«O noi o loro». Dove loro sta per la Germania di Angela Merkel. Sono anni che Paolo Savona mette in guardia la classe dirigente italiana, ed europea, dai rischi che possono scaturire da un’unione azzoppata e incompleta. Anni in cui l’economista esperto di sistemi monetari e di politiche comunitarie (fu lui nel biennio 2005-2006 a guidare il Comitato tecnico governativo per la Strategia di Lisbona) ha continuato a ripetere che accanto ad un piano A per restare nell’euro i governi avrebbero dovuto preparare per tempo anche un piano B per sottrarsi alla morsa. Il tempo, ora, è scaduto. Ma prima di sbattere la porta, spiega a Libero, c’è spazio per «un ultimo tentativo che può e deve essere fatto». E questo tentativo ruota intorno ad una riforma dell’Europa le cui linee sono tratteggiate in un appello lanciato nei giorni scorsi dallo stesso Savona e da Pellegrino Capaldo. «Siamo finiti in una gabbia», taglia corto il professore, «ci ridiano le chiavi, altrimenti saremo costretti a prepararci ad ogni evenienza».
Non pensa sia già troppo tardi?
«È sicuramente molto tardi. L’Italia ha fatto pochissimo di quello che andava fatto da tempo, ovvero riconquistare competitività e produttività e riformare la Pa. Invece, si è solo messo mano alla pressione fiscale. Mario Monti è un amico, ma non ho avuto problemi a dirgli che stava sbagliando. Anche in Europa la situazione è peggiorata, con Mario Draghi che ha vincolato la politica monetaria della Bce a precise condizioni fiscali».
Quindi, non ci resta che dire addio all’euro?
«Malgrado tutto, credo che prima di fare scelte irreversibili si debbano proporre dei contenuti, cosa che finora non è stata fatta, e agire solo se quei contenuti non fossero accettati».
Quale sarebbe la strada per per salvare la moneta unica?
«Il percorso per un nuovo Trattato europeo è strutturato in tre fasi. Il punto principale è che la Bce torni a svolgere solo la funzione monetaria, ovvero quella di prestatore di ultima istanza (lender of last resort) e di gestione del rapporto di cambio in difesa degli interessi europei. Non possiamo continuare a restare ostaggio delle decisioni del governatore Ben Bernanke o della Banca centrale cinese».
La fase successiva?
«I singoli Paesi dovranno accettare una modifica del fiscal compact, affidando al Parlamento europeo e alla Commissione il potere di decidere come deve essere speso il 3% di deficit permesso dal Patto di stabilità».
E l’ultimo passaggio?
«L’ultima fase, non meno importante, riguarda la nascita di un forte embrione di una vera e propria politica unificata che sia in grado di aggredire i dualismi territoriali e strutturali, principalmente quelli Nord-Sud ed Est-Ovest. Perché l’Europa deve essere responsabile sia di chi va bene sia di chi va male».
Il progetto c’è, ma come pensa di convincere la Germania?
«Due strade sono aperte. Una che Francois Hollande faccia un patto con la Germania, che lo danneggerebbe. L’altra che la Francia si allei con Italia e Spagna. Un patto a tre costringerebbe la Germania a starci. Oppure sarebbe lei a dover uscire dall’euro rischiando, però, che il suo tasso di cambio con il dollaro balzi dall’attuale 1,30 a 1,80».
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