sabato 25 settembre 2010

Il lamento di Confindustria: «Siamo in crisi come gli altri»

L’Italia cresce troppo poco. E, soprattutto, meno degli altri. Il resto sono chiacchiere o, peggio, bugie. Non è la prima volta che Emma Marcegaglia lancia l’allarme sulle difficoltà del nostro Paese a rialzarsi dalla crisi. Sono settimane che il presidente di Confindustria pungola, stimola, incalza. Che invita il governo ad uscire dal pantano delle beghe politiche e a riprendere in mano l’agenda delle riforme per rilanciare crescita e occupazione. Questa volta, però, la Marcegaglia supera il confine delle circonlocuzioni e delle metafore e va dritta al punto. Palazzo Chigi, è il senso dell’affondo, la smetta di raccontare frottole. «Il peggio è alle spalle», premette, «e probabilmente non rietreremo, a livello nazionale ma anche internazionale, in una seconda recessione». Ma «quando si dice che siamo andati meglio di altri Paesi», tuona di fronte alla platea degli industriali toscani dove poco dopo il ministro Renato Brunetta ribadirà l’ottimismo governativo, «non è vero, siamo stati fortemente colpiti dalla crisi» e ne stiamo uscendo «con una capacità di crescita inferiore alla media europea». Se il messaggio non fosse arrivato a destinazione, aggiunge: «I problemi dell’occupazione non attendono i passaggi di parlamentari da una parte all’altra, pretendono risposte serie e immediate».



Previsioni nere
Insomma, mentre tutti i riflettori sono puntati sulle notizie che arrivano dalle isole caraibiche, la Marcegaglia prova a spostare il baricentro dell’attenzione. «Siamo preoccupati», spiega in serata da Genova, «per le tensioni nella maggioranza di governo, ma chiediamo che nonostante la situazione complessa, si vada avanti e si varino quelle riforme che servono al Paese».
Dietro le sferzate del presidente di Confindustria ci sono pagine e pagine di rapporti che il Centro studi porta quasi quotidianamente sulla sua scrivania. Analisi che non raccontano nulla di buono. Sul fronte occupazione gli esperti di Viale dell’Astronomia prevedono un 2010 che si chiuderà con 480mila posti di lavoro in meno rispetto al 2008 e un tasso di disoccupazione che salirà al 9,3% alla fine del 2011 (oggi è all’8,5%). C’è poi la crescita del sommerso, salito nel 2009 oltre il 27% del Pil. Il che significa che la pressione fiscale “reale” è ben sopra il 54% rispetto al 43,2% dei documenti ufficiali. Ci sono poi il deficit di produttività, ribadito anche ieri da Bankitalia, l’industria che non riparte, lo stallo delle vendite (a luglio ferme rispetto al mese precedente secondo i dati Istat di ieri). Il tutto, secondo Confindustria, si traduce in stime al ribasso sul prodotto interno lordo, che quest’anno dovrebbe attestarsi all’1,2% rispetto ad una crescita dell’area euro dell’1,7% e della Germania al 3,4%. E le cose non andranno meglio l’anno prossimo, dove, rispetto all’1,6% inizialmente previsto, la Confindustria vede ora un pil quasi fermo all’1,3%.
La Marcegaglia non pretende di avere i ritmi della locomotiva tedesca, ma almeno di restare in linea con l’Europa con una crescita intorno al 2%. Se la Germania non si può raggiungere, resta però un esempio. Checché ne dica Giulio Tremonti, che qualche settimana fa aveva bollato come “infantile” l’elogio del modello Merkel fatto dal governatore Mario Draghi e ribadito dal numero uno della Bce, Jean-Claude Trichet.

Il modello tedesco
L’esempio tedesco andrebbe seguito soprattutto sulla ricerca, i cui fondi «non sono stati toccati, malgrado i tagli alla spesa pubblica per 80 miliardi di euro». Ma la scossa serve anche sul fisco, sulla burocrazie e sulle liberalizzazioni. Temi su cui, a dire il vero, c’è una certa convergenza con Giulio Tremonti. Lo stesso ministro dell’Economia aveva ammesso che l’Italia, pur essendo solida sul fronte dei conti pubblici, «ha un problema di crescita». Mentre la Marcegaglia aveva sottolineato che la lista di temi posti da Confindustria coincide di fatto con l’agenda delle priorità di Via XX Settembre. Il punto, dice il numero uno di Viale dell’Astronomia, forse pensando anche alla casella ancora vuota del ministro dello Sviluppo, «è che le cose bisogna farle. Se non iniziamo a fare le grandi riforme il Paese continuerà su questa china di bassa crescita».
A rimboccarsi le maniche, chiaramente, non dovrà essere solo il governo. Per favorire l’aumento della produttività, ad esempio, occorre un atteggiamento diverso anche da parte delle imprese, «che devono aumentare l’internazionalizzazione: ancora oggi la maggior parte delle imprese italiane punta troppo sul mercato interno».
Serve, inoltre, una «condivisione di obiettivi tra lavoratori e imprenditori». Ma, aggiunge, «non possiamo pensare che ci sia ancora parte dei sindacati che scambiano la tutela dei diritti con la tutela di chi non lavora, di falsi malati e falsi invalidi».

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