Altro che uscire dall’euro. L’idea di Enrico Letta (lui parla di «sogno della vita») è che questo sia il momento di «accelerare» verso gli Stati Uniti d’Europa. E la «grande occasione» per l’Italia è rappresentata dal semestre europeo che scatterà nella seconda metà del 2014, quando il nostro Paese avrà la presidenza di turno e potrà, secondo il premier, passare alla storia facendo «il rompighiaccio che consenta di andare verso l’unione politica».
Quanto alle parole di Silvio Berlusconi contro la Merkel, che Letta liquida come semplice «battute», la posizione è netta: «Penso che uscire dall’euro sarebbe il disastro finale per l’Italia, un errore drammatico, perché finirebbe l’euro».
Di sbattere i pugni in Europa, insomma, non se ne parla. Anzi, spiega il premier durante un’intervista pubblica a Firenze, per raggiungere gli obiettivi «a volte è meglio evitare di togliersi i sassolini dalle scarpe».
Tutt’altra, dunque, la strategia del governo, che sembra piuttosto considerare Bruxelles la pietra angolare intorno a cui far girare tutte le iniziative di politica economica dei prossimi mesi.
Resta da capire quali saranno i margini di manovra reali. Ieri Fabrizio Saccomanni, dal vertice Italia-Usa che si è svolto a Venezia, ha voluto rassicurare l’Europa sul rispetto delle raccomandazioni allegate allo stop della procedura di deficit eccessivo. Il che significa, sostanzialmente, nessuno sconfinamento dei parametri previsti. «L’Italia è stata considerata in condizioni sufficientemente buone per uscire dalla procedura per deficit eccessivo: è una cosa positiva, vogliamo rimanere fuori dalla procedura e non vogliamo usare lo spazio di manovra attuale per tornare sopra il 3%».
E i soldi per le riforme annunciate? «Ci sono margini», ha spiegato il ministro dell’Economia, «che possono essere usati: alcuni li abbiamo usati per saldare certi debiti della Pa, accumulati negli anni scorsi, e penso che stiamo facendo specifiche proposte per far ripartire la crescita in diverse aree». La verità è che dopo aver utilizzato lo 0,5% di deficit/pil per restituire una parte dei crediti vantati dalle imprese per il 2013 (con il rapporto previsto al 2,9%) la coperta è finita. E anche sul 2014 non ci sono grandi spiragli. Qualche giorno fa il ministro degli Affari europei ha parlato di uno spazio nei conti pubblici pari allo 0,5% del Pil, circa 7-8 miliardi, da poter utilizzare per interventi di spesa. La speranza del governo, però, si aggrappa alla possibilità che il rapporto deficit/pil non superi per il prossimo anno il 2,4%. Cosa non così probabile. Basti pensare che la stima del Def di aprile è di 1,8%, ma la Commissione europea ha già corretto la previsione parlando di un deficit nel 2014 al 2,5%. Se il pil dovesse scendere ancora è chiaro che l’asticella del deficit si alzera ancora bruciando qualsiasi spazio di manovra.
È anche per questo che il governo punta molto sull’Europa, nella speranza di riuscire a rastrellare qualcosa su quel fronte. Malgrado si parli ogni giorno di occupazione e lavoro giovanile (sono previsti un vertice a Roma il 14 giugno e uno a Berlino il 3 luglio), la posta in gioco su questo fronte non è altissima. Letta punta a chiedere l’anticipo al 2013 del pacchetto da 6 miliardi previsto per il 2014. Anche se riuscisse, però, la quota italiana si aggirerebbe intorno ai 400 milioni.
La partita principale che il governo dovrà giocare a Bruxelles al prossimo Consiglio di Stato del 27 giugno riguarda, invece, i margini di flessibilità nel calcolo del deficit ai fini del rispetto dei parametri di Maastricht.
Sul tavolo ci sono cifre enormi che potrebbero essere sottratte alla tagliola dei vincoli europei. La torta complessiva degli investimenti in infrastrutture contabilizzati dal governo da qui al 2020, ad esempio, è di 63 miliardi, tra risorse già spese e impegni previsti.
Ma l’operazione su cui sta concentrando i suoi sforzi il governo riguarda i cosiddetti investimenti pubblici produttivi, su cui c’è un apertura europa sul possibile scomputo. L’Italia, come ha detto più volte Saccomanni, chiederà di dedurre dal deficit 12 miliardi di cofinanziamenti nazionali dei fondi strutturali europei che sono ancora da spendere da qui al 2015. La quota nazionale ammonta a 31 miliardi. Molto, però, dipenderà da cosa Bruxelles deciderà che sia un investimento produttivo. «Noi», ha detto il ministro, «dovremmo ottenere che la parte di cofinanziamento volta a creare crescita e occupazione sia almeno in parte investimento produttivo. Questo mobiliterebbe una cifra importante per politiche anticicliche». La Commissione Ue presenterà prima del Consiglio di giugno un rapporto sulla materia, che dovrebbe essere pubblicato il 19 giugno. La bozza che circola, però, introduce limiti così restrittivi che renderanno l’impatto per stimolare la crescita quasi nullo. È per questo che Saccomanni ieri ha messo sul tavolo anche il piano B, rispolverando la vecchia idea degli eurobond. Secondo il ministro «nel breve periodo non è possibile emettere eurobond per sostituire i debiti nazionali, ma questi strumenti potrebbero essere usati per finanziare progetti europei sotto controllo dell’Ue e delle altre istituzioni europee».
© Libero