione; un plotone di almeno 100mila vaccinatori per raggiungere ad aprile l'obiettivo di 500-600mila somministrazioni al giorno. Questi i punti principali del piano messo a punto nella prima riunione del Comitato operativo di Protezione Civile convocato dal capo Dipartimento Fabrizio Curcio e alla quale ha partecipato anche il Commissario per l’emergenza Francesco Paolo Figliuolo. </div><div><br /></div><div><b><span><a name='more'></a></span>Passo avanti</b></div><div>Per ora, comunque, l’unico vero passo avanti è l’intesa con gli specializzandi che si vanno ad aggiungere ai 45mila medici di base, a quelli ospedalieri e della Difesa, agli oltre 7.300 tra medici, infermieri e operatori sanitari già reclutati con il bando dell’ex commissario Arcuri e ai volontari della Cri e delle altre associazioni per un totale che, sulla carta, potrebbe superare le 100mila unità ritenute indispensabili per triplicare il numero di dosi giornaliere. Ora si tratta di capire con maggiore precisione i fabbisogni e le capacità di ogni territorio. Va stabilito quanto stanno vaccinando oggi le Regioni e, soprattutto, a quale cifra possono arrivare. Una volta che ci sarà un quadro chiaro si interverrà per potenziare la capacità di risposta, inviando i volontari se si dovranno allestire le strutture e la logistica, o i medici se a scarseggiare saranno i somministratori. L’obiettivo è di passare subito a 300mila somministrazioni al giorno e arrivare a regime, ad aprile, a 500-600mila al giorno. A disposizione per le vaccinazioni ci saranno i 142 drive trough della Difesa, i grandi hub come la stazione Termini a Roma o la Nuvola di Fuksas, i palazzetti e le fiere, le caserme delle forze armate, dei vigili del fuoco e della polizia, eventuali tensostrutture da allestire nei grandi spazi fino alle unità mobili per raggiungere i paesi più piccoli. </div><div>Il piano prevede un centro vaccinale ogni 40mila abitanti e nel decreto Sostegno è previsto anche uno stanziamento di 338 milioni: 196 per lo stoccaggio dei Vaccini nell'hub nazionale di Pratica di Mare e nei centri di somministrazione territoriale, 120 per le consegne, 39 per l’acquisto delle siringhe e 33 per il sistema informatico e le campagne informative.</div><div><br /></div><div><b>Geopolitica</b> </div><div>A questo punto mancano solo le dosi. In teoria, da oggi a fine giugno l’Italia dovrebbe poter contare su 68milioni di fiale. Ma le cronache descrivono una situazione desolante. L’ultima notizia è che i medici di base delle Regioni che hanno già sottoscritto l’accordo (12 per ora) riceveranno circa 10 vaccini a settimana. Una barzelletta. </div><div> Il problema è che il duello sulle forniture di antidoto è ormai diventato una questione geopolitica. Secondo quanto anticipato dal Financial Times e confermato da Bruxelles l’Unione europea si prepara a chiedere la collaborazione degli Usa per l’invio delle dosi di AstraZeneca che mancano all’appello. La Commissione ha fatto sapere che intende «sollevare il tema nelle prossime discussioni transatlantiche». La prima occasione sarà l'incontro in videoconferenza lunedì tra il commissario al mercato interno Thierry Breton Breton e la sua controparte statunitense Jeff Zients, coordinatore del team incaricato della lotta contro il Covid-19 alla Casa Bianca.</div><div>Staremo a vedere. Per adesso il quotidiano londinese fa sapere che gli Usa sono intenzionati ad approfondire la cooperazione, ma avvertono anche che «la priorità del presidente Biden è rendere disponibili i vaccini per ogni americano». Come è giusto che sia.</div><div>Nell’attesa, aumentano i fan dello Sputnik. Ieri anche l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, si è detto disposto ad acquistare subito il siero russo: «Se non lo farà l’Europa o l’Italia lo faremo noi».</div></div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-81430973910543267712021-03-05T21:35:00.001+01:002021-03-09T17:25:51.774+01:00L'unica cosa che cresce è la povertà<div><div>Un milione di poveri in più e consumi tornati indietro di 20 anni. Il conto delle chiusure è salato. E arriva proprio nei giorni in cui, tra le varianti che impazzano e i vaccini che non arrivano, il governo sta pensando di blindare di nuovo tutto. Che gli italiani non se la siano passata bene l’ultimo anno lo avevamo già capito da un pezzo, vedendo le file che si allungavano davanti alle mense della Caritas e il pallottoliere impazzito delle ore di cassa integrazione. Ora, però, l’Istat mette nero su bianco i numeri. E c’è veramente poco da stare allegri. </div><div><br /></div><div><span><a name='more'></a></span>Il reddito di cittadinanza, i bonus e i ristori alle partite Ive non hanno impedito che la pandemia travolgesse come uno tsunami la popolazione. Con contraccolpi sicuramente pesanti per quelle aree del Paese, come il Mezzogiorno, che già non navigavano in buone acque, ma assai più violenti nei territori del Nord, dove normalmente il tessuto produttivo sforna ricchezza senza sosta. </div><div>Se il Sud resta l’area dove la povertà assoluta è più elevata, con il 9,3% delle famiglie coinvolte e l’11,1% delle persone, nel Settentrione il tasso è passato rispettivamente dal 5,8 al 7,6% (2018mila) per quanto riguarda i nuclei e dal 6,8 al 9,4% (720mila) per quanto riguarda gli individui, con un balzo ben più mercato e conseguenze difficili da prevedere. Al Nord, infatti, a causa del costo della vita elevato, si è spesso indigenti anche con redditi che non consentono di accedere agli aiuti pubblici, tarati su soglie calcolate su base nazionale. Il rischio, insomma, è quello di avere una sacca di disagio sociale che, a differenza di quelle presenti nelle altre aree del Paese, non potrà neanche ricevere i sostegni previsti dal nostro sistema di protezione.</div><div><b><br /></b></div><div><b>Operai e autonomi</b></div><div>La spiegazione della maggiore incidenza, come dicevamo, è semplice. Nel 2020, il tasso di povertà assoluta è cresciuto soprattutto tra le famiglie con la persona di riferimento occupata (7,3% dal 5,5% del 2019). Si tratta di oltre 955mila famiglie in totale, 227mila in più rispetto al 2019. Tra queste ultime, oltre la metà ha come persona di riferimento un operaio o assimilato (l'incidenza passa dal 10,2 al 13,3%), mentre oltre un quinto un lavoratore in proprio (dal 5,2% al 7,6%).</div><div>Complessivamente, Secondo le stime preliminari dell'Istat, nel 2020 le famiglie in povertà assoluta sono oltre 2 milioni (il 7,7% del totale, dal 6,4% del 2019, +335mila) per un numero complessivo di individui pari a circa 5,6 milioni (9,4% dal 7,7%). Si tratta di oltre 1 milione in più rispetto all'anno precedente.</div><div><br /></div><div><b>Negozi chiusi</b></div><div>La mancanza di quattrini e la frequente indisponibilità dei luoghi dove fare acquisti causa lockdown hanno avuto un impatto drammatico sui consumi. La stima preliminare della spesa media mensile delle famiglie si è attestata a 2.328 euro mensili in valori correnti, in calo del 9,1% rispetto ai 2.560 euro del 2019. Si tratta del calo più accentuato dal 1997 (anno di inizio della serie storica) che riporta il dato medio di spesa esattamente al livello del 2000. Dopo la crisi del debito sovrano, il biennio 2012-2013 è stato il periodo di maggior contenimento delle spese delle famiglie osservato tra il 1997 e il 2019, ma in quella occasione il calo rispetto al 2011 si era fermato al 6,4%. Confrontato ad ora, poca roba.</div><div>L’unica consolazione, seppure assai magra, riguarda il fisco. Nel 2012, a causa della valanga di balzelli varata dal governo Monti, la pressione fiscale balzò al 44%, con un incremento di 1,4 punti rispetto all’anno precedente. Nel 2020 l’aumento delle tasse si è limitato allo 0,7% (dal 42,4 al 43,1%). Con l’aria che tira, ci dobbiamo accontentare. </div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-44312963934794762372021-03-05T19:16:00.001+01:002021-03-09T17:27:34.987+01:00La follia giuridica delle tasse patrimoniali<div><div>Giustizia sociale, equità fiscale, riequilibrio dei conti pubblici. Da ultimo, l'emergenza Covid. Ogni volta c'è una scusa diversa. Però la sostanza è sempre la stessa: quando c'è bisogno di quattrini, il primo posto dove si va a cercare sono le tasche dei contribuenti. Non solo in base a quanto si guadagna, ma anche a quanto si possiede. In altre parole, patrimoniale. L'idea di fondo è che la proprietà sia un lusso e i risparmi un privilegio. Una fissazione di qualche vecchio residuato dell'ultrasinistra? Macché. A sostenere l'esigenza di un prelievo sui beni degli italiani c'è uno schieramento ampio che va dal Pd ai grillini, passando per Leu. E la misura piace pure alla Ue, che da sempre punta il dito sulla nostra ingente ricchezza privata, come non fosse il frutto di guadagni legittimi, e per di più tassati.</div><div><br /></div><div><span><a name='more'></a></span>A spiegarci gli ostacoli non tanto ideologici, quanto giuridici e costituzionali che dovrebbero impedire l’esproprio legalizzato ci hanno pensato 12 esperti (tra professori e giuristi) i cui pareri sono raccolti nel libro che domani verrà distribuito gratuitamente con Libero "La patrimoniale ai tempi del Covid". Promotori dell'iniziativa sono Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia e della Federazione Regionale Lombarda della proprietà edilizia, e Giuseppe Valditara, coordinatore di Lettera 150, il think thank di imprenditori, accademici ed intellettuali che si propone di dare voce alle istanze del ceto produttivo. Nel volume di 64 pagine lo stesso Valditara, Raimondo Cubeddu, Renato Cristin, Ludovico A. Mazzaroli, Claudio Zucchelli, Francesco Manfredi, Fabrizio Antolini, Francesco Forte, Alberto Lusiani, Aldo Rustichini, Giuseppe Marino, Fabio G. Angelini e Flavio Felice ci spiegano, in quello che può essere definito un vero e proprio manifesto contro l'oppressione fiscale, perché la tassazione del patrimonio è una mostruosità giuridica, filosofica e politica. </div><div><br /></div><div>Filo conduttore degli interventi è la difesa della proprietà privata. Un confine invalicabile che deve trovare la sua ragion d'essere all'interno di un sistema tributario la cui equità dipende non soltanto dalla distribuzione dei carichi tra i contribuenti, ma anche dall'efficienza della spesa pubblica, che deve favorire la produzione di ricchezza, non la sua distruzione. Di recente l'Istat ci ha rivelato che, malgrado il crollo dei redditi e l'incredibile aumento della povertà provocati dal Covid, la pressione fiscale nel 2020 è schizzata al 43,1%. Qualsiasi riforma dovrà occuparsi di diminuire questa soglia, non di colpire il patrimonio. Come diceva Ezio Vanoni, grazie ai tributi l’individuo assicura la sua libertà poiché assicura l’esistenza dello Stato. Ma risponde a giustizia che i sacrifici richiesti siano mantenuti entro i limiti strettamente necessari per il conseguimento degli scopi di utilità sociale che ci si propone di raggiungere. Tutto il resto, è furto.</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-51989191461012890882021-03-02T21:21:00.001+01:002021-03-09T17:30:31.772+01:00Perfino con la pandemia Conte ha alzato le tasse<div><div>La pandemia ha travolto il Paese come un uragano. Il Pil è tornato al livello di oltre 20 anni fa, i consumi viaggiano su percentuali che ricordano le temperature polari, le imprese sono alla canna del gas e milioni di lavoratori hanno ancora una busta paga solo grazie alla cassa integrazione. Dopoguerra a parte, non è mai accaduto nulla di simile. C’è una cosa, però, che è rimasta esattamente uguale agli scorsi anni. Manco a dirlo, le tasse.</div><div><br /></div><div><span><a name='more'></a></span>Sul fisco non si scappa, possono pure arrivare le dieci piaghe d’Egitto, ma quando al governo c’è la sinistra piddina alleata con quella grillina cambia poco, potete star certi che i balzelli in qualche modo aumenteranno. Ve lo ricordate Giuseppe Conte in alcune delle sue innumerevoli conferenze stampa a reti unificate? “Mai metteremo nuove tasse”. Forse non aveva neanche torto. Il problema è che sono cresciute quelle vecchie. O meglio, non sono diminuite quanto avrebbero dovuto.