Una vittoria numerica, sostanziale, politica. Al di là delle chiacchiere e dei tentativi del fronte del no di mescolare le carte, il risultato del referendum a Mirafiori uscito dal lunghissimo spoglio durato tutta la notte, è limpido e cristallino.
Hanno partecipato al voto 5.199 dipendenti, oltre il 94% degli aventi diritto. Il 54,05%, 2.735 voti, ha detto sì al piano voluto dall’ad Sergio Marchionne, il quale ha sempre assicurato che per andare avanti sarebbe bastato il 51%. Il 45,95%, 2.325 voti, ha detto tranquillamente no, in barba a chi parlava di ricatto mafioso del Lingotto e di esito scontato. Il voto dei cosiddetti colletti bianchi, considerati dalla Fiom e dalla sinistra lavoratori di serie B, è stato importante, ma non determinante. Anche nel conteggio dei soli operai, infatti, il sì ha vinto per 9 voti. Come se non bastasse, stando ad alcune elaborazioni, finanche tra le tute blu della Cgil ci sarebbe stato un 24% di sì.
Comprensibile la soddisfazione di Sergio Marchionne, che ha ringraziato i lavoratori parlando di «scelta coraggiosa» e di «svolta storica». La maggioranza, ha proseguito, «ha detto che vale sempre la pena di impegnarsi per costruire qualcosa di migliore». Poi, rivolgendosi a chi si è opposto al piano, l’ad si è augurato «che le persone che hanno votato no, messe da parte ideologie e preconcetti prendano coscienza dell’importanza dell’accordo che salvaguarda tutti i lavoratori».
Anche il presidente della Fiat, John Elkann, ha invitato tutti ad «archiviare le polemiche» garantendo «il pieno e convinto sostegno della famiglia» al progetto. «Ha prevalso», ha continuato, la volontà di essere ancora in gioco: dimostreremo che in Italia è ancora possibile costruire automobili capaci di farsi apprezzare nel mondo».
Non aspetta altro il governo, che ieri, dopo aver festeggiato il risultato della consultazione, ha fatto subito partire il pressing nei confronti del Lingotto. Secondo Maurizio Sacconi l’esito referendario sancisce «un’evoluzione nelle relazioni industriali che dovrebbe consentire un migliore uso degli impianti e una effettiva crescita dei salari». Ma adesso, ha incalzato il ministro del Welfare, «tocca a Fiat realizzare gli investimenti promessi e continuare il confronto sugli altri siti produttivi». «La vittoria del sì», gli ha fatto eco il ministro dello Sviluppo, Paolo Romani, «è uno snodo fondamentale». Ma «ora bisogna attuare subito l’accordo, partendo da investimenti e strategie di produzione».
Aspettano Marchionne al varco anche i sindacati moderati che hanno sostenuto l’accordo. Il leader della Uilm, Rocco Palombella, chiede al manager di anticipare gli investimenti. «Mi aspetto», ha detto, «che dai prossimi giorni si cominci a dare seguito alle intese raggiunte». Il successo del sì al referendum, è anche l’opinione di Nicola Alberta, segretario Fim Cisl Lombardia, «deve costituire un’indicazione vincolante per la Fiat, per la piena applicazione dell’accordo e la conferma dell’investimento».
Ma tra i tavoli che Marchionne dovrà aprire in fretta c’è anche quello con Confindustria. Emma Marcegaglia ieri ha rilanciato il patto di New York con per chiudere la partita tra l’associazione e la Fiat. C’è già un accordo, ha detto il presidente di Viale dell’Astronomia, «per far sì che, nel più breve tempo possibile, quando faremo un contratto per l’auto, Fiat rientrerà in Confindustria».
Restano sulle barricate Cgil e Fiom, che parlano di risultato «straordinario» e chiedono di riaprire la trattativa. Al loro fianco l’Idv di Di Pietro e tutta la sinistra radicale, da Ferrero a Vendola. Nel mezzo il segretario del Pd, Bersani, secondo cui il «risultato va rispettato», ma «va rispettato anche il disagio che rappresenta».
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