mercoledì 29 maggio 2013

"Lo Stato ha perso 90 miliardi". E' la prova: le manovre erano inutili

«L’adozione di una linea severa di austerità non ha impedito che gli obiettivi programmatici assunti all’inizio della legislatura fossero mancati». In altre parole, la valanga di tasse che i governi ci hanno fatto pagare negli ultimi anni non è servita a nulla. A più di qualcuno il sospetto era già venuto da tempo. A mettere nero su bianco il fallimento delle politiche di lacrime è sangue ci ha pensato ora la Corte dei Conti che, numeri alla mano, ha tracciato il bilancio della legislatura appena conclusa nel Rapporto 2013 sul coordinamento della finanza pubblica. Non è la prima volta che i magistrati contabili puntano il dito sugli effetti perversi dell’austerity, che alla fine della fiera, a forza di impoverire il Paese, toglie alle casse pubbliche più di quello che porta. Il consuntivo degli ultimi cinque anni di governo non solo conferma la tesi, ma offre un quadro che va oltre ogni peggiore previsione.

 Tutto ruota intorno alla mostruosa cifra di 230 miliardi di Pil persi dal 2008 ad oggi. Una voragine senza fondo che ha risucchiato senza pietà tutti i sacrifici degli italiani. Malgrado un aumento della pressione fiscale di oltre un punto percentuale rispetto al 2009, scrive la Corte dei Conti, «la perdita permanente di prodotto si è tradotta in una caduta del gettito di quasi 90 miliardi» rispetto alla proiezione di primo periodo. Il risultato è che i 140 miliardi complessivi di manovre correttive varate negli ultimi cinque anni, circa 30 dei quali eserciteranno i loro effetti nel biennio 2013-2014, non sono neppure bastati a far tornare i conti. Il consuntivo di legislatura, si legge infatti nel rapporto, «ha mancato il conseguimento del programmato pareggio di bilancio, con un indebitamento netto risultato alla fine di quasi 50 miliardi più elevato dell’obiettivo originario». Certo, si può dare la colpa alla crisi internazionale, alla recessione globale. Ma i magistrati contabili non sembrano dello stesso avviso. Il problema, spiegano, è che, «alla luce dei risultati, l’intensità delle politiche di rigore è stata essa stessa una rilevante concausa dell’avvitamento verso la recessione».

La sostanza, insomma, è che l’austerity alla fine ha divorato se stessa, generando solo povertà, disoccupazione e decrescita economica. I numeri parlano chiaro. Per ogni miliardo di Pil nominale andato perso, spiega la Corte dei Conti, «il gettito si è ridimensionato di circa 400 milioni». Un buco impossibile da colmare a colpi di manovre. Secondo i magistrati contabili, infatti, «l’aumento del disavanzo e la mancata realizzazione dell’obiettivo di pareggio del bilancio è interamente ascrivibile alla caduta del gettito fiscale». L’effetto boomerang delle tasse è ben visibile nel 2012. Malgrado un gettito complessivo aumentato del 2,4% le entrate sono rimaste al di sotto degli obiettivi previsti dal governo di 30 miliardi. Ammanco di cassa che ha assorbito il 65% dell’aumento delle entrate deciso con le manovre correttive di luglio e dicembre 2012 e a cui, secondo la Corte, va attribuito interamente il mancato conseguimento degli obiettivi di saldo.

A poco è servita, per arrotondare i saldi, l’azione di contrasto all’evasione fiscale tanto sbandierata dal governo Monti e dal direttore dell’Agenzia delle entrate, Attilio Befera. Al netto degli annunci e dei blitz a Cortina nel 2012 il fisco ha recuperato 12,1 miliardi rispetto ai 12,7 incassati nel 2011.
L’unica cosa che sembra aver funzionato, seppure in un’ottica emergenziale che poco piace alla Corte dei Conti, sono i tagli lineari alla spesa pubblica. Pratica che, unita ad altre misure più selettive, ha comportato una diminuzione aggiuntiva della spesa di circa 40 miliardi rispetto alle stime iniziali. Anche in questo caso, però, la voragine del Pil si è fatta sentire. Pur a fronte dei forti risparmi, la spesa primaria è passata in termini percentuali dal 43,2 al 45,6%.
Adesso, la parola d’ordine per uscire dalla crisi è crescita. Senza, però, abbandonare la linea del risanamento. I margini di flessibilità che arriveranno dalla chiusura della procedura d’infrazione, ha avvertito il presidente della Corte Luigi Giampaolino, dovranno essere utilizzati «in modo oculato». Ciò che serve all’Italia dall’Europa, ha spiegato, «sono stimoli per crescere di più, non deroghe per spendere di più».

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