mercoledì 10 marzo 2010

Il magistrato nel 2007 torchiò Scaglia: "Parla che sei ricco, non un impiegato"

«Un povero impiegatuccio» che lotta «contro i mulini a vento». E per giunta con «la trattenuta fiscale alla fonte». Può sembrare strano, ora che i “draghi” e i “giganti” sono finiti dietro le sbarre, ma a dipingersi come un povero e tartassato Don Chisciotte è il sostituto procuratore di Roma, Giovanni Di Leo. E davanti a lui, tre anni fa, c’era proprio Silvio Scaglia, il fondatore di Fastweb da un paio di settimane detenuto a Rebibbia. È interessante rileggere i verbali di quell’interrogatorio, che si è tenuto al Tribunale di Roma il 13 marzo 2007, con l’inchiesta sulla maxi frode carosello partita da pochi mesi.


Chissà se Scaglia ci ha ripensato quando, alcuni giorni fa, si è ripresentato davanti alle stesse toghe e poi ha dichiarato che «la giustizia inglese è meglio di quella italiana». Chissà se gli è tornato alla mente il duro alterco di tre anni fa con i titolari della pubblica accusa (oltre a Di Leo era presente anche il pm Francesca Passaniti e un ufficiale di pg), il tentativo di spiegare gli aspetti tecnici delle operazioni incriminate, le incomprensioni e, alla fine, lo sfogo del magistrato.

L’atmosfera si surriscalda quando Scaglia tenta di spiegare che se i pm avessero chiesto alla società i dettagli sul traffico telefonico oggetto dell’indagine, Fastweb sarebbe stata in grado di fornire tutti gli elementi. Anche i numeri telefonici di chi avrebbe usufruito dei presunti servizi fittizi intorno ai quali le società coinvolte avrebbero effettuato la girandola di transazioni commerciali per evadere l’Iva. Di Leo già inizia ad irritarsi: «Se noi avessimo i numeri di telefono delle persone che chiamano per collegarsi ai siti porno, non avremmo neanche il processo». Poi, il crescendo: «Cioè, io attivo un’archiviazione se mi fornite questi dati degli utenti finali nel resto d’Europa, io questa cosa, glielo prometto, mi ci metto e la scrivo in non più di 35 minuti».

Scaglia torna a dire che l’atteggiamento della magistratura è stato sbagliato. E Di Leo torna all’attacco: «Non ci è stato fornito alcun numero di telefono, ma neanche un numero di centralino». Poi, di fronte alla frase di Scaglia, «ci siamo andati di mezzo tutti», il pm sbotta: «Allora si metta nei panni di noi, che siamo dei poveri impiegatucci, che si vedono lo stipendio già trattato alla fonte e non hanno altre cose, che vedono una persona del genere (il riferimento è al presunto direttore d’orchestra di tutta la truffa, Focarelli, ndr), che fa queste cose, e che le fa con il primo gestore telefonico in Italia e poi con voi... Perché c’è il vostro nome sui giornali, io non ci posso fare niente». La calma, malgrado lo sfogo, non ritorna. Ma il magistrato ci tiene a dire che non c’è alcun accanimento. «Non siamo partiti prevenuti», spiega a Scaglia. Anzi, prosegue, «siamo anche partiti con un notevole senso di responsabilità, perché visto il tipo di risposta che abbiamo avuto, dopo il 26 di novembre (del 2007, giorno della perquisizione in Fastweb, ndr) noi saremmo dovuti tornare, il giorno successivo, con un decreto di sequestro della struttura operativa, interrompendo tutto il traffico di Fastweb». Scaglia, prudentemente, lascia parlare il legale...

Un’operazione mediatico-finanziaria. È questo il sospetto di Scaglia, che nella trama ai danni di Fastweb trascina anche Repubblica. «Un incidente». Così viene definito nell’interrogatorio tenuto dal fondatore del gruppo di tlc nel marzo del 2007, di fronte ai pm titolari dell’inchiesta, l’articolo pubblicato il 23 gennaio dello stesso anno dal quotidiano romano. Nel servizio, a firma Giovanni Pons, si dava notizia per la prima volta della maxi inchiesta a carico dei vertici di Fastweb per false fatturazioni. «C’è fiducia da parte nostra in voi», dice Scaglia ai magistrati. Poi il manager aggiusta il tiro: «Ho più dei dubbi sul giornalista, sulla buonafede, sul fatto che abbia dei legami diversi». Buonafede o meno. L’articolista è sicuramente bene informato.

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