martedì 22 febbraio 2011

Le bombe di Tripoli colpiscono Piazza Affari

«Seguiamo con attenzione l’evolversi delle tensioni in Libia, però non siamo preoccupati per il gruppo». La tranquillità d’ordinanza ostentata dall’ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, peraltro alla vigilia di un delicato cda, non cambia molto la sostanza dei fatti. E cioè che agli sviluppi della rivolta in Libia è legato il destino di partecipazioni societarie italiane di primo livello.

A partire proprio da Unicredit, dove la finanza del colonnello Gheddafi è presente con un membro nel cda (il presidente della Banca centrale libica) e una quota complessiva del 7,5% (il 2,59% con la Libyan Investment Authority e il 4,98 con Central Bank of Libya per un controvalore di quasi 3 miliardi), che fa del Paese africano di gran lunga il primo azionista (subito dopo c’è il fondo arabo di Abu Dhabi, Aabar, con il 5%) del secondo gruppo bancario italiano, che ha ramificazioni che si estendono dalle Generali fino al Corriere della Sera.
Ma i libici sono presenti anche nel capitale del colosso della difesa italiana Finmeccanica (il 2% è detenuto dalla Lybian Investment Authority), in quello di Telecom e di Eni (con partecipazioni inferiori all’1%), in quello della società di infrastrutture per le tlc  Retelit (con il 14,8) e, ma è una partecipazione simbolica, nella Juventus (il 7,5%). Insomma, salotti buoni della finanza (basti pensare che Mediobanca è advisor per gli investimenti libici in Italia) e società strategiche per l’interesse nazionale. In che mani finiranno le azioni se Gheddafi dovesse cadere? Un governo militare, una coalizione guidata da formazioni islamiche? «Certo, qualche rischio per la partecipazione c’è», ha ammesso Andrea Comba, presidente della Fondazione Crt, azionista di Unicredit con il 3,3%.

Effetti diretti e immediati saranno, invece, quelli che colpiranno le società attive nel Paese nordafricano. A partire dall’Eni, che con il colonnello Gheddafi fa affari importanti da diversi decenni. L’ultimo, di qualche giorno fa, ha permesso alla russa Gazprom di entrare in Libia attraverso la cessione della metà delle quote detenute da Eni (il 33%) nel giacimento Elephant. Un accordo dall’alto valore commerciale, ma soprattutto strategico nell’ottica dei rapporti tra il Cane a sei zampe e Mosca. Agli impianti dell’Eni, che il primo operatore internazionale nell’estrazione di gas e petrolio (con concessioni rinnovate nel 2008 fino al 2047 in cambio di 28 miliardi di investimenti), è appeso anche l’approvvigionamento energetico italiano, visto che la Libia è il primo fornitore di greggio (il 30% del totale) del nostro Paese ed è uno dei principali nel gas (il 12,5%) per un totale del 10% del nostro intero fabbisogno.

E poi ci sono le numerosissime commesse di Finmeccanica, Ansaldo, Impregilo, Fs. Molte delle quali inserite nel grande piano infrastrutturale di modernizzazione del Paese per cui il colonnello avrebbe stanziato complessivamente qualcosa come 150 miliardi di dollari. Risorse che, anche grazie all’accordo di amicizia e cooperazione firmato da Berlusconi nel 2008, sarebbero dovute finire in gran parte in pancia ad aziende italiane. Le stesse che ora stanno purtroppo fuggendo dal Paese. Piani di rientro dei dipendenti sono stati messi in atto ieri da Finmeccanica, Impregilo Unicredit e dalle altre circa 130 aziende italiane presenti in Libia.
Notizie che non sono, ovviamente, piaciute ai mercati. Impregilo è crollata in Borsa del 6,1%, Unicredit del 5,7 e Eni del 5,1. Colpi che hanno fatto scivolare l’intero listino del 3,6%. Supera i confini dell’Italia, invece, l’effetto Libia sul prezzo del petrolio. La guerriglia in atto a Tripoli ha fatto schizzare le quotazioni internazionali del greggio portando il brent sulla piazza di Londra a 105 dollari al barile. Vale a dire il massimo dal settembre 2008.

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