Settantacinque miliardi di risorse aggiuntive in dieci anni. Non servono miracoli, ma trivelle. Il tesoro è custodito nel sottosuolo e aspetta solo che qualcuno si metta a scavare. Un disturbo di cui il governo dovrebbe e potrebbe farsi carico, considerata l’infinità di dossier aperti sul tavolo, tra Imu, Cig, esodati e cuneo fiscale, piuttosto che continuare a raschiare il fondo del barile.
Del resto, sempre di barili si tratta. Già, perché, a differenza di quanto comunemente si pensi, la nostra Penisola sul petrolio e sul gas praticamente ci galleggia. I numeri parlano chiaro: le riserve accertate di idrocarburi nel nostro Paese sono 126 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (tep), quelle potenziali ammontano a circa 700 milioni di tonnellate. L’Italia come l’Arabia e il Texas? Non proprio, ma il confronto con l’Europa lascia pochi dubbi. Esclusi i Paesi nordici (in particolare Danimarca, Norvegia e Inghilterra) con significative riserve off-shore, i giacimenti italiani sono i più importanti del Vecchio Continente. Eppure, l’Italia copre con la produzione di idrocarburi solo il 7% del fabbisogno nazionale. L’energia preferiamo importarla dall’estero. E di petrolio e gas ne acquistiamo in abbondanza, considerato che i due combustibili coprono rispettivamente il 41 e il 37% della domanda. Complessivamente arriva da fuori l’84% dell’energia necessaria a far funzionare il Paese contro una media Ue del 53%. Il costo è salato: la bolletta estera nel 2011 è stata di 63 miliardi (senza l’energia l’Italia avrebbe avuto nel 2011 un avanzo commerciale di 37 miliardi) in aumento di 10 miliardi sul 2010.
Perché continuiamo a spendere tutti questi soldi? Nessuno lo sa con esattezza. Di sicuro c’è che l’Italia ha smesso da decenni di investire negli idrocarburi. Nonostante la non trascurabile presenza di gas e petrolio, si legge in un rapporto di Assomineraria dello scorso autunno, «l’attività di perforazione ha segnato un crollo a partire dai primi anni Ottanta, con un calo rispetto al 2011 dell’84%. I pozzi trivellati sono passati dai 139 del 1982 ai 37 (di cui solo 4 sono pozzi di sviluppo, gli altri sono ampliamenti) del 2011, con un crollo verticale dell’attività di esplorazione, che è passata da 104 pozzi all’unico scavo effettuato nel 2011 a scopo di ricerca. Uno scavo, si legge nel rapporto, «che non risulta ancora completato».
Anomalia che risulta ancora più assurda se si pensa che l’Italia ha sviluppato un forte settore industriale nell’estrazione (upstream) con notevoli tradizioni, competenze e presenza internazionale. Il settore conta oltre 120 società attive, più di 65mila occupati, un giro di affari nel 2010 di oltre 20 miliardi di euro, di cui 5,5 miliardi solo in Italia.
Imprese che sono pronte a fare di più. Secondo Assominerari il settore ha già pronti 88 progetti immediatamente cantierabili per 15,5 miliardi di euro di investimenti, di cui 11,8 per esplorazione e sviluppo e i restanti 3,7 miliardi per gli stoccaggi. Una potenza di fuoco che potrebbe consentire, secondo il rapporto dell’associazione di categoria, da qui al 2020 di raddoppiare la produzione di idrocarburi in Italia, portandola dagli attuali 11,9 milioni di tep a 21,6 milioni sfruttando solo le riserve accertate. Quelle potenziali potrebbero addirittura far aumentare la posta. I benefici di tale operazione sarebbero enormi. La dipendenza energetica dall’estero scenderebbe dall’83 al 77%, il deficit commerciale si ridurrebbe 4,8 miliardi e, udite udite, lo Stato aumenterebbe le sue entrate fiscali di 2,5 miliardi l’anno. Nell’arco di un decennio, spiegano da Assomineraria, «che è il tempo di sfruttamento dei giacimenti, si genererebbero circa 50 miliardi di importazioni evitate destinabili alla crescita interna e 25 miliardi di maggiori introiti per le casse pubbliche».
Una fantasia? La pensano diversamente i due ex ministri dello Sviluppo e dell’Ambiente, Corrado Passera e Corrado Clini, che alla produzione di idrocarburi hanno dedicato un intero capitolo della nuova Strategia energetica nazionale. Nell’ultima versione del documento, pubblicato lo scorso marzo, si considera l’ipotesi di raddoppiare la produzione nazionale entro 7-8 anni non solo fattibile, ma auspicabile. Considerate le ingenti riserve e il costo della bolletta energetica, si legge nella Sen, «è doveroso fare leva anche su queste risorse, dati i benefici in termini occupazionali e di crescita, in un settore in cui l’Italia vanta notevoli competenze riconosciute». Secondo i calcoli del governo è possibile passare per il gas dagli attuali 51 milioni di barili (boe) a 75 e per il petrolio dagli attuali 38 a 95. Facendo le dovute equivalenze, si passerebbe da 12,9 a 24,82 tonnellate.
Cosa aspettiamo? Che vengano eliminati due piccoli ostacoli. Il primo è costituito dagli iter burocratici e autorizzativi. La legge prevede tempi, secondo i tipi di attività, dai 3 ai 18 mesi. In pratica, si legge nel rapporto di Assomineraria, «i tempi effettivi possono arrivare a 3 anni e mezzo per la fase esplorativa e più di 9 anni per la fase di estrazione». Se tutto va bene, considerata la furia pseudo ambientalista dei territori e delle associazioni che in Italia paralizza da decenni tutte le nuove attività in campo energetico. Il secondo punto, inutile dirlo, riguarda il fisco. Tra royalties e tasse ordinarie, denunciano le imprese, «il prelievo sulle attività di estrazione e produzione di idrocarburi è tra i più elevati in Europa». Mettete insieme le due cose, ed ecco spiegato quell’unico pozzo aperto in Italia a caccia di giacimenti.
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