La sinistra e i sindacati hanno passato gli ultimi anni a riempirci la testa di discussioni sulle tutele crescenti, sull’articolo 18, sugli sgravi contributivi. Ad un certo punto è sembrato che il contratto a tempo determinato fosse rimasto l’unico modo possibile con cui un’azienda potesse assumere personale. Per un po’, l’inganno ha retto: disincentivi da una parte, incentivi dall’altra e una pioggia di sconti fiscali hanno prodotto una crescita robusta dei posti fissi. Dal dicembre 2014 al dicembre 2016 l’incremento è stato del 7%, pari a ben 700mila unità.
Finita la festa degli sgravi, però, la situazione è tornata esattamente quella di prima. Il fenomeno è già in atto da tempo, ma ora le proporzioni sono diventate macroscopiche. Il governo ieri ha cercato di nascondere l’evidenza dietro la bandiera del trionfalismo. «Il numero di occupati ha raggiunto il livello più alto da 40 anni», ha detto il premier, Paolo Gentiloni, a proposito dello sforamento di quota 23,18 milioni, il dato più alto dall'inizio delle serie storiche, «si può e si deve fare ancora meglio». «In campagna elettorale contano i risultati», ha esultato l’ex premier Matteo Renzi, «non le promesse. Ci sono 1.029.000 posti di lavoro in più dal febbraio 2014. Il JobsAct funziona».
Che i numeri diffusi ieri dall’Istat descrivano uno scenario del mondo del lavoro abbastanza positivo è difficile da negare. A novembre l’occupazione è cresciuta di 65mila unità su ottobre e di 345mila sull’anno precedente, il numero di occupati è al top dal 1977, il tasso di disoccupazione è calato all’11%, al livello più basso dal settembre 2012, la disoccupazione giovanile è scesa al 32,7%, con una accelerazione che non ha pari nel vecchio continente, il tasso di occupazione è salito al 58,4%, solo mezzo punto inferiore al livello raggiunto nel 2008.
Guardando le cifre in controluce, però, la sostanza cambia. Intanto, nel confronto europeo il nostro tasso di disoccupazione risulta ancora il peggiore dopo Grecia e Spagna. Ma è soprattutto il cambiamento profondo del mondo del lavoro a balzare agli occhi. In un anno gli occupati a tempo determinato sono cresciuti dello 0,3% (+48mila), quelli a termine fanno un balzo del 18,3% (+450mila). Il risultato è che la composizione dei nuovi occupati negli ultimi 12 mesi è: 10% permanenti, 90% a termine. In altre parole, su ogni 10 assunti solo uno ha il posto fisso. Una circostanza che non solo la dice lunga sui risultati ottenuti dal governo nella sbandierata lotta alla precarietà, ma impone anche di leggere i dati complessivi sull’occupazione in maniera diversa. Le statistiche dell’Istat non sono quelle di Trilussa, ma in alcuni casi possono fornire una versione della realtà decisamente alternativa. Basti pensare, ad esempio, che nella lista degli occupati finisce anche chi ha lavorato una sola ora nella settimana di riferimento della rilevazione. Ed ecco allora che se invece di guardare il numero degli occupati prendiamo in considerazione la quantità di ore lavorate, scopriamo che i livelli pre crisi sono ancora ben lontani. Nel secondo trimestre del 2017 erano infatti inferiori per ben 680 milioni (il 5,9% del totale) rispetto ai dati di inizio 2008. Stesso discorso per le unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (Ula), che sommano tutte le posizioni lavorative. Dal 2008 abbiamo perso oltre 1,2 milioni di unità di lavoro equivalenti.
Se questo è il quadro, al di là delle denunce, pur legittime, di sindacati e opposizioni sull’esplosione del precariato, viene da chiedersi quanto il governo sia stato lungimirante a drogare il mercato a colpi di incentivi per tentare di salvare il posto fisso piuttosto che ragionare su nuove regole per il lavoro flessibile. Tanto più che c’erano già: quelle studiate da Marco Biagi, che più di dieci anni fa si era preoccupato di come tutelare i lavoratori a tempo. Come ha sintetizzato il suo allievo Michele Tiraboschi: «Il Libro Bianco di Biagi guardava al futuro, il Jobs Act è rannicchiato sul passato».
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