venerdì 20 novembre 2009

In Italia un euro su due se ne va in tasse. E per pagarle l’azienda perde 334 ore

Non solo alte, pure complicate. Mentre i Commercialisti ci spiegano che per ogni euro guadagnato la metà se ne va in tasse, dalla Banca mondiale ci fanno sapere che i balzelli italiani per le imprese sono tra i più difficili e lunghi da pagare dell’intero pianeta. La buona notizia? Nell’ultimo anno le cose non sono peggiorate. L’Italia, secondo quanto risulta dal rapporto Payng Taxes realizzato dalla PricewaterhouseCoopers in collaborazione con la World Bank, è stabile al 136esimo posto su 183 Paesi. Il che significa, in soldoni, che da noi per pagare tutte le tasse un’impresa di medie dimensioni impiega normalmente 334 ore, mentre la media della Ue è di 232, in riduzione rispetto alle 257 dell’anno precedente. Anche la media mondiale, di 286 ore, è ben più bassa della nostra.

Le cose non vanno meglio sugli altri indicatori. In particolare, l’Italia risulta al 166mo posto nella classifica del total tax rate, che sarebbe il peso complessivo degli oneri tributari e previdenziali sul conto economico di un’impresa. Ebbene, a fronte di una media mondiale del 48,3% ed europea del 44,5%, nel nostro Paese la percentuale è del 68,4%.

Per quanto riguarda il numero dei pagamenti siamo un pochino più alti, al 48esimo posto. In Italia le imprese devono fare i conti in media con 15 balzelli, contro i 9,5 del resto del mondo e gli 11 della Ue.

Malgrado la cattiva performance gli esperti non hanno perso completamente la fiducia. Anzi. «Il governo italiano attuale», spiega Fabrizio Acerbis, Tax Leader PwC Italia, «ha identificato nella semplificazione normativa e nell’alleggerimento della burocrazia uno dei punti del proprio programma di governo». Alcune misure sono già state introdotte, prosegue, «ma i risultati in termini di benefici per i contribuenti imprese, dovranno essere valutati una volta entrate a regime». Se anche altre iniziative, quale la possibile riduzione dell’Irap, dovessero andare in porto, Acerbis non esclude un «miglioramento complessivo del ranking dell’Italia».

Meno ottimismo c’è dalle parti dei dottori commercialisti, secondo i quali la pressione fiscale reale nel 2008 non si attesta al già alto livello del 42,8%, come da stime ufficiali, ma al 50,6%, scavalcando tutte le classifiche europee.

Il dato sul peso delle tasse va infatti misurato, dicono i professionisti del fisco, depurando il dato del Pil dalla quota di economia sommersa che comunque viene inserita nei calcoli ufficiali. «Fisco leggero e sanzioni pesanti», questa la richiesta arrivata ieri dal presidente nazionale dei Commercialisti, Claudio Siciliotti, durante la relazione annuale dell’associazione. Sulla stessa linea d’onda l’allarme lanciato da Giuseppe Morandini, rappresentante dei “piccoli” di Confindustria, che ha parlato di «carico fiscale ormai arrivato a livelli insopportabili». Nel mirino, ovviamente, l’Irap di cui tanto si discute in queste settimane. «È un’imposta ingiusta e la sua riduzione non può essere accantonata», ha detto Siciliotti. «Si può studiare una exit strategy per superarla, un percorso graduale per abolirla, sostituendola con altri tributi», ha proseguito il presidente dei Commercialisti, che giudica la riduzione degli acconti Irpef solo «una misura parziale». Tra le altre richieste avanzate da Siciliotti: il rilancio dell’accertamento sintetico e del redditometro; l’integrale deducibilità dei costi per la formazione obbligatoria; la detraibiltà dell’Irpef dei costi per le compensazioni Iva.

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