martedì 8 novembre 2011

Cattivi maestri. Le banche tedesche sono zeppe di titoli tossici, ma chiedono a noi di vendere l'oro

«Per ridurre sensibilmente il suo debito l’Italia potrebbe vendere parte delle riserve d’oro». La Germania non perde né il pelo né il vizio. Dopo le continue ingerenze di banchieri, ministri e della stessa cancelliera Angela Merkel, l’ennesima provocazione arriva dal presidente della commissione parlamentare per l’Europa, Gunther Krichbaum, che ci suggerisce di mettere i lingotti della Banca d’Italia sul mercato per pagare i nostri debiti. Un po’ come i disperati che vanno al banco dei pegni per cercare di raggranellare qualche soldo con l’anello della nonna.

L’operazione, in realtà, era stata ventilata proprio a carico della Germania, che nelle ultime settimane avrebbe ricevuto forti pressioni da parte della comunità internazionale su un possibile impegno delle riserve auree della Bundesbank ad ulteriore garanzia collaterale per il fondo salva-Stati. Apriti cielo. L’oro tedesco è «intoccabile», ha replicato stizzito il ministro dell’Economia, Philipp Roesler.
È curioso come Berlino continui a ficcare impunemente il naso nei nostri affari, senza mai preoccuparsi minimamente dei suoi. Certo, i maestrini tedeschi hanno buon gioco a salire in cattedra sventolando titoli di Stato che offrono rendimenti più bassi di oltre il 6% rispetto ai nostri. Ma siamo sicuri che la grande locomotiva d’Europa abbia le carte così in regola? Non lo pensa affatto Franco Bernabé, che ieri in un’intervista al Corriere si è scagliato contro i «falsi miti» europei. La Germania, ha spiegato il presidente di Telecom, «non è il Regno Unito che ha sempre, puntualmente rimborsato le obbligazioni di Sua Maestà. Tra il 1919 e il 1948, in forme diverse, ha dichiarato 4 volte il default».

Anche senza andare così indietro, ci sarebbe molto da dire sullo stato di salute del sistema finanziario tedesco, che continua mettere sotto il tappeto montagne di spazzatura senza che nessuno dica nulla. Per avere un’idea, il livello dei titoli tossici (ricordate i derivati che hanno fatto esplodere la crisi dei supbprime nel 2008?) in pancia a Deutsche Bank raggiunge il 96% del patrimonio di vigilanza contro il 18% di Unicredit e l’8% di Intesa. La leva finanziaria, il rapporto tra attività e capitale, mediamente in Germania è di 35 (ovvero avete 100 euro e chiedete un prestito di 3.500 euro), da noi è appena di 14. Non è un caso che Berlino, su un totale in Europa di 1.240 miliardi, ne abbia dovuti sborsare 282 per puntellare le sue banche, mentre da noi il conto si è fermato a 4 (che sarebbe zero, visto che stiamo parlando dei Tremonti bond). Del resto, basta chiedere all’ex ad di Unicredit, Alessandro Profumo, quanti problemi abbia avuto con la controllata Hvb e con tutte le attività tedesche, per capire che la qualità del credito non è proprio il fiore all’occhiello della Germania.

Certo, si dirà, ma sui fondamentali Berlino viaggia come un treno. Vero. Ma le differenze sono tali da giustificare rimbrotti e lezioncine quotidiane? A settembre la produzione industriale in Germania è scesa del 2,7% rispetto alle stime che parlavano di un calo dello 0,5%. Nello stesso mese gli ordinativi sono crollati del 4,3%, un calo che non si registrava dal gennaio del 2009, nel punto più basso della crisi dei mutui. Qualche giorno fa, infine, l’Agenzia federale tedesca del lavoro ha sorpreso tutti gli analisti annunciando che la disoccupazione è cresciuta per la prima volta in due anni al 7%, dal 6,9 di settembre.
Forse, piuttosto che perdere tempo ad insegnarci come dovremmo uscire dalla crisi, i tedeschi dovrebbero spiegarci per quale motivo Bruxelles ha deciso di castigare le banche italiane imponendo una ricapitalizzazione doppia di quelle tedesche. Oppure, semplicemente, dirci perché Berlino due anni fa, quando si scoprì che il deficit di Atene era al 12 e non al 6% del pil, decise di non intervenire subito per salvare la Grecia.

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