I Comuni saranno autonomi. Finché faranno i bravi. È un federalismo ancora zoppicante quello che sta uscendo a spezzoni dalle stanze di Palazzo Chigi. La bozza del secondo decreto attuativo che ha ricevuto ieri il primo via libera dal Consiglio dei ministri contiene la grande rivoluzione sui criteri per valutare il fabbisogno degli enti locali. Il calcolo non sarà più ancorato solo alla spesa storica, ma anche ad altri parametri, tra i quali sono stati inseriti, su iniziativa del ministro Renato Brunetta, l’efficienza, l’efficacia e la qualità dei servizi resi a cittadini e imprese. Si tratta, si legge in una nota della Funzione Pubblica, di «un capovolgimento di ottica che consentirà di abbandonare gli effetti distorsivi e poco responsabilizzanti generati dal modello attuale».
Il vizio storico
«Sul versante della spesa», ha spiegato il ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, «si interrompe il vizio del nostro paese, che fino a oggi ha trasferito tutte le risorse, non in base alle esigenze, ma in base alla spesa storica. Questo ha fatto si che chi più spendeva, e probabilmente male amministrava, riceveva di più dallo Stato».
Dalla polizia locale agli asili nido, dalla sanità all’edilizia, dai trasporti alla gestione del territorio. Sono moltissime le funzioni individuate nel decreto per la determinazione dei costi standard, che verranno ricalcolati ogni tre anni. Per questo la pratica è stata affidata alla Sose, che già gestisce la complicatissima macchina degli studi di settore. La società dell’Agenzia delle entrate si occuperà di individuare i costi «attraverso dei questionari e dei filtri».
I rubinetti si chiudono
E qui entra in gioco il ruolo del governo centrale. I comuni e le province che non risponderanno alla Sose entro il termine stabilito di 60 giorni saranno pesantemente puniti. In che modo, la mancata restituzione «è sanzionata con il blocco, sino all’adempimento dell’obbligo di invio dei questionari, dei trasferimenti a qualunque titolo erogati al Comune o alla Provincia». Insomma, niente dati, niente soldi. Ma la cosa che in questo momento più preoccupa i Comuni è la definizione dell’autonomia impositiva. Sembra tramontata, per ora, l’ipotesi della supertassa unica, Imu. Una torta da 15 miliardi su cui gli enti locali speravano di mettere le mani. La prospettiva resta, ma il percorso sarà lungo e accidentato. Saranno i Comuni a decidere, con referendum, se vorranno unificare i 24 tributi locali. «Non c’è stata», ha spiegato il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, «nessuna retromarcia ideologica, per noi l’ideale è la massima concentrazione possibile, ma saranno i referendum a decidere i menù fiscali». Il tutto dovrebbe essere definito nel decreto sull’autonomia fiscale che Tremonti ha assicurato arriverà entro la fine del mese, «nel rispetto dell’accordo firmato con i Comuni».
La stangata ai Comuni
Il presidente dell’Anci, Sergio Chiamparino, resta scettico. Entro il 31 luglio bisogna portare in Cdm il dl che dispone «il trasferimento di una serie di imposte che adesso sono dello Stato. Ad ora non sappiamo nulla di questo».
Sanno benissimo, però, i sindaci quanto costerà la manovra finanziaria. Secondo uno studio realizzato dall’Ifel, fondazione dell’Anci, «oltre un terzo dei Comuni dovrà realizzare nel 2011 un taglio della spesa superiore al 10% o, in altri termini, dovrà chiedere ai cittadini un contributo superiore ai 100 euro». I numeri si traducono nella bocciatura della manovra arrivata ieri all’unisono da Regioni, Province e Comuni nel corso della Conferenza unificata.
Tremonti ha liquidato il verdetto con una battuta rivolta ai governatori: «Le regioni scenderanno dai grattaceli, verranno al tavolo. Il clima è buono». «Scenderemo dai nostri grattacieli simbolo di efficienza e andremo in quei palazzi romani che il nostro popolo identifica con gli sprechi. Ma il governo apra veramente il dialogo con noi, perché così com’è la manovra è insostenibile», ha replicato il presidente della regione Lombardia, Roberto Formigoni.
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