</div><div>La precisazione è d’obbligo perché oggi gli espertoni di economia vi spiegheranno che le gabelle sembrano più alte soltanto perché il pil è sceso molto (-8,9%). E siccome il metodo per verificare la pressione tributaria e fiscale di un Paese consiste nel calcolare la sua percentuale in rapporto al prodotto interno lordo è normale che questo rapporto aumenti quando il denominatore si abbassa.</div><div>Per lo stesso motivo dovrebbero dirvi che quel debito arrivato nel 2020 al 155,6% del Pil, come ha certificato ieri l’Istat, non è veramente così alto come sembra. E anche per il deficit, sebbene il dato del 9,5% sia il peggiore dal 1995, qualcuno potrebbe sostenere che no, non è poi così grave.</div><div><br /></div><div><b>Spiegazione tecnica</b></div><div>E veniamo alle tasse. La pressione fiscale nel 2018 era al 41,7% del Pil. L’anno successivo è salita al 42,4. Nel 2020, alla faccia delle promesse e della drammatica situazione, siamo arrivati al 43,1%. Che è un livello altissimo, se si considera che l’asticella depurata dall’evasione arriva vicino al 50% (in pratica chi paga le imposte versa la meta dei suoi guadagni allo Stato). La spiegazione tecnica fornita dall’Istat, come dicevamo, è che le entrate fiscali e contributive sono scese del 6,4%, mentre il Pil a prezzi correnti è calato del 7,8%. Di qui l’incremento del rapporto.</div><div>La spiegazione reale, però, è che in Italia sono crollati i fatturati delle imprese, i redditi delle famiglie, gli stipendi dei lavoratori e le vendite dei negozi. Soldi mandati in fumo dalla pandemia che hanno provocato il fortissimo dimagrimento del prodotto interno lordo (passato da 1.725 a 1.572 miliardi) e hanno allungato a dismisura le file dei poveri davanti alle mense della Caritas.</div><div>In questo contesto di forte recessione, le gabelle versate all’erario sono inevitabilmente diminuite, un po’ a causa dell’impatto della tassazione indiretta, che è alimentata dagli acquisti, un po’ per quei piccoli sconti e sospensioni messi in atto dal governo di fronte all’evidente impossibilità di gran parte dei contribuenti di pagare le tasse su guadagni avvenuti l’anno precedente, quando il virus non c’era.</div><div>Il punto è che gli interventi di compensazione fiscale non sono affatto bastati. E il rapporto tra i quattrini pretesi dal fisco e quelli persi con la crisi ha comunque dato un risultato negativo per i cittadini.</div><div><br /></div><div>In altre parole, il non aver ridotto a sufficienza il peso dei balzelli ha comportato un aumento percentuale del prelievo. Non è un arzigogolo matematico, ma vita reale. Le imposte sul reddito vengono pagate in proporzione al guadagno. Se quest’ultimo diminuisce e io sono costretto a pagare le stesse tasse è evidente che il livello dei tributi che devo versare allo Stato risulta per me enormemente più elevato.</div><div>È esattamente questo che è successo agli italiani. Il governo ci ha raccontato la frottola del mancato aumento delle tasse. Mentre avrebbe dovuto farsi carico di alleggerire la pressione fiscale in proporzione alla diminuzione di ricavi e buste paga. Non lo ha fatto. Al posto dei ristori ci ha rifilato le gabelle.</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-52344681542715163502021-02-26T20:51:00.001+01:002021-03-09T17:33:36.416+01:00E' Gallina a covare gli eurodisastri sui vaccini<div><div>Da una parte c’è una manager di successo, laureata in biochimica, esperta di biotecnologie, con incarichi amministrativi di primo livello in numerose multinazionali farmaceutiche. Dall’altra c’è un’interprete, che lavora da oltre 30 anni alla Commissione europea, inizialmente come traduttrice e poi come negoziatrice nei settori del commercio e dell’agroalimentare. La prima è Kate Bingham, la britannica che ha permesso al premier Boris Johnson di annunciare la conclusione della campagna vaccinale entro l’estate. La seconda è Sandra Gallina, la friulana che ha costretto la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, a scusarsi per il pasticcio sui vaccini.</div><div><br /></div><div><span><a name='more'></a></span>A mettere le due donne una di fronte all’altra ci ha pensato Roberto Burioni, che ieri ha pubblicato sui social le foto di due curriculum. «A sinistra», scrive il virologo, «la persona che ha trattato per l’acquisto dei vaccini per l’Ue. A destra la persona che ha trattato per l’acquisto dei vaccini in UK. Trova le differenze». </div><div>Premettiamo che non abbiamo nulla contro la Gallina. Anzi. Malgrado la carriera non giochi a suo favore, considerato che ha iniziato ad occuparsi di sanità solo lo scorso luglio, quando la capa della Ue l’ha messa alla guida della Dg Sante, c’è chi assicura che l’interprete italiana sia un pezzo da novanta delle trattative, una capace di portare a casa gli accordi più complicati.</div><div><br /></div><div><b>Superlegali</b></div><div>Da qui a riuscire a districarsi tra i contratti predisposti dai superlegali pluridecorati di Big Pharma, però, ce ne passa. E i risultati, purtroppo, si vedono. Persino Mario Draghi, che considera l’Unione europea come la cosa più bella che ci potesse capitare e non riesce a sgridare neanche il suo bracco ungherese, ieri non ha potuto fare a meno di strigliare Bruxelles per l’incresciosa situazione in cui ci siamo trovati. Durante la videoconferenza con i leader Ue il premier italiano non solo ha chiesto di «accelerare sulle iniezioni, di andare più veloce», ma ha anche criticato le diapositive mostrate dalla von der Leyen sulle consegne del vaccino del secondo e terzo trimestre sostenendo che non sono rassicuranti perché non danno certezze. Quanto al confronto col Regno Unito, l’ex capo della Bce, ha chiesto per quale motivo non possiamo fare come Londra e New York, che si tengono per loro le fiale.</div><div>Tutta colpa della Gallina? Sicuramente no. Certo è che è stata lei a firmare i contratti che ci hanno messo nei guai, consentendo alle aziende che producono il siero di disattendere tranquillamente gli impegni verso la Ue. Del resto era stata proprio la Gallina, in un’audizione al Parlamento europeo a spiegare che un buon vaccino deve essere non solo efficace e sicuro, ma anche conveniente. Si era dimenticata che deve pure essere consegnato, ma forse al prezzo a cui lo abbiamo ottenuto l’opzione non era contemplata.</div><div><br /></div><div>Dall’interprete friulana, comunque, non aspettatevi scuse. Accusata di aver sottovalutato una serie di clausole inserite nei contratti, la responsabile della Dg Sante si è difesa dicendo che l’accordo utilizzato ricalcava quelli già sottoscritti a giugno da Germania, Francia, Paesi Bassi e Italia prima che l’Europa si arrogasse il diritto di fare tutto da sola. Il che fa sorgere anche un dubbio: che le diamo a fare lo stipendio se poi si limita a copiare i documenti degli altri?</div><div>Ma ora i problemi sono più seri. Le aziende ci stanno lasciando a secco e nessuno sa cosa fare. Nel corso del Consiglio europeo Draghi ha invocato un nuovo approccio della Commissione nei confronti delle società farmaceutiche inadempienti. L’ipotesi allo studio è quella di applicare un divieto di esportazione. Ma nella bozza di documento finale (che potrebbe, speriamo, anche cambiare) compare per ora solo un ammonimento alle imprese, che «devono assicurare la prevedibilità della produzione e rispettare le scadenze contrattuali». Neanche la Gallina avrebbe saputo essere più morbida. Il risultato lo sintetizza il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel: «Sul fronte della vaccinazione le prossime settimane resteranno difficili».</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-61662121469685969812021-02-25T21:50:00.001+01:002021-03-09T17:36:26.313+01:00Fuori dall'Europa l'Inghilterra vola<div><div>Altro che scappare per la Brexit, dal Regno Unito adesso nessuno vuole andare più via. A meno che non si tratti di una bella vacanza, che quest’estate probabilmente sarà consentita solo ai britannici, che hanno già il vaccino in corpo e possono scorrazzare a proprio piacimento per il mondo. Il ministro del turismo greco, tanto per dire, ha già annunciato la creazione di un corridoio con Londra per facilitare i viaggi degli “immuni” nel suo Paese e sta studiando la possibilità di aprire selettivamente le frontiere già da maggio, promettendo anche una campagna vaccinale massiccia per tutti i dipendenti delle strutture turistiche e aeroportuali elleniche. Ma non è che una delle mille destinazioni che potranno essere scelte.</div><div><br /></div><div><span><a name='more'></a></span>L’idea di quello che sta per succedere ai sudditi della Regina Elisabetta arriva dalle sale operative delle principali compagnie aeree britanniche, che dopo l’annuncio di Boris Johnson sul cronoprogramma per l’uscita dalla pandemia (noi neanche siamo riusciti a fare quelli, ben più semplici, del Recovery plan) sono state letteralmente sommerse dalle richieste di biglietti. EasyJet ha fatto sapere che le prenotazioni di voli sono aumentate in poche ore del 337%, con punte del 630% per il periodo delle vacanze. Un assalto simile a quello registrato da Ryanair, che si aspetta il tutto esaurito per le destinazioni più gettonate come la Spagna, l’Italia e la Grecia. L’effetto del piano in quattro tappe verso la libertà illustrato dal primo ministro è stato immediato anche sulle agenzie di viaggio e tour operator. In sostanza, ancor prima di riaprire le scuole (avverrà l’8 marzo), che è il primo passo di un percorso verso la riapertura totale che si concluderà il 21 giugno, il governo inglese è già riuscito a rimettere in moto l’economia.</div><div>Ma non è tutto qui. Mentre i britannici hanno giustamente voglia di uscire, gli altri non vedono l’ora di entrare. Secondo la società di consulenza finanziaria Bovill, infatti, ci sarebbero circa mille società finanziarie dell’Unione europea che stanno pensando di aprire per la prima volta un ufficio nel Regno Unito. Tra queste ci sarebbero 100 banche e oltre 400 compagnie di assicurazione. </div><div>[TIT-ALT-TXT]niente controesodo</div><div>[/TIT-ALT-TXT]Non vi basta? Sentite cosa ha detto ieri il console italiano a Londra Marco Villani: «Non sembra che la Brexit abbia fermato gli arrivi dei nostri cittadini in questo Paese». Anzi, secondo l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) nel 2020 gli ingressi, che sono in aumento dal referendum del 2016, hanno addirittura subito una forte accelerazione. Le iscrizioni, ha spiegato, «sono state oltre 65mila, ben più dei 12.500 rimpatri, trasferimenti e cancellazioni registrati nello stesso periodo». Il risultato è una crescita degli italiani nel Regno Unito del 15%. «E gran parte di chi si è trasferito», ha concluso il console, «lo ha fatto con l’intenzione di restare».</div><div>Tanto per chiudere, secondo la società di consulenza immobiliare Frank Knight, Londra ha superato in questi mesi New York per la presenza di milionari residenti: 875mila nella capitale britannica contro 820mila nella metropoli americana.</div><div><br /></div><div><b>Catastrofe per la Ue</b></div><div>Insomma, chi sosteneva che la Brexit sarebbe stata una catastrofe probabilmente aveva ragione. Solo che non lo è stata per la perfida Albione, ma per l’Europa, che di fronte all’emergenza ha mostrato tutta la sua debolezza. Ursula von der Leyen, pur avendo ammesso solo qualche giorno fa i suoi errori nella gestione dei contratti con le case farmaceutiche, ieri ha tentato di farci credere che la Gran Bretagna non sta facendo tutti questi vaccini che dice. «Capisco l’impazienza, ora che il vaccino è disponibile i cittadini vogliono essere immunizzati il più velocemente possibile», ha detto la presidente della Commissione europea, «Stiamo accelerando. Il Regno Unito ha inoculato 18 milioni di prime dosi, ce ne sono 27 milioni nell’Ue. In Italia, con una popolazione simile a quella della Gran Bretagna, il doppio delle persone ha ricevuto la seconda dose rispetto al Regno Unito».