Il tavolo sulla banda larga, com’era prevedibile, è saltato. La fuga in avanti del Comitato per la rete di nuova generazione (Ngn), che la scorsa settimana ha diffuso un documento non concordato con gli operatori alternativi, ha provocato l’ennesima battuta d’arresto sulla realizzazione dell’infrastruttura che dovrebbe mettere l’Italia al passo con gli altri Paesi europei. Aiip, Fastweb, TeleTu, Tiscali, Vodafone, Welcome Italia e Wind hanno deciso ieri di ritirare la propria adesione al Comitato Ngn. L’accusa, come si legge in una nota congiunta, è chiara: «Le linee guida proposte dal presidente rispecchiano quasi totalmente le richieste di Telecom Italia». Istituito dall’Agcom, con la partecipazione di tutti gli operatori, il gruppo di lavoro aveva una funzione puramente consultiva, doveva fare il punto sulle questione regolatorie legate alla banda ultra veloce e presentare una serie di proposte all’authority. È chiaro che l’intento di Corrado Calabrò era quella di favorire una convergenza, un punto comune da cui cui partire per definire le nuove regole dell’infrastruttura.
Appare chiaro che l’operazione è fallita. Il tavolo, dov’è rimasta soltanto Telecom, si può dire definitivamente chiuso. E l’authority per le Tlc dovrà fare da sola. Ma se queste sono le premesse, sarà difficile che si arrivi a soluzioni condivise. Ed è difficile anche che la concordia si materializzi miracolosamente al tavolo parallelo attivato dal viceministro dello Sviluppo, Paolo Romani. Gli ultimi incontri con gli ad delle società sono finiti con un nulla di fatto. Romani ci riprova venerdì convocando solo i tecnici, nella speranza che una discussione non centrata direttamente sulle questioni economiche possa portare risultati.
Ma le distanze appaiono, almeno per ora, troppo grandi. Se è chiaro, come più volte spiegato dall’authority, che duplicare gli sforzi e procedere in ordine sparso farà soltanto lievitare i costi e allungare i tempi, nessuno sembra voler cedere il passo. Soprattutto nei grandi centri urbani, dove Telecom continua a sostenere di voler correre da sola. È qui che si duella. Il piano dell’ex monopolista prevede investimenti per circa 2,7 miliardi in tre anni. Quello di Fastweb, Wind e Vodafone 2,5 miliardi in 5 anni. Ma al di là delle cifre è chiaro che il nodo da sciogliere è ancora quello della rete telefonica in rame. Gli aumenti per il canone di affitto agli operatori alternativi, decisi pochi giorni fa dall’authority, dimostrano che l’infrastruttura può essere ancora redditizia per l’ex monopolista, che non ha alcuna intenzione di mettere soldi nella nuova rete senza precise garanzie. La situazione non è favorita neanche dal governo, che promuove tavoli, ma non dice chiaramente quante risorse ha intenzione di dedicare al progetto. Pure la Ue si sta muovendo. La Commissione europea sta preparando un pacchetto di misure proprio per spingere le grandi compagnie ad aprire le reti a banda larga agli operatori rivali. Il problema è che mentre a Bruxelles si discute, l’Italia a differenza degli altri Paesi europei dove la fibra è già in una fase avanzata, resterà completamente tagliata fuori dai servizi offerti dalle nuove tecnologie.
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