Lo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, pur dicendosi «sorpreso dal doppio declassamento dell’Italia», ha spiegato che «non ci fu alcun attacco» contro il nostro Paese. Negare che S&P metta continuamente il becco nelle vicende nazionali, però, è francamente difficile. Premettendo sempre, come si conviene ad un’autorevole istituzione finanziaria, che non spetta all’agenzia esprimere posizioni politiche, alla fine del 2016 gli esperti di S&P ci spiegarono che non sarebbe arrivato un uragano, ma il no al referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi sarebbe piaciuto pochissimo ai mercati. Solo una settimana fa, in piena campagna elettorale, il capo economista per l’Europa Jean-Michel Six ha ricordato che in Italia ci sono segni di ripresa, ma «è chiaro che una deviazione rispetto al progetto dell’eurozona e della moneta unica avrebbe molto probabilmente un effetto negativo sul rating dell’Italia». Frase tecnicamente inappuntabile, se non fosse che due dei tre schieramenti che ambiscono a Palazzo Chigi vedono l’Europa come fumo negli occhi.
Passano pochi giorni e l’agenzia di rating si ripresenta con la gamba bella tesa sulla competizione elettorale. La premessa è sempre la stessa. «Come agenzia di rating non commentiamo mai le promesse elettorali», ha spiegato ieri il solito Six, forse dimenticandosi che la scorsa settimana aveva messo in guardia da chi promette un duello con Bruxelles. Subito dopo, però, il responsabile per l’Italia, Roberto Paciotti, ha precisato che la questione «chiave è avere una continuità rispetto a quanto già osservato» perché in questo modo i mercati sono più tranquilli. E l’importante «è non distruggere le riforme fatte, a meno di proporne di più efficaci». Insomma, o si vota a sinistra, per un bel bis Genttiloni-Padoan, o saranno guai. Tanto per essere imparziali.