</div><div><br /></div><div>In altre parole, a Londra c’è molto fumo ma poco arrosto. Ipotesi curiosa, visto che il governo promette di vaccinare tutta la popolazione adulta entro luglio mentre da noi, al ritmo con cui procediamo, ci vorranno più di due anni. Questione di prospettive? Difficile a dirsi. Anche perché è proprio sulla certezza della disponibilità del siero, dovuta ai contratti con le big pharma stipulati prima e meglio di quanto abbia fatto la Ue (che fra l’altro impedisce anche qualsiasi iniziativa autonoma per rimediare al danno), che Johnson ha potuto fissare delle date. Certo, l’epidemia potrebbe rialzare la testa (considerato che la variante del virus che ci sta creando problemi arriva proprio dal Regno Unito), le forniture potrebbero ritardare anche lì e i tempi, come ha spiegato il ministro della Sanità, Matt Hancock, potrebbero leggermente allungarsi. Ma rispetto al disastro totale che si sta verificando in Europa, e soprattutto in Italia, ce ne passa. La Brexit forse non salverà il portafogli degli inglesi (ed è tutto da vedere), ma per ora gli sta salvando la vita.</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-83022174893657793912021-02-23T19:39:00.002+01:002021-03-09T18:22:59.115+01:00L'Italia non sarà capace di spendere i fondi Ue<div><div>Non passa giorno senza che qualcuno non ribadisca che i soldi del Recovery fund bisognerà utilizzarli fino all’ultimo centesimo, che l’occasione è epocale e che sciuparla sarebbe un delitto.</div><div>Concetti chiari e ampiamente condivisibili. Si tratta solo di capire in che modo. Già, perché se a parole sono tutti d’accordo sulla necessità di cogliere la palla al balzo, meno idee ci sono sugli strumenti per evitare che ci sfugga irrimediabilmente di mano. C’è chi ha giustamente fatto notare che l’Italia solitamente non riesce a spendere in maniera decente neanche i fondi strutturali, ma è stato subito zittito dai nuovi avventisti del Next Generation Ue, secondo cui il piano di Bruxelles darà vita ad una vera e propria età dell’oro dove le cose non potranno non andare bene.</div><div><br /></div><div><span><a name='more'></a></span>Per gli altri, forse. Per noi la situazione è un po’ più complicata. solo qualche giorno fa abbiamo assistito ad una preoccupante divergenza di vedute tra il presidente del Consiglio Mario Draghi e la Corte dei conti, con il primo impegnato ad invocare deregolamentazione, snellimenti burocratici e velocità estrema nei controlli e la seconda a lanciare allarmi sui rischi legati al dilagare della corruzione e delle infiltrazioni criminali sui lavori e gli appalti che il governo si appresta ad avviare. Una disomogeneità di prospettive che non lascia presagire nulla di buono.</div><div><br /></div><div><b>Pianificazione oculata</b></div><div>A mettere il carico, ieri, ci ha pensato la Bei, nell’ambito del ciclo di audizioni che stanno portando avanti le commissioni Bilancio e Politiche Ue di Camera e Senato. Il suo vicepresidente Dario Scannapieco, che ha passato dieci anni al Tesoro e un’idea di come funzionino le cose in Italia ce l’ha, ha detto chiaramente che non siamo pronti. E non perché non abbiamo validi progetti o perché non c’è una sufficiente compattezza politica per portare avanti la pratica, due fattori che comunque non vanno sottovalutati, ma perché storicamente non siamo capaci di spendere in fretta i soldi pubblici.</div><div>«Gli Stati», ha spiegato Scannapieco, «dovranno impegnare i fondi entro la fine del 2023, e di fatto spenderli entro il 2026. Questi tempi sono ristretti, e per il corretto impiego c’è la necessità di una pianificazione oculata, proprio per evitare di non essere capaci di spendere questi fondi a disposizione. Questi tempi oggi non appaiono compatibili con quelli che sono i tradizionali meccanismi di spesa italiani».</div><div>Insomma, serve una «discontinuità» radicale con il passato e il nostro Paese potrebbe non essere all’altezza. Per non fare il gufo mentre tutti celebrano l’arrivo di un’era della prosperità e del benessere il vicepresidente Bei, dopo aver, ovviamente, sottolineato che si tratta di «un’opportunità che capita una sola volta nella vita», ha detto che il piano italiano va nella giusta direzione e rispetta le priorità chieste della Ue, ma si è permesso di dare un piccolo suggerimento per evitare il peggio: «I tempi sono tali che non ci consentono di partire da zero. Dobbiamo partire con quello che è già cantierabile e che ha la possibilità di essere realizzato in tempi rapidi».</div><div>In altre parole, occhio a mettere altra carne al fuoco, a fare il passo più lungo della gamba. Meglio mantenere un basso profilo e accontentarsi di realizzare opere di fatto già avviate su cui si possono immediatamente far partire i lavori. Certo, il risultato sarà meno scintillante, ma così forse si riuscirà a portare a casa qualcosa.</div><div><br /></div><div><b>Governance carente</b></div><div>Del resto, come ha sottolineato ieri il Cnel, il Pnrr appare «ancora carente sulla definizione della governance delle procedure e del monitoraggio, sulla previsione degli impatti dell’investimento e sul raggiungimento degli importanti obiettivi trasversali attraverso le missioni indicate». Non solo. «Le 48 linee progettuali», ha detto il presidente Tiziano Treu, «sono completamente prive di un sia pur schematico cronoprogramma».</div><div>Uno scenario assai complicato che rischia addirittura di peggiorare. La soluzione offerta dal Cnel è infatti quella di coinvolgere nella governance del piano non solo tutte le parti sociali, ma anche gli enti locali e i centri di spesa della pubblica amministrazione. Un’idea stracondivisa dai soggetti interessati che ieri, da Confindustria alla Cgil fino alle Regioni, hanno tutti chiesto a gran voce di poter mettere il becco in quella che si preannuncia come la più grande mangiatoia mai vista nella storia del Paese. Se le pretese saranno soddisfatte, il rischio di creare un tavolo disomogeneo e ingestibile è altissimo.</div><div>Sarà anche per questo che le stime di crescita affidate al piano di ricrescita continua a viaggiare su percentuali abbastanza deludenti. Secondo quanto calcolato dall’Istat il Pil nel 2025 avrebbe uno scostamento positivo rispetto allo scenario base di appena 2,3 punti.</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-77133470834728865722021-02-19T20:13:00.002+01:002021-03-09T18:24:03.226+01:00La Lega risolve le grane lasciate da Conte<div><div><div>«Serietà, impegno, responsabilità», promette Giancarlo Giorgetti. Che sono solo parole, intendiamoci. Epperò la fretta con cui il neoministro dello Sviluppo si è mosso per risolvere le grane lasciate dal governo Conte, qualche segnale di ottimismo lo dà. Anche perché finora è stata proprio quella a mancare. «Ci sono vertenze che giacciono sul tavolo del ministero da troppo tempo», ha detto il numero uno della Cisl, Annamaria Furlan.</div><div><br /></div><div><span><a name='more'></a></span>La fretta sarebbe servita sicuramente agli operai della Whirlpool, impigliati in un duello partito nell’ottobre del 2018 e finito come sappiamo. Con Luigi Di Maio prima e Stefano Patuanelli poi che si sono lasciati prendere per il naso per due anni ottenendo solo la chiusura dello stabilimento di Napoli. Ma un po’ di brio in più avrebbe fatto comodo anche ai metalmeccanici dell’Ilva, che dopo essere stati travolti per anni dalle devastanti iniziative della magistratura si sono ritrovati in balìa degli assurdi tira e molla dei grillini. Alla fine, tanto per dare la mazzata finale, si è messo di mezzo pure il Pd. Risultato: siamo tornati al punto di partenza, con l’acciaieria di Taranto che rischia di chiudere da un momento all’altro.</div><div><br /></div><div><b>Bacchetta magica</b></div><div>Non che il ministro leghista abbia la bacchetta magica. Per carità. Resta il fatto che ieri, ancor prima che il nuovo governo ricevesse il secondo via libera dalla Camera, Giorgetti, che dice di muoversi «su mandato di Draghi» e che collaborerà con il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha deciso di mettersi subito all’opera, riaprendo la pratica Whirlpool e convocando per oggi i sindacati dell’Ilva. Positiva la reazione delle sigle. «Prima del voto di fiducia, il nuovo governo fa i conti con la fiducia del Paese, e il lavoro è la cosa fondamentale», ha detto il segretario generale Fim Cils, Roberto Benaglia, dopo l’incontro al Mise. Persino la Fiom, pur rimanendo cauta («aspettiamo i fatti»), ha salutato con favore l’impegno del nuovo governo ad intervenire sui licenziamenti e ha ammesso che il vertice urgente sulla situazione dei lavoratori partenopei è stato «un buon segnale di attenzione».</div><div>L’iniziativa non era scontata. Dopo aver interrotto le trattative con l’ex ministro, la Whirlpool ha già annunciato da tempo che il 31 marzo avvierà la procedura di licenziamento per i 350 addetti. Insomma, la partita è già persa. Ed entrare in campo a pochi minuti dal fischio finale rischia solo di offrire alle parti sociali un colpevole con cui prendersela. Ma Giorgetti sembra deciso a tentare ugualmente l’impossibile. «Già la prossima settimana partirà concretamente un lavoro per studiare il dossier e per avviare un'interlocuzione anche con l'azienda», ha detto.</div><div><br /></div><div><b>Gatta da pelare</b></div><div>L’altra enorme gatta da pelare riguarda Taranto. Anche qui il neoministro arriva buon ultimo a cercare di rimediare a guai combinati in precedenza. Sul progetto messo in campo dai giallorossi con l’ingresso di Invitalia, la cui fattibilità è tutta da verificare, è piombato l’ennesima macigno. Una roba tutta fatta in casa, perché l’ordinanza che dispone lo spegnimento dell’area a caldo entro il 14 aprile, a cui il Tar ha dato il via libera la scorsa settimana, è stata firmata un anno fa dal sindaco piddino del capoluogo pugliese. Sindacati e Confindustria hanno già detto che se il provvedimento si applica l’acciaieria chiude. Per evitarlo, l’azienda ha presentato ieri un ricorso al Consiglio di Stato. Insomma, si torna alle carte bollate. Malgrado la situazione sia ampiamente compromessa, Giorgetti proverà a sbrigliare la matassa. Partendo dall’incontro di oggi con i sindacati. Anche se per evitare il peggio ci vorrà, probabilmente, qualcosa di più. «Quello che posso garantire», ha detto il leghista alle sigle, «è che io se parlo, faccio».</div></div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-90512099797955644462021-02-17T21:16:00.001+01:002021-03-09T17:48:47.402+01:00Gli italiani in banca hanno più soldi del Pil<div><div>C’è una ricchezza che non smette di crescere, ma non è, purtroppo, quella del Paese. Anzi. Più sale una, più scende l’altra. Sentite questi dati: il Pil nel 2020 è scivolato dell’8,8%, in valori assoluti poco più di 150 miliardi. Nello stesso periodo gli italiani hanno stipato nei propri conti correnti ben 181 miliardi in più. Vi sembra paradossale? Non è finita. Eh sì, perché scorrendo il bollettino mensile diffuso ieri dall’Abi si scopre che il totale dei depositi di famiglie e imprese è arrivato a quota 1.744 miliardi. Una cifra che equivale al pil registrato dall’Italia nel 2019 e supera di gran lunga quello dello scorso anno.</div><div>Insomma, gli italiani hanno in banca una quantità di quattrini che supera quella creata in un anno dall’intero Paese. </div><div><br /></div><div><span><a name='more'></a></span>Un bene, un male? Dipende dal lato da cui si guarda. Da una parte il fatto che i frati siano ricchi malgrado il convento sia povero è la salvezza della nostra società. Le crisi economiche vissute dall’Italia negli ultimi decenni, a partire da quella del 2008, hanno aggredito in maniera così violenta i redditi che solo grazie al molto fieno in cascina le famiglie sono riuscite ad andare avanti, intaccando il proprio patrimonio. Del resto, anche la Costituzione riconosce il valore dei soldi sotto il materasso, sottolineando, all’articolo 47, che «la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme». Messa così, ci dovrebbe essere solo da rallegrarsi di quella percentuale di crescita dei depositi che a gennaio, secondo le rilevazioni dell’Abi, ha raggiunto la percentuale record dell’11,6%. Per avere un’idea, nello stesso mese dello scorso anno era al 5,5%. E in quello ancora prima del 2,7%.