Piano Solo, Calvi, Sindona, la P2, Gladio, Moro, Dalla Chiesa, Pecorelli... non c’è mistero, scandalo, omicidio, dossier o episodio oscuro della storia della Repubblica italiana che non sia stato, in un modo o nell’altro, collegato a Giulio Andreotti. Una delle ultime vicende in ordine di tempo è quella che lega il sette volte presidente del Consiglio scomparso ieri all’eta di 94 anni ai segreti dello Ior, la banca del Vaticano su cui da sempre si concentrano le attenzioni di giornalisti, scrittori, e dietrologi di mezzo mondo.
Il nome di Andreotti spunta fuori dal voluminoso archivio di Monsignor Renato Dardozzi, cancelliere della Pontificia accademia delle scienze e consigliere per vent’anni dei segretari di Stato che si sono succeduti in Vaticano, dal cardinale Agostino Casaroli ad Angelo Sodano (che per statuto presiedono la commissione di vigilanza dell’Istituto per le opere religiose). Migliaia di faldoni che lo stesso Dardozzi ha deciso di rendere pubblici dopo la sua morte, avvenuta nel 2003, e su cui l’inviato di Libero, Gianluigi Nuzzi, nel 2009, ha costruito il dettagliatissimo libro-inchiesta Vaticano Spa (Chiarelettere). Nel ripercorrere le mille trame che si dipanano dalla documentazione raccolta da Dardozzi il giornalista si imbatte anche nel conto che nel luglio del 1987 monsignor Donato De Bonis intesta alla Fondazione Francis Spellman (il caso vuole che fu proprio il cardinale americano Spellman ad accreditare il discusso presidente Marcinkus presso il Papa Paolo VI). Sul conto fra il 1987 e il ’92 vengono depositati circa 26 miliardi di vecchie lire più una movimentazione di titoli di Stato per 42 miliardi. Soldi che finiscono in parte ad enti religiosi, missioni, opere religiose, ordini e monasteri. Ma tra i bonifici ci sono anche quelli diretti al vecchio cassiere della Dc, severino Citaristi (60 milioni di lire) e a Odoardo Ascari (400 milioni di lire), uno dei difensori di Andreotti nel procedimento per mafia a Palermo. E il conto finisce anche nel mirino del pool di Mani Pulite che indagava sulla maxitangente Enimont. A coinvolgere direttamente l’ez senatore a vita è però lo stesso De Bonis, che nelle volontà testamentarie obbligatotire per ogni rapporto aperto allo Ior scrive: «Quanto risulterà alla mia morte a credito del conto sia messo a disposizione di Sua Eccellenza Giulio Andreotti per opere di carità e di assistenza secondo la sua discrezione».
Lui, Belzebù, non si è ovviamente mai scomposto per la rivelazione e a Nuzzi si è limitato a rispondere: «Non ricordo di quel conto». Delle tante accuse ad Andreotti, del resto, poche sono rimaste in piedi. C’è chi è pronto a sostenere che la sua ombra sia ben visibile dietro le morti di Giorgio Ambrosoli e di Michele Sindona, ma anche del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e del giornalista Mino Pecorelli. Chi lo tira in ballo sulla P2, sulle operazioni sporche della Gladio, sul rapimento Moro. Accuse e illazioni che si sono stratificate negli anni e sono culminate in quel bacio teneramente schioccato sulla guancia del boss Totò Riina.
La verità processuale, però, dopo i due lunghi processi di Palermo (associazione mafiosa) e Perugia (Pecorelli) non va oltre la prescrizione per una «ravvisabile» associazione a delinquere avvenuta prima del 1980. Per la verità storica bisognerà attendere. Gran parte di essa potrebbe essere racchiusa in quello che viene definito il grande armadio della Prima Repubblica. Uno sterminato archivio che Andreotti a continuato ad alimentare fino all’ultimo è che è ora custodito nel cavo blindato dell’Istituto Don Sturzo dove tutti i principali esponenti della Dc hanno lasciato le loro carte. Si tratta di oltre 3.500 faldoni che coprono circa 600 metri lineari, in gran parte ancora da classificare. Carte che, ora più che mai, viaggiano tra la storia, il mito e la leggenda.
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