sabato 4 gennaio 2014

Il governo si attacca allo spread per nascondere i suoi fallimenti

Quando, nel luglio 2012, lo spread tornò improvvisamente sopra quota 500 punti l’allora premier Mario Monti, professore illustre e super esperto di numeri, non si scompose: «Il grande nervosismo sui mercati ha poco a che fare con i problemi specifici dell’Italia, ma piuttosto dipende dalle notizie, dichiarazioni e indiscrezioni sull’applicazione delle decisioni prese dal vertice Ue di fine giugno».

Tutt’altra la musica ieri, con il differenziale tra i nostri Btp e i Bund tedeschi sceso per la prima volta dal luglio 2011 (poco prima dell’inizio della bufera) sotto la soglia psicologica dei 200 punti. Per l’esattezza 198,60, con un rendimento dei titoli decennali al 3,93%. In questo caso il merito è tutto nostro, o meglio del governo e della sua maggioranza. I fondamentali ancora parlano di un debito pubblico alle stelle, di un pil che dovrebbe chiudere a -1,9%, di un deficit al 3% e di una disoccupazione a doppia cifra. E la conferma che le dinamiche interne hanno poco a che fare con l’altalena dello spread arriva anche dalla Spagna, che ieri ci ha nuovamente superato con un differenziale tra Bonos e Bund a 195,20 euro (rendimento del 3,9%).
Ma l’esecutivo non ha dubbi: è l’effetto diretto della stabilità politica. E nei prossimi mesi sarà tutto un taglio di tasse e una pioggia di risorse per lo sviluppo. «È una grande notizia, il calo dello spread è il frutto di un grande lavoro», ha esultato il premier Enrico Letta spiegando che si tratta di un risultato «concreto» e che ora ci sono le «condizioni perché il Paese riparta». Va oltre Fabrizio Saccomanni, che, malgrado manchino più di 360 giorni alla fine dell’anno, ieri ha gongolato per aver azzeccato la previsione, inserita nel Def, di uno «spread a 200 punti nel 2014».

Conti alla mano, per il ministro dell’Economia il calo dei rendimenti sotto il 4% «si tradurrà in una minore spesa per interessi sul debito pubblico e nella possibilità di avere a disposizione più risorse per investimenti e per alleggerire il carico fiscale». Inoltre, ha aggiunto il titolare dell’Economia, «la riduzione dello spread si rifletterà in migliori condizioni di accesso al credito». Affermazione bizzarra da fare nel giorno in cui la Bce ha certificato che a novembre i prestiti delle banche a famiglie e imprese hanno subìto una stretta che non si era mai vista negli ultimi dieci anni.
Ma l’entusiasmo è condiviso da tutto Palazzo Chigi. «Spread arrivato sotto quota 200, nuovo record! Meno tassi, meno spesa, meno tasse! La stabilità paga (anche in euro!)» fa sapere su twitter il ministro delle Riforme, Gaetano Quagliariello. Il calo dello spread è «una tassa occulta in meno sulle famiglie in termini di interessi ed è anche una base su cui avviare il rilancio dell’occupazione e dell’economia», gli ha fatto eco il vicepremier Angelino Alfano intervistato dal Tg2. Più o meno identico il messaggio del titolare delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, secondo cui «la stabilità paga» e «la discesa dello spread non risolve magicamente i problemi, ma documenta un significativo risparmio per gli interessi che lo Stato paga sul debito e quindi un risparmio per tutti: le famiglie, i cittadini e le imprese».

C’è chi sostiene che il tesoretto dello spread, se il trend fosse confermato nei prossimi mesi, potrebbe arrivare addirittura a 15 miliardi nel 2014. In realtà, come fanno notare gli esperti del Sole 24 Ore, è un po’ presto per cantare vittoria. Anche perché la bassa inflazione annulla l’effetto positivo dello spread. Nella primavera del 2011 il costo reale del debito pubblico italiano sulle nuove emissioni a 10 anni ammontava al 2,1% (4,7% pagato sui Btp decurtato per il 2,6% di inflazione). Mentre oggi, pur essendo più bassi i tassi nominali (al 3,93%) il costo reale del debito decurtato dell’inflazione allo 0,7% è maggiore (3,23%). C’è poi da considerare che lo spread è dato dalla differenza tra Btp e Bund e non sempre il dato cala perché scendono i nostri titoli. Come ha fatto notare il capogruppo di FI alla Camera, Renato Brunetta, «i rendimenti dei nostri titoli decennali erano intorno al 4% un anno fa e tali restano ancora oggi».

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