</div><div><br /></div><div><b>Crollo dei consumi</b></div><div>D’altra parte, la forbice che separa quelle cifre è un pezzo di economia che resta in un cassetto invece di alimentare fatturati e guadagni. Sarà un caso, però la percentuale del calo dei consumi registrata a dicembre da Confcommercio è assai simile a quella del balzo della propensione al risparmio, -11,1%. Ma nel complesso del 2020 il crollo degli acquisti è ancora più marcato, con una flessione del 14,7% cumulata che si traduce in un -30,3% per i servizi e in un -7,9% per i beni. Con queste premesse, hanno fatto notare dall’Ufficio studi dell’associazione, il governo si può anche scordare i target di crescita messi nero su bianco nei documenti di finanza pubblica, che parlano di un pil per l’anno in corso in rialzo del 6%. In effetti, solo qualche giorno fa la Ue ha previsto un misero incremento del 3,4% nel 2021 e del 3,5 nei dodici mesi successivi. Stima forse anche ottimistica se si considera che il oltre il 70% del valore aggiunto in Italia arriva dai servizi. </div><div>Per il governatore di Bankitalia la situazione italiana è il classico cane che non riesce a smettere di mordersi la coda. «Il risparmio delle famiglie, che costituisce la principale fonte di finanziamento per gli investimenti», ha detto di recente Ignazio Visco, «è stato storicamente un fattore di forza della nostra economia. Ma in una fase come quella attuale, dominata dall'incertezza e dalla debolezza della congiuntura, l'aumento della propensione al risparmio, se non si accompagna a un'adeguata ripresa degli investimenti e dell'attività produttiva, può causare una diminuzione della domanda aggregata e dei redditi, alimentando, a sua volta, una ulteriore crescita delle intenzioni di risparmio per motivi precauzionali e innescando, così, un circolo vizioso».</div><div><br /></div><div><b>Garbo istituzionale</b></div><div>In sintesi, la sequenza è grosso modo cosi: più soldi in banca, meno acquisti, meno entrate, ancora più soldi in banca, ancora meno acquisti e ancora meno entrate. E così via fino alla catastrofe.</div><div>Il garbo istituzionale ha spinto il banchiere centrale a restare nel campo dell’analisi socio-economica, ma è evidente che a spingere gli italiani a non spendere un quattrino non sono state solo la pandemia e la crisi economica. Un bel contributo è arrivato anche dalla gestione dell’emergenza da parte del governo: le chiusure a capocchia, le difficoltà del sistema sanitario, la mancanza dei dispositivi di protezione, i dispacci apocalittici dell’ex premier Giuseppe Conte e degli espertoni del Cts, il caos sulla campagna vaccinale. Tutti fattori che hanno diffuso il panico nella popolazione, scatenando comportamenti da fine del mondo.</div><div>Sul fronte della fiducia si pensava che molto potesse fare Mario Draghi. Autorevole, serio, silenzioso, stimato. Passati pochi giorni, però, il ministro della Salute Roberto Speranza ha deciso di chiudere improvvisamente le piste da sci a poche ore dalla riapertura annunciata un mese fa, il suo consigliere Walter Ricciardi ha invocato per la ventesima volta in pochi mesi la necessità di un lockdown totale, gli esperti del Comitato tecnico scientifico non fanno che parlare delle terribili varianti del virus che faranno balzare in un attimo una curva dei contagi che ora oscilla placida verso il basso.</div><div>Se continua così, neanche i 209 miliardi del Recovery fund saranno sufficienti a provocare un cambio di rotta. Invece di tornare a spendere gli italiani con i loro risparmi raggiungeranno il pil della Germania e poi quello degli Stati Uniti. Finché finiranno pure i soldi da mettere da parte. E allora, non resterà che fare il conto alla rovescia.</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-8107045486835761082021-02-15T19:28:00.002+01:002021-03-09T18:24:39.435+01:00Conte molto generoso, paga coi nostri soldi<div><div>Un tributo all’uomo, un omaggio al politico, il dolore per un prematuro distacco? Macché. A spiegare il caloroso applauso con cui i funzionari della presidenza del Consiglio hanno salutato Giuseppe Conte ci pensa la Cgil. Benefici medi, si legge in un recente comunicato del sindacato sul rinnovo contrattuale 2016-2018, per 126 euro per 13 mensilità, arretrati (a partire dal 2016) per 5.387 euro medi, ulteriori 146 euro medi al mese provenienti dagli stanziamenti in legge di bilancio, 43 euro medi al mese da ripartire con la contrattazione integrativa. La partita è ancora in corso per l’opposizione di tre sigle (Snaprecom, Sipre e Ugl), che stanno cercando di spillare qualche quattrino in più, ma è praticamente chiusa. E non è tutto, perché oltre all’aumento di stipendio (quello medio oggi si aggira sui 40mila euro) dei circa 2mila dipendenti è in fase avanzata anche il tavolo sul contratto dei 300 dirigenti (stipendi tra i 100 e i 200mila euro in base alla qualifica), che prevede un aumento medio di 331 euro che, sommando tutte le voci, può arrivare fino a 1.126 euro.</div><div><br /></div><div><b><span><a name='more'></a></span>A spese nostre</b></div><div>Insomma, di fronte a tali incrementi retributivi, e considerato che le paghe sono ferme da circa un decennio, chiunque si sarebbe spellato le mani per ringraziare il premier beneffatore (ovviamente a spese dei contribuenti). </div><div>Ma c’è dell’altro. Sentite cosa ha scritto l’Adnkronos il 20 ottobre del 1998: «Romano Prodi ringrazia e saluta i dipendenti di Palazzo Chigi, che rispondono con un applauso». </div><div>Un caso? Un privilegio dei professori che vanno al governo? Neanche per idea. Se vi fate un giro su youtube potete agevolmente assistere allo scroscio che ha segnato l’uscita di Paolo Gentiloni e a quello che ha accompagnato l’ultimo giorno in carica, il 22 febbraio 2014, di Enrico Letta (rimasto a Palazzo Chigi appena 9 mesi), con gli applausi partiti addirittura prima che la fanfara delle forze armate concludesse il suo stacchetto d’ordinanza e durati per qualche minuto.</div><div>E non si tratta di una prerogativa dei leader di sinistra. Già, persino il terribile Silvio Berlusconi fu acclamato dai dipendenti. Anche più degli altri. Il 17 novembre del 2011, infatti, qualche serioso ed austero funzionario della presidenza del Consiglio, tanto il coinvolgimento durante il commiato, si è anche azzardato a lanciare qualche «bravo!» all’indirizzo del Cavaliere.</div><div><br /></div><div>Insomma, tanta fuffa per niente. Il saluto dei dipendenti dalle finestre interne di Palazzo Chigi è da decenni una consuetudine. Qualcuno becca più applausi, altri meno. Ma non c’è un premier che abbia lasciato l’edificio seguito da fischi o da imbarazzanti silenzi. L’unica vera novità dell’addio di Conte sono, probabilmente, le lacrime di Rocco Casalino. La disperazione del portavoce, quella sì, ci mancava. Qualcuno, malizioso, sostiene che il pianto sia dovuto al pensiero dei suoi 170mila euro l’anno che prendono il volo. Altri che sia stata solo una scenetta orchestrata ad arte per rubare la scena all’ex capo del governo e tirare la volata alla sua autobiografia da pochi giorni nelle librerie. Ma, ovviamente, si tratta solo di malignità senza alcun fondamento. Prima di andare via, comunque, il giornalista grillino non ha potuto fare a meno di piazzare un’ultima bufala: «L’applauso che il Palazzo ha tributato a Conte è stato sentito, lungo, credo senza precedenti»</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-58609268171870948332021-02-13T21:47:00.002+01:002021-03-09T18:25:24.868+01:00La sinistra conferma i peggiori e fa entrare i vice-peggiori<div><div>Quattro ministri. Tre conferme e un nuovo ingresso. È questo il bottino portato a casa dalla sinistra allargata (Pd più Leu) nel nuovo governo guidato da Mario Draghi. La prima cosa che balza agli occhi, considerato che l’area di appartenenza è quella da cui quotidianamente arrivarno rimbrotti e sermoni sulla parità di genere, è che di donne neanche l’ombra. E questo porta subito alla questione successiva: perché le riconferme di Roberto Speranza alla Sanità e di Dario Franceschini alla Cultura? </div><div>Difficile dire se le scelte siano state orientate da quell’esigenza di continuità auspicata dal Capo dello Stato o da precise richieste dei partiti. Verrebbe da escludere, così a intuito, che sia stato il lavoro svolto finora dai due a convincere Mario Draghi. Intendiamoci, fare il ministro della Sanità quando scoppia una pandemia non è una passeggiata. Resta il fatto che la debolezza della risposta sanitaria al morbo è stato forse il principale problema con cui cui il Paese si è dovuto confrontare nell’ultimo anno. E l’idea di premiare chi doveva fare e non ha fatto, come l’esponente di Leu, risulta un po’ bizzarra.</div><div><br /></div><div><b><span><a name='more'></a></span>Chiudere tutto</b></div><div>Stesso discorso per Franceschini. Il capo delegazione del Pd, partito di cui è stato anche segretario tra Veltroni e Bersani, è stato alla guida dei Beni culturali a lungo con i governi Renzi, Gentiloni e Conte bis. Impalpabile il suo apporto. Tranne per la trovata di affidare i nostri musei a dei bravissimi direttori che però non parlano neanche l’italiano e alla recentissima iniziativa, di cui nessuno sa più nulla, di creare una Netflix della cultura. L’unica strategia di Franceschini durante la pandemia è stata la stessa dell’intero governo: chiudere tutto. Quanto al turismo, settore finito in stato catatonico per colpa dei vari lockdown, la mossa di Draghi la dice lunga. Pur di non lasciarlo ancora nelle sue mani ha creato un nuovo ministero ad hoc.</div><div>La terza conferma è forse quella meno incomprensibile. Lorenzo Guerini, politico di lungo corso cresciuto alla scuola democristiana e poi transitato nel Pd, è uno che i problemi li affronta e li risolve, senza troppo clamore. Compito che aveva svolto egregiamente quando Matteo Renzi (che non ha seguito in Italia Viva) gli assegnò il compito di stemperare le tensioni nel partito nella fase più litigiosa della storia Dem. Nell’ultimo anno, pur non stando troppo sotto i riflettori, ha fornito l’ossatura della risposta delle istituzioni all’emergenza, mettendo a disposizione del Paese la macchina logistica della Difesa, con uno straordinario dispiegamento di mezzi e risorse umane, fino al coinvolgimento nella campagna vaccinale.</div><div><br /></div><div><b>Il volto nuovo</b></div><div>E poi c’è il volto nuovo. Quello a cui Draghi si è guardato bene dall’affidare la delicatissima partita della Giustizia (sarà mica un giudizio sugli anni passati a capo del dicastero?), pur cedendo alla richiesta di Nicola Zingaretti di affidare al suo vice un ministero pesante. Andrea Orlando, numero due del Pd, ex Guardasigilli ed ex ministro dell’Ambiente, guiderà il Lavoro. Certo, dopo la grillina Nunzia Catalfo fare bella figura non è difficile. Ma con tutte le pressioni a cui nei prossimi mesi sarà sottoposto il settore, con lo sblocco dei licenziamenti in vista e milioni di lavoratori in Cig, siamo sicuri non si poteva trovare di meglio? Orlando l’unico lavoro che conosce bene è quello di far carriera nel partito, che frequenta da quando ha i pantaloni corti e che ha scalato senza soluzione di continuità, dagli incarichi nella federazione giovanile, a quelli territoriali, fino a quelli nazionali.</div><div>«Ora riprendiamo il cammino», ha detto Zingaretti. Proprio quello che non dovevamo fare. Epperò qualche buona notizia c’è. Gualtieri, De Micheli, Amendola, Provenzano e Boccia da oggi faranno altro.</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-42551870637194068152021-02-13T19:55:00.001+01:002021-03-09T17:57:54.557+01:00Il Bitcoin vale sempre di più<div><div>Il Bitcoin non si ferma più. Ogni giorno nuovi record (ieri ha toccato i 49mila dollari) e, soprattutto, nuovi sponsor. Dopo il super acquisto da 1,5 miliardi di Tesla, le voci di un interesse da parte di Apple, l’apertura di Mastercard (che si aggiunge a Visa e Paypal) e il sostegno della banca più antica degli Stati Uniti, la Bank of New York Mellon, che si è detta disposta ad accogliere depositi in criptovaluta, anche la politica inizia a muoversi. Andrew Yang, il candidato sindaco di New York, ha detto che se sarà eletto trasformerà la Grande Mela in un vero e proprio hub per il Bitcoin. Più concreta la promessa di Francis Suarez, che il sindaco lo fa già, a Miami. Il primo cittadino della famosa metropoli della Florida ha annunciato che autorizzerà il pagamento in Bitcoin delle tasse municipali e di una parte dello stipendio dei dipendenti.