giovedì 6 gennaio 2011

Non votare ci costa 16 miliardi

Altro che calcio-mercato. Si è tanto discusso, e polemizzato, sulla presunta compravendita di parlamentari, ma nessuno si scandalizza se per tenere in piedi a tutti i costi una legislatura traballante Giulio Tremonti sarà costretto a caricare sui conti pubblici, altrettanto traballanti, decine di miliardi di euro di spesa non preventivata.

Eppure, è proprio questo lo scenario paradossale che si preannuncia: con la scusa di evitare scossoni politici che potrebbero mettere a rischio la credibilità dell’Italia in Europa e scatenare la speculazione dei mercati internazionali, si zavorrano i bilanci dello Stato con impegni che potrebbero mettere a rischio i piani di rientro del deficit e di riduzione del debito pubblico concordati con Bruxelles. Già, perché non si tratta di pochi spiccioli. Sul piatto,  calcolando soltanto le poste su cui si sta trattando in questi giorni, c’è qualcosa come 16 miliardi. A cui si aggiungeranno altre voci difficilmente quantificabili, ma sicuramente non trascurabili, considerato che, una volta rotto l’argine, ognuno in cambio della “governabilità” pretenderà la sua quota di “riforme” e di stanziamenti da portare a casa. In versione prêt-à-porter, del tutto disallineata dalla politica del rigore di cui tutti, finora, hanno riconosciuto i meriti.

La richiesta più costosa, allo stato attuale, è quella che arriva dall’Udc, che per offrire il suo appoggio a Palazzo Chigi si accontenterebbe del quoziente familiare. Una bomba, che, nella sua formulazione più costosa (quella francese, per intenderci), può arrivare ad erodere in un colpo solo 12 miliardi di gettito. Certo, ci sono ipotesi più soft. Ma tutte le simulazioni per garantire alle famiglie un alleggerimento fiscale direttamente proporzionale al numero dei componenti del nucleo non scendono sotto i 6 miliardi.
L’altra condizione posta dall’Udc nel nome di quella che viene chiamata “opposizione costruttiva” è la cedolare secca sugli affitti. Altro tema esplosivo, che potrebbe portare via dai 2 ai 3,5 miliardi di entrate. Questa volta a farne le spese direttamente saranno i comuni, visto che la norma sarà inserita nei decreti attuativi del federalismo nei prossimi giorni al vaglio della commissione Bicamerale. Ma è chiaro che a farsene carico, visti i tagli già effettuati alle amministrazioni locali, dovrà essere anche il governo centrale.

Più piccole, seppure non meno disarticolate rispetto agli obiettivi di finanza pubblica, sono le pretese che arrivano da Futuro e libertà, ma anche dall’interno dello stesso PdL. Tutte più o meno volte a recuperare, non si sa bene con quali soldi, le risorse tagliate da Tremonti per far quadrare i conti. Si va dal reintegro di 150 milioni del Fondo unico dello spettacolo decurtati nel milleproroghe, ai 60 milioni tolti alle forze dell’ordine con la mancata approvazione di un emendamento nel ddl sicurezza. Trasversale è poi la lobby che si batte per la “restituzione” dei 50 milioni tolti, sempre nel milleproroghe che sta per iniziare l’iter in Senato, all’editoria. Senza contare l’insistenza di Fli e dei cespugli del Sud sul reperimento di risorse aggiuntive rispetto ai 100 miliardi già stanziati per il Mezzogiorno.
L’elenco è, e sarà, sicuramente più lungo. Ma già così ce n’è abbastanza per dire addio ai quei 19 miliardi di fabbisogno pubblico miracolosamente risparmiati nel 2010. Qualche illuso, a Via XX Settembre, sperava di abbatterci un po’ di deficit.

© Libero