I nemici sono tanti. A partire da Matteo Renzi, che qualche giorno fa, facendo scoppiare l’ennesima polemica interna al Pd, ha parlato senza mezzi termini di «un ripescaggio di lusso non giustificabile». Ma per Franco Marini questa volta potrebbe essere quella buona. La prudenza è d’obbligo. Tanto più per l’ex presidente del Senato, che ad un passo dal Quirinale c’era già arrivato 14 anni fa.
C’era stato un momento, in quella primavera del 1999, in cui Marini pensava di far convergere sul suo nome non solo gli oltre 570 voti della coalizione di centrosinistra, ma anche il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi, che avrebbe ricevuto in cambio pieno sostegno per l’ingresso di Forza Italia nel Ppe. Le cose, com’è noto, andarono diversamente. E Carlo Azeglio Ciampi incassò al primo giro 707 voti.
Oggi la partita è ancora più complicata e caotica. Ma per Marini, paradossalmente, potrebbe essere più agevole spuntarla. Difficile prevedere quale sarà l’orientamento finale dei suoi «amici» del Pd. Ma la convergenza del centrodestra questa volta dovrebbe esserci. La Lega avrebbe offerto disponibilità. Così come Berlusconi, che nel febbraio del 2008, quando negò all’allora presidente del Senato il suo sostegno al mandato esplorativo per il governo, disse: «Caro Presidente, mi spiace non potere appoggiare il suo tentativo, ma le assicuro che ci ricorderemo di questo sacrificio».
Marini, per ora, aspetta. Senza battere ciglio. Del resto, a 80 anni appena compiuti (lo scorso 9 aprile) l’ex sindacalista qualche soddisfazione se l’è già tolta. Gli ultimi 20 li ha passati in parlamento. Dal 1992 al 2006 alla Camera. Poi al Senato, di cui è stato presidente dal 2006 al 2008. Esperienza, quella nei palazzi della politica, che si è bruscamente interrotta qualche settimana fa. Saltando a piè pari le primarie e ottenendo la deroga allo statuto del Pd, Marini era stato piazzato al secondo posto nel listino del Senato nel suo Abruzzo, dove il Pd, però, è uscito con le ossa rotte, ottenendo un unico seggio, assegnato all’ex presidente della provincia dell’Aquila, Stefania Pezzopane.
Diploma di liceo classico, laurea in giurisprudenza, servizio di leva come ufficiale negli alpini, il decano marsicano ha mosso i suoi primi passi nell’Azione cattolica e nelle Acli, con la tessera della Dc in tasca dall’età di 17 anni. Dopo alcuni anni di formazione e di esperienza in un ufficio contratti e vertenze della Cisl, Marini fu portato da Giulio Pastore all’ufficio studi del ministero per il Mezzogiorno. Segretario generale aggiunto della Federaazione dei dipendenti pubblici già nel 1965, l’ex presidente del Senato iniziò la scalata nel sindacato, che lo portò, nel 1985, alla segreteria nazionale.
La svolta politica arrivò nel 1991, quando, alla morte di Carlo Donat Cattin, prese la guida della corrente interna alla Dc Forze Nuove. Nello stesso anno passo dalla segreteria della Cisl al governo, diventando Ministro del Lavoro e della previdenza nel settimo esecutivo guidato da Giulio Andreotti. La prima candidatura alle elezioni è del 1992. Un trionfo. Marini fu il primo degli eletti a livello nazionale e Mino Martinazzoli lo nominò responsabile organizzativo del partito.
Poi ci fu la bufera di Tangentopoli e la disgregazione della Dc. Ma il sindacalista, con la sua pipa d’ordinanza («ma è sempre spenta», giura) restò in piedi. Partecipò alla formazione, nel 1994, del Partito Popolare e tre anni dopo ne divenne segretario, succedendo a Gerardo Bianco. Entrando nell’era dell’Ulivo, Marini iniziò sin da subito a punzecchiarsi con Romano Prodi, con cui i rapporti sono stati sempre di cordiale dissenso. Da sempre convinto, in contrasto col prof, che ogni partito dovesse mantenere la sua identità all’interno della coalizione, l’ex alpino diventò responsabile organizzativo della Margherita e nel 2005 si schierò con Francesco Rutelli, contro Prodi, sulla necessità di andare da soli al proporzionale. Eletto al Senato nel 2006, Marini viene candidato alla presidenza contro Giulio Andreotti, sostenuto dal centrodestra. La spunta alla terza votazione. Da allora l’ex sindacalista, che ha partecipato anche alla fondazione del Partito democratico, è stato tirato in ballo più di una volta (nel 2007 e nel 2008 come possibile premier) come soluzione istituzionale in grado di sciogliere le situazioni più intricate. Come adesso.
A scagliarsi platealmente contro di lui, finora, è stato solo Renzi, contestando non solo la trombatura elettorale ma anche la strumentalizzazione della matrice cattolica. Parole che sono riusciti a far perdere le staffe all’imperturbabile e coriaceo abruzzese. «Mi si addebita di usare la religione a fini politici», ha tuonato Marini, «Cosa assolutamente inaccettabile. Una deriva nella discussione pubblica di cui davvero non si sentiva la necessità e di cui Renzi porta tutta la responsabilità».
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