venerdì 16 aprile 2010

L’export riparte. Il made in Italy stenta

L’Italia ritorna a vendere all’estero come non accadeva dalla fine del 2008. Dopo un tiepido segnale positivo a gennaio (+1,1%), a febbraio le esportazioni sono cresciute sul 2009 del 7,3%. Complessivamente il saldo commerciale è comunque risultato negativo per 2,332 miliardi di euro, in peggioramento rispetto al deficit di 895 milioni dell’anno prima. Un fenomeno dovuto alla contestuale crescita delle importazioni (12,9% a febbraio), che segnala comunque una dinamica positiva dell’economia.
Per avere un’idea del cambio di marcia del Paese basta guardare i numeri diffusi ieri da Bankitalia, che parlano di un volume dell’export italiano crollato durante la crisi (dal secondo trimestre 2008 a metà 2009) del 24,8% a fronte di un calo della domanda mondiale del 17,7%. 
A trainare l’esportazione è il raggruppamento dell’energia (+34,6%), seguito dai prodotti intermedi (+11,6%). Tra i settori più brillanti spiccano i rialzi del coke e prodotti petroliferi raffinati (+33,5%), dei prodotti chimici (+26,3%) e farmaceutici (+23,8%).
A gelare un po’ gli entusiasmi c’è il cattivo andamento del made in Italy. Perdono infatti quota i prodotti classici della nostra industria, come l’abbigliamento e i mobili, in calo rispettivamente del 9,6% (-10,7% tra gennaio e febbraio) e dell’1,7% (-2,3% nei primi due mesi). Le esportazioni di prodotti agricoli e della pesca, secondo un’analisi della Coldiretti, sono cresciute in valore del 18% mentre quelle dei prodotti alimentari e delle bevande del 9%. Per quanto riguarda invece le importazioni, comincia ad incrementare sempre più il suo peso il greggio, il cui import rappresenta il 9,1% dei flussi in entrata (dal 6% del febbraio 2009).
Nell’insieme, i dati diffusi ieri dall’Istat rappresentano un «segnale importante» che «ci fa essere più fiduciosi sulla ripresa», spiega il vice ministro allo Sviluppo economico Adolfo Urso, che evidenzia come dall’ottobre 2008 le nostre esportazioni verso i Paesi Ue risultavano in costante caduta, mese dopo mese, con cali spesso a due cifre nella fase più acuta della crisi.
La cautela è comunque ancora d’obbligo. Così almeno sostiene la Banca centrale europea, secondo cui gli squilibri e le distorsioni dell’economia globale che hanno causato la crisi continuano ad essere «un fattore di rischio fondamentale». Nel suo bollettino mensile, l’Eurotower punta apertamente il dito contro il deficit commerciale Usa e la forte crescita dell’export cinese, che rappresentano fattori di destabilizzazione incontrollabili. Governi e consessi internazionali come il G-20, secondo l’istituto guidato da Jean-Claude Trichet, devono fare di più, visto che le consultazioni multilaterali sugli squilibri mondiali hanno visto «i paesi interessati non rispettare appieno gli impegni assunti sul piano delle politiche economiche».
Un atto di accusa plateale che raramente ha caratterizzato le comunicazioni di Francoforte. Il riferimento, neanche troppo velato, è al disavanzo commerciale degli Usa, finanziato da massicci acquisti di titoli di Stato americani dalla Cina. E di contro al maxi-surplus commerciale cinese, che sta comportando tassi di crescita stellari e ha creato, secondo alcuni economisti, una bolla creditizia e immobiliare pronta ad implodere. Sul fronte interno la Bce ha sottolineato che nel 2010 si prospetta «un ritmo di crescita complessivamente moderato nell’area euro, in un contesto caratterizzato da incertezza». Sulla crescita al rallentatore peserà anche il fardello della disoccupazione, che nei prossimi anni sarà «strutturalmente più elevata» in un’Europa in cui «le condizioni nei mercati del lavoro si sono deteriorate ulteriormente». La cura? Più incentivi all’occupazione e salari più flessibili. Ma non ditelo ai sindacati.

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