</div><div><br /></div><div><span><a name='more'></a></span>Siamo agli albori di una rivoluzione epocale del sistema monetario e di quello? È presto per dirlo. Il neosegretario al Tesoro Usa, Janet Yellen, che solo qualche anno fa era a capo della Federal reserve, considera la valuta digitale il nemico della finanza buona. «È solo un modo per riciclare il denaro sporco, finanziare il traffico di droga e gli acquisti di armi», ha detto senza mezzi termini qualche giorno fa, di fronte all’esplodere della Bitcoin-mania. E, seppure con toni diversi, anche l’Europa è diffidente. Non a caso la Bce continua a ripetere che è necessario creare al più presto una moneta virtuale ufficiale, legale e garantita.</div><div> Anche sotto il profilo dell’investimento ci sono molti dubbi. Certo, solo cinque anni fa la criptovaluta veleggiava intorno ai 400 euro ed ora punta addirittura ai 50mila. Si tratta di un incremento mostruoso del 12.400%. Per avere un’idea, chi nel 2016 ha investito 1.000 euro ora se ne ritrova in tasca 125mila. Eppure, esperti ed analisti sono guardinghi, sostengono che il titolo resta assai volatile e che può crollare con la stessa velocità con cui è salito. </div><div><br /></div><div>Staremo a vedere. Nel senso letterale del termine. Già, perché, partecipare attivamente alla grande festa della moneta virtuale dall’Italia non è semplicissimo. In Spagna basta andare al Carrefour per acquistare Bitcoin, in Francia si possono comprare dal tabaccaio e in Germania dallo scorso anno le banche possono maneggiare criptovaluta senza problemi. Da noi, se provate ad andare in un istituto di credito vi ridono dietro. Niente monete virtuali allo sportello. L’unica modalità “fisica” per procurarsi dei Bitcoin è affidata agli Atm sparsi per l’Italia. Si tratta di circa 30 apparecchi tipo bancomat, disseminati soprattutto nel Nord del Paese, in cui si possono trasformare euro in valuta virtuale e viceversa. </div><div>L’alternativa è un po’ da “smanettoni”. Semplificando, bisogna trovare il sito giusto (nessuna società italiana in circolazione), scaricare il necessario software sul pc, creare un portafoglio digitale, trasferire il denaro. Prima che gli italiani si impratichiscano, la bolla delle criptovalute sarà già scoppiata.</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-30004443022603100022021-02-11T21:36:00.002+01:002021-03-09T18:26:34.038+01:00Dovremo rimborsare la Ue fino al 2056<div><div>Di fronte a 672 miliardi è difficile storcere il naso. Sebbene dietro ci sia anche lo zampino di vicende nazionali, come quelle che hanno spinto la Lega a trasformare l’astensione in un sì, i numeri con cui il Parlamento europeo in seduta plenaria ha approvato il Recovery fund sono schiaccianti: 582 voti favorevoli, 40 contrari e 69 astensioni. Per render operativo il nuovo strumento bisognerà aspettare che si completi anche il percorso legislativo del Next Generation Eu, che tiene tutti i fondi del prossimo settennato. Mancano le ratifiche dei parlamenti nazionali, che dovrebbero essere completate entro marzo. In tempo affinché entro il 30 aprile i piani nazionali di Recovery possano essere inviati a Bruxelles per la valutazione. Ma arrivati a questo punto, nessuno si aspetta sorprese. Del resto, con le economie continentali alla canna del gas i quattrini fanno comodo. Investimenti, riforme, infrastrutture, cantieri, innovazione. Per la destinazione dei fondi c’è solo l’imbarazzo della scelta. Certo, la Ue metterà il becco su tutto, valuterà i piani, controllerà l’avanzamento della realizzazione, il raggiungimento degli obiettivi, l’efficienza degli interventi, però quando si tratta di spendere alla fine l’accordo si trova sempre.</div><div><br /></div><div><b><span><a name='more'></a></span>Fare in fretta</b></div><div>E poi non c’è il tempo di fare i pignoli. «Bisogna fare presto perché la pandemia sta accelerando tutto» quindi «non è il momento di rallentare», ha detto la presidente della Bce Christine Lagarde, ricordando che «è nell’interesse dei Paesi muoversi velocemente, dall’Italia alla Spagna alla Grecia». </div><div>Da noi sembrano tutti ansiosi di seguire il consiglio. Nella raffica di consultazioni che si sono tenute negli ultimi giorni, movimenti politici e parti sociali hanno sommerso Mario Draghi ogni tipo di richiesta, convinti che la mangiatoia questa volta sarà così ampia da garantire cibo per tutti.</div><div>La voglia di strafogarsi, insomma, non manca. Resta da capire come sarà la digestione. È già, perchè i soldi, malgrado quello che si continua a dire e credere, non sono affatto regalati. Una parte sono veri e propri prestiti, per cui c’è poco da discutere. Quanto agli altri, c’è poco da stare sereni. Le cosiddette sovvenzioni del Next Generation Eu (per l’Italia parliamo complessivamente di circa 81 miliardi) non sono in realtà finanziamenti a fondo perduto, ma anticipi prelevati dal bilancio Ue, che dovranno essere reintegrati. Nessuno sa con esattezza quale sarà il contributo in capo a ciascun Paese («una quantificazione precisa di tali oneri è di difficile quantificazione», ha detto di recente l’Ufficio parlamentare di bilancio), ma si sa con certezza quando. La partita, restituzione dei prestiti e reintegro delle sovvenzioni, dovrà essere chiusa al massimo entro il 2056.</div><div><br /></div><div>Ora, è anche possibile che con quei soldi l’Italia si avvii su un percorso di crescita che ci permetterà di saldare il debito senza problemi ben prima della scadenza. Ma se le cose andranno diversamente, e ieri il governatore di Bankitalia ha fatto intendere che non è un’ipotesi così peregrina («Draghi non ha la bacchetta magica», ha detto Ignazio Visco), allora la festa di ieri per l’approvazione del Recovery da parte del Parlamento Ue potrebbe essere fuori luogo. Il contratto che ci apprestiamo a firmare con la ratifica del pacchetto completo, infatti, ci vincolerà all’Europa per i prossimi 35 anni. Un periodo che ricorda quello dei mutui immobiliari più lunghi. Solo che in quel caso finché si paga la rata, la banca non ficca il naso negli affari di chi li sottoscrive. Mentre Bruxelles avrà gioco facile nell’imporci le misure ritenute più adeguate per rientrare dal nostro debito. L’austerity che il Covid ci ha fatto dimenticare, rischia di diventare per i prossimi 25 anni la nostra inseparabile compagna di viaggio.</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-72508525867040070832021-02-10T22:00:00.002+01:002021-03-09T18:27:24.220+01:00Con le chiusure a caso persi 100 miliardi di Pil<div><div>Gli indicatori economici continuano a sfornare numeri da brivido. Ieri l’Istat ci ha informato che il 2020 si è chiuso con un crollo della produzione dell’11,4% e che il lavoro ha perso 670mila posti.</div><div>Ma per quanto negativi possano essere questi dati statistici, sarebbe un errore pensare che i guai dell’Italia siano tutti lì. Certo, l’industria è andata male, anche se nel 2009, sull’onda lunga della crisi dei mutui subprime, andò anche peggio, con una flessione del 17,4%. Certo, l’occupazione ha subito un duro colpo, seppure la pioggia di ammortizzatori sociali abbia finora evitato il peggio. Epperò non è per questo che la nostra economia è andata a gambe all’aria. Come dice Confcommercio, «è il terziario il vero problema».</div><div><br /></div><div><span><a name='more'></a></span>E non si tratta di un problema solo per gli esercenti che sono alla canna del gas, bensì per l’intero Paese. Già, perché non tutti i settori produttivi contribuiscono alla formazione del pil allo stesso modo. L’industria, malgrado la sua importanza per la crescita italiana, ha un valore aggiunto di circa 315 miliardi, il 20% del pil, le costruzioni non vanno oltre i 70 (5%) e l’agricoltura si ferma a 30 (2%). Il principale motore dell’economia sono invece i servizi, che ogni anno contribuiscono al prodotto interno lordo con la bellezza di quasi 1.200 miliardi (74%).</div><div><br /></div><div><b>Doppio pasticcio</b></div><div>Vista da questa prospettiva, è possibile comprendere meglio quanto delicata fosse la partita delle misure restrittive anti Covid e, allo stesso tempo, quella del rafforzamento del nostro sistema sanitario. Due sfide perse. La prima ha provocato chiusure a tappeto delle attività commerciali e della ristorazione, blocco del turismo, congelamento di qualsiasi forma di svago e di divertimento. La seconda (oltre a favorire i lockdown con il collasso dei raprti ospedalieri) ha ingenerato un clima di incertezza e di sfiducia che ha soffocato la domanda, depresso i consumi e spinto i cittadini ad infilare ogni euro risparmiato in un conto corrente (ieri Bankitalia ha certificato un aumento record dei depositi a dicembre dell’11,1% rispetto allo scorso anno).</div><div>Il combinato disposto dei due pasticci ha provocato una crisi devastante di tutto il terziario. Le vendite di beni e servizi, secondo i dati raccolti da Confcommercio, sono precipitate complessivamente del 14,7%, con picchi negativi della ricreazione (-74,7%), della ristorazione e degli alberghi (-41,2%), delle automobili (-19%) e dell’abbigliamento (-23%).</div><div>Ed ecco il risultato in termini di entrate. In base agli ultimi dati disponibili dell’Istat, quelli relativi ai primi tre trimestri del 2020, i servizi hanno perso il 13,7% del loro fatturato, mentre la manifattura è scesa dell’11,5%.</div><div>Tenendo conto del diverso impatto sulla crescita è facile immaginare quale sarà il risultato sull’andamento dell’economia. Il primo è già stato certificato dall’Istat qualche settimana fa, quando è stato diffuso il dato sul pil del 2020, in flessione dell’8,9%. Si tratta, in termini reali, di circa 140 miliardi di valore aggiunto andati in fumo. </div><div><br /></div><div><b>Soldi buttati</b></div><div>Applicando le quote che abbiamo visto prima e considerando la maggiore flessione dei ricavi, possiamo calcolare, con un verosimile grado di approssimazione, che circa 100 miliardi di perdita sono attribuibili proprio al terziario, il settore strapazzato dai mille Dpcm di Giuseppe Conte, ingabbiato dalle ingarbugliate prescrizioni del Comitato tecnico scientifico, soffocato dal panico dei cittadini scatenato da un sistema sanitario non in grado di reggere l’urto della pandemia.</div><div>Intendiamoci, il virus ha la sua parte di colpa e il governo ha tentato di tamponare i danni con i ristori, la cassa integrazione e qualche sconto sulle tasse. Ma quando scopriamo, come è avvenuto poco fa con la Lombardia e ieri con la Puglia, che si sono disposte chiusure di intere regioni sulla base di dati errati, il dubbio che molti di quei miliardi persi potevano essere salvati viene.