venerdì 12 giugno 2009

Se l'Italia ci sta col Colonnello

Dalle partecipazioni sotto il 2%, che sfuggono al controllo della Consob, alla vendita di gas e petrolio. Dagli investimenti nelle tlc ai capricci calcistici, fino alle sinergie col tempio della finanza in quel di Piazzetta Cuccia. È ramificata, estesa, non sempre trasparente, ma di sicuro imponente la tela intrecciata nel corso degli anni dal colonnello Muammar Gheddafi col potere economico italiano. Una rete che negli ultimi mesi, grazie alla distensione politica avviata dal governo Berlusconi e alla smodata liquidità di cui i fondi sovrani libici dispongono in barba alla crisi mondiale, sta allungando i suoi tentacoli verso le roccaforti del sistema bancario e le aziende strategiche che lo Stato difende attraverso partecipazioni pubbliche o golden share.
Il business tra Libia e Italia non è una novità. Il primo, clamoroso, ingresso sulla scena risale al 1976, quando la Lafico (finanziaria di Gheddafi) entrò a sorpresa nel capitale Fiat con il 9,7%. Poi i libici riapparvero con un più modesto 2% tra il 2002 e il 2006. Da allora la quota, invisibile alla Consob, dovrebbe essere ulteriormente scesa. Ufficiale è però il 7,5% che Lafico detiene ancora nella Juventus, subito sotto la Giovanni Agnelli & C. Antico e consolidato è poi il rapporto commerciale con l’Eni. Affari preziosi e irrinunciabili per l’Italia, visto che dalla Libia importiamo il 30% del petrolio complessivo e il 12,5% del gas, per un totale del 10% del nostro intero fabbisogno energetico. L’alleanza con l’Eni, d’altro canto, fa comodo anche al colonnello, che non a caso a fine 2008, in cambio di ben 28 miliardi di euro di investimenti, ha deciso di rinnovare le concessioni del Cane a sei zampe fino al 2047.
Ma la campagna d’Italia sembra ora avere acquisito ritmi molto più serrati e obiettivi più ambiziosi. Ad agosto 2008 la Libyan post è entrata nel capitale di Retelit, società italiana di dorsali per le comunicazioni, con il 14,7%. E da mesi si parla di un possibile investimento in Telecom, di cui Gheddafi sarebbe disposto ad acquistare il 10%. Intenzioni bellicose riguarderebbero poi proprio l’Eni, di cui la Libyan investment authority (con “soli” 65 miliardi di dollari in cassa) ha già l’1%. L’idea sarebbe di salire almeno fino al 5%, ma il colonnello non disdegnerebbe una quota del 10. Stesso discorso per l’Enel, dove i libici dovrebbero partecipare all’aumento di capitale in corso. Ipotesi entrambe confermate ieri dal ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola: «I libici hanno liquidità e sono interessati».Così a prima vista l’Italia sembra nella scomoda posizione della preda. Ma ad uno sguardo più attento non si può escludere che il fronte libico diventi una seria opportunità. Così, ad esempio, è stato per Unicredit, che in autunno solo grazie ai fondi di Gheddafi (che ha sottoscritto anche la quota di spettanza della Cariverona) è riuscito a far andare in porto la necessaria ripatrimonializzazione dell’Istituto. Certo, ora il colonnello è il secondo socio di una delle due principali banche italiane con il 4,6% (che potrebbe diventare il 7 se le obbligazioni saranno convertite in azioni) e ha anche piazzato un suo uomo nel cda. Ma tutta l’operazione è stata gestita sotto l’attenta regia della Mediobanca di Cesare Geronzi, che è anche l’advisor per tutti gli investimenti dei libici in Italia. Difficile credere che il banchiere si lasci infinocchiare dagli uomini del colonnello. Così come è difficile che la situazione sfugga di mano ad Enrico Vitali, consulente di livello internazionale nonché socio dello studio tributario di Tremonti, che presiede il Comitato strategico del governo per gli investimenti stranieri in Italia.
E per quanto riguarda le opportunità non bisogna neanche sottovalutare le implicazioni dell’accordo sottoscritto dal premier Berlusconi con Gheddafi nell’agosto del 2008. Cinque miliardi in 20 anni per fare la pace sono tanti, ma se quei soldi finiranno in buona parte in pancia ad aziende italiane (come è previsto dal protocollo) piuttosto che ad aziende straniere l’esborso non sembra poi così oneroso. Senza contare che l’intesa prevede che la Libia utilizzi prevalentemente nostre imprese per realizzare il grande piano infrastrutturale di modernizzazione del Paese per cui il colonnello ha stanziato qualcosa come 150 miliardi di dollari. In ballo ci sono già aziende leader come Finmeccanica, Ansaldo, Fs, Impregilo, che si sono aggiudicate appalti da centinaia di milioni. Ma ci sarà spazio anche per centinaia di piccole e medie imprese. Con una contropartita così, forse qualche rischio si può anche correre. Tanto più che di fondi sovrani il mondo e pieno. E alcuni potrebbero persino far rimpiangere Gheddafi.

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