martedì 8 febbraio 2011

Il governo chiama Marchionne. «I soldi qui, la sede dove vuoi»

 Va via, resta. A sentire la Cgil, la Fiat avrebbe già iniziato a preparare le valigie. «Abbiamo già avuto segnali concreti, nelle scorse settimane e a fine 2010, di spostamenti per periodi non brevi di lavoratori degli enti centrali Fiat negli Stati Uniti», sostiene Federico Bellono, segretario generale della Fiom torinese. I fatti però sono altri. E sono gli stessi su cui si è discusso e polemizzato fino all’inverosimile negli ultimi mesi, a partire dalla salvaguardia dei livelli occupazionali fino agli investimenti produttivi.

«È un fatto», spiega Roberto di Maulo della Fismic, «che dal 7 marzo comincia il ciclo di assunzioni per oltre 5mila lavoratori di Pomigliano e che nella nuova fabbrica si produrranno 300mila vetture l’anno che finora sono assemblate in Polonia. È un fatto che a Mirafiori si produrranno 280mila vetture all’anno, producendo in Italia anche Suv americani (fatto mai accaduto prima). È un fatto che per questi ultimi e per le Alfa di Mirafiori la gran parte della componentistica arriverà non dagli Usa, ma dal polo piemontese, con importanti risultati occupazionali».

Ed è su questi punti che si sta concentrando l’attenzione del governo in vista dell’incontro con Sergio Marchionne di sabato prossimo a cui parteciperanno, oltre a Silvio Berlusconi e al sottosegretario Gianni Letta, anche i ministri dell’Economia, del Lavoro e dello Sviluppo economico. «Quello che conta ai fini del radicamento nel nostro paese», ha spiegato ieri Maurizio Sacconi, intervenendo a Mattino 5, «è la realizzazione degli investimenti, perché sono scelte che diventano per lungo tempo irreversibili». Il punto centrale, insomma, è il rispetto degli impegni contenuti nel progetto Fabbrica Italia. Ma anche la consapevolezza che il gruppo di Torino non può restare prigioniero dei confini nazionali. «Fiat è un patrimonio fondamentale del nostro Paese», ha detto il ministro del Welfare, «che per sopravvivere deve crescere nella dimensione globale e allo stesso tempo mantenere radici profonde nel nostro Paese, non solo in termini di capacità produttiva, ma anche direzionali e progettuali». E in questo senso non bisogna tanto guardare all’integrazione con Chrysler, «funzionale alle esigenze di un gruppo globale che voglia competere», ma agli accordi di Pomigliano e Mirafiori, «che hanno posto le premesse non solo per il radicamento produttivo, ma anche per un ulteriore rafforzamento delle funzioni di progettazione, stile, ricerca e innovazione».
Anche Paolo Romani è convinto che il gran polverone alzato sulle parole dell’ad della Fiat non corrisponda alla realtà. «Ho sentito Marchionne al telefono», ha raccontato il ministro in un’intervista, «e mi ha detto che sono solo battute». Romani resta quindi «ottimista» sul fatto che il gruppo continuerà ad essere «una multinazionale italiana».

Detto questo, il governo non ha alcuna intenzione di abbassare la guardia. «Ne ho parlato con Letta e Berlusconi», ha aggiunto il ministro, «e abbiamo concordato che sulla questione si debba intervenire al massimo livello, perché la testa della casa automobilistica deve restare italiana». Secondo Sacconi la richiesta di Palazzo Chigi a Marchionne sarà «soprattutto quella di un percorso condiviso con le istituzioni e con le parti sociali». Il punto di arrivo dovrà essere l’investimento di 20 miliardi su 6 insediamenti previsto da Fabbrica Italia. E su questo non ci saranno passi indietro. Anche perché, ha detto Sacconi, «il settore dell’auto, tra diretto e indotto rappresenta il 10% del Pil». Di sicuro, comunque, il manager sarà anche chiamato a fare chiarezza sulle ipotesi circolate di una Fiat a più “teste”. Molti temono infatti che dietro la formula rassicurante trovata dal presidente John Elkann si nasconda la possibilità che negli Usa vengano spostate le funzioni strategiche e direzionali dell’azienda, lasciando in Italia solo il Centro Stile e il Centro Ricerche.

© Libero