</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-3745663998004854202021-02-07T19:04:00.001+01:002021-03-09T18:11:34.915+01:00I posti più poveri della Ue? Sicilia e Campania<div><div>Forse neanche super Mario riuscirà nell’impresa. Per carità, i soldi che nei prossimi mesi l’ex capo della Bce dovrebbe avere a disposizione non sono pochi. Anzi, sono tantissimi. Al di là del saldo netto per l’Italia al termine dell’operazione Recovery, tutto da verificare, Draghi potrà maneggiare nel breve periodo più di 200 miliardi di euro. Una montagna di quattrini. Ma risollevare il Mezzogiorno dalla sua situazione di drammatico degrado è ormai qualcosa che attiene più alla fantascienza che all’economia. Le Regioni del Sud, infatti, non devono recuperare terreno solo nei confronti del resto d’Italia, ma dell’intero continente, che anche nelle aree più deboli e svantaggiare sembra viaggiare sempre a ritmi più elevati. </div><div><br /></div><div><span><a name='more'></a></span>L’ennesima cartella clinica sulla precaria salute del Meridioni è arrivata in questi giorni dall’Eurostat (l’istituto di statistica Ue), che ha aggiornato le tabelle sugli indici di povertà dell’Unione con i dati del 2019. Si tratta, fate attenzione, di rilevazioni pre Covid, il che significa, stando alle analisi realizzate in questi ultimi mesi dai centri studi specializzati, che nel 2020 potrà solo andare peggio. Ebbene, volete sapere quali sono le Regioni della Ue dove il disagio sociale è più diffuso generalizzato? Forse qualche piccola enclave dei balcani? Un territorio dimenticato dell’Europa dell’Est? Macché, la Sicilia e Campania. Eh sì, proprio loro. </div><div><br /></div><div><b>Congiuntura</b></div><div>Nel primo caso il rischio di povertà (coloro che hanno un reddito disponibile inferiore al 60% del reddito mediano nazionale) raggiunge il 41,4% della popolazione, nel secondo il 41,2. Un caso? Una congiuntura particolarmente sfortunata? Non proprio. Lo scorso anno in testa c’erano sempre loro, seppure a parti invertite. La Campania era al 41,4, mentre la Sicilia al 40,7. Ma il bello, o il brutto, è che le due Regioni del Mezzogiorno non si schiodano dalla vetta da anni. Nel 2010 stavano sempre là, sul podio europeo dei pezzenti. Ad insidare il triste primato, tanto per avere un’idea di come si snocciola la classifica, c’è il Nord-Est della Romania, terza, e subito dopo Ceuta e Melilla, due enclave spagnole in Marocco. Ma l’Italia del Sud è tutta ben rappresentata nella parte alta della lista (153 Regioni censite). </div><div>Al 12esimo posto c’è la Calabria (30,9%), al 13esimo la Puglia (30,4%), al 18esimo la Basilicata (27,1%) e il Molise (26,5%).</div><div>Le cose vanno ancora peggio se al rischio di povertà aggiungiamo anche l’esclusione sociale, che comprende chi vive in famiglie a bassa intensità di lavoro e chi ha problemi di deprivazione materiale. Campania e Sicilia sono sempre in testa, con rispettivamente il 49,7 e il 48,7%. Praticamente in queste Regioni una persona su due si trova in condizioni di profondo disagio. In questo elenco la Calabria sale all’ottavo posto (39,8%), il Molise all’11esimo (38,1%) e la Puglia (37,4%). Solo la Basilicata se la cava un po’ meglio, scendendo al 25esimo posto (34,7%). Per un termine di confronto è utile ricordare che la media europea si attesta al 20,8%. </div><div><br /></div><div><b>Reddito di cittadinanza</b></div><div>Malgrado il disastro c’è chi, come Pasquale Tridico, ieri ha avuto il coraggio di festeggiare. In effetti, a livello complessivo l’Italia ha fatto registrare una leggera diminuzione dal 27,3% del 2018 al 25,6%. Ed impercettibili passi indietro li hanno fatti anche alcune delle Regioni che svettano tra le peggiori di Europa. Tanto è bastato a Pasquale Tridico per rivendicare il ruolo fondamentale giocato dal reddito di cittadinanza, che avrebbe favorito il calo nel 2019 e, soprattutto, evitato lo sfacelo nel 2020, quando a colpire i redditi più bassi ci si è messo pure il Covid.</div><div>Pandemia a parte, dove gli schemi sono ovviamente saltati, sostenere che la paghetta grillina sia la soluzione al problema appare quanto meno azzardato. Anzi, è proprio quel 2019 celebrato da Tridico a decretarne il fallimento. Malgrado i 7 miliardi spesi, di cui oltre il 60% andato al Sud, la Sicilia ha incrementato il rischio di povertà, la Campania, regina del reddito, è scesa solo di uno 0,2%. La Calabria dell’1,8 , mentre la Puglia ha addirittura incrementato la percentuale, passando dal 26,8 al 30,4. Risultati leggermente migliori si sono avuti sul fronte dell’inclusione sociale. Ma se questo è il metodo per riacciuffare i livelli europei, non basteranno 10 generazioni ad ottenere lo scopo.</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-40498359740714539322021-02-04T21:48:00.002+01:002021-03-09T18:27:45.165+01:00Finiscono commissariati per mafia i traghetti siciliani finanziati da noi<div><div>Per carità, il capo della Dda di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, ha tenuto a sottolineare che la Caronte & Tourist è «terza rispetto ai soggetti pericolosi» e che l’amministrazione giudiziaria disposta «è svolta, anche nell’interesse della stessa società», per consentirle di fare «una bonifica». </div><div>Sta di fatto, però, che in Italia raramente si era visto un provvedimento del genere. La misura, eseguita dalla Dia, della durata di sei mesi, fa seguito ad indagini che avrebbero fatto emergere, anche grazie alle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia, tanto la permeabilità della compagnia rispetto ad infiltrazioni della 'ndrangheta, quanto l’agevolazione garantita dalla società in favore di soggetti ritenuti esponenti della cosca di ’ndrangheta Imerti-Condello di Reggio Calabria come Massimo Buda e Domenico Passalacqua, già condannato in via definitiva per associazione mafiosa nel processo Meta.</div><div><br /></div><div><b><span><a name='more'></a></span>Tentacoli</b> </div><div>Entrambi dipendenti di Caronte & Tourist, Passalacqua e Buda avrebbero operato come portatori di interessi della ’ndrangheta. Attraverso imprese a loro riconducibili, infatti, la cosca avrebbe allungato i propri tentacoli gestendo servizi all’interno delle navi che fanno la spola 24 ore su 24 tra le coste siciliana e calabrese. Per farla breve, gli affiliati gestivano i servizi di ristorazione a bordo, la pulizia, la disinfestazione e, se capitava, avevano anche la possibilità di assumere personale a cui veniva garantito lo stipendio anche in caso di latitanza o detenzione.</div><div>A pagare, in qualche modo, ci siamo anche noi. Già, perché la Caronte & Tourist non è una piccola azienda di scarso rilievo. Oltre al servizio sullo stretto di Messina, insieme alla Liberty Lines, compagnia coinvolta in un’altra mega inchiesta (Mare Monstrum) che ha travolto pure l’ex governatore Rosario Crocetta e collegata indirettamente, attraverso una società maltese di brokeraggio, al gruppo Grimaldi, detiene il monopolio dei collegamenti tra la Sicilia e le isole minori. Un business che oltre ad essere redditizio di per sé, è anche generosamente foraggiato dalla collettività. Le due aziende, una usa gli aliscafi l’altra i traghetti, ricevono oltre 55 milioni di euro all’anno di sovvenzioni statali. E solo qualche mese fa la Regione Sicilia ha deciso di prorogare fino a dicembre 2021 un contributo per i servizi aggiuntivi di circa 63 milioni di euro l’anno.</div><div><br /></div><div><b>Proroga</b></div><div>Intendiamoci, da quasi un anno il Covid ha fatto saltare tutti gli schemi. E le compagnie dallo scorso marzo hanno subìto, come tante altre società di trasporti, marittimi e non, pesantissime riduzioni del fatturato. Ciò non toglie che i 118 milioni che ogni anno entrano nelle casse delle due società siano soldi dei contribuenti. E che, a quanto pare, una parte di quei quattrini sono anche finiti nelle tasche della criminalità organizzata.</div><div>L’aggravante è che non è la prima volta. La Caronte & Tourist è infatti stata investita da una bifera giudiziaria pure nel 2019, quando finirono in manette tutti i vertici con l’accusa di turbativa d’asta, falso in atto pubblico, truffa aggravata e peculato. E in passato alcuni guai con la giustizia li ha avuti anche Amedeo Matacena junior, figlio del fondatore di Caronte ed ex parlamentare di Forza Italia, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa.</div><div>Roba vecchia, certo, che è anche inutile rivangare. Ma l’inchiesta Scilla e Cariddi della Dda di Reggo Calabria è di ieri. E i soldi dei contribuenti sono quelli che, nei prossimi mesi, dovranno essere usati per far ripartire l’Italia. Sprecarli sarebbe un delitto.</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-55057398839360678992021-02-03T23:31:00.002+01:002021-03-09T18:28:06.255+01:00Giuseppe se ne torna a casa e ci lascia il conto da pagare<div><div>Spiace per le conferenze stampa del sabato sera, che offrivano una eccentrica alternativa alla De Filippi, e per i mille Dpcm, sempre pieni di azzardi lessicali ed acrobatiche disposizioni normative, ma è difficile pensare che qualcuno rimpiangerà davvero Giuseppe Conte. Intendiamoci, le incognite legate alla crisi di governo sono ancora tante. Bisognerà vagliare la reazione di Mario Draghi e il suo coraggio nel prendere un testimone che somiglia ad un candelotto di dinamite. Forse spunteranno all'orizzonte altre soluzioni. Però un punto fermo sembra esserci: l'avvocato del popolo arrivato da Volturara Appula per incarnare il damerino della provvidenza, il premier per tutte le stagioni, concavo e convesso, sovranista ed europeista, repubblicano e democratico, politico e antipolitico, dopo quasi mille giorni dovrà decidersi a mollare la sua poltrona.</div><div><br /></div><div><b><span><a name='more'></a></span>Al posto mio</b></div><div>Ed allora, forse, sarà più facile ragionare su quello che ci ha lasciato. Certo, eravamo tutti impreparati. «Lei al mio posto cosa avrebbe fatto?», ha spesso risposto a chi gli ha fatto domande poco gradite. L’imprevedibilità del cataclisma è stato il tormentone di questi mesi, l’alibi incrollabile, lo scudo impenetrabile per giustificare qualsiasi fesseria sia stata fatta.</div><div>Ma la scusa non può durare all'infinito, non può assolvere da tutti i peccati. E il premier di errori ne ha fatti a bizzeffe. Altri sarebbero stati peggio? Può essere. Noi, però, abbiamo visto solo lui. </div><div>Lui che ci diceva che la mascherina non era importante solo perché non c'erano, che assicurava che nessuno sarebbe rimasto indietro, tranne mezzo milione di disoccupati, che prometteva la cassa integrazione lampo a chi la sta ancora aspettando, che affidava l’emergenza nelle mani di un commissario che è inciampato sui dispositivi di protezione, sui banchi di scuola, sulle siringhe e sui vaccini, lui che lo scorso luglio prometteva di stilare in pochi giorni un Recovery plan che è ancora poco più di una bozza.</div><div>Per carità, non sappiamo con certezza come sarebbe andata con qualcun altro al comando. Ma ce n’è davvero bisogno? Piaccia o no Conte, il suo ciuffo fonato, i suoi abiti eleganti, il suo linguaggio forbito e la sua voce roca, i fatti parlano di un Paese che ha chiuso il 2020 praticamente in fondo a tutte le classifiche mondiali. Abbiamo avuto più morti degli altri, abbiamo chiuso più di tutti la scuola, la disoccupazione non è da record solo grazie a Cig e blocco dei licenziamenti che prima o poi bisognerà interrompere, il nostro debito si avvia verso il 170% del prodotto interno lordo e il pil, certificato ieri dall’Istat a -8,8%, è uno dei peggiori d’Europa. </div><div><br /></div><div><b>Niente ristori</b></div><div>Poi ci sono i ristori che non arrivano, le categorie abbandonate, i trasporti che non sono in sicurezza, milioni di studenti che non possono rientrare in classe. E, infine, il vaccino. Già, l’antidoto, l’unica via di fuga concreta, il modo per lasciarsi tutto alle spalle e iniziare a dimenticarsi questo inferno che ha spazzato via la vita di 90mila persone e ha rovinato quella di chi è sopravvissuto. Ebbene, ancora stiamo cercando di capire di chi sia esattamente la colpa, ma una cosa è certa: saremo il Paese che completerà per ultimo il piano vaccinale. Delle due l’una: o il governo si è fatto prendere completamente per il naso o ha compiuto pesanti errori. In entrambi i casi non qualcosa di cui vantarsi.</div><div>Ora che Conte sloggerà da Palazzo Chigi potremo finalmente vedere cosa succederà con un altro capitano, che accadrà con un’altra guida. Siamo pronti a ricrederci, ma la sensazione è che fare meglio non sarà difficile.