mercoledì 27 maggio 2009

Non è il fisco ad appiattire i salari

Sembrerà strano, con tutto quello che alla fine del mese versiamo nelle casse dell’Erario, ma non è solo un problema di tasse. Il fisco non basta a spiegare quella imbarazzante 23esima (su 30 Paesi) posizione dell’Italia registrata dall’Ocse calcolando il livello medio dei nostri salari netti. Numeri alla mano, il costo del lavoro medio nella Penisola non è più alto di quello della Germania e della Francia, che mettendo insieme cuneo fiscale e contributivo tolgono alla busta paga dei lavoratori una bella fetta di stipendio. No, non si tratta di balzelli. Ma di produttività. Se al costo del lavoro per dipendente sostituiamo il costo del lavoro per unità di prodotto scopriamo, infatti, che le cose cambiano. E non di poco. Un recente studio del Cerm rivela che dal 2000 ad oggi siamo l’unico Paese in Europa in cui il valore è aumentato. Con un differenziale di 5.10 punti rispetto alla media della Ue a 15. Il che significa che mentre in tutto il resto d’Europa costruire una bicicletta, un martello o una pentola costava col tempo sempre meno, da noi il costo per l’azienda continuava a salire, in barba alla tecnologia, all’innovazione e all’efficienza. Il discorso è specularmente identico per la produttività vera e propria. Anche qui ci viene in aiuto il lavoro del direttore del Cerm Fabio Pammolli e del senior economist Nicola Salerno. Fatta 100 la produttività del lavoro per occupato nel 2000 (al netto dell’inflazione), nel 2008 l’Italia scende a 97.3, mentre tutta l’Europa sale (con picchi del 113.9 dell’Inghilterra) e gli Stati Uniti arrivano a 111.9.A questo punto bisogna però capire quello che è successo. È chiaro infatti che se la produttività cala, lo fa anche la busta paga. Ma è vero anche il contrario. Se lo stipendio scende, il dipendente lavora male e poco. È questa la dinamica perversa (ora resa drammatica dalla crisi economica) in cui si è avvitata l’Italia negli ultimi decenni. Un sistema incoraggiato e favorito dai sindacati, ma anche sottovalutato dalle imprese e dalla politica. È il mito della piena occupazione, che ha dirottato le risorse verso le assunzioni prosciugando gli investimenti in ricerca e sviluppo o in nuove tecnologie che avrebbero dato impulso alla produttività e alle buste paga. Meglio dieci operai che una macchina, è stato il ragionamento veteroluddista. Senza preoccuparsi troppo del fatto che quel meccanismo avrebbe portato a ridurre progressivamente non solo gli stipendi, ma anche i posti di lavoro complessivi del sistema. Non è un caso che tra il 1995 e il 2008 il pil pro capite nella Ue a 15 è cresciuto del 63%, mentre da noi poco più del 40%Intendiamoci, il problema italiano è complesso e antico. Riguarda l’alto peso della contribuzione pensionistica sul costo del lavoro, un fisco che penalizza le famiglie, la rigidità della contrattazione collettiva, la scarsissima differenziazione territoriale a fronte, invece, di variazioni sensibili del costo della vita. E riguarda anche la Pubblica amministrazione, che ha contribuito alla diminuzione di produttività senza che però questo si ripercuotesse sulle retribuzioni, salite molto più del settore privato. Ma è evidente, come si legge nello studio del Cerm, che per ripartire «è necessario rompere l’equilibrio vizioso in cui bassa produttività e basso costo del lavoro si giustificano a vicenda». Un equilibrio di sottosviluppo in cui non solo i redditi sono compressi verso il basso, ma sono destinate a rimanere limitate anche le risorse per il welfare. A chi convenga un gioco del genere è difficile da capire.

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