Quando investono in Italia, solitamente, scatenano reazioni e polemiche. Recentissimo è il caso di Unicredit che, alla fine, è anche costato la poltrona all’ex ad Alessandro Profumo. Ma in fondo pure i critici sanno che il business col mondo arabo è un’opportunità cui l’Italia, soprattutto in questo periodo, non può permettersi di rinunciare. Oltre alle attività contestate dei tanto temuti fondi sovrani, infatti, i Paesi del medio oriente e del golfo rappresentano mercati emergenti in forte espansione dove le nostre imprese possono giocare un ruolo di primo piano.
Di questo si sta parlando durante la missione organizzata dal governo insieme a Confindustria, Abi, Ice e Simest che ha portato in giro tra Riad, Dammam, Dubai e Abu Dhabi 130 imprese, 10 tra i principali gruppi bancari, e 12 associazioni industriali.
I soldi da quelle parti non mancano davvero. Oltre dieci anni di boom del greggio, volato dai 10 dollari al barile di inizio ’99 ai 147 dollari dell’88 fino agli 87 toccati ieri, ai massimi degli ultimi due anni, hanno trasformato Arabia saudita ed Emirati in miniere d’oro capaci di macinare diverse centinaia di miliardi di dollari di surplus l’anno. Risorse che saranno spese anche in grandi progetti infrastrutturali per la modernizzazione dei Paesi.
Per finanziare il piano di stimolo all’economia l’Arabia saudita (che rappresenta il 25% del pil dell’intera area) ha messo sul piatto 400 miliardi di dollari per i prossimi cinque anni. Circa 70 saranno riservati al grande progetto della quattro città economiche, che dovrebbero contribuire ad accrescere il pil nazionale per ben 150 miliardi attraverso la realizzazione di abitazioni, servizi e infrastrutture strategiche. Complessivamente il 48% del budget pubblico è destinato alla costruzione di porti, 5 aeroporti, 3 mila km di binari ferroviari, telecomunicazioni, 6 mila km di strade, 96 nuovi ospedali e 1.200 nuove scuole. Un’occasione che non sarà riservata solo ai grandi, come Eni, Saipem, Italcementi, che già operano sul territorio, ma anche alle pmi. Le imprese straniere possono infatti ottenere gli stessi incentivi di cui godono quelle saudite, in particolare la riduzione dell’aliquota di imposta dal 45 al 30% per le aziende di dimensioni inferiori.
Più ramificati sono i rapporti tra Italia ed Emirati Arabi. La nostra presenza imprenditoriale è già molto solida con 120 società con propria filiale (tra cui un ufficio di rappresentanza a Dubai di Intesa Sanpaolo) e molte altre che operano tramite agenti locali. Ma è soprattutto della presenza araba in Italia che si è parlato molto negli ultimi anni. L’operazione più recente è quella con cui il fondo Aabar ha acquisito il 4,9% di Unicredit. Molto attivo è anche il fondo sovrano Mubadala, controllato dal governo di Abu Dhabi, che detiene il 35% di Piaggio Aereo industries e ha una partnership industriale con Finmeccanica per la costruzione dell’M346. C’è poi il 2% di Mediaset detenuto dal fondo Abu Dhabi Investment Authority, che possiede anche il 2% di Bulgari e ha una partecipazione del 4% nella banca popolare del Commercio e una piccola quota di Unicredit. Di recente, invece, la Fiat ha esercitato un’opzione call sul 5% di Ferrari detenuto da Mubadala, mentre è ancora in essere la partnership con Poltrona Frau di Luca Cordero di Montezemolo.
Un legame su cui ora il governo conta di fare leva per rafforzare la presenza italiana. «Gli Emirati», ha spiegato il viceministro Adolfo Urso, che ha partecipato alla missione insieme al titolare dello Sviluppo, Paolo Romani, e degli Esteri, Franco Frattini, «ci hanno indicato i settori dove il made in Italy avrebbe una corsia preferenziale come la costruzione della nuova rete ferroviaria, il rifacimento delle autostrade, nuovi porti ed aeroporti». Anche secondo Frattini le nostre imprese devono cogliere l’opportunità di una «straordinaria sintonia» tra il nostro governo e quelli dei Paesi del Golfo. Concetto ribadito dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che ha parlato di «forte volontà politica reciproca» di creare rapporti più stretti. L’Italia, ha sintetizzato Romani, «vuole diventare la porta dell’Europa verso il Medio Oriente».
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