venerdì 17 giugno 2011

Le aziende italiane in Tunisia pronte a nuovi investimenti

Tra gli scaffali degli uffici del ministero del Piano e della Cooperazione internazionale, situato in una delle zone più eleganti di Tunisi, a pochi passi dalla residenza dell’ambasciatore italiano Pietro Benassi, c’è rimasto ancora qualche vecchio depliant pubblicitario su cui campeggia la foto dell’ex dittatore Ben Ali. Una dimenticanza di qualche funzionario distratto. L’epoca del vecchio regime, infatti, è lontana anni luce.

Il Paese si prepara a voltare definitivamente pagina con le elezioni, fissate ad ottobre, dell’Assemblea costituente. E l’Italia è pronta a fare la sua parte. Nella due giorni organizzata dal ministero dello Sviluppo economico insieme all’Ice, Paolo Romani, non ha fatto altro che parlare di «sostegno alla transizione democratica». Un sostegno che passa attraverso lo sviluppo. È per questo che il ministro ha deciso di organizzare la prima missione di un Paese europeo in Tunisia dove non si parla di immigrazione e di sicurezza, ma di opportunità per le imprese e per il lavoratori tunisini, giovani qualificati che stanno ingrossando le file dei disoccupati che viaggiano oltre il 10%.

Non si sono firmati contratti nel corso del forum economico e dei numerosi incontri bilaterali tra Romani, il primo ministro, i ministri degli Esteri, del Commercio e della Cooperazione. L’intenzione era quella di ricucire un rapporto, di riavviare un legame di fiducia tra il tessuto imprenditoriale italiano e il governo transitorio tunisino. «Solamente se qui ci sarà sviluppo ci sarà la possibilità di una transizione più ordinata», ha sottolineato Romani, «loro si aspettano dagli italiani, dal governo e dagli imprenditori, questo contributo, vogliono che le nostre aziende restino qui. Non li deludiamo». La presenza italiana è già consistente. Delle 7200 aziende straniere che operano in Tunisia 744 sono italiane (Benetton, Eni, Fiat, Terna, Ansaldo Energia, ma anche moltissime Pmi), con circa 55mila occupati. L’obiettivo è aumentare ancora di più la potenza di fuoco, sfruttando le opportunità della nuova stagione tunisina. Potenzialità enormi, sostengono gli addetti ai lavori, sono rappresentate dall’apertura al mercato di quei settori come l’immobiliare, i trasporti e le comunicazioni prima monopolizzati dalla famiglia di Ben Ali. Poi c’è il turismo, che prima della rivolta produceva il 7% del Pil.

Le occasioni di business non mancano. Il Paese cresceva a ritmi di oltre 3% prima della rivoluzione e l’interscambio con l’Italia era a quota 5,8 miliardi. Ripartire è possibile, ma ad alcune condizioni. La prima è che gli investimenti siano portati avanti da aziende ad alto valore aggiunto. La parola chiave non è delocalizzazione, ma internazionalizzazione. La seconda riguarda il governo italiano, che non può continuare a disperdere le energie attraverso una serie di interventi paralleli e non sempre coordinati. La questione è vecchia, ma gli imprenditori, soprattutto quelli più piccoli, non smettono di lamentarsi. Ice, Simest, Sace, Enit, Invitalia: troppi soggetti per un unico obiettivo. La riforma per il riordino degli enti dedicati alla promozione delle aziende italiane all’estero giace nei cassetti di Palazzo Chigi da più di un anno. La delega è scaduta da qualche settimana, ma in autunno, con la legge sullo statuto delle imprese,  sarà possibile  aprire un’altra finestra. L’occasione non dovrebbe essere persa. In ballo ci sono risparmi per lo Stato e vantaggi per le imprese vocate all’export, su cui l’Italia si gioca gran parte delle chances di agganciare la ripresa.

© Libero