domenica 23 agosto 2009

Gli statali sono una tassa da 60 miliardi

Che il governo non abbia ben presente la situazione è da escludere. Da quando ha messo piede alla Funzione pubblica, Renato Brunetta, non ha fatto altro che sparare contro la burocrazia, azzannare gli assenteisti, piazzare tornelli e invocare l’utilizzo di internet per snellire le pratiche e velocizzare i servizi. Lo stesso Silvio Berlusconi, dalla campagna elettorale in poi, non ha mai smesso di tuonare contro la voracità di una Pubblica amministrazione, che «costa ad ogni cittadino 4.500 euro rispetto ai 3mila della media europea».
E qualche battaglia, a dire il vero, è già stata vinta. Il tasso di assenteismo, ad esempio, è precipitato. Le sacche di inefficienza si sono ridotte. E i servizi on line iniziano a fare capolino sulle pagine web. Di qui a pensare che la soluzione sia dietro l’angolo però ce ne passa. La guerra sarà lunga e difficile. Soprattutto fino a quando i sindacati non smetteranno di difendere lo statale pizzicato al supermercato durante l’orario di lavoro o non accetteranno di ragionare sulle dinamiche dei salari, che nel pubblico impiego non conoscono crisi e continuano a crescere a ritmi molto più elevati del settore privato. Ma anche fino a quando gli enti locali non finiranno di minacciare cataclismi di fronte a qualche euro in meno alla voce trasferimenti dello Stato.
Il risultato è che la spesa della Pa continua a registrare picchi ben più alti della media europea. I dati diffusi ieri dalla Cgia di Mestre, che di tanto in tanto, calcolatrice alla mano, si prende la briga di fare due calcoli, descrivono un quadro poco incoraggiante. Che diventa impietoso se messo a confronto con i risultati ottenuti dalla vicina Germania. Tra il 2000 e il 2008, nel Paese della Merkel, i costi per il personale pubblico (stipendi più contributi) in percentuale del Pil sono scesi dall’8,1 al 6,9%. Nello stesso periodo in Italia l’esborso è passato dal 10,4 al 10,9%. Si tratta di oltre 4 punti, che tradotti in soldi sono circa 60 miliardi. Altro che la Finanziaria triennale, con una cifra del genere Giulio Tremonti potrebbe passare le giornate a fare le parole crociate.
Ancora peggio le cose vanno se si prende a riferimento la spesa del personale pubblico in percentuale sulla spesa primaria (ovevro al netto degli interessi sul debito pubblico). Qui il dato della Germania è al 16,7%, mentre l’Italia è 8,3 punti al di sopra, al 25%. Tra i diversi motivi del dislivello individuati dalla Confederazione di Mestre, balzano agli occhi due questioni che ci riguardano da vicino. La prima riguarda il numero dei dipendenti, che in termini assoluti sono 3,6 milioni rispetto ai 4,5 della Germania. Il problema è che da noi ve ne sono 61 ogni mille abitanti, mentre in terra tedesca solo 55. Guarda caso è proprio il punto su cui c’è lo scontro più acceso tra sindacati e governo, che vuole ridurre il turn over nella Pa nei termini di un nuovo assunto ogni 8-10 pensionati.
L’altro punto ci porta dritti al federalismo. La grossa differenza con la Germania (patria del decentramento) è infatti relativa al numero dei dipendenti che lavorano per le amministrazioni centrali. Se in Italia il 57% è al servizio dello Stato e l’altro 43% è impiegato in “periferia”, in Germania l’88% è distribuito tra i Lander e gli altri enti locali. Scontata la morale. Come dice il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, «occorre accelerare sul fronte della riforma federalista. Ed oltre a trasferire competenze ed autonomia impositiva agli enti locali, si dovrà anche provvedere alla distribuzione del personale per consentire una graduale riduzione dei costi». Inutile dire che una bella sforbiciata del numero dei parlamentari e la tanto discussa abolizione delle province aiuterebbero nell’impresa.

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