mercoledì 3 gennaio 2018

Per pagare tasse e balzelli servono 238 ore all'anno

Quattordici pagamenti l’anno che portano via almeno 238 ore di tempo. Il tutto per pagare una mole di tasse, balzelli e contributi che si portano via il 48% dei profitti commerciali dell’impresa. È questa la drammatica fotografia del fisco italiano scattata dal consueto rapportone annuale Paying Taxes, stilato congiuntamente dalla Banca Mondiale da Pwc.

Qualcuno, a partire dalla divisione italiana che cura il rapporto, ha tentato di far vedere il bicchiere mezzo pieno, spiegando che quel 48% di Ttcr (Total tax and contribution rate), il carico fiscale e contributivo totale è diminuito di ben 14 punti rispetto all’anno precedente (i dati si riferiscono al 2016) e che l’Italia sui 190 Paesi presi in esame è uno dei 32 che hanno visto scendere l’indice, mentre altre 52 economie nel mondo hanno appesantito la quota di balzelli che va ad assottigliare le entrate di un’impresa.
Non solo, il posizionamento dell’Italia sarebbe ancora migliore, hanno scritto gli esperti di Pwc, se si escludesse il trattamento di fine rapporto dal calcolo complessivo. Il Tfr è infatti trattato come contributo previdenziale obbligatorio e, pertanto, è incluso nel Total tax rate, con una quota che nel 2016 ha pesato per 8,6 punti percentuali sul risultato finale. Anche sulle ore necessarie a svolgere gli adempimenti necessari c’è chi ha fatto notare la significativa riduzione di ben «due» ore, da 240 a 238, rispetto all’anno precedente.

La realtà è che l’Italia è ancora confinata nel regno dell’inciviltà fiscale, sia per il peso delle imposte sia per la modalità con cui versarle all’erario. Sui tempi c’è veramente poco da festeggiare. Le imprese impiegano 42 ore per la richiesta di rimborso Iva, rispetto ad una media mondiale di 18,4 e ad una europea di 7,1. Una volta fatta la richiesta, poi, da noi bisogna attendere 62,6 settimane. Nel mondo ne bastano 27,8. In Europa sono sufficienti 16,4 settimane. Quanto alle 238 ore complessive, il confronto con le 161 necessarie alle imprese del Vecchio continente è platealmente impietoso. Sul numero degli daempimenti ce la caviamo. I 14 appuntamenti medi nel corso dell’anno sono un po’ più alti della media europea (12), ma sensibilmente più bassi di quella mondiale, dove si sale fino a 24.
Del tutto fuorviante, infine, è il miglioramento sul Total tax and contribution rate. Il livello del 48% è ancora ben più alto del 40,5% registrato nel mondo e del 39,6% dell’Europa. Ma, soprattutto, è del tutto transitorio. Il decremento di 14 punti percentuali è, infatti, riconducibile quasi per intero agli sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato introdotti con il jobs act. Si tratta, dunque, di un dato assolutamente drogato, proprio come quelli relativi ai posti fissi che, finiti gli sconti fiscali, sono immediatamente precipitati, lasciando il campo alle assunzioni a tempo determinato, che negli mesi hanno monopolizzato il mercato del lavoro. Considerato lo scenario, è quindi facile immaginare che nel rapporto del prossimo anno l’astciella del Trcr tornerà a salire.

Anche così, comunque, le cose vanno tutt’altro che bene. La posizione complessiva dell’Italia considerando tutti i fattori è infatti la 122esima su 190 Paesi. Inutile soffermarsi sull’elenco di Stati semisconosciuti o sideralmente lontani dalle top ten dell’economie mondiali che ci superano, come il Lesotho, la Micronesia, Tonga, Kiribati, Samoa, ecc. Quello che è interessante notare è che nei primi dieci posti l’unico Paese europeo è la Daminarca, che non a caso non adotta l’euro. Poi, al 23esimo posto, c’è la Gran Bretagna, lei senza euro e pure senza Ue. Per incontrare la prima economia avanzata del Vecchio continente che adotta la moneta unica bisogna scendere al 34esimo posto, dove troviamo la Spagna. Poi c’è il portogallo al 38esimo, la Germania al 41esimo e la Francia al 54. Persino la Grecia, con il suo 65esimo posto, è 47 gradini più in alto di noi.

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