venerdì 30 settembre 2011

Soviet Italia: lo Stato controlla ancora 13mila società (3mila in più del 2003)

I dati in parte erano già noti. Ma i numeri snocciolati ieri dal rapporto stilato dal capo economista della Cdp, Edoardo Reviglio, al seminario sulle dimissioni fanno comunque un po’ impressione. A partire da quelle 13mila (addirittura cresciute rispetto alle 10mila del 2003) società disseminate sul territorio italiano che, alla faccia di privatizzazioni e liberalizzazioni, ancora risultano controllate o partecipate dallo Stato. A questo esercito di aziende pubbliche, dal sapore decisamente sovietico, si aggiungono immobili, terreni, infrastrutture, risorse naturali, beni culturali. Il tutto, bizzarra coincidenza, fa più di 1.800 miliardi, praticamente la stessa cifra del nostro debito.

È quello che Giulio Tremonti definisce il «grande libro del patrimonio pubblico» e che da oggi, almeno nelle intenzioni, dovrebbe essere preso d’assalto per un’operazione di potatura che dovrebbe portare diverse decine di milardi nelle casse del Tesoro. «Prende avvio», ha detto il ministro dell’Economia, che durante il seminario ha dovuto accontentarsi di avere accanto Gianni Letta invece di Silvio Berlusconi, «una grande riforma strutturale per la riduzione del debito e per la modernizzazione e la crescita del Paese».
Il compito si presenta tutt’altro che agevole. Basti pensare che i soli immobili pubblici, che valgono circa 500 miliardi di euro, fanno capo ad oltre 9mila soggetti diversi. Dei 1.800 miliardi, secondo la relazione di Reviglio, solo 700 sono immediatamente fruttiferi. Mentre degli immobili solo il 5-10% è vendibile, in 3-4 anni. Quanto alle partecipazioni del Tesoro, valgono nel complesso oltre 44 miliardi (di cui 17 solo per le quote in Eni, Enel e Finmeccanica), ma è chiaro che non si può da un giorno all’altro mettere tutto sul mercato.

Da sforbiciare, comunque, ce n’è in abbondanza. Soltanto per pagare gli 80mila membri degli organi societari delle aziende pubbliche, ad esempio, lo Stato spende 2,5 miliardi di euro. Le ricette ventilate ieri oscillano dalle dismissioni secche (che porterebbero pochi soldi, ma subito) alle politiche di valorizzazione (che nel lungo periodo frutterebbero di più). Nel secondo caso, a regime (non si sa quando), la stima è di 9,8 miliardi di deficit in meno all’anno. Nel caso delle cessioni, si parla di 25-30 miliardi che potrebbero arrivare in tempi relativamente brevi dalla cessione degli immobili. Altri 10 miliardi arriverebbero dalla vendita dei diritti CO2. Capitolo, quest’ultimo, non troppo chiaro. Il riferimento dovrebbe essere agli 800 milioni l’anno di quote di emissioni CO2 che, dal 2013, lo Stato venderà alle imprese nell’ambito degli accordi internazionali per la riduzione dei gas serra. Il che farebbe, da qui al 2020, con gli attuali prezzi, circa 20 miliardi, di cui la metà vincolati da progetti europei.
In attesa di ulteriori dettagli e ulteriori riunioni con fondi e società disposte ad investire, la partita più concreta sembra, per ora, quella sugli immobili. Il Tesoro ha già annunciato che a gennaio sarà costituita una Sgr immobiliare, che funzionerà come un fondo d’investimento e cederà quote sul mercato.


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