mercoledì 10 febbraio 2010

Al governo non piace lo spezzatino Eni

No allo spezzatino, sì alla società delle reti. Non si placa il dibattito sul futuro dell’Eni, all’indomani dell’accordo con l’Antitrust Ue che prevede la cessione da parte del Cane a sei zampe dei tre gasdotti europei. Il sottosegretario allo Sviluppo economico, Stefano Saglia, ha definito ieri «un errore industriale» la separazione caldeggiata dal fondo Knight Vinke tra il settore petrolifero e quello del gas. Ipotesi che, secondo l’esponente del Pdl, risponderebbero ad una logica da «fondo speculativo» e non farebbero gli interessi degli azionisti.Discorso diverso quello della rete. Saglia non ha infatti escluso l’ipotesi di una società che gestisca i tubi, magari «una public company». Scenario non incompatibile con la vendita dell’infrastruttura Eni che porta il gas dalla Russia all’Italia (il Tag) alla Cassa depositi e prestiti di cui si è parlato molto nei giorni scorsi. Ipotesi confermata ieri anche da Alberto Meomartini. Il presidente di Snam rete gas ha infatti escluso un ruolo della società che gestisce l’infrastruttura italiana nell’operazione europea. «Bisogna chiedere a Eni», ha spiegato, «ma non mi sembra che si stia andando nella direzione di una cessione dei gasdotti a Snam». L’operazione, del resto, ha già ricevuto il consenso di Franco Bassanini, il quale si è detto disponibile all’investimento. Lo stesso presidente della Cdp ha però precisato che prima di fare qualsiasi passo la Cassa dovrà valutare attentamente il valore dei diritti di utilizzo e degli accordi tra l’Eni e la società di gestione del gasdotto. Un tema delicato, visto che in capo al Cane a sei zampe restano tutti i diritti di passaggio precedentemente detenuti. Il gruppo guidato da Paolo Scaroni cederà infatti una quota dell’89% della società che controlla il gasdotto e non potrà più decidere chi accederà alla rete, ma manterrà inalterata la possibilità di far passare il suo gas. Il rischio, dunque, per Bassanini è quello di far spendere al Tesoro e alle Fondazioni azioniste della Cassa 700 milioni (questa la cifra di cui si è parlato) per dei tubi posseduti solo sulla carta.E analoghe valutazioni dovranno essere fatte anche sul versante delle tlc, qualora il governo decidesse di far giocare alla Cdp il ruolo di grande gestore della rete a partecipazione pubblico-privata. Eventualità che potrebbe verificarsi prima del previsto. Ieri il quotidiano brasiliano O Globo ha rilanciato l’ipotesi della fusione Telecom-Telefonica, sostenendo che le nozze sono molto vicine. La scadenza indicata dal giornale sudamericano sarebbe la fine del mese o i primi di marzo, dopo i cda di bilancio delle due aziende (il 25 febbraio Telecom, il 26 Telefonica). «Non c’è alcuna accelerazione», indicano fonti finanziarie, che ribadiscono quanto emerso una settimana fa: l’operazione, se si farà, dovrà attendere l’esito delle elezioni regionali (28 marzo) e della la partita per il rinnovo del vertice delle Generali (l’assemblea è il 24 aprile), nella quale saranno impegnati gli azionisti italiani di Telco (Mediobanca, il Leone, Intesa Sanpaolo). La fusione con gli spagnoli «è un problema che dev’essere affrontato tenendo presente che l’Italia è un paese democratico, con libera iniziativa economica, dove ogni impresa ha la libertà di muoversi», ha osservato il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola ribadendo quanto già detto la settimana scorsa da Silvio Berlusconi. L’ipotesi ha comunque infiammato le Borse. Le azioni Telecom, dopo aver toccato un massimo a 1,108 euro con rialzi superiori al 4%, hanno terminato la seduta in crescita del 3,05% a 1,082 euro.

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