</div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-90548101023076690652021-02-02T21:59:00.002+01:002021-03-09T18:21:51.691+01:00Levano i divieti e accusano chi osa uscire<div><div>Quando i contagi sono alti non si può uscire. Quando sono bassi neanche. La logica è curiosa, ma è così che funzionano le regole italiane per il distanziamento sociale: devono essere rispettate anche quando non ci sono. Solo in questo modo si spiega il solito coro di reprimende ed anatemi esploso nel fine settimana, e proseguito ieri, contro la gente che si è riversata nelle strade per assaporare un po’ di libertà in occasione del ritorno alla zona gialla di molte regioni. </div><div><br /></div><div><span><a name='more'></a></span>Neanche il tempo di fare due passi ed ecco che foto e video incriminati rimbalzano sui social, vengono presi dai siti di informazione e finiscono, com’è inevitabile, su giornali e tg. Per carità, i soliti idioti che circolano in gruppo senza mascherina pensando che il virus sia una cosa che non li riguarda ci sono. Ma la stragrande maggioranza delle persone immortalate non sta facendo nulla di male (tanto più che in zona arancione i negozi sono aperti e si può fare shopping) e non ha alcuna colpa, se non quella di aver avuto la stessa idea di molti altri concittadini e di essere scesa in strada sull’entusiasmo della riapertura annunciata di bar, ristoranti e locali, circostanza che, tuttavia, ancora non sembra essere sanzionata da alcun Dpcm.</div><div>Epperò qualcosa che non va c’è. Intanto, la zona gialla è stata sì deliberata venerdì, ma è scattata, a rigor di ordinanza, solo ieri. Non lo sapevate? Pensavate che se il Comitato tecnico scientifico giudica positivi gli indicatori significa che lo sono da subito e non dopo due giorni?</div><div>Beh, eravate nel torto e nulla giustifica le vostra ignoranza o le vostre erronee presunzioni. Ma la vera questione è un’altra: se il ministro della Salute Roberto Speranza, tra un pasticcio sui dati e l’altro, toglie i divieti, guai a mettere il naso fuori casa. Se vi azzardate a farlo rischiate non solo, come ha minacciato subito il commissario Domenico Arcuri, di far tornare i divieti (cosa che a questo punto non fa molta differenza) ma addirittura, come ha detto senza giri di parole il virologo Fabrizio Pregliasco, di far arrivare una terribile terza ondata.</div><div><br /></div><div><b>La rovina del Paese </b></div><div>Capito? Se i contagi risalgono e la pandemia miete vittime non è colpa del governo che non ha rafforzato per tempo il sistema sanitario, che si è fatto prendere per il naso dalle società farmaceutiche sui vaccini, che non ha il personale e le strutture per portare avanti la campagna di somministrazione dell’antidoto, ma di chi se ne va in giro quando gli esperti di Speranza dicono che può farlo.</div><div>La storia non è nuova e si è incredibilmente ripetuta anche questa volta. Non appena si allentano i divieti scatta la caccia al cittadino inadempiente, a quello che gira con la mascherina sotto il naso, che non ha salutato col gomito o che decide di fare shopping alle 5 del pomeriggio invece che alle 8 del mattino. È lui la rovina di questo Paese, che rende inutili gli sforzi della politica. «È una sconfitta della società», ha spiegato la sottosegretaria alla Salute, Sandra Zampa. «È colpa dei sindaci che non controllano», ha accusato il coordinatore del Cts, Agostino Miozzo. E l’isteria collettiva coinvolge pure i governatori che hanno subito sulla loro pelle le follie degli assurdi algoritmi del governo per mettere i territori in quarantena. Tutti invitano i cittadini ad essere più responsabili. Poi vai a guardare i dati e si scopre che gli italiani pizzicati a trasgredire hanno percentuali da prefissi telefonici, che la maggior parte dei contagi avviene in casa, non fuori, che i focolai non esplodono nei ristoranti. Ma non importa. Ciò che conta è costruirsi un alibi. Se le cose vanno male è colpa nostra, se vanno bene, inutile dirlo, è merito loro. </div></div><div><br /></div><a href="http://www.liberoquotidiano.it">© Libero</a>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-38740750877584970682020-02-13T21:21:00.008+01:002021-03-06T19:29:51.691+01:00Il governo amico della Ue ingoia il riso cambogianoRiso amaro. La battuta è scontata, ma calzante. Perché dietro la decisione della Ue di escludere il cereale italiano dall’inasprimento dei dazi europei nei confronti della Cambogia non c’è solo l’ennesimo sgambetto di Bruxelles, a cui siamo abituati da tempo, ma c’è anche la beffa che a ricevere la fregatura è il governo che la scorsa estate si era presentato come l’esecutivo che nei palazzi dell’euroburocrazia si muoveva meglio che a casa propria, la maggioranza con cui la Ue non vedeva l’ora di dialogare dopo gli attriti e i duelli con quel bruto di Matteo Salvini.<div><br />
<span><a name='more'></a></span>Ricordate Roberto Gualtieri, che prima di insediarsi a Via XX Settembre si vantava di essere considerato uno degli esponenti più influenti dell’Europarlamento? Ricordate le sviolinate della Commissione Ue, le grandi aspettative verso la nostra quinta colonna Paolo Gentiloni, autorevole guardiano degli interessi italiani nelle decisioni politiche del Vecchio Continente?<br />
Ebbene, giunti al dunque, la fregatura è arrivata lo stesso. E non a sorpresa, ma contro le esplicite richieste del governo che, sotto il pressing di Lega e Coldiretti, di cui <CF2711>Libero</CF> ha ampiamente dato notizia nei giorni scorsi, solo qualche giorno fa aveva scritto direttamente al commissario al Commercio Phil Hogan per evitare scherzi. «Come sai», aveva scritto la ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, «verrà sottoposta all’attenzione del collegio dei commissari la proposta con la quale la Commissione intende avviare la procedura di ritiro temporaneo delle preferenze tariffarie accordate alla Cambogia. Ma nella lista dei prodotti non compare il riso». Una “dimenticanza” che rischia di costare all’Italia oltre 150 milioni l’anno per l’invasione di cereali cambogiani a prezzi stracciati. Insomma, aggiungeva la Bellanova, «dalla scelta dipende il futuro della risicoltura europea e italiana in particolare (che vale il 50% di tutta quella Ue)».</div><div><br />
Tutto a posto? Macché. La revoca (che scatterà ad agosto) delle tariffe agevolate per le violazioni gravi e sistematiche dei principi e dei diritti umani in Cambogia varata ieri comprende decine di prodotti, ma non il riso. Per la Commissione europea «si tratta di una decisione equilibrata e calibrata» per non danneggiare eccessivamente la popolazione cambogiana. Anche perché il riso «sta beneficiando dal 2019, e per tre anni, della clausola di salvaguardia europea».<br />
Vero. Peccato, come spiega il presidente nazionale di Ente Risi, Paolo Carrà, che la clausola sia applicata solo al riso Indica lavorato, mentre la Cambogia sta esportando anche tonnellate di Japonica (pregiato riso per risotti) e di semigreggio Indica. Senza contare che davanti ai giudici europei pende la richiesta del governo cambogiano di annullare la salvaguardia voluta da Roma.<br />
E non è tutto. Sempre ieri, infatti, è stato dato il via libera definitivo all’accordo di libero scambio tra Ue e Vietnam che comporterà l’ingresso a dazio zero di 80 mila tonnellate. Il combinato disposto spezzerà le gambe alla produzione nostrana. A partire da quella degli agricoltori lombardi, da cui arriva il 42% del riso italiano, e di quelli piemontesi. Di qui la furia dei governatori Attilio Fontana e Alberto Cirio. Ma a protestare ci sono un po’ tutti. Dalla Lega a Fdi, dalla Cia a Confagricoltura fino a Coldiretti. Persino Luigi Di Maio si è mosso per denunciare il torto. Gli unici a restare in silenzio sono quelli del Pd, amici fedeli dell’Europa che ci prende a ceffoni.<br />
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<a href="http://www.liberoquotidiano.it/">© Libero</a></div>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-19335327825197403092020-02-12T22:04:00.012+01:002021-03-06T19:26:21.917+01:00Banche e agenti del fisco ci lasciano senza tetto. Boom di pignoramentiDa anni si parla di leggi a protezione delle proprietà immobiliari di chi è temporaneamente in difficoltà, di norme sul fallimenti personali, sull’esdebitazione, sulla tutela della prima casa. I Cinquestelle avevano addirittura chiamato a Palazzo Chigi Sergio Bramini, l’imprenditore che si era visto pignorare l’abitazione per alcuni debiti non saldati malgrado i suoi crediti vantati verso la pubblica amministrazione, il simbolo della protesta contro le vessazioni del fisco e l’inflessibilità delle banche.<br />
Annunci, promesse e norme non sono, però, serviti a molto. Gli istituti di credito (ancora alle prese con montagne di sofferenze) e gli agenti della riscossione (pressati dall’inesauribile fame di incassi tributari dei governi) hanno proseguito senza cedimenti il loro assedio a famiglie e imprese in difficoltà finanziarie per rientrare in possesso del dovuto.<br />
E quando l’economia si ferma, la crescita arranca e i balzelli aumentano, il numero delle vittime, inevitabilmente, lievita. Come dimostrano i dati sfornati ieri dal Centro studi di Sogeea, che nel suo consueto rapporto semestrale sulle aste immobiliari ha fotografato il dramma di migliaia di italiani che hanno dovuto abbandonare la propria casa.<br /><br /><div>
<span><a name='more'></a></span><b>Classe media<br /></b>Al 31 dicembre 2019 sono state rilevate 23.904 aste immobiliari dovute al pignoramenti di edifici (escludendo i terreni e altre tipologie di proprietà) per un valore complessivo di 3,5 miliardi. Si tratta del 25% in più rispetto allo scorso anno. Un incremento che segue quello del 21% già registrato nel primo semestre dello scorso anno. Nell’elenco ci sono anche immobili di pregio, come lo storico cinema Adriano di Roma, l’Hotel Daniel’s di Via Frattina, sempre nella Capitale, il Castello di Ozegna a Torino, Villa Odescalchi a Como. Ma il grosso dei beni tolti dai tribunali ai precedenti proprietari è di tipo residenziale (23.710) di taglio assai più modesto. Il 67% delle case messe in vendita tramite asta ha un prezzo inferiore ai 100mila euro, percentuale che sale fino all’88% se si prendono in esame anche gli immobili il cui prezzo è compreso tra 100mila e 200mila euro. A fare le spese della crisi e a subire i pignoramenti, insomma, è principalmente la classe medio-bassa.<br /><br /></div><div>
«Troppo spesso», spiega Sandro Simoncini, docente di urbanistica e di economia delle imprese all’università Uninettuno e direttore scientifico del Centro Studi, «quando parliamo di case all’asta ci si dimentica la storia dolorosa di quell’immobile. Chi compra oggi non la fa semplicemente per investire i suoi soldi, ma per realizzare un progetto di vita. Lo stesso progetto che per qualcun altro, purtroppo, è naufragato in un fallimento. Per questo sarebbe opportuno creare un fondo di salvaguardia che possa aiutare un imprenditore o un proprietario a conservare il proprio immobile».<br />
Dal punto di vista territoriale, più della metà degli immobili residenziali in vendita (13.152 unità) si concentra nel Nord del Paese. A guidare la classifica, infatti, c’è la Lombardia (3.343). A seguire ci sono la Sicilia (2.720), il Lazio (2.565 immobili), il Veneto (2.265) e la Toscana (2.151). Sopra quota 1.500 immobili anche il Piemonte (1702) e la Campania (1.610). A livello di province, invece, spiccano le 1.443 case all’asta di Roma. Seguono Vicenza (944), Catania (846) e Bergamo (800).<br />
Sul versante turistico ricettivo, invece, le strutture all’asta sono 194. Firenze e Trento sono le città con più alberghi in vendita (13); seguono Grosseto (10) e Pistoia (8).<br />
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<a href="http://www.liberoquotidiano.it/">© Libero</a></div>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-20460955589858864892020-02-11T22:05:00.018+01:002021-03-06T19:08:08.359+01:00Il governo si accorge del virusIl coronavirus è sbarcato a Palazzo Chigi. Nessun contagio, per carità. È solo che il governo, ad un mese dalla prima vittima in Cina e a dieci giorni dai casi accertati in Italia e dall’allarme globale lanciato dall’Organizzazione mondiale della sanità dopo l’esplosione di focolai in ogni angolo del pianeta, si è finalmente accorto che l’epidemia è una roba seria. Un’emergenza che non si risolve abbracciando bambini cinesi o facendosi selfie a tavola con due involtini primavera e qualche raviolo al vapore, ma prendendo provvedimenti urgenti e valutando attentamente i rischi, sia quelli relativi alla salute sia quelli legati alle ricadute economiche per le nostre imprese.<br /><br /><div>
