Col posto di lavoro non si scherza. Quando poi in ballo ce ne sono 2mila, come nel caso dello stabilimento Alcoa di Portovesme, la faccenda diventa ancora più complicata. Bene dunque ha fatto il governo, di fronte alla decisione del colosso Usa di avviare la procedura per la cassa integrazione, a scendere in campo e a prendere in mano la trattativa.
Detto questo, qualcuno dovrebbe spiegare con esattezza quale sia la vera posta in gioco. E quali siano i costi sociali di una possibile soluzione della vertenza. Perché se è importante garantire i posti di lavoro, lo è altrettanto sapere chi paga. A maggior ragione in questo caso, dove la crisi non c’entra e il rischio è che a sborsare i quattrini siano direttamente tutti gli italiani, attraverso la bolletta della luce.
Ma andiamo con ordine. La lavorazione dell’alluminio richiede una grande quantità di energia. Per questo l’Alcoa nel 1995 aveva concluso un contatto con l’Enel che gli permetteva di usufruire di elettricità a tariffe fisse per i successivi dieci anni. Alla scadenza del contratto, però, l’azienda ha continuato lo stesso a beneficiare di tariffe privilegiate. Solo che invece dell’azienda elettrica i costi sono finiti sulle spalle degli utenti. Gli sconti sulle forniture di energia sono infatti finanziati da un meccanismo di incentivi pubblici studiati appositamente per le cosiddette aziende “energivore”.
Chi paga? Noi. Il peso degli incentivi viene infatti scaricato in bolletta sotto la voce misteriosa che risponde al nome di “oneri di sistema” e che è la principale responsabile dell’aumento continuo del prezzo dell’elettricità, anche quando il petrolio scende.
Nel dettaglio, quando andate alla Posta a pagare il bollettino, solo il 65,8% è il costo della fornitura in senso stretto. Per il resto, il 13,2% riguarda i costi di trasporto, distribuzione e misure, il 13,7% sono imposte e il 7,3% sono i famigerati oneri generali di sistema. All’interno dell’ultima componente, oltre alle spese per la manutenzione della rete, per la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie, per i cosiddetti Cip6 (incentivi a chi utilizza fonti rinnovabili, ma ancora distribuiti a pioggia anche ad imprese che utilizzano solo il greggio), per lo smantellamento delle centrali nucleari (anche ora che stiamo riandando verso l’atomo), ci sono anche i soldi che finiscono alle industrie che consumano molta energia come l’Alcoa. La multinazionale americana non è l’unica, intendiamoci. Nel calderone ci sono circa 140 aziende energivore (con consumi pari al 13% del totale) tra cui grandi nomi come Thyssen, Riva, Lucchini. Ma l’Alcoa fa la parte del leone, con una quota di incentivi del 30% circa sul totale. Per essere più precisi, nel 2007 le agevolazioni concesse a queste società hanno pesato sulle nostre bollette per 570 milioni. Poco più di 200 sono finiti in tasca all’Alcoa. Considerato che lo stesso, euro più euro meno, accade ogni anno, è facile calcolare che dal 2006 al 2009 gli italiani hanno regalato alla multinazionale dell’alluminio qualcosa come 8-900 milioni di euro. E la cifra potrebbe essere ancora più alta, visto che la stessa Alcoa dichiara che senza incentivi pubblici perde circa 8 milioni di euro al mese.
È su questi soldi e non su altro che si è innescata la vertenza in Sardegna e in Veneto (stabilimento di Fusina). La Commissione europea, oltre a chiedere una restituzione parziale degli incentivi (circa 270 milioni), ha infatti detto basta al sistema delle agevolazioni. Di qui la minaccia dell’Alcoa di chiudere tutto, sostenendo che il prezzo dell’elettricità in Italia è troppo alto. Verissimo. Tutti sanno che a causa della scelta dissennata sul no al nucleare e alla conseguente dipendenza dall’estero per le fonti, l’energia in Italia costa più che in Europa.
Questo non significa che per adeguare i prezzi alla media Ue si debbano gonfiare le bollette degli utenti. Così come non si spiega perché mai l’Alcoa da noi voglia pagare 28 euro a megawattora mentre in Spagna ne paga 39. Ma la cosa importante da capire è cosa succederà in futuro. Il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola avrebbe individuato due strade. Una riguarda la possibilità per l’Alcoa di acquistare energia anche all’estero a prezzi più competitivi (interconnector), l’altra è una rimodulazione degli sconti ai cosiddetti interrompibili (aziende che accettano di essere scollegate dalla rete quando il sistema lo richiede). Difficile dire come si chiuderà la partita, ma la sensazione è che le mani finiranno di nuovo nelle nostre tasche.