mercoledì 16 settembre 2009

Il taglio delle Province finisce in soffitta

Zitti zitti, con il Parlamento praticamente vuoto e le prime pagine dei giornali occupate dal match Berlusconi-Fini (e dalle vicende baresi di D’Alema), si sono ordinatamente seduti ai banchi e, come se niente fosse, hanno messo una bella pietra tombale sull’abolizione delle province. Niente veleni, niente polemiche. Per chiudere la pratica sono bastati venti minuti e qualche dichiarazione di rito. Esattamente dalle 12.25 alle 12.45, arco di tempo in cui giovedì si è tenuta la seduta della commissione Affari Costituzionali della Camera. Il blitz era nell’aria da prima dell’estate, quando si iniziò a prospettare l’ipotesi di affidare lo spinoso dossier delle proposte di legge costituzionali a un comitato ristretto che ne valutasse attentamente la praticabilità. Giovedì, la decisione è arrivata. Le modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione prendono una strada alternativa di cui si ignorano tempi e direzione.
Il binario mortoNessuno, ovviamente, ammetterà pubblicamente il delitto. Le quattro proposte restano in piedi e l’iter prosegue. Ma è chiaro che la costituzione di un comitato ristretto, come spiega l’udc Mario Tassone, «è un modo per mettere in ombra gli elementi di divergenza, ponendo su un binario morto un tema che non si vuole affrontare poiché manca una posizione univoca nella maggioranza e in parte dell’opposizione». A confezionare l’abito su misura per la riforma più annunciata e meno desiderata degli ultimi anni è stato uno schieramento bipartisan che va, tra gli altri, dai pdl Donato Bruno (presidente della Commissione nonché relatore del provvedimento) e Peppino Calderisi, agli udc Tassone e Pierluigi Mantini, fino ai pd Oriano Giovanelli e Sesa Amici. Tutti più o meno concordi nell’archiviare il caso. Anche dall’Udc, che pure insieme all’Idv di Antonio Di Pietro ha fatto della riforma una bandiera (non ha caso la proposta di legge depositata in Commissione porta la firma di Pier Ferdinando Casini), non sono arrivate che deboli obiezioni. Sia Tassone sia Mantini hanno invitato la maggioranza a chiarire qual è la direzione in cui andare prima di costituire il comitato ristretto, proprio perché quest’ultimo «agevola i lavori quando c’è la volontà di arrivare ad un risultato», mentre li affossa nel caso contrario. Ma poi Mantini ha voluto sottolineare che l’alternativa «non è semplicemente quella tra il mantenimento delle province nell’assetto attuale e la loro soppressione, potendosi ragionare anche su una riforma con legge ordinaria che, a Costituzione invariata, ridefinisca le funzioni delle province nel senso di una razionalizzazione del sistema e di una riduzione dei costi». Diversivo che piace molto anche al Pd. C’è l’esigenza, ha spiegato Amici, «di esaminare quanto prima i progetti di legge ordinaria in materia di riforma delle autonomie locali». Alla fine, al di là delle chiacchiere, la proposta del presidente Bruno del comitato ristretto (che sarà probabilmente composto dai capigruppo in commissione) è andata bene a tutti.La realtà è che chiusa la campagna elettorale i proclami gridati a gran voce (specialmente dal centro-destra) sono finiti immediatamente nel cassetto. Il dibattito si è riaperto alla fine dell’anno scorso in seguito alla martellante campagna di Libero che ha raccolto una quantità inimmaginabile di adesioni. Sono nate in quel periodo gran parte delle otto proposte di modifica costituzionale (quattro alla Camera, quattro al Senato) per eliminare le province. Ma l’entusiasmo (soprattutto quello di Casini e Di Pietro) è finito presto. La Lega ha puntato i piedi platealmente, mentre gli altri si sono pian piano defilati.
Il diktat di TremontiL’ultimo contrordine è quello arrivato da Giulio Tremonti una manciata di giorni fa durante il Meeting di Cl a Rimini. La riforma, ha detto il ministro dell’Economia, «richiede una modifica costituzionale ed è molto complicata». In più, ha aggiunto, non è vero che si risparmierebbe, «perché i costi sostenuti ora dalle province non sarebbero eliminati, ma dovrebbero essere caricati su altri soggetti». In sostanza, l’abolizione non s’ha da fare.Il messaggio è chiaro, ma l’argomentazione non convince. Se è vero, infatti, che le spese ora gestite dalle province per la manutenzione delle infrastrutture resterebbero è anche vero che degli oltre 14 miliardi (su un totale del settore pubblico di 750 miliardi) che gli organismi sottraggono al bilancio dello Stato, circa 2,5 miliardi se ne vanno solo per le spese di personale mentre un altro miliardo serve per le spese generali dell’amministrazione. Difficile sostenere che i tagli non arriverebbero. Complessivamente, secondo i calcoli dell’Eurispes, l’abolizione delle 104 province italiane comporterebbe oltre 10 miliardi di risparmi. Un po’ troppi per farli finire sotto il tappeto in un giovedì di fine estate.

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