<span><a name='more'></a></span>Nulla di tutto questo, ovviamente, è uscito dal vertice presieduto dal premier Giuseppe Conte con i titolari dei ministeri maggiormente coinvolti e il capo della Protezione civile. Sul fronte sanitario l’esecutivo ha annunciato che «continuerà a perseguire una linea di massima precauzione con l’obiettivo di assicurare la tutela della salute di tutti i cittadini». Su quello economico è stata invece avviata «un’istruttoria per l’adozione di misure di contenimento degli effetti negativi dell’emergenza sul sistema produttivo». Buoni propositi a cui si sono aggiunti quelli del ministro dello Sviluppo, Stefano Patuanelli (non invitato al vertice), che ha promesso per giovedì un pacchetto di proposte per aiutare le imprese.<br /><b><br />
</b></div><div><b>Pasticci e acqua fresca</b><br />La realtà è che, ad oggi, al di là delle chiacchiere e degli appelli alla solidarietà e alla non discriminazione della comunità cinese, gli unici provvedimenti decisi dal governo sono il blocco dei voli diretti dalla Cina (siamo l’unico Paese Ue ad averlo disposto), che ha fatto infuriare Pechino, sta mettendo in ginocchio il nostro settore turistico e non ha impedito che soggetti a rischio (come i turisti di Taiwan risultati positivi al virus) continuassero a scorrazzare indisturbati per la nostra Penisola, e la quarantena “volontaria” per gli studenti rientrati dalle zone colpite, brutta e inutile copia (tra l’altro la circolare ministeriale destinata alle famiglie non è neanche tradotta in mandarino) della proposta fatta la scorsa settimana, tra gli insulti della maggioranza giallorossa, da alcuni governatori leghisti del Nord.<br />
Insomma, un pasticcio e un po’ di acqua fresca. Passi per la seconda, ma il primo potrebbe provocare danni non trascurabili. Sotto il profilo diplomatico la tensione è altissima. Il ministero degli Esteri cinese ha reiterato il suo appello a evitare «misure eccessive» e ha ammonito l’Italia a «valutare la situazione in modo obiettivo» e a «rispettare le raccomandazioni autorevoli e professionali dell’Organizzazione mondiale della sanità». Parole che non preannunciano nulla di buono per i rapporti con uno dei nostri principali partner commerciali (l’interscambio nel 2018 ha sfiorato i 45 miliardi di euro) e che stanno agitando non poco il mondo imprenditoriale italiano. Per nulla contento dell’azione del governo è anche il governatore del Veneto Luca Zaia, che ha definito il coronavirus un secondo cataclisma per Venezia dopo l’alluvione: «Il blocco degli aerei e tutto quello che ne deriva deprime ancora di più gli arrivi, spero che si torni presto alla normalità e che si intervenga dal punto di vista finanziario per sostenere l’industria del turismo».<br /><b><br />
</b></div><div><b>Dal papeete all’epidemia</b><br />Ma non è finita. All’inadeguatezza con cui il governo si è attivato per fronteggiare l’emergenza si aggiunge ora la grande beffa del fattore imprevedibile che giustifica qualunque fallimento. Ad indicare la strada è stato ieri Roberto Gualtieri. Dopo aver promesso forme di sostegno all’export delle aziende penalizzate dal coronavirus, in che modo ancora non si sa, il ministro dell’Economia ha reagito al brusco crollo della produzione industriale registrato dall’Istat a dicembre spiegando che il peggio sarebbe alle spalle se non ci fosse stata l’esplosione dell’epidemia. «Il 2020», ha detto, «è iniziato con un significativo miglioramento a gennaio anche se il trend potrebbe interrompersi in febbraio, a causa del coronavirus».<br />
Insomma, se le cose nei prossimi mesi andranno male non sarà per le tasse introdotte dal governo, per l’assenza nella manovra di qualsiasi stimolo allo sviluppo, per i 150 tavoli di crisi che non si riescono a risolvere, per il disastro dell’Ilva e il mancato salvataggio dell’Alitalia. Tutt’altro. La colpa sarà dell’epidemia, che sta azzoppando la grande ripresa messa in moto dal Conte bis e costringerà l’esecutivo ad un’altra bella finanziaria emergenziale. Insomma, si passerà dal conto del Papeete a quello del coronavirus.<br />
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<a href="http://www.liberoquotidiano.it/">© Libero</a></div>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-17591308115209934962020-01-31T22:05:00.014+01:002021-03-06T19:04:59.928+01:00Un italiano su due tifa per chi evade le tasseI benpensanti e i moralisti da salotto faranno un salto sulla sedia, i dispensatori di etica un tanto al chilo urleranno la propria indignazione. Piaccia o no, dovranno farsene una ragione: gli italiani tifano per gli evasori. Altro che manette e punizioni esemplari. Altro che pagare tutti per pagare meno. Altro che scontrini e fatture elettroniche. Oltre la metà dei nostri connazionali ritiene che le tasse siano troppo alte, che il loro peso continui a crescere senza sosta e che sottrarre un po’ di quattrini all’erario non sia una grande colpa. Anzi, in alcuni casi, come nella cosiddetta evasione di sopravvivenza, è addirittura giustificato e comprensibile.<br /><br /><div>
<span><a name='more'></a></span>La fotografia tracciata ieri dall’Eurispes non è una grande novità per chi vive nel mondo reale. Anche coloro che ogni giorno tuonano contro chi truffa il fisco e si stracciano le vesti di fronte a quei 109 miliardi di nero certificati dal Tesoro sanno bene che le tasse non solo non sono bellissime, come diceva Tommaso Padoa Schioppa, ma diventano ingiuste e insopportabili quando raggiungono livelli eccessivi (sia sotto il profilo dell’entità che della complicazione) e non corrispondono ad adeguati servizi pubblici. Così come sanno che senza l’economia sommersa, come sosteneva il Nobel americano Milton Friedman, l’Italia non se la passerebbe tanto bene.<br />
La via più logica per uscirne, al di là delle chiacchiere, sarebbe quella di tagliare i tributi, semplificare il sistema, rendere più leggera ed efficiente la spesa pubblica. La furia giustizialista e l’offuscamento ideologico che unisce grillini e dem ha spinto il governo giallorosso dalla parte opposta: più tasse, più controlli, più adempimenti, più manette.<br /><br /></div><div>
<b>Sugar tax</b><br />Ed ecco cosa ne pensano gli italiani. La maggior parte dei cittadini, scrivono gli esperti dell’Eurispes nel consueto rapportone presentato ieri, in qualche misura «giustifica l’evasione». Per il 25,1% non è grave se compiuta da chi fa fatica a sostenere la pressione fiscale, per il 19,6% è grave solo se a sfuggire all’erario è chi possiede grandi patrimoni, per il 9% non è grave perché da noi i balzelli sono troppo elevati. Insomma, il 53,7% degli italiani vede come fumo negli occhi la grande caccia all’evasore su cui il governo ha finora puntato tutti i suoi sforzi mediatici.<br />
Anche sulle punizioni le idee sono chiare. Per quattro italiani su dieci (40,9%) la sanzione più giusta per i furbetti del fisco è il sequestro dei beni. Tre su dieci (29,6%) pensano che multe e sanzioni economiche e amministrative siano più che sufficienti. Solo il 17,3% ritiene, al contrario, che il carcere sia la pena adeguata per chi nasconde le proprie entrate allo Stato.<br />
Alla base del sostanziale disinteresse per gli evasori c’è, come si diceva, l’idea che il fisco sia troppo pesante e che nel 2019 tale peso sia pure aumentato (lo pensa il 42% degli italiani). Di qui la convinzione che bisognerebbe ridurre in primo luogo l’Iva (36,4%), poi l’Irap e l’Ires (22,4%), l’Imu (il 21,1%) e infine l’Irpef (20,1%).<br />
Ma il balzello in assoluto più odiato è quello recentissimo della sugar tax, vanto ed orgoglio (almeno per un po’) del governo. La cosiddetta tassa etica risulta, con il 67,4% dei pareri negativi, la misura più criticata dagli italiani. Il fiuto dell’esecutivo, a quanto pare, si è rivelato infallibile.<br />
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<a href="http://www.liberoquotidiano.it/">© Libero</a></div>Sandro Iacomettihttp://www.blogger.com/profile/10038103081283614724noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4689825572908370219.post-59506370386592730032020-01-29T22:02:00.014+01:002021-03-06T19:01:48.191+01:00Conte incassa ma non pagaIn Italia, secondo i recentissimi dati di Unioncamere, nel 2019 hanno chiuso i battenti 326.423 imprese. Alcune di queste non hanno retto alla concorrenza, altre sono state semplicemente mal gestite. Molte, però, sono perite sotto i colpi del fisco. In altre parole, non sono riuscite a pagare le tasse nei tempi e nei modi chiesti dall’Erario. La beffa è che tra queste ce ne sono alcune, tante, che per sborsare il dovuto aspettavano che un altro Stato, quello che invece di incassare deve versare soldi per i servizi e i prodotti acquistati dai fornitori, saldasse le proprie fatture.<br />
E qui viene il bello. Anzi il brutto. Già, perché mentre la pubblica amministrazione che deve riscuotere i balzelli è severa e inflessibile, quella che deve scucire quattrini è lasca, pigra e indisciplinata. Se paga, malgrado norme e regole che stabiliscono con precisioni i termini (30 giorni ordinari, 60 in casi eccezionali), solitamente lo fa con un ritardo tale che per il piccolo imprenditore si rivela spesso fatale.<br /><br /><div><span><a name='more'></a></span>STORIA ANTICA<br />La storia è antica. Ricordiamo tutti le promesse di Mario Monti, che fu il primo (spinto da una direttiva Ue) a dire di volersi fare carico del problema attraverso una certificazione del crediti delle imprese, e quelle di Matteo Renzi, che sull’impegno di azzerare lo stock di debito pregresso della Pa fece persino una scommessa pubblica con Bruno Vespa. In anni più recenti c’è stato il caso di Sergio Bramini, a cui il fisco voleva addirittura pignorare la casa malgrado un credito dell’imprenditore con la pubblica amministrazione di ben 4 milioni di euro. La vicenda presa così a cuore dai Cinquestelle al punto che l’ex capo Luigi Di Maio decise durante il Conte I di chiamare lo stesso Bramini a Palazzo Chigi come consulente.<br />
Ebbene, non è cambiato nulla. O meglio, è cambiato che dopo un lungo braccio di ferro legale l’Unione europea ha deciso che lo Stato italiano deve farla finita di violare impunemente la legge. La Commissione Ue, alla quale diversi operatori economici avevano rivolto varie denunce per i ritardi, ha aperto nel 2014 una procedura d'infrazione contro l’Italia, arrivata nel 2017 all’ultimo stadio, cioè il ricorso per inadempimento dinanzi alla Corte. L’Italia ha sostenuto, a propria difesa, che la direttiva 2011/7 impone di garantire solo termini di pagamento «conformi» e di prevedere un risarcimento e interessi di mora in caso di mancato rispetto. Ma la Corte ha respinto in pieno tale argomentazione, spiegando che, anche se la situazione dei ritardi è «in via di miglioramento in questi ultimi anni», «la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi del diritto dell’Unione».<br />
Il ministro Roberto Gualtieri si è affrettato a spiegare, numeri alla mano, che i tempi medi ponderati occorsi per saldare le fatture nel 2018 sono stati di 54 giorni e che l’88,5% dei pagamenti è stato regolarmente effettuato.<br /><br /></div><div>FUORI TEMPO<br />In pratica, si è autodenunciato, visto che sia i tempi sia la percentuale non corrispondono ai termini di legge. La realtà, come spiegano gli imprenditori, è che la situazione è sì migliorata, ma tutt’altro che risolta. La Cgia ricorda che lo stock è sceso rispetto ai 90 miliardi del 2012, ma si attesta ancora a 53 miliardi, cifra ben più alta di una manovra finanziaria. Si tratta, spiegano da Confartigianato, di una percentuale sul Pil del 3%, record negativo del Vecchio Continente e valore doppio rispetto alla media Ue dell’1,6%. Quanto ai tempi, secondo l’Ance, l’associazione dei costruttori, i ritardi nel settore dell’edilizia superano ancora i 4 mesi e mezzo, per un totale di 6 miliardi di arretrati.<br />
Invece di perdere tempo a festeggiare la vittoria in Emilia-Romagna con i nuovi amici del Pd per tentare di non perdere la poltrona o a «insultare» il leader della Lega, come accusa lo stesso Matteo Salvini, il premier Giuseppe Conte farebbe bene ad occuparsi in fretta della questione. Anche perché in caso contrario arriverà pure una multa. E saranno sempre i contribuenti a pagare.<br />
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