mercoledì 15 dicembre 2010

Per i pm il padrone della Thyssen è un assassino

Sette morti sul lavoro valgono settantanove anni e mezzo di carcere? Per i parenti delle vittime, giustamente, il prezzo dovrebbe essere molto più alto. Nessuna condanna, del resto, potrà mai restituire ciò che è stato tolto nel tragico inferno della Thyssenkrupp. Ma è giusto che il sistema giudiziario si pieghi alle ragioni del dolore, della sofferenza? La domanda sembra retorica, ma non lo è. Non, almeno, per i pm del processo che vede alla sbarra i sei manager imputati per il rogo del dicembre del 2007.

Per l’amministratore delegato, Harald Espenhahn, la pubblica accusa ha confermato l’ipotesi di omicidio volontario formulata inizialmente con la richiesta di una condanna a sedici anni e sei mesi di reclusione. Non si era mai sentita, in un’aula di giustizia italiana, una richiesta di pena tanto alta per un incidente di fabbrica, così come, del resto, non era mai stato contestato a un imprenditore l’omicidio per il decesso di un dipendente.
la volontà di uccidere
Il ragionamento giuridico su cui i pm sono arrivati a tale conclusione è basato sulla differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente. Il primo fa scattare l’omicidio volontario, il secondo quello colposo. Il discrimine non sta tanto nell’intenzionalità della condotta, quanto nella valutazione delle conseguenze. Entrambe le fattispecie individuano responsabilità gravissime nell’imputato, presuppongono infatti che si metta in atto un determinato comportamento con la consapevolezza che ci sia la concreta possibilità che possa verificarsi un evento disastroso. Nel caso della Thyssenkrupp, la colpa cosciente si avrebbe se l’ad avesse omesso di rendere efficienti le misure antincendio dello stabilimento, conoscendo i rischi ma ritenendo che nulla di grave si sarebbe verificato. Diverso il caso del dolo eventuale, contestato dai pm, in cui si ipotizza che l’ad abbia praticamente agito per uccidere. In altre parole, la mancata predisposizione delle misure di sicurezza sarebbe stata fatta nella quasi certezza che qualcosa sarebbe accaduto e qualcuno ci sarebbe andato di mezzo.

Teorema che spetterà ora ai giudici valutare, ma che ha subito infiammato gli animi. I familiari delle vittime (ai quali in aula si sono mescolate delegazioni di parti lese del caso Eternit e della strage ferroviaria di Viareggio in una sorta di alleanza del dolore) non si sono infatti accontentati dei 16 anni chiesti dai pm. Di fronte all’ipotesi dell’omicidio volontario con dolo eventuale (che del resto prevede pene fino a 22 anni di reclusione), nell’aula della Corte d’Assise di Torino è risuonato il grido «ergastolo», lanciato da Grazia Rodinò, la mamma di Rosario, una delle sette vittime: «La pena chiesta è troppo bassa. Spero che i giudici l’aumentino». Qualche metro più in là, un altro sfogo: «Sono tre anni che quei bastardi passano il Natale tranquilli. Noi no. Noi il 24 dicembre saremo al cimitero a piangere i nostri cari. Se le condanne non possono che essere queste bisogna andare a Roma, bisogna rivolgersi a Roma, si devono alzare le pene per chi ammazza le persone».
le certezze dei pm
Scontenta, ovviamente, anche la difesa. La richiesta, dice l’avvocato Ezio Audisio, è «esagerata e assurda perché frutto di una impostazione giuridica sbagliata». Nessuna incertezza da parte dei pm: «Abbiamo chiesto ciò che ci sembra giusto in scienza e coscienza», ha detto a fine udienza il procuratore Raffaele Guariniello, il magistrato che ha coordinato le indagini e che ha sostenuto l’accusa con i pm Francesca Traverso e Laura Longo.

Espenhahn, descritto come «persona colta e tecnicamente preparata», per l’accusa si sarebbe disinteressato dello stabilimento torinese, che aveva deciso di chiudere entro l’anno, rinunciando a investire nella sicurezza antincendio. Ha quindi, «accettato il rischio» di un grave disastro facendo scattare, secondo i pm, il dolo eventuale. Gli altri cinque, imputati in questo caso di omicidio colposo con colpa cosciente, si sono fidati del capo, non hanno reclamato, sono rimasti ai propri posti pur sapendo che la filiale di Torino versava in condizioni precarie. Fanno tredici anni e mezzo per Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri, e nove anni per Daniele Moroni. Ce n’è anche per la Thyssenkrupp Acciai Speciali Terni spa, chiamata in causa come persona giuridica. I pm chiedono un milione e mezzo di multa, blocco e revoca di finanziamenti e sovvenzioni, stop a qualsiasi pubblicità per un anno, la pubblicazione della sentenza su quotidiani internazionali, il pagamento di 800mila euro come «prezzo del reato»: l’equivalente della somma che la società doveva spendere se avesse collocato un impianto di rilevazione incendi sulla linea di produzione andata a fuoco. La procura avrebbe inoltre aperto un’inchiesta nei confronti di alcuni testimoni pro-Thyssen sospettati di false dichiarazioni e su cui Guariniello ha già le idee molto chiare. «In tutta la mia carriera», ha detto il procuratore, «non avevo mai visto niente del genere. È stata una strategia che manifesta una vera capacità a